ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini
Autobiografia di un mestiere
Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un libro che è interamente dedicato alla scrittura e che porta la firma di uno degli scrittori più noti e letti al mondo. Il libro si intitola “On writing“, l’autore è Stephen King (a proposito di King, ne approfitto, peraltro, per ricordare questo dibattito online relativo al romanzo “22/11/63“).
Nei giorni scorsi Frassinelli ha pubblicato una nuova edizione di “On writing“, con la traduzione di Giovanni Arduino e l’ottima prefazione di Loredana Lipperini (qui, il post su Lipperatura). Ne ho discusso con la stessa Loredana (che ringrazio per la cortesia e disponibilità), nell’ambito di un’ampia intervista che propongo qui di seguito…
– Cara Loredana, parlaci del tuo incontro con Stephen King? In quale fase della tua vita è avvenuto? E con quale libro?
Non sarò breve, premetto. Ricordo bene anno e contesto: era il 1988, passavo qualche giorno nella casa di un amico. L’amico e mio marito andavano a pesca sul fiume, io mi annoiavo. Frugando nella libreria, ho trovato “It”. Non avevo ancora letto nulla di Stephen King, anche se l’horror mi era piaciuto da adolescente, quando un fidanzato mi regalò i racconti di Lovecraft, e prima ancora c’era stato il tempo di Edgar Allan Poe, e poi sarebbe venuto il tempo di Machen e di Matheson. Ma non di King. In quel 1988 avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Eppure, avevo sempre letto molto. Moltissimo, anzi. Sono stata una di quelle bambine e poi ragazze e poi donne che hanno sempre un libro nello zaino (e per questo difficilmente usano borsette piccole e graziose) perché sanno che il tempo è pieno di buchi da riempire. Lo spazio vuoto mentre si aspetta l’autobus e mentre l’autobus stesso arriva a destinazione. Il panino e la spremuta d’arancia al bar, prima di tornare in redazione (non era anche quello un tempo da dividere, pane e carta, e non era piacevolissimo averne insieme?). Quando si legge troppo, però, l’emozione arriva più raramente: il punto è che, quando arriva, è doppiamente forte.
E’ lo stesso Stephen King a dirlo, in Danse macabre: “Non si apprezza la panna senza aver prima bevuto molto latte, e forse non si apprezza il latte finché non se ne è bevuto un po’ di inacidito”. Diciamo dunque che avevo bevuto molto latte e avevo mangiato, naturalmente, dell’ottima panna. Ma la panna apparteneva quasi tutta al passato, o così mi sembrava. Diciamo anche che mi annoiavo, che non avevo voglia di rileggere né c’era molto di nuovo che mi attirasse. Venivo da una sbornia di minimalisti, o da quelli che allora venivano definiti tali. Furoreggiava David Leavitt con Ballo di famiglia, e mi era piaciuto, ma ero sazia.
Così, nella casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava l’autore, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”.
Tutte quelle virgole, e una parola così forte come “terrore”, subito all’inizio, e poi un’insignificante barchetta di carta che, scoprii nelle righe successive, beccheggia, si inclina, si raddrizza e affronta “con coraggio” i gorghi infidi e prosegue la sua corsa in quello che è un pomeriggio d’autunno del 1957, in una città che si chiama Derry e che non esiste – ma questo lo avrei scoperto poi – e che si annuncia come malvagia fin dall’inizio, con quelle tre lampade del semaforo che sono irragionevolmente spente, anche se piove a dirotto, e piove da una settimana, e il vento soffia infilandosi nei vicoli, e tutti i quartieri sono rimasti senza corrente, e questo già è strano, e siamo ancora alla fine del secondo paragrafo.
Città sbagliata, Derry. Anche questo lo avrei capito dopo aver letto tutti i romanzi che King vi ambienta: Mucchio d’ossa, dove la giovane e amatissima moglie di Mike Noonan muore mentre esce da una farmacia, per un ictus (forse) e l’asfalto bollente le segna le guance e il marito dovrà rivederla così all’obitorio, con quei frammenti di Derry sul viso, per l’eternità. E Insomnia, dove la città ha due anime, o due modi di essere vista, e un sacco mortuario nero come fumo la avvolge, e Dolores Claiborne, che fa quel che deve nel giorno dell’eclissi, fino a 22.11.63, dove la prima tappa del viaggio nel passato del protagonista è proprio Derry, la Derry di It, ed è sbagliata come allora e forse ancora di più.
Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa il piede da quelle parti. Bambini. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti.
Bambini. C’è un bambino dietro la barchetta. Ha sei anni, un impermeabile giallo e stivaletti rossi. Si chiama George Denbrough e morirà nel giro di quindici pagine con un braccio strappato di netto come un’ala di mosca. Moriranno molti bambini, nel romanzo, e anche non pochi adulti. Perché, ma questo è quasi banale dirlo, It è una storia sul male: o meglio ancora, su come la questione del male possa essere declinata in questo e altri mondi. Il male cosmico che si cela nelle galassie vomitate dalla benefica Tartaruga e nelle geometrie sghembe da cui proviene It. Il male quotidiano, perché se It si nutre di bambini, quegli stessi bambini vengono picchiati da genitori alcolisti, o vessati da madri ansiose, o semplicemente ignorati, come avviene al fratello di George, Bill, dopo che la morte ha raggelato la sua famiglia, e cosa può mai fare un ragazzino quando le mani della madre volano alle tempie come uccellini e il padre piange abbracciato agli scatoloni di giocattoli che nessuno userà più?
Ed è anche molto di più, lo avrei scoperto in quel luglio caldo dove la gelida pioggia di Derry scorreva sulle pagine: perché insieme ci sono l’amore per la narrazione e la memoria che sparisce se non viene, appunto, raccontata, e c’è un inno all’infanzia come stagione terribile e felice, dove una bicicletta può battere il diavolo, specie se si chiama Silver ed è troppo alta per un bambino. Tema che a King è carissimo e che riesce a trattare, ogni volta, con quel miscuglio di amore e malinconia (e di ferocia) che raramente si trova in altri scrittori. C’è un passaggio di It che lo spiega bene, ed è un risveglio di Bill adulto, dopo un sogno in cui era tornato indietro, nel se stesso che non era più:
“Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno. Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota. O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta”.
– Grazie di cuore per questa tua corposa risposta, Loredana. So che consideri King (e si evince anche dalle tue parole che abbiamo appena letto) come uno dei massimi scrittori viventi. In cosa consiste, a tuo avviso, la sua grandezza?
In quello che mi accadde allora. Quando, nel giro di cinque giorni, ho chiuso It, ho cominciato a cercare altri romanzi di Stephen King. Perché a questo servono gli scrittori che raccontano il Male e raccontano la paura: a parlare di te e delle tue ombre e a farlo come altri non riescono. Nella prefazione di A volte ritornano è King stesso a dirlo:
“Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S.Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo”.
– Nel passato King è stato un po’ “snobbato” da parte della critica. E oggi? Cosa puoi dirci in tal senso?
Sospetto, e frequentemente, che chi lo critica non lo abbia letto. In assoluto, penso che Il motivo per cui chi scrive fantastico ha sempre goduto di scarsa considerazione, come dice King, sta nel fatto che l’autore di fantastico affronta la prova generale della nostra morte. Una volta guardata in faccia, non si lascia più. Una volta letto King, una volta perduti nelle sue storie (e nella sua abilità linguistica, si ricredano i supponenti: il linguaggio di King è uno dei più complessi e raffinati, e migliora anno dopo anno), non si lascia più. A meno di non essere preda dell’antico pregiudizio che separa i “leggibili” dagli “sperimentali”, e dunque il romanzo è morto, la trama è il male, e tutto quel che ci sentiamo ripetere da decenni. Una polemica oggi più che mai priva di senso, credo.
– Che tipo di esperienza è stata per te il cimentarti con la scrittura della introduzione di “On Writing” (un testo che, di certo, hai amato tanto)?
Come ho scritto sul blog, è stato emozionante e appassionante, come sempre avviene quando ti viene chiesto di scrivere su chi ami. Anche paralizzante, in effetti. Non solo perché scrivere di e su King significa fare i conti con un esercito di Fedeli Lettori giustamente assai esigenti, ma perché la Fedele Lettrice che è in me vigilava, occhiuta, su ogni parola. Poi, per fortuna, nel paese dove stavo scrivendo si sono rotte tutte le caldaie. E mi è venuta un’idea, che è quella che conclude l’introduzione ma che mi è servita a prendere il via.
– In cosa si differenzia, “On Writing”, rispetto ai tanti libri che si occupano di “scrittura creativa” e che sono disponibili in commercio?
E’ “Il” libro. Perché non si limita a fornire qualche suggerimento tecnico, ma comunica la suggestione principale: scrivere è acqua di vita, è magia, è gratis, puoi farlo anche tu.
– Oltre alla nuova traduzione di Giovanni Arduino (e alla tua bella introduzione) ci sono altri motivi per i quali chi possiede già una copia di “On Writing” potrebbe essere invogliato ad acquistare questa nuova edizione?
Perché ci sono alcune pagine inedite. Perché ogni volta che esce una traduzione nuova è bello possedere entrambe le versioni. Perché ha una copertina stupenda. Perché è King.
– Qual è la principale “lezione” che un aspirante scrittore potrebbe trarre dalla lettura di “On Writing”?
Leggi, vivi, sii felice.
– Grazie di cuore per la tua disponibilità, cara Loredana.
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La scheda del libro
Alla domanda: «Che cos’è On Writing?» Stephen King ha risposto: «È il romanzo della mia vita, non perché la mia vita sia un romanzo, ma perché la mia vita è scrivere». Ecco perché questo libro è l’autobiografia di un mestiere in cui la storia personale e professionale del Re si fondono totalmente. Il brillante «Curriculum vitae» d’apertura ripercorre gli anni della formazione, in un collage di ricordi che dall’infanzia arrivano al primo, grande successo con Carrie; «Cassetta degli attrezzi» è un’acuta e disincantata elencazione dei ferri del mestiere – quali sono, a che cosa servono, come mantenerli efficienti e sempre pronti all’uso –; «Sulla scrittura», la parte più interessante per gli addetti ai lavori, illustra le fasi del processo creativo fino all’approdo editoriale; e infine «Sulla vita», ricco di pathos, racconta come King abbia visto la morte da vicino, dopo lo spaventoso incidente in cui è stato coinvolto, e come, grazie alla scrittura, sia ritornato alla vita. Diario, confessione, chiacchierata… On Writing abbraccia e supera tutti i generi e, per l’aspirante scrittore, è uno strumento utile e illuminante, ricco di esempi e riferimenti pratici, capace di affrontare senza fumosità un argomento difficile; per il lettore affezionato è un must in cui potrà ritrovare, nella loro dimensione reale, un’infinità di situazioni, storie e personaggi che hanno ispirato i romanzi di King. Per tutti, è una lettura avvincente e profonda nello stile inconfondibile dell’autore, capace di trasformare tutto ciò che tocca in un racconto magistrale.
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STEPHEN KING vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha e la figlia Naomi. Da più di trent’anni le sue storie sono bestseller che hanno venduto 500 milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Stanley Kubrick, Brian De Palma, Rob Reiner, Frank Darabont. Oltre ai film tratti dai suoi romanzi, vere pietre miliari come Shining, Stand by me, Le ali della libertà, Il miglio verde – per citarne solo alcuni – sono seguitissime anche le sue serie TV, ultima in ordine di apparizione quella tratta da The Dome, trasmessa da RAI2. Recentemente King si è dedicato ai social media e in breve tempo ha conquistato centinaia di migliaia di follower su Facebook e soprattutto su Twitter.
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