Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine “Poesia” ospitiamo il secondo dei due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.
Il primo saggio, incentrato sull’opera Nordiche, la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, è disponibile cliccando qui.
In questa sede ci occupiamo del saggio dedicato a oggi.
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Note in margine a oggi
di Emma Di Rao
Il titolo oggi, che Elena Salibra attribuisce al suo ultimo componimento, scritto il 28 novembre 2014,[1] era già apparso in un testo della prima raccolta poetica, Vers.es,[2] testimonianza dell’esigenza costante, nell’autrice, di fissare la dimensione presente per individuarne la rilevanza nel proprio percorso interiore. Il contenuto di quella poesia lascia intravvedere una sorta di arresto del soggetto lirico, che appare desideroso di quiete e di oblio, ma anche propenso ad affidarsi alla dimensione del sogno, come si evince dai versi: <<Lasciamoci dormire un’altra notte/ nella direzione dei sogni chè/ nella distanza non vadano via>>. Il contesto temporale è quello del tramonto che, allungandosi <<oltre il limite del giorno>>, guida i passi di due figure, l’io lirico e il consueto, silenzioso interlocutore,[3] verso la dimora di campagna che una sbarra chiusa rende inaccessibile. Nella luce persistente della sera di fine estate, che avvolge e dilata lo spazio oltre i confini del reale, si muovono lievemente le due presenze, che non percepiamo distinte, ma unite in un intimo ‘noi’ e immerse nella natura sino a fondersi con essa. Le suggestioni che tali immagini lasciano affiorare evocano l’atmosfera dominante ne La pioggia nel pineto, cui rimanda, peraltro, anche un elemento abbastanza puntuale:<< sui nostri volti bruni>>, variazione minima del dannunziano <<sui nostri volti silvani>>.[4] Dal testo sembra lecito evincere che l’oggi si identifica con una prospettiva che si colloca al di là della condizione presente, con quella dimensione onirica in cui si dissolve ogni ostacolo che venga a frapporsi tra l’io e il suo desiderio di evadere in direzione di un ‘oltre’. Ne è prova evidente il ricorrere di termini quali << limiti>>, << sbarra chiusa>>, <<chiudere di luce>> su cui, tuttavia, finisce per prevalere la <<direzione dei sogni>>, unitamente alla formulazione della speranza che essi <<nella distanza>> non vadano perduti.
E proprio in tale visionarietà si rinviene quell’elemento che, affidandosi a diramazioni nascoste e profonde, salda l’Oggi di ieri con l’oggi del presente. Se, infatti, ogni componimento della produzione lirica di Elena Salibra si configura come un microcosmo autonomo e in sé compiuto, è pur vero che i vari testi sono connessi da una fitta trama di richiami e corrispondenze che concernono sia l’ambito tematico che quello espressivo. Da qui la ripresa del titolo – con l’unica variante grafica della lettera minuscola – in una composizione che, configurandosi fatalmente come l’ultima, non può non ritenersi di fondamentale importanza. Ancora una volta, ma in una situazione di certo più drammatica, l’io poetante avverte l’esigenza di far confluire l’oggi nel bilancio del proprio itinerario esistenziale e di analizzarlo con lucida consapevolezza. Il componimento, il cui titolo costituisce la chiave essenziale di lettura, assolve dunque la funzione di suggellare un percorso che, fin dalla raccolta di esordio, aveva rinvenuto nel tempo -così come nello spazio- la categoria entro cui si snodano le più significative avventure interiori. Nel discorso poetico salibriano, infatti, è frequente la propensione a far riaffiorare il passato,[5] su cui non viene, però, esercitata una mera, sterile nostalgia: il recupero memoriale scaturisce dal desiderio di evocare un luogo, un incontro, un oggetto perché essi svelino, nella distanza temporale, un ulteriore, più riposto significato. In altri casi, anche in virtù di un’innegabile riluttanza nei confronti del futuro,[6] l’io rimane ancorato alla precarietà del presente che, a causa dell’aggravarsi della malattia, diviene l’unica realtà che si intenda comunicare.
Oppresso da una condizione psicologica di angoscioso smarrimento e da una sofferenza che non logora soltanto il corpo, il soggetto lirico, che sempre più tende a identificarsi con l’io biografico, si volge ad analizzare e interpretare gli esigui e dolorosi segnali provenienti da una quotidianità cui si vorrebbe aderire con le forze residue, ma che infonde solo un paralizzante senso di incertezza e blocca ogni pur minimo gesto. Nei desolati luoghi ospedalieri, che concorrono a minacciare l’identità, riducendola ad arido numero o insignificante lettera, si avverte l’opaca pesantezza del vivere su cui non è ormai possibile esercitare quella ‘doppia visione’ che, in altri contesti poetici, aveva consentito di cogliere significati sottesi e di avviare un processo di sublimazione del reale. Persino la misurazione del tempo è affidata a un elemento tristemente prosaico, imposto dalle cure mediche, quale il lento cadere di un liquido instillato attraverso una fleboclisi – come si evince dal cadere ‘alla rovescia’ della goccia – che dovrebbe permettere di <<guarire almeno un poco>>, sebbene l’impegno quotidiano di <<imparare a morire>> risulti, per l’io, la prospettiva forse più veritiera. L’oggi è dunque scandito dalla durata di un ‘protocollo d’intervento’ e impone di vivere in una situazione di sconsolata inerzia, nella quale si può soltanto ricordare il passato più recente, ovvero quei risvegli e quello stato pensoso di veglia durante i quali il malinconico dialogo con ‘l’altro’ – da identificarsi con la ricorrente figura del coniuge dell’autrice-[7]rivela una volontà in procinto di disarmare.
Il disorientamento e la timorosa esitazione del soggetto lirico si traducono in movimenti irregolari e convulsi, propri di chi non sa collocarsi nè sulla linea del tempo né su quella dello spazio, come suggeriscono i versi: << ti toglie/il respiro ti alzi confusa t’aggiri>>. Vale la pena osservare che l’espressione <<t’aggiri>> rimanda a << ti aggiravi diego>>, incipit del componimento di apertura de la svista, ballando diego.[8] Ascrivibile a una memoria involontaria dell’io poetante o consapevole raccordo intertestuale, l’<<aggirarsi>> di oggi è segno del mutamento esistenziale nel frattempo intervenuto: non più la vitale danza di chi, come il ballerino madrileno, riempiva di sé lo spazio circostante <<per diramarsi in un esistere proteo, onnipervasivo>>,[9] ma il vano e concitato <<aggirarsi>> di chi appare sospinto verso il basso.[10] In tale ambito il soggetto rimane inesorabilmente confinato, quasi si trattasse dell’unica dimensione ora possibile e dal punto di vista ontologico e dal punto di vista morale. E’ quasi superfluo notare che l’uso del tempo presente, in <<t’aggiri>>, riconduce le azioni, in modo definitivo, all’orizzonte breve dell’oggi, imposto dal venir meno di ogni prospettiva di sopravvivenza. Da qui, a nostro avviso, deriva il rifiuto ostinato e categorico del salire, <<neppure in ascensore>>, che la studiosa M.C. Cabani interpreta come riluttanza da attribuire al presentimento dell’ultimo viaggio.[11]
Eppure, nella chiusa del componimento, <<leggi il tuo destino/nella punta là in alto dei Climiti>>, si delinea, inaspettato, l’affrancarsi dell’io dal luogo straniante in cui la contingenza della malattia lo ha rinchiuso: quell’altezza cui non si credeva di poter aspirare viene raggiunta per mezzo di un percorso del tutto alogico, che sostituisce a uno spazio fisico un luogo squisitamente interiore. Al turbamento avvertito dinanzi al ritmo incalzante del display che, mutando lettere e numeri, governa in modo dispotico la fila dei ‘dannati’, fa infatti da contraltare quella visionarietà che permette di svelare un’indeterminata lontananza spaziale. In virtù di una disposizione contemplativa quasi incantata e sospesa, il soggetto lirico è <<capace>> di proiettare il proprio sguardo ‘oltre’: in lontananza, sulla vetta dei monti Climiti, elemento geografico della città natale, ma anche realtà del tutto smaterializzata, si rinviene la chiave di lettura per interpretare la propria esistenza e concludere una ricerca avviata in passato.
Il tempo, il cui corso appariva poco prima spezzato dal tragico incalzare degli eventi fino a ridursi in elemento minimo, in << goccia/che cade alla rovescia>> – tale immagine dello stillicidio è presente, con valenza metaforica, anche in un componimento de la svista –[12] , sembra assumere una dimensione circolare: riavvolgendosi su se stesso, viene a configurarsi come una linea ininterrotta che cancella ogni soluzione di continuità e riannoda il filo dell’esistenza al punto di origine, ai luoghi, quasi mitici, dell’infanzia e della giovinezza dell’autrice.
Ci sembra significativo notare che la parte di testo racchiusa fra i trattini, come frequentemente si riscontra nella scrittura salibriana, non risulta incidentale o accessoria, ma introduce la voce di ‘un altro sé’ , che appare in grado di osservare da una prospettiva distaccata, quasi opposta a quella che determina l’inquieto aggirarsi dell’io. Rilevante deve considerarsi in <<leggi>> il conservarsi della seconda persona al di fuori dei trattini, ascrivibile al fatto che è proprio il momentaneo sdoppiarsi dell’io a permettere di ampliarne la prospettiva, legittimando la conquista di una superiore visione. Pertanto, <<leggi il tuo destino>> potrebbe intendersi come l’esortazione che ‘l’altro sé’ rivolge all’io – di cui rappresenta comunque una rifrazione – perché questi rinvenga << nella punta là in lato dei Climiti>> il senso più profondo della sua esistenza.
A una lettura non semplicemente cursoria di oggi non può sfuggire, inoltre, che il termine ‘Climiti’ compariva già nel componimento dal titolo …anche mio:[13]<< ora rifletto sui limiti/della mia carne tra i clivi dei climiti>>, in cui le parole rimanti, <<limiti>> e <<climiti>>, creano un sotteso rapporto di opposizione tra ciò che è noto e finito e ciò che, già allora, appariva misterioso e quasi irreale.
Per quanto concerne l’ambito stilistico, il testo appare caratterizzato, come ogni altro componimento dell’iter poetico di Elena Salibra, da una ricercata cifra espressiva e da un’elevata letterarietà a determinare la quale concorrono non pochi artifici retorici: la presenza dell’allitterazione, come in <<ricordando i risvegli>> e in <<ti alzi…t’aggiri>>; il ricorrere dell’enjambement, come in <<non sono/ capace>>, dove la collocazione di <<capace>> all’inizio del verso conferisce all’aggettivo un particolare rilievo sul piano semantico; la presenza, nel verso finale, del suono della vocale ‘a’ che, tonica in <<là>> e in <<alto>>, suggerisce l’idea di una vastità indefinita. Ed ancora, si osservi che il ripetersi della consonante liquida ‘l’ , nel verso conclusivo, produce effetti di levità e fluida scorrevolezza, che ben assolvono la funzione di esprimere la nuova condizione dell’io. Infine, è innegabile che la rarefazione dei segni di interpunzione consente alla scrittura lirica di configurarsi come il fluire ininterrotto di un discorso avviato e concluso nell’interiorità.
Del tutto interiore è, infatti, la visione evocata dal termine ‘Climiti’ che si carica di una intensa suggestione allusiva e in cui l’uso della lettera maiuscola non è certo da giudicarsi casuale, poichè concorre a evidenziare la funzione svolta, nella vicenda del soggetto, dal recupero di una dimensione aurorale.
E’stato dunque sufficiente sillabare ‘Climiti’ perché il destino avesse un nome o, meglio, una direzione in cui potesse compiersi. E’ stato sufficiente sillabare ‘Climiti’ perché si potesse finalmente trovare, al pari della stella marina, la <<giusta posizione>>,[14]
Avrebbe avuto termine, di lì a poco, a causa dell’infausto esito della malattia, la vicenda dell’io biografico, ma prosegue, destinata a oltrepassare l’oggi, la vicenda eterna dell’io lirico.
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NOTE
[1] Il testo è stato di recente pubblicato, con una breve nota introduttiva di V.Manca, in Nella punta là in alto dei Climiti, Quaderno della Fondazione IL Fiore , edizioni Polistampa, 2016.
[2] Oggi, Vers.es, Diabasis 2004, p.37.
[3] Sulla presenza del ‘tu’, come <<necessità di un altro da sé o un altro sé>> , nel discorso poetico salibriano, cfr. M.C.Cabani, <<Introduzione a il martirio di ortigia>>, Lecce, Manni, 2010, p.8. Al riguardo, si leggano anche le considerazioni espresse da M.Minutelli, in <<Introduzione a Nordiche>>, Soglie, anno XVI,1,2014, pp.53-54.
[4] Sulle reminiscenze dannunziane nella produzione lirica di Elena Salibra ,cfr. M. Santagata, <<Introduzione a sulla via di Genoard>>, Lecce, Manni, 2007, pp.5-6.
[5] Al riguardo, v. M.C. Cabani, << Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio>>, Il Portolano,51/52, 2008, p.46.
[6] Come è stato osservato, << Se c’è una dimensione assente e forse non del tutto pacificata è quella del futuro>>, Ibidem.
[7] Su tale <<indefettibile presenza tutelare>> e sulla funzione che essa svolge nel discorso lirico di E.Salibra si veda M.Minutelli, <<Introduzione a Nordiche>> cit., pp.53-56.
[8] E.Salibra, la svista, Catania, A&B editrice, 2011,p.7.
[9] D. Salvatori, Le prospettive intrecciate: spazi, corpi e presenze ne La Svista, in Nella punta là in alto dei Climiti cit.,p.112.
[10] L’espressione <<t’aggiri>> ricorre anche in <<t’aggiri in dormiveglia/nella stanza. spalanchi/gli scuri della finestra>>, Un colibri, in Nordiche, Stampa 2009,Azzate 2014). In questo caso, l’autrice fa riferimento all’inquieto aggirarsi del coniuge nell’intimo spazio familiare, dove si consuma tristemente l’attesa di un nuovo giorno.
[11] Al riguardo, si leggano le considerazioni espresse da M.C.Cabani, Le diverse scrivanie: studiosa, docente e poeta, in Nella punta là in alto dei Climiti cit., p.52.
[12]Si leggano i versi:<< fisso la boccia di vetro appesa a fianco/ e piano piano ancora due. una goccia >>, Il salotto, in la svista cit.,p.25.
[13] Da il martirio di ortigia, Lecce, Manni,2010 p.16.
[14] In vena, Nordiche, Stampa 2009, Azzate 2014.
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