OMAGGIO A BEPPE FENOGLIO – Dedichiamo questa pagina allo scrittore e partigiano Beppe Fenoglio in occasione del centenario della sua nascita
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Giuseppe Fenoglio detto Beppe (Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963) è stato un partigiano, scrittore e traduttore italiano.
Le sue opere presentano due temi principali: il mondo rurale delle Langhe e il movimento di resistenza italiana, entrambi ampiamente ispirati dalle proprie esperienze personali; allo stesso modo, Fenoglio si espresse in due stili: la cronaca e l’epos.
Fenoglio venne arruolato nel 1943; prima che completasse la scuola per ufficiali, l’Italia si arrese agli Alleati e la Germania nazista occupò la maggior parte del paese. Il suo reparto di addestramento si disperse e Fenoglio dovette affrontare un viaggio avventuroso per far ritorno a casa. A Roma trascorse alcuni mesi nascosto prima di unirsi ai partigiani nel gennaio 1944. Dopo aver combattuto fino alla fine della guerra si occupò di tradurre numerosi libri dall’inglese e scrisse le opere per cui è maggiormente noto, mentre lavorava per un’azienda vinicola ad Alba.
Il suo romanzo più noto e da molti considerato il migliore, Il partigiano Johnny, venne pubblicato postumo per la prima volta nel 1968. Morì a Torino, a soli 40 anni, di cancro ai bronchi.
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Approfondimenti su: Ansa, Avvenire, Il Foglio, Il Corriere della Sera, la Repubblica, Rai News, Vanity Fair, Panorama,
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Biografia
Primogenito di tre figli, Beppe Fenoglio nacque ad Alba nelle Langhe il 1º marzo 1922 da Amilcare, garzone di macellaio di fede politica socialista e seguace di Filippo Turati, e da Margherita Faccenda, donna di forte carattere. Nel 1928 il padre riuscì a mettersi in proprio, acquistando una macelleria in piazza del Duomo che gli fornì buoni proventi. Dopo di lui nascono Walter (1923-2007), futuro dirigente degli stabilimenti FIAT di Ginevra e Parigi, e Marisa (Alba 1933 – Stadtallendorf, Germania 2021).
Da bambino, Beppe frequentò la scuola elementare “Michele Coppino” di Alba e si dimostrò un bambino intelligente e riflessivo, affetto da lieve balbuzie. Terminate le scuole elementari, la madre, su consiglio del maestro e malgrado le persistenti ristrettezze della famiglia, iscrisse il figlio al Liceo Ginnasio “Govone” di Alba.
Alunno modello e appassionato della lingua inglese, fu lettore vorace e iniziò anche alcune traduzioni, che dovevano rivelarsi le prime di una lunga serie. Da allora il suo mondo culturale ideale saranno l’Inghilterra elisabettiana e quella rivoluzionaria. Al liceo ebbe come insegnanti professori illustri e per lui indimenticabili, come Leonardo Cocito – insegnante di lingua italiana, comunista, che aderì tra i primi alla Resistenza come partigiano, tra le file di Giustizia e Libertà (nonostante la sua ideologia politica), poi nei badogliani, e che fu infine impiccato dai tedeschi il 7 settembre 1944 – e Pietro Chiodi, docente di storia e filosofia, grande studioso di Søren Kierkegaard e di Martin Heidegger; anche lui sarà in seguito partigiano, compagno di Cocito stesso, ma sarà deportato in un campo di concentramento tedesco, sopravvivendo alla guerra. Entrambi furono di ispirazione per la maturazione della coscienza antifascista di Fenoglio.
Nel 1940 si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Torino, che frequentò fino al 1943, quando fu richiamato alle armi e indirizzato prima a Ceva (Cuneo) e poi a Pietralata (Roma), al corso di addestramento per allievi ufficiali.
Dopo lo sbandamento seguito all’8 settembre 1943, Fenoglio nel gennaio del 1944 si unì alle prime formazioni partigiane. In un primo momento si aggregò ai “rossi” delle Brigate Garibaldi, ma presto passò con gli “autonomi” o “badogliani” del 1º Gruppo Divisioni Alpine comandata dal maggiore Enrico Martini “Mauri” e della sua 2ª Divisione Langhe, brigata Belbo, comandata dal marò Piero Balbo “Poli” (Nord nel Partigiano Johnny) ed operante nelle Langhe, tra Mango, Murazzano e Mombarcaro.
Partecipò, assieme al fratello Walter, che aveva disertato dalla RSI dove si era arruolato inizialmente per evitare ritorsioni alla famiglia (dopo che il padre venne sequestrato per indurre Beppe a presentarsi, fu la reazione dei giovani di Alba e l’intercessione di monsignor Grassi a farlo liberare), allo sfortunato combattimento di Carrù e alla straordinaria ma breve esperienza della Repubblica partigiana di Alba, indipendente tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1944.
Grazie alla conoscenza dell’inglese, svolge il ruolo di interprete e ufficiale di collegamento, tra il gennaio e l’aprile 1945, tra le forze armate angloamericane e il gruppo partigiano di Mauri e Balbo.
Dall’esperienza di partigiano azzurro nasceranno i romanzi Primavera di bellezza, Una questione privata, Il partigiano Johnny e i racconti de I ventitré giorni della città di Alba.
Alla fine della guerra, Fenoglio riprese per un breve tempo gli studi universitari prima di decidere, con grande rammarico dei genitori, di dedicarsi interamente all’attività letteraria. Al referendum istituzionale del 1946 vota per la monarchia. Nel maggio del 1947, grazie alla sua ottima conoscenza della lingua inglese, fu assunto come corrispondente estero di una casa vinicola di Alba. Il lavoro, poco impegnativo, gli permise di contribuire alle spese della famiglia e di dedicarsi alla scrittura. Viaggia poco, al massimo in Francia per lavoro, e non andrà mai a visitare l’amata Inghilterra. Si adatta con molta difficoltà alla ripresa della vita quotidiana e famigliare.
Nel 1949 comparve il suo primo racconto, intitolato Il trucco e firmato con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti, su Pesci rossi, il bollettino editoriale di Bompiani. Nello stesso anno presentò a Einaudi i Racconti della guerra civile e La paga del sabato, romanzo che ottenne un giudizio molto favorevole da Italo Calvino. Nel 1950 conobbe a Torino Elio Vittorini, che stava preparando per Einaudi la nuova collana “Gettoni”, ideata per accogliere i nuovi scrittori; nella stessa occasione Fenoglio conobbe di persona Calvino (con il quale aveva intrattenuto fino a quel momento solamente una cordiale corrispondenza) e Natalia Ginzburg.
Incoraggiato da Vittorini, riprese La paga del sabato e ne attuò una nuova stesura, ma a settembre abbandonò definitivamente il romanzo per organizzare una raccolta di dodici racconti, alcuni dei quali già inclusi nei Racconti della guerra civile. Nel 1952 la raccolta di racconti uscì, nella collana “Gettoni”, con il titolo I ventitré giorni della città di Alba. L’anno seguente Fenoglio completò il romanzo breve La malora, pubblicato ad agosto 1954.
Seguì un’intensa attività come traduttore dall’inglese: nel 1955 uscì sulla rivista Itinerari la traduzione de La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge. Iniziò intanto un grosso romanzo sugli anni 1943-1945, che presentò in lettura all’editore Garzanti nell’estate del 1958. Nell’aprile del 1959 uscì, nella collana “Romanzi Moderni Garzanti”, Primavera di bellezza; firmò con Livio Garzanti un contratto quinquennale sui suoi inediti. Nello stesso anno ricevette il premio “Prato” e iniziò a scrivere un nuovo romanzo di argomento partigiano.
Nel 1961, stimolato da Calvino a raccogliere i suoi nuovi racconti per presentarli al premio internazionale “Formentor”, si mise a lavorare alla raccolta Racconti del parentado; alla firma del contratto con Einaudi, tuttavia, accettò il titolo di Un giorno di fuoco. La pubblicazione fu però sospesa: Garzanti rivendicava i diritti e le due case editrici non riuscirono a raggiungere un compromesso. Iniziò così a scrivere Epigrammi e una nuova serie di racconti, oltre alla collaborazione a una sceneggiatura cinematografica di tema contadino.
Nel 1960 si sposò civilmente (durante la vita si dichiarò agnostico, sebbene amasse leggere la Bibbia di re Giacomo) con Luciana Bombardi, che conosceva già dall’immediato dopoguerra. Nonostante le pressioni per un rito in chiesa, Fenoglio insistette per una cerimonia solamente civile e la sua decisione fece scandalo. Il sindaco si rifiutò di officiare il matrimonio e delegò al suo posto l’assessore Giulio Cesare Pasquero. Venne organizzata addirittura una manifestazione ostile nei loro confronti, ma la madre di Beppe riuscì a scongiurarla, ricorrendo al vescovo di Alba, monsignor Carlo Stoppa. I coniugi Fenoglio compirono il viaggio di nozze a Ginevra. La moglie gli sopravvisse per quasi 50 anni, morendo nel 2012 ad Alba. La figlia Margherita nacque il 9 gennaio 1961; per l’occasione, Fenoglio scrisse due brevi racconti, La favola del nonno e Il bambino che rubò uno scudo.
Nell’inverno tra il 1959 e il 1960, in seguito a un esame medico, gli venne accertata un’infezione alle vie aeree, con complicazioni dovute alla forma di asma bronchiale che lo affliggeva ormai da anni che era degenerata in pleurite, a causa dell’eccessivo vizio del fumo (secondo la sorella minore Marisa, fumava anche sessanta sigarette al giorno, specie quando scriveva, motivo di litigio con la madre), poi un problema alle coronarie.
Nel 1962, mentre si trovava in Versilia per ritirare il premio “Alpi Apuane” conferitogli per il racconto Ma il mio amore è Paco, venne colpito da un attacco di emottisi. Rientrato precipitosamente a Bra, a una visita medica gli venne diagnosticata una forma di tubercolosi con complicazioni respiratorie.
Si trasferì per un breve periodo (settembre e ottobre) a Bossolasco, a 757 metri d’altitudine, dove trascorse il tempo leggendo, scrivendo e ricevendo la visita degli amici. Ma presto per un aggravamento della malattia fu ricoverato in ospedale, prima a Bra e poi, in novembre, alle Molinette di Torino, e gli venne diagnosticato un cancro ai bronchi. Ogni cura risultò inutile: in pochi mesi lo scrittore peggiorò irreversibilmente. Ormai senza speranza, Fenoglio rifiutò di effettuare la radioterapia al cobalto e visse la malattia con grande forza d’animo. Durante gli ultimi giorni fu costretto a comunicare con un foglietto poiché venne tracheotomizzato a causa dei problemi respiratori.
La morte lo colse, dopo due giorni di coma, la notte del 18 febbraio 1963, a neppure 41 anni (li avrebbe compiuti due settimane dopo); venne sepolto nel cimitero di Alba con rito civile, “senza fiori, soste né discorsi” (come chiese lui in un biglietto al fratello), con poche parole dette sulla tomba dal sacerdote don Natale Bussi, amico ed ex professore di liceo. Il suo romanzo più noto, Il partigiano Johnny, rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo nel 1968, vincendo il Premio Città di Prato.
Nel 2001 è stato istituito a Mango il percorso letterario intitolato “Il paese del partigiano Johnny”. Altri itinerari fenogliani sono stati istituiti, in seguito, a Murazzano e a San Benedetto Belbo, dove sono ambientati alcuni dei racconti di Langa più intensi e significativi.
Il 10 marzo 2005, all’Università di Torino, allo scrittore è stata conferita la “Laurea ad honorem” in Lettere alla memoria, alla presenza della moglie Luciana e della figlia Margherita, segno della fortuna in gran parte postuma della sua opera letteraria.
[Fonte: Wikipedia Italia]
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Approfondimento su “Il partigiano Johnny”
Il capolavoro dello scrittore piemontese uscì postumo nel 1968. Una ricostruzione della Resistenza che suscitò anche polemiche
di Franco Marcoaldi
Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio uscì, postumo, nel 1968. Chi allora lo lesse sull’onda della temperie sociale del momento, aveva più di un motivo per rimanere sconcertato: il protagonista – vicino agli “azzurri”, ai badogliani – non rispondeva alla figura del partigiano rosso in voga; il tono del romanzo era immune da qualunque trionfalismo e infine c’era di mezzo una lingua ostica e alta, per giunta crivellata da parole inglesi. A farla breve, si trattava di vera letteratura e non di pedagogismo a buon mercato. (D’altronde, quando Fenoglio era ancora in vita, non erano mancate le rampogne verso una ricostruzione della Resistenza che non rientrava nel canone ufficiale. Mentre oggi, in tempi di amnesia diffusa e calcolata confusione delle parti, il problema diventa opposto, visto che lo scrittore albese ha chiara in testa la differenza tra oppressi ed oppressori, tra tirannia e libertà).
Tant’è. Quel che è certo è che chi legga (o rilegga) oggi “Il partigiano Johnny”, avrà l’immediata sensazione di trovarsi tra le mani un irripetibile unicum nella vicenda del romanzo italiano novecentesco. Come bene ha scritto Dante Isella, “rispetto alla letteratura cosiddetta resistenziale, il romanzo di Fenoglio è come il Moby Dick nella letteratura marinara (…) La sua dimensione epica dilata lo spazio e il tempo dell’azione oltre le loro misure reali”. Misure reali che per quanto concerne l’unità di tempo vanno dall’8 settembre del ’43 alla primavera del ’45, mentre in ordine all’unità di luogo prendono in esame l’intera area delle Langhe, percorsa e descritta minuziosamente, palmo a palmo.
La narrazione ripercorre le vicende di Johnny (alter ego dell’autore), a cominciare dal suo ritorno ad Alba dopo l’armistizio. E’ qui che il giovane viene a sapere della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, della costituzione in Germania di un governo nazionale fascista, della strage di Cefalonia. Lo viene a sapere dal vecchio padre che porta quotidianamente le notizie più fresche al figlio, nascosto in una villetta collinare, essendo “un soldato sbandato e pur soggetto al bando di Graziani”.
Johnny passa per essere un uomo poco pratico, con la testa perennemente tra le nuvole; adora la letteratura inglese e trascorre le giornate fumando e compulsando le tragedie di Marlowe e le poesie di Browning. Ma in capo a poco tempo lo coglie un senso di nausea generalizzata: per il paesaggio circostante, per la letteratura, per una vita che gli pare scivolare inutilmente tra le mani. Non può più sopportare “l’incubosa solitudine e la fissa visione della terra sfacentesi nell’umido buio come un pugno d’arena sotto una tacita acqua inesorabile”.
Quando era soldato smaniava per la mancanza di solitudine; avrebbe dato chissà cosa per starsene tranquillo a tradurre un classico della letteratura inglese. Ora accade esattamente il contrario: gli pare che l’esistenza lo chiami a una scelta cui non può sottrarsi, pena lo svilirsi in un solipsismo triste e vacuo. E allora decide di scendere a valle, di mettersi in contatto con quanti pensano alle forme più opportune per combattere i fascisti. Ed ecco comparire per la prima volta la parola “partigiano”, oggetto di un duro contenzioso tra i suoi ex professori, Chiodi e Cocito, il secondo dei quali – convinto comunista – prevede per Johnny, estraneo a qualunque strutturata ideologia, un avvenire resistenziale degno di Robin Hood.
In effetti, col trascorrere delle pagine, il parallelo risulta sempre più calzante. Johnny finisce dapprima in un gruppo partigiano comunista (“I’m in the wrong sector of the right side”) e subito dimostra la propria insofferenza verso qualunque forma di coartazione ideologica. A lui interessa unicamente l’attività sul campo, un’attività di cui vede perٍ i limiti connessi al pressappochismo delle formazioni partigiane, dove ci sono “troppi marmocchi e troppi pochi soldati veri, d’esperienza militare”. La monotonia della vita quotidiana, la costante necessità di procacciarsi da mangiare, le incomprensioni tra le diverse formazioni, rendono l’inizio dell’avventura meno entusiasmante del previsto. Ma Johnny investe comunque tutte le sue energie nella ritrovata identità di uomo integro e degno: “partى verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death istelf would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto”.
Johnny, finalmente, si sente parte di un tutto. Lasciate alle spalle le differenze politiche e culturali e di classe, per lui ora conta soltanto la comune battaglia per la dignità e la libertà. Una battaglia che include l’incontro con la morte. E la lotta con la fame e la solitudine, quella tremenda solitudine cui Johnny andrà incontro nel lungo inverno che fa seguito al rompete le righe dettato dal generale Alexander: ora l’antico sogno puritano di Fenoglio – essere un soldato dell’esercito di Cromwell, “con la bibbia nello zaino e il fucile a tracolla” – è diventato realtà e si incarna in pagine di memorabile potenza espressiva. E’ qui che il romanzo, senza mai perdere la sua millimetrica adesione alla descrizione dei reali fatti storici, assume un valore che trascende la pura contingenza. Raddoppiando il racconto della Resistenza in un racconto iniziatico, dove il singolo individuo (l’individuo qualunque) è posto davanti alle scelte estreme e alle estreme figure della vita e della morte: “L’acciaio delle armi gli ustionava le mani, il vento lo spingeva da dietro con una mano inintermittente, sprezzante e defenestrante, i piedi danzavano perigliosamente sul ghiaccio affilato. Ma egli amò tutto quello, notte e vento, buio e ghiaccio, e la lontananza e la meschinità della sua destinazione, perché tutti erano i vitali e solenni attributi della libertà”.
E’ il momento più duro, i partigiani sono allo sbando. Perché non rinunciare?, domanda un mugnaio a Johnny. Gli Alleati sono fermi in Toscana con la neve ai ginocchi e ciٍ consente ai fascisti di far cascare i partigiani “come passeri dal ramo”. Ma al momento del disgelo – continua il mugnaio – gli Alleati avranno partita vinta: anche senza di voi, senza la vostra inutile morte. Ritorna in pianura, “la tua parte l’hai fatta”.
Jonny perٍ si è impegnato a dire un no assoluto e definitivo. E non deflette di un millimetro da quella posizione: “Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. – Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!”.
Si sa, proprio grazie a quella guerra di liberazione viviamo in un mondo completamente diverso, dove scelte di tal fatta, ringraziando Dio, non si danno più. Resta che fa comunque un certo effetto, in tempi di indecisione cronica e propensione al galleggiamento, riascoltare parole tanto nette. Che allora furono di molti. E in particolare di un uomo come Fenoglio, il quale inseguiva “un modello cavalleresco” dell’esistenza sin dagli anni dell’adolescenza; da quando – sotto la cappa soffocante del regime fascista – fu travolto dall’amore per la lingua e la letteratura inglese e il mondo dell’Inghilterra elisabettiana e rivoluzionaria che ad esse faceva da sfondo. Sى che nel suo caso scoperta di un nuovo idioma e connesso ideale di vita finirono per combaciare perfettamente.
“Adesso ti dirò una cosa che tu non crederai”, confida lo scrittore albese ad Italo Calvino, tra i suoi primi estimatori, nel 1956″: io prima scrivo in inglese e poi traduco in italiano”. E’ un modo di procedere tanto più singolare se si pensa che a farlo proprio è uno scrittore che di fatto non si muoverà mai dalle Langhe. Ma quanto conta sono i risultati. E i risultati sono sorprendenti, perché a essere reinventato non è soltanto l’italiano, ma anche l’idioma d’oltre Manica, che prende la forma del “fenglese”.
Di più. Si può dire che creazione della lingua e creazione della vita marciano, in Fenoglio, di pari passo, trasfondendosi l’una nell’altra, come dimostra “Il partigiano Johnny”, dove il rigore classico rimanda continuamente alla significazione epica della vicenda; e il felicissimo uso di neologismi e l'”oltranza espressiva” offrono alla medesima uno sfondo assieme concretissimo e atemporale, addirittura metafisico.
Fu lo stesso Italo Calvino a capire prima e meglio di chiunque altro quale straordinario frutto di stile aveva lasciato l’irregolare di Alba: “Beppe Fenoglio è stato per noi forse l’ultima incarnazione d’una figura storica di scrittore che marcò di sé le storie letterarie del secondo quarto di secolo ed è ora scomparso senza lasciare eredi; scrittore che esprime insieme la solitaria coscienza d’una tensione interiore e il mito estroverso di una vita pratica e attiva. E come i migliori di quella sparsa falange, scelse a banco di prova della sua volontà e della sua grazia, lo stile. Lo stile, cioè il punto in cui si saldano individualità e comunicazione, contenuto etico e forma”.
(articolo pubblicato su la Repubblica in occasione dei 100 romanzi del Novecento di Repubblica)
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