PATRIA di Fernando Aramburu (Guanda): un libro di grande successo ottimamente tradotto da Bruno Arpaia
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Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine chiamato “Vista dal traduttore” (dedicato, per l’appunto, al lavoro delle traduttrici e dei traduttori letterari) è incentrato sul romanzo “Patria” di Fernando Aramburu e sulla traduzione in italiano di Bruno Arpaia.
Bruno Arpaia è anche giornalista culturale e scrittore. Ne approfitto per segnalare questo post (con il suo Autoracconto d’autore) dedicato al suo più recente romanzo intitolato “Qualcosa, là fuori” (Guanda)
“Patria” di Fernando Aramburu è stato – anche nel nostro Paese – uno dei casi letterari (e uno dei romanzi più venduti) del 2017, rientrando nell’ambìta “categoria” di libri che unisce il successo commerciale al grande riscontro di pubblico. D’altra parte non è trascurabile il sostegno che il Premio Nobel per la Letteratura 2010 Mario Vargas Llosa gli ha voluto offrire con la seguente dichiarazione (che leggiamo sulla copertina del libro): «Da molto tempo non leggevo un romanzo così persuasivo, commuovente, e così brillantemente concepito.»
Il romanzo racconta di due famiglie basche che abitano in un paesino dalle parti di San Sebastián. Due famiglie che hanno sempre vissuto all’insegna dell’amicizia e del reciproco sostegno… fino a quando la loro storia non si incrocia con quella dell’ETA e con un attentato terroristico che costerà la vita a uno dei due capofamiglia (il Txato, titolare di una ditta di trasporti, che non si è voluto piegare a messaggi intimidatori a scopo estorsivo ricevuti dall’organizzazione terroristica). Una morte che non crea solo dolore, ma anche divisioni e allontanamenti (per ulteriori dettagli sulla trama rinvio alla scheda del libro inserita alla fine del post).
Rivolgo a Bruno Arpaia un paio di domande su questo fortunato libro da lui brillantemente tradotto…
– Caro Bruno, partendo dal presupposto che puoi godere di una “visuale privilegiata” nel tuo molteplice ruolo di lettore, scrittore, giornalista culturale e (ovviamente) traduttore dell’opera in questione… cos’è che più di ogni altra cosa hai apprezzato in “Patria” di Fernando Aramburu?
«Ne ho apprezzate moltissime, dall’architettura del libro, che manipola meravigliosamente il tempo, alla lingua, capace di spaziare su moltissimi registri e di adattarsi come un vestito ai diversi personaggi. Ed è proprio grazie a queste capacità che Aramburu è riuscito nella cosa, secondo me, più difficile: restituire in maniera perfetta l’ambiente, l’atmosfera dell’epoca nei Paesi Baschi, anche a chi, come me, li aveva frequentati in quegli anni; Aramburu ha saputo raccontare l’impatto della grande Storia e delle sue tragedie sulla vita delle persone comuni, la sensazione di respirare di continuo paura, sospetto, delazione, esaltazione ideologica, spirito gregario, ma anche disagio, ribellione individuale, senso di ingiustizia, pietas. E soprattutto l’ha fatto senza cedimenti «buonisti», ma con grande com-passione, schierandosi senza schierarsi, penetrando a fondo anche nella mente e nelle ragioni dei terroristi e del tessuto sociale che li sosteneva, guardando il male negli occhi, come dovrebbe fare qualunque bravo romanziere. Perché il Male è in ciascuno di noi, e spesso basta un contesto, qualche motivazione, di solito pretestuosa (come il nazionalismo), a cui aggrapparsi, per farlo venire a galla.»
– Quanto tempo hai impiegato a tradurlo? Hai avuto modo di confrontarti con l’autore su alcuni passaggi o non è stato necessario?
«Onestamente, non lo ricordo. L’anno scorso ho tradotto moltissimi libri e ho perso il conto. So soltanto che, per mia fortuna, sono un traduttore veloce; altrimenti, con quello che si viene pagati, il gioco non varrebbe la candela. Noi traduttori italiani siamo svantaggiatissimi rispetto ai nostri colleghi francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli… Quanto al confronto con l’autore, la mia “filosofia” è quella di cercare di rompere le scatole il meno possibile agli autori che traduco, se non in casi davvero eccezionali, anche quando si tratta di miei cari amici. Succede anche a me quando i miei romanzi vengono tradotti all’estero e i colleghi stranieri mi chiedono lumi. Non dico assolutamente che sia una seccatura, anzi: un libro è sempre come un figlio che vorresti mandare in giro per il mondo nelle migliori condizioni; ma certamente bisogna impiegare molto tempo a spiegare, precisare, limare, appurare se in quella lingua eccetera eccetera… Perciò no, non c’è stato motivo di disturbare Fernando e non l’ho mai interpellato mentre traducevo. Ho, invece, discusso a lungo con il direttore editoriale e le bravissime redattrici della casa editrice sull’uso di alcuni tempi verbali e alla fine abbiamo trovato una soluzione soddisfacente per tutti.»
Grande successo qui da noi in Italia, ma – ovviamente – grande successo anche (e soprattutto) in Spagna per Fernando Aramburu. Oltre ad aver vinto il National Criticism, il Francisco Umbral e il Premio Letteratura Euskadi il Ministero della Cultura spagnolo gli ha assegnato il Premio Narrativo Nazionale, del valore di 20.000 euro. Secondo la giuria del premio, l’opera si distingue per “la profondità psicologica dei personaggi, la tensione narrativa e l’integrazione dei punti di vista, nonché per la volontà di scrivere un romanzo globale sugli anni convulsi nei Paesi Baschi “. Un libro che, in Spagna, ha cavalcato l’onda di ben ventidue edizioni e più di 500.000 copie vendute.
[Di seguito: un estratto del libro che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore].
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Le prime pagine di PATRIA di Fernando Aramburu (Guanda – traduzione di Bruno Arpaia)
[Dalla lingua basca: Ama = madre, mamma (si pronuncia amà) – Aita = padre, papà (si pronuncia aità)]
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Eccola lì, la poverina. Va a infrangersi su di lui. Come s’infrange un’onda sugli scogli. Un po’ di schiuma e ciao. Non vede che non si prende nemmeno la briga di aprirle la portiera? Sottomessa, più che sottomessa.
E quelle scarpe con i tacchi e quelle labbra rosse a quarantacinque anni? Con la tua classe, figlia mia, con la tua posizione e i tuoi studi, cos’è che ti fa comportare come un’adolescente? Se l’aita fosse vivo…
Al momento di salire in macchina, Nerea rivolse lo sguardo alla finestra; immaginò che, dietro la tenda, sua madre la stesse come al solito osservando. E sì, anche se lei dalla strada non poteva vederla, Bittori la stava guardando con tristezza e con le sopracciglia aggrottate,
e parlava da sola e sussurrò eccola ll, la poverina, solo un ornamento di quel vanitoso a cui non è mai passato per la testa di far felice qualcuno. Non si rende conto che una donna dev’essere proprio disperata per cercare di sedurre il marito dopo dodici anni di matrimonio? In fondo è meglio che non abbiano avuto figli.
Nerea agitò brevemente la mano per salutare prima di infilarsi nel taxi. Sua madre, al terzo piano, nascosta dietro la tenda, distolse lo sguardo. Al di sopra dei tetti si vedevano un’ampia striscia di mare, il faro dell’isola di Santa Clara, nubi tenui in lontananza. La signorina delle previsioni del tempo aveva annunciato sole. E lei, ah, come mi sto facendo vecchia, guardò di nuovo la strada e il taxi era già scomparso.
Subito dopo, oltre i tetti, oltre l’isola e la linea blu dell’orizzonte, e oltre le nuvole remote e ancora più in là, nel passato perduto per sempre, cercò scene del matrimonio della figlia. E la vide di nuovo nella cattedrale del Buon Pastore, vestita di bianco, con il suo mazzo di fiori
e la sua eccessiva felicità, e all’epoca, guardandola all’uscita, così slanciata, cosi sorridente, così bella, l’aveva colta un brutto presentimento. La sera, quando era tornata da sola a casa, era stata lì lì per sedersi davanti alla foto del Txato e confessargli i suoi timori; ma aveva mal di testa e poi il Txato, nelle questioni di famiglia, tanto più trattandosi della figlia, aveva l’abitudine di diventare sentimentale. Aveva la lacrima facile, quell’uomo, e anche se le foto non piangono, insomma, ci siamo capiti.
I tacchi erano per risvegliare l’appetito a Quique. Non esattamente quello che si sazia mangiando. Toc, toc, toc, li aveva sentiti un po’ prima ticchettare sul parquet. Adesso me lo deride di buchi. Per quieto
vivere, non l’aveva rimproverata. Sarebbero rimasti per poco tempo. Erano venuti soltanto a salutare. E a lui, alle nove del mattino, la bocca sapeva già di whisky o di qualche liquore di quelli con cui traffica.
«Ama, sicuro che te la caverai da sola?»
«Perché non andate in autobus all’aeroporto? Il taxi da qui a Bilbao vi costerà un sacco.»
Lui:
«Non preoccuparti di questo».
Le valigie, la scomodità, la lentezza, spiegò.
«Sl, ma avete tempo, no?»
«Ama, non insistere. È deciso che andremo in taxi. È la cosa più comoda.»
Quique iniziava a spazientirsi.
«È l’unica cosa comoda.»
Aggiunse che andava a fumarsi una sigaretta in strada mentre parlavano. Si era messo un litro di profumo addosso, quell’uomo. Però la bocca gli sa di alcol e sono soltanto le nove del mattino. Salutò guardandosi allo specchio dell’ingresso. Presuntuoso. E poi, autoritario?, cordiale ma secco?, a Nerea:
«Sbrigati».
Cinque minuti, gli promise. Alla fine furono quindici. Da sole, a sua madre: che quel viaggio a Londra significava molto per lei.
«Faccio fatica a immaginare te che partecipi alle conversazioni di tuo marito con i clienti. Oppure, senza dirmi niente, ti sei messa a lavorare nella sua azienda?»
«A Londra farò un serio tentativo di salvare il nostro matrimonio.» «Un altro tentativo?»
«L’ultimo.»
«E stavolta quale sarà la tattica? Gli rimarrai attaccata così non te le mette con la prima che incrocia?»
«Ama, per favore. Non rendermi le cose più difficili.»
«Stai benissimo. Hai cambiato parrucchiera?»
«È sempre la stessa.»
Nerea abbassò di colpo il tono di voce. Ai primi bisbigli, la madre si voltò a guardare verso la porta di casa, come se temesse che qualche estraneo le stesse spiando. No, niente, è che avevano scartato l’idea di adottare un bambino. Da tanto che ne parlavano. Un cinese, un russo, un africano. Un maschietto o una femminuccia. Nerea non aveva perso la speranza, ma Quique si era tirato indietro. Lui vuole un figlio suo, carne della sua carne. Bittori:
«Adesso si è messo a parlare come la Bibbia?»
«Si crede moderno, ma è più tradizionale dell’ arroz con foche.»
Nerea si era informata per suo conto sulle pratiche per richiedere l’adozione e, sì, avevano tutti i requisiti. I soldi non erano un impedimento. Era disposta a viaggiare fino in capo al mondo e a essere
finalmente madre anche se non aveva dato alla luce la creatura. Però Quique aveva interrotto bruscamente la conversazione. No e poi no. «Un po’ insensibile, il ragazzo, non credi?»
«Desidera un maschietto tutto suo, che gli assomigli, che un giorno giochi nella Real Sociedad. È ossessionato, ama. E lo avrà. Uff, quando si fissa su qualcosa! Non so con chi. Con qualcuna che si presti. Non me lo chiedere. Non ne ho la minima idea. Prenderà un utero in affitto pagando quello che c’è da pagare. Per quanto mi riguarda, lo aiuterei a trovare una donna sana che gli faccia passare lo sfizio.»
«Sei fuori di testa.»
«Non gliel’ho ancora detto. Immagino che in questi giorni, a Londra, ce ne sarà occasione. Ci ho pensato bene. Non ho nessun diritto di pretendere che sia infelice.»
Si sfiorarono le guance accanto alla porta di casa. Bittori: si, se la sarebbe cavata da sola, buon viaggio. Nerea, dal pianerottolo, mentre aspettava l’ascensore, disse qualcosa sulla sfortuna, ma che non dobbiamo rinunciare all’allegria. Poi suggerì alla madre di cambiare lo zerbino.
(Riproduzione riservata)
© Guanda
© 2017 Ugo Guanda Editore S.r.l
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La scheda del libro
Con la forza della letteratura, Fernando Aramburu ha saputo raccontare una comunità lacerata, e allo stesso tempo scrivere una storia di gente comune, di affetti, di amicizie, di sentimenti feriti: un romanzo da accostare ai grandi modelli narrativi che hanno fatto dell’universo famiglia il fulcro morale, il centro vitale della loro trama.
Due famiglie legate a doppio filo, quelle di Joxian e del Txato, cresciuti entrambi nello stesso paesino alle porte di San Sebastián, vicini di casa, inseparabili nelle serate all’osteria e nelle domeniche in bicicletta. E anche le loro mogli, Miren e Bittori, erano legate da una solida amicizia, così come i loro figli, compagni di giochi e di studi tra gli anni Settanta e Ottanta. Ma poi un evento tragico ha scavato un cratere nelle loro vite, spezzate per sempre in un prima e un dopo: il Txato, con la sua impresa di trasporti, è stato preso di mira dall’ETA, e dopo una serie di messaggi intimidatori a cui ha testardamente rifiutato di piegarsi, è caduto vittima di un attentato… Bittori se n’è andata, non riuscendo più a vivere nel posto in cui le hanno ammazzato il marito, il posto in cui la sua presenza non è più gradita, perché le vittime danno fastidio. Anche a quelli che un tempo si proclamavano amici. Anche a quei vicini di casa che sono forse i genitori, il fratello, la sorella di un assassino. Passano gli anni, ma Bittori non rinuncia a pretendere la verità e a farsi chiedere perdono, a cercare la via verso una riconciliazione necessaria non solo per lei, ma per tutte le persone coinvolte.
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Fernando Aramburu, nato a San Sebastián nel 1959, ha studiato Filologia ispanica all’Università di Saragozza e negli anni Novanta si è trasferito in Germania per insegnare spagnolo. Dal 2009 ha abbandonato la docenza per dedicarsi alla scrittura e alle collaborazioni giornalistiche. Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, che sono stati tradotti in diverse lingue e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti. Patria, uscito in Spagna nel settembre 2016, ha avuto un successo eccezionale e un vastissimo consenso, conquistando – fra gli altri – il Premio de la Crítica 2017.
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Tutte le puntate di “Vista dal traduttore” sono disponibili qui.
L’introduzione della rubrica è disponibile qui
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