La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri)“ è dedicata al romanzo “Nuvole barocche” di Antonio Paolacci e Paola Ronco (Piemme).
I due coautori del romanzo hanno scelto di interpretare il “tandem letterario” di Letteratitudine utilizzando la forma del racconto (rigorosamente scritto a quattro mani). Un racconto che ha come obiettivo… l’incontro con il loro personaggio principale…
Antonio Paolacci (Maratea, 1974) e Paola Ronco (Torino, 1976) vivono a Genova e sono compagni di vita. Entrambi hanno già all’attivo diverse pubblicazioni, ma “Nuvole barocche“, che inaugura la serie di Paolo Nigra, è il loro primo romanzo scritto a quattro mani.
Una Genova particolarmente fredda, l’omicidio di un ragazzo, un vicequestore aggiunto pronto a indagare nel caos…
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Il tandem letterario di Antonio Paolacci e Paola Ronco dedicato a “Nuvole barocche” (Piemme)
«A dottò, ce stanno due, de là».
Il vicequestore aggiunto Nigra sollevò lo sguardo dalle abominevoli carte su cui stava lavorando malvolentieri, un’imprecazione sommessa per ogni firma. L’assistente capo Marta Santamaria gli stava davanti, i capelli biondi raccolti nella coda d’ordinanza, la pipa in tasca.
«Mi sono dimenticato che aspettavo qualcuno?»
«No, dottò. È che vorrebbero vederla».
«E fagli vedere una foto», sbuffò in risposta.
C’erano alcune cose in grado di mettere Nigra di cattivo umore, tra le principali sicuramente la compilazione delle scartoffie, le visite inattese e la carenza di zuccheri. In quel preciso istante, troppo distante dalla colazione e non ancora abbastanza vicino al pranzo, la combinazione dei tre fattori rendeva pericolosa qualsiasi interazione con lui.
«A dottò».
«Santamaria, mi dici perché vogliono vedermi o devo indovinarlo io?»
«Oh, io non c’entro niente, sia chiaro», si affrettò a giustificarsi lei. «Questi sono, come dire», Marta Santamaria spostò il peso da un piede all’altro, finendo per preoccupare del tutto il suo superiore, che afferrò il portatabacco, pronto a cercare una via di fuga. «Insomma, dottò. Vorrebbero chiederle un po’ di cose sulla vita vera della polizia, sa».
«Uhm. Cioè sono giornalisti?»
«No, dottò. Sono due che…»
«Santamaria?»
«Due scrittori, ecco, l’ho detto».
Nigra la fissò per un istante con la sua consueta faccia da poker. «Scrittori».
«De gialli», aggravò la situazione l’assistente capo.
«Siccome non ce n’erano già abbastanza».
«Eh».
«E che gli devo dire io, della vita vera della polizia?»
«Ma sa, le solite cose. Le procedure, quelle robe lì. Sono pure carucci, eh, tanto gentili. Dice che vorrebbero farsi un’idea precisa su come funziona un’indagine».
«Porco Giuda, proprio quello che ci voleva stamattina», Nigra sollevò gli occhi al cielo e cominciò in automatico ad arrotolarsi una sigaretta. «Vabbè, ma il lavoro investigativo nella vita reale è una delle cose più noiose del mondo. Dovrei dire questo? Cioè che per il novantotto per cento delle mie giornate sto qui a firmare cartacce?»
«Vabbè, che esagerato, dottò», ridacchiò la Santamaria. «Qualche omicidio l’amo pure risolto, no? Lei je racconti quelli, che ne so. Anche perché questi, siccome dice che scrivono roba ambientata a Genova, vorrebbero anche farsi un’idea del territorio, dice, delle problematiche».
«Le problematiche. Che poi, se almeno questa gente arrivasse con dei cioccolatini, qualcosa. Capace che invece ti portano pure i loro libri in regalo. E perché sono in due?»
«Perché, com’è che se dice? Scrivono a quattro mani».
«Pure. E sono famosi?»
«E chi l’ha mai sentiti, dottò. Comunque so’ pure ’na coppia de loro, nel senso, stanno assieme tra de loro, un uomo e una donna, sulla quarantina».
«Giallisti genovesi coniugi eterosessuali. Senti, Santamaria, dì che non ci sono. Lasciali a Caccialepori e andiamo a fumare».
«Magari, dottò. Ci ho provato, ma l’ispettore è andato a casa. Ci aveva mal di testa».
«Certo. Scemo io a chiedere», Nigra sbuffò di nuovo e tamburellò con le dita sulla scrivania. «Ma di solito queste cose non se le accolla Virdis? È lui il primo dirigente, no?»
Marta Santamaria scosse il capo. «Virdis ha detto frasi in sardo che me parevano irripetibili, co’ rispetto parlando. Poi comunque ha detto di mandarli da lei, dottò, perché dice che lei è più sensibile, ci ha più, com’è che ha detto, la vena artistica».
«La vena artistica», ripeté Nigra, senza bisogno di cambiare espressione. «Guarda, lasciamo perdere. Dalli a Musso e se poi scriveranno un romanzo di fantascienza, pazienza. Non sarebbe il primo. Mi dispiace per loro, ma non ho tempo».
«Ecco, dottò, ho provato pure quello», sogghignò la Santamaria. «Ma Musso deve finire il rapporto sulla rissa allo stadio. Ci ha fatto pure un gioco de parole, rissa-Marassi, davanti a quei due, poracci».
«Porco Giuda», soffiò Nigra, aprì e chiuse senza ragione un cassetto, guardò fuori dalla finestra. «Com’è che si chiamano?»
L’assistente capo si strinse nelle spalle e controllò il post-it che teneva ripiegato nel pugno. «Paolacci e Ronco, dottò. Mo vai a capì chi dei due è Paolacci e chi Ronco, ma comunque».
«Non credo che possa cambiare qualcosa, Santamaria. E va bene, falli entrare», sospirò alla fine, rassegnato al suo destino.
Marta Santamaria fece per aprire la porta e uscire, poi si voltò, come colta da un pensiero improvviso. «A dottò, c’ho un’idea. Magari può raccontare del fidanzato suo. Insomma, je dice che sta con un uomo, no? Ha visto mai che magari se scandalizzano e se ne vanno subito. Così ha risolto».
Il vicequestore aggiunto Nigra la fissò, minacciosamente inespressivo. «Santamaria».
«Era giusto un suggerimento, dottò».
«Santamaria».
«Vabbè. Li vado a chiamare, sì?»
«Ancora qua stai?»
L’assistente capo aprì la porta di corsa. «Vado».
(Riproduzione riservata)
© Letteratitudine / Antonio Paolacci e Paola Ronco
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La scheda del libro
Un protagonista dal fascino spiazzante, una città seducente e inquieta. Un giallo intrigante e sorprendente. La prima indagine del vicequestore aggiunto Paolo Nigra.
È sabato mattina e Genova si sta risvegliando da una notte di tempesta gelida. La pioggia ha smesso di cadere e il vento che soffia da est inizia a diradare le nubi lasciando intravedere i colori dell’aurora. Ma non è il cielo ad attirare l’attenzione di un uomo in tenuta da jogging, quanto piuttosto un cumulo di stracci che giace sulla passeggiata a qualche decina di metri da lui. Mezz’ora dopo, il Porto Antico è invaso da poliziotti e agenti della Scientifica. Il ragazzo è riverso a terra, il volto tumefatto, indosso un cappotto rosa shocking con cui, la sera prima, non era passato inosservato alla festa che si teneva lì vicino a sostegno delle unioni civili. Si tratta di Andrea Pittaluga, studente universitario della Genova bene e nipote di un famoso architetto. Quando arriva sul posto in sella alla sua Guzzi, il vicequestore aggiunto Paolo Nigra ha già detto addio alla sua giornata di riposo e messo su la proverbiale faccia da poker che lo rende imperscrutabile anche ai suoi più stretti collaboratori. Quarant’anni, gay dichiarato, nel constatare il feroce accanimento sulla vittima Nigra fatica a non pensare a un’aggressione omofoba. Negli ultimi tempi non sono mancati episodi preoccupanti, da questo punto di vista. I primi sospettati, però, hanno un alibi e la polizia arranca nel tentativo di trovare altre piste. Nigra è a mani vuote, una condizione che non gli dà pace. Lo sa bene Rocco, il suo compagno, che ne sconta il malumore, sentendosi rinfacciare per l’ennesima volta la scelta di tenere nascosta la loro relazione. Il rischio che, questa volta, la giustizia debba rimanere senza un colpevole è reale. A meno di sospendere il giudizio e accettare il fatto che a dominare il destino degli uomini non sia altro che il caos.
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