Ricordiamo Giuseppe Pontiggia nel ventennale della morte, proponendo una selezione di articoli e contributi pubblicati in questi anni su Letteratitudine
Giuseppe Pontiggia, detto Peppo (Como, 25 settembre 1934 – Milano, 27 giugno 2003) è stato uno scrittore, aforista, critico letterario e curatore editoriale italiano.
Giuseppe Pontiggia è stato uno dei maggiori scrittori e critici del secondo Novecento italiano. Dal padre bibliofilo eredita la passione per i libri, diventandone grande conoscitore e collezionista. Si laurea nel 1959 all’Università Cattolica di Milano con una tesi sulla tecnica narrativa di Italo Svevo.
Per aiutare la famiglia comincia a lavorare in banca, ma grazie alla pubblicazione del suo primo romanzo, autobiografico, La morte in banca, e all’incoraggiamento di Elio Vittorini, riesce a lasciarla per dedicarsi al mondo dell’editoria. Redattore del «Verri» e curatore insieme a M. Forti de «L’Almanacco dello Specchio», è consulente editoriale prima per Adelphi e poi per Mondadori. Ha collaborato anche con il supplemento domenicale de «Il Sole 24 ore».
Nel 1968 pubblica L’arte della fuga, al quale seguiranno Il Giocatore invisibile, La grande sera (Premio Strega 1989), un affresco spietato della società italiana degli anni Ottanta; Vite di uomini non illustri (1993), uno fra i punti più alti della sua narrativa che ottiene vasti riconoscimenti anche a livello europeo; e Nati due volte (Premio Campiello, Premio Società dei Lettori e Pen Club nel 2001), romanzo in cui tratta il tema della disabilità del figlio e da cui è stato tratto il film di Gianni Amelio, Le chiavi di casa. Oltre a questo film, dalle Vite di uomini non illustri Mario Monicelli trae il film Facciamo paradiso. Vince, tra l’altro, il Premio Chiara alla carriera nel 1997. Di notevole forza innovativa sono anche le esperienze saggistiche, quali Il Giardino delle Esperidi (1984), la scrittura aforistica di Le sabbie mobili (1991), L’Isola volante (1996), I Contemporanei del futuro. Viaggio nei classici (1998) e, per impegno civile e passione intellettuale, Prima persona (2002) che raccoglie e rivede gli interventi pubblicati su «Il Sole 24 Ore», nonché Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere (2016). È stato tra i primi in Italia a tenere corsi di scrittura creativa.
Sulla sua opera Interlinea ha pubblicato Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo(2016) e Una lettera dal Paradiso. Storie di Natale (2017).
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INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI
Daniela Marcheschi è la massima conoscitrice delle opere di Pontiggia (e non solo perché ne ha introdotto e curato le le “Opere” nei «Meridiani» Mondadori). Di seguito, una breve intervista…
1. Daniela, che rapporto hai con le opere di Giuseppe Pontiggia?
Sono una guida. Le ricordo: certe frasi, certi modi dei personaggi, le atmosfere. Le rileggo sempre con sorpresa e nostalgia. Tanta.
2. Qual è quella che hai amato di più?
Il Giocatore invisibile (1978). Mi colpiva soprattutto ciò che vi si affermava: la necessità dell’etica vissuta come nutrimento della cultura e della verità. Ero molto giovane, appena laureata: avevo lasciato l’Italia da pochi mesi, perché mi sembrava troppo chiusa. Avevo assistito spesso al “sacco” dell’università, alle combines in nome di tutto fuorché della cultura: quei giochi clientelari, che tradivano quanti avevano speso la propria vita per creare un’Italia nuova. Ho detto a me stessa, come critico: “Ecco lo scrittore che ci vuole!”. Sono orgogliosa di non essermi sbagliata, e grata di tutto quello che Pontiggia mi ha insegnato in 25 anni di dialogo fitto. Anche L’Arte della Fuga (1968), letta mentre scrivevo il saggio monografico su di lui (fine 1978-inizi 1979) fu – ed è ancora – affascinante: poesia e prosa, romanzo e versi. Non solo apriva orizzonti nuovi sul dialogo possibile fra generi letterari differenti, ma mostrava che nella Neoavanguardia i giochi erano stati ben più complessi di quanto non si leggesse nelle vulgate critiche. La fiducia nella possibilità del romanzo, la speranza nella letteratura e nella parola, uno spirito e una ricerca di vita autentica: era questo ad emozionarmi.
3. Qual è l’opera di Pontiggia che ritieni più rappresentativa (a prescindere dalle tue preferenze)?
Non ce n’è una soltanto. A vario titolo, tutte le opere di Pontiggia hanno un significato forte: forse, però, Vite di uomini non illustri (1993) e Nati due volte (2000) sono tra le più intense e profonde. Mi hanno commosso. E poi ancora Prima persona (2002), I Contemporanei del futuro (1998), L’Isola volante (1996), Il Giardino delle Esperidi (1984) e via dicendo.
4. Tra le varie “citazione” di Pontiggia di cui hai memoria… qual è quella con cui ti senti più in sintonia?
Lo sguardo potente su una condizione umana, rappresentata nel capitolo Animali e uomini del romanzo premio Strega, La grande sera (1989): “Sapeva che i suini cercano, rotolandosi nel fango, di pulirsi: e il modello gli rendeva più decifrabili certi esami di coscienza in pubblico, certe esibizioni di visceri non richieste da nessuno o certe confessioni che gli facevano i suoi nemici, non capiva se per apparire meno sordidi o per diventarlo di più“.
5. Qual è la principale eredità che Pontiggia ha lasciato nella letteratura italiana?
Una luce. L’amore per la letteratura, l’etica della letteratura, la dignità dell’intellettuale, l’ironia, la simpatia, il rigore della cultura, il coraggio della parola, la fierezza con cui diceva: “Sono un uomo libero, uno scrittore libero“.
(Pubblicata originarimente nel giugno del 2013)
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RECENSIONE DI “NATI DUE VOLTE” DI GIUSEPPE PONTIGGIA (MONDADORI)
Quanto volte lo ha fatto. Sollevarlo, aiutarlo a salire in macchina, a fare un gradino, a sedersi. Lo afferra sotto le ascelle, tiene salda la presa ed ecco, suo figlio ha raggiunto un piccolo obiettivo, si è spostato o lo ha fatto più velocemente, ed ora a lui non resta che prendere fiato, prima del movimento successivo.
L’handicap ha regole tutte sue, pensa Giuseppe Pontiggia, non ammette i ritmi frenetici della nostra epoca, si oppone all’approssimazione, alla fretta, al consumo. E’ il suo padrone benigno, quello che ha preteso pazienza e gli ha insegnato a tergiversare. Niente, per un disabile, è più utile dell’inutile, ed è per questo che Pontiggia si ferma, sta a guardare il cielo che scolora, le nuvole basse come falene, l’odore dei caldarrostai che si acquattano agli angoli delle strade, intorbidando l’aria di un fumo pastoso, simile a quello di un’immensa foresta agonizzante.
Lo sa, sono pensieri vaghi, di quelli che nell’epoca attuale verrebbero liquidati come antieconomici, perché non servono a nessuno se non alla sua anima, e l’anima – è noto – vien facile apostrofarla come una perditempo, un’oziosa viandante. E poi, chi può dire se esista veramente.
Nei tempi in cui lavorava in banca, ad esempio, gli era quasi sembrato di perderla, l’anima, mentre contabilizzava entrate e allineava numeri.
La scelta di impiegarsi, d’altra parte, non era stata dettata da passione, ma da necessità impellenti.
Nato nel 1934 a Erba, aveva perso il padre nel 1943 ed era stato costretto a lavorare per non pesare sulla famiglia. La sera, però, studiava febbrilmente per concludere gli studi universitari, collaborava alla rivista “Il Verri”, scriveva il suo primo romanzo. Solo nel 1961 – grazie all’incoraggiamento di Elio Vittorini – aveva lasciato la banca per dedicarsi all’insegnamento serale. E poco dopo era nato Andrea, colpito da un grave handicap.
Pontiggia non osa scriverne per anni, fino a che – nel 2000, poco prima della morte – dà alle stampe “Nati due volte”.
Un libro non solo sulla disabilità, ma sulla ricerca – trepidante, imperfetta – di un rapporto con l’altro, soprattutto quando l’altro è un figlio con un disagio. Barcamenandosi tra medici scettici, insegnanti perplessi, parenti ostinati a voler minimizzare il problema, Pontiggia osserva il figlio e – attraverso la sua fragilità, il suo passo sgraziato, oscillante, la testa a penzoloni, ma anche la sua innata simpatia per l’umanità – comprende che il disabile ha più cose da offrire che da ricevere. L’obiettivo, allora, non è l’eliminazione della diversità, ma la scoperta, in quella diversità, dell’unicità di ogni anima, del modo che ciascuno ha di stare al mondo. Non a caso il romanzo è dedicato “ai disabili che lottano non per diventare normali, ma se stessi”.
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IL MAGISTERO DI PONTIGGIA
Ci manca Giuseppe Pontiggia. Peppo, “il gran Lombardo”, scacchiere e boxeur mancato, ha lasciato un vuoto incolmabile nella cultura italiana. Scrittore sopraffino, oltre che critico e bibliofilo di razza, ha praticato con osservanza “religiosa” l’autenticità della scrittura, a dispetto di pennaioli alla moda che scrivono solo per adularsi a vicenda, o per stroncare il nemico di turno. Ci manca la sua lealtà, la sua grandezza fisica e morale, e soprattutto la sua riflessione acuta.
Non ha mai smesso di scommettersi sulla narrativa, non dimenticando mai di essere stato, in passato, un pugile dilettante o un amante delle geometrie di scacchiere. E questo è stato sempre presente nel suo stile, lapidario e conciso come nel suo capolavoro “Vite di uomini non illustri”, matematico e perfetto quando imbastiva trame argute di psicologia umana (“Il giocatore invisibile” e “La Grande sera”, Premio Strega 1989). Ed è stato anche sincero e commovente quando ha aperto e chiuso la sua carriera di scrittore: “Morte in Banca” e “Nati due volte”, il suo ultimo capolavoro.
In quel libro, da cui ha tratto ispirazione Gianni Amelio per “Le Chiavi di casa” , ha operato uno sforzo stilistico riuscito, qualcosa che solo i grandi scrittori come lui sanno fare: ha raccontato sé stesso senza finzioni, il dramma e la debolezza di un uomo dinanzi alle difficoltà della vita. E quando parlava di quel romanzo si appassionava, la sua voce stanca diventava calda e suadente. Ed io lo ascoltavo commosso: “…ogni volta che finivo di scrivere un capitolo lo facevo leggere a mio figlio, e dalla sua reazione capivo se dovevo apportare modifiche o se andava bene…sono stato contattato da molte associazioni di volontariato, che mi ringraziavano per “Nati due volte”, ho spiegato a loro perché si nasce due volte…la prima è una nascita fisica, la seconda spirituale, perché si comincia a vedere il mondo con gli occhi di quel figlio amato…”. Un discorso a parte merita “L’Arte della fuga”, uscito nel 1968, ora ripubblicato negli Oscar Mondadori, “scritto in uno stato di grazia creativo che lo fa sembrare fresco di stampa”, come recentemente ha scritto Daniela Marcheschi su “Il Sole 24 ore”. Ci eravamo conosciuti nel 1989 ad Aci Bonaccorsi grazie all’amico poeta Antonio Di Mauro e da allora non mi ha più “abbandonato”. E’ grazie a lui che ancora oggi scrivo con umiltà e pazienza (che definiva la virtù degli eroi), sempre prodigo di consigli e incoraggiamenti. Anni dopo, durante un’edizione del Premio Brancati di Zafferana, ci tenne a presentarmi Vincenzo Consolo, un altro grande che ci ha lasciati troppo presto. Perché Peppo era scrittore e uomo generoso, ultimo esponente di una stirpe nobile che non disdegnava di scoprire giovani talenti. Grandi figure estinte che avevano un ruolo decisivo nel fiutare nuovi fermenti nel panorama letterario italiano che invece, ormai, è diventato povero e sterile, dove la qualità stenta a farsi riconoscere.
Anche per questo ci manca, mi manca, Giuseppe Pontiggia.
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UN RICORDO DI GIUSEPPE PONTIGGIA
Ho molto amato Pontiggia, è stato uno dei miei maestri, perché chi scrive in italiano si rifà a maestri italiani. E come dalla Ortese ho imparato l’allucinazione, il surreale, da Pontiggia ho imparato il reale. Per me Nati due volte è un enorme punto di riferimento, e non per l’argomento trattato ma per come è trattato. Per l’uso della lingua, con quel registro finto basso ma coltissimo, come se lo tenesse a bada- anzi: sicuro lo teneva a bada-, e le sciabolate al sistema quando si rappresenta in scuola, in ospedale, sulla propria pelle.
Posso piangere se penso alla scena finale, quella di lui che lo guarda oramai adulto dalla finestra, perfetto contrappunto a quella iniziale delle scale mobili. Io penso che sia un capolavoro per il comune lettore e un manuale (a lui non sarebbe dispiaciuto, così convinto dell’”insegnabilità” della scrittura…) per chi scrive.
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