In occasione della ricorrenza del centenario della nascita del grande Stefano D’Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992), autore – tra l’altro – di “Horcynus Orca” (uno dei capolavori mondiali della letteratura del Novecento), riproponiamo la lettera a lui indirizzata dalla scrittrice Tea Ranno, estratta dalla sezione “Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi” del volume “Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria, 2017) che ho avuto il piacere di curare per festeggiare il decennale di vita di questo blog (la suddetta lettera era già stata proposta in occasione del venticinquennale della morte di D’Arrigo).
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LETTERA A STEFANO D’ARRIGO
La vita cammina, il tempo è il suo binario
di Tea Ranno
Non mi permetto il tu, perché a un maestro non si usa l’eccessiva confidenza, e il lei mi pare troppo distante: spesso nei pensieri mi siete, Maestro, nel ragionamento che piglia forma di scrittura e tende a musicare la frase, a darle voce di sirena che incanta o avvelena, ma mai scorre per il rigo indifferente; e dunque è al voi che ricorro, antico retaggio della mia terra dove il rispetto passa intanto per la bocca.
Vi scrivo per dirvi che le parole uscite dalla vostra penna, nei venti e passa anni in cui ’Ndrja Cambrìa attorcigliò il cammino del ritorno, mi sono diventate armamentario di espressione, vocabolario che ha aggiunto colore e intensità alle cose che andavo pensando, a quelle che andavo dicendo e storpiando per piegarle al volere dell’immaginazione. Corona di sogno e guinzaglio, le parole vostre, un fraseggio che deride le mezze menzogne, perché la menzogna, mi avete insegnato, è tale se resta signora della pagina e non serva d’un qualche ragionamento astratto. Mentire e ragionare in contrabbando di evidenza, questo ho imparato; e mistificare, togliere e mettere per alchimie che potenziano l’illusione.
Vi scrivo per dirvi che ogni volta che traverso il Duemari è a voi che penso, a quel terribilio di sventure che metteste in atto facendo di quel mare teatro di scannatine e affronti, offese, mancanze; per dirvi che trapassando in Continente dall’Isola, e viceversa, continuo ad aspettare le fere, anche una, una soltanto, che mi dia conto di quanto il mare sia rimasto lo stesso, col suo Scilla che abbaia e Cariddi che ingoia e Morgana che distorce la visione. Vi scrivo per dirvi che ogni ferribò che prendo mi pare quello che ha nella pancia le femminote che commerciavano in carne e sale: la carne loro, il sale che riuscivano a fottere in mezzo alla penuria guerresca. Vi scrivo, Maestro, per dirvi che le cose che mi avete insegnato a guardare hanno sempre un’anima scognita che mi spinge a toccare, scavare, mordere per capirne coi denti la consistenza, saperne il sapore e rendermi consapevole di ciò che altrimenti scivolerebbe come cece su pelle d’uovo. Vi dico che a me il discorrere di necessità commerciali – una storia erotica, un giallo, un conversario in salotto ottocentesco – interessa quanto quel cece che scivola su pelle d’uovo; che per me ci vuole lentezza e perseveranza sopra argomenti che trattano l’uomo, la sua capacità di cambiare testa, di trasformare in grandezza la sua pochezza. L’imparai, questo, dalla vostra Nasodicane, dal suo falcidiare fiati e ficcare nel nero sacco senza fondo quanti la sua mano scippa o carezza. Vi scrivo per dirvi che gli occhi vostri mi furono di supporto quando pretesi di guardare la vita e il mondo per raccontarli, ché vita e mondo, mi dicevo, hanno la stessa chiave d’accesso, lo stesso codice di sblocco. Se poi una è più personale e l’altro abbraccia l’estraneo è cosa che non nuoce, piuttosto induce a meglio capire, a intervenire con una zeppa, un cuneo là dove il senso zoppica. E non ci sono certezze. L’unica, forse, è quella Ciccina Circè che intona canti d’ammaliamento e offre la sua barca per un trasbordo vero dove il corpo si fa litania di desideri e il campanello a richiamo di fere è potenza di straniamento che tiene lontani gli affogati e fa meno atroce il passaggio.
Il tempo ci rimane addosso, Maestro. Non possiamo fare altro che cantarlo, anche se non ne siamo degni, se non ne possediamo il metro. La vita cammina, il tempo è il suo binario.
Vi saluto con devozione. Vi auguro mari e fere in quantità, parole tutte quelle che volete, e aria, e respiro. E sigarette, pure. E amici. E millunanotte di domani in domani.
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Tea Ranno è nata a Melilli, in provincia di Siracusa, nel 1963. Dal 1995 vive a Roma. È laureata in giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha pubblicato per e/o i romanzi Cenere (2006, finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti) e In una lingua che non so più dire (2007). Nel 2012 per Mondadori è uscita La sposa vermiglia, vincitore del premio Rea, e nel 2014, sempre per Mondadori, Viola Fòscari. Nel 2018 con Frassinelli ha pubblicato Sentimi. Per Curcio, ha scritto tre libri per bambini, l’ultimo è Le ore della contentezza. Il più recente romanzo di Tea Ranno è “L’amurusanza” (Mondadori, 2019)
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