La nuova puntata di Letteratitudine Cinema la dedichiamo a un classico cinematografico: “Persona” film del 1966 diretto da Ingmar Bergman
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PERSONA, TRA INCONSCIO E METACINEMA
di Mario Michele Amato
Persona, capolavoro di Ingmar Bergman del 1966, è intessuto sul rapporto tra immagini e parole che si negano continuamente “perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”. Come già il regista danese Carl Theodor Dreyer, anche Bergman conduce in quest’opera filmica una semplificazione radicale della messa in scena per valorizzare l’espressività chiaroscurale dei volti (i primi piani sono accentuati da uno scolpito e luminescente bianco e nero nella fotografia di Sven Nykvist), il rapporto tra parola e silenzio, tra presenza e assenza della persona. Persona (dal latino «persōna» col significato «maschera» del personaggio, dallo stoicismo in poi viene gradualmente ad assumere il suo significato attuale, la «personalità» per cui un individuo può dirsi persona) è il nostro volto: la maschera che, volenti o nolenti, indossiamo e mostriamo agli altri. Una maschera che a volte pesa quanto una bugia perché non ci appartiene; una maschera che si vorrebbe cambiare per quel bisogno tutto umano di trasferire la propria vita (con tutte le sue contraddizioni, i traumi, le colpe, le paure, i desideri) a un’altra persona. Questo accade alle protagoniste del film, le quali confessandosi l’una all’altra finiscono, pur nel distacco esistenziale, per identificarsi. Il tentativo di trasferimento della propria persona nell’altra avviene più volte attraverso elementi latenti che, incastrati l’uno dentro l’altro, si rivelano gradualmente in maniera circolare.
Riavvolgiamo la pellicola per ricordare il movente del film: l’elemento scatenante della storia è il mutismo dell’attrice Elizabeth Vogler[1] (Liv Ullmann). In seguito alla sua interpretazione dell’Elettra, come lei stessa confesserà, si era sentita pervadere da una smania irrefrenabile di ridere e da quel momento aveva smesso di parlare. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, la diagnosi è rivelatrice: l’attrice non è affetta da afasia (riesce tra l’altro a comprendere e ad ascoltare in maniera lucida e penetrante), ha solo scelto volontariamente di non parlare più. Rifugiatasi in una casa al mare insieme a un’infermiera (Bibi Anderson) incaricata di seguirla durante il suo periodo di riposo, isolate entrambe dal resto del mondo, le due donne iniziano a conoscersi: Alma vede nella nobile scelta dell’attrice di rinchiudersi nel suo silenzio un gesto di nobiltà femminile. Sentendosi a suo agio e libera di aprirsi, l’infermiera si lascia andare come non aveva mai potuto fare prima, conscia del fatto che le persone sono più interessate a raccontare se stesse piuttosto che ad ascoltare gli altri. Così arriva a rivelarle involontariamente un suo oscuro segreto, un’orgia a cui aveva partecipato anni prima. Tuttavia, quando Elizabeth la tradisce scrivendo quella confessione in una lettera, l’identificazione tra le due donne si spezza.
Ma sotto l’apparente stato della scissione, anche Elizabeth nasconde un segreto che ha lo stesso peso oscuro di quello dell’amica: il suo mutismo deriva da una maternità mai accettata, mai desiderata, mai risolta: non a torto una delle scene del film che sono rimaste più impresse nell’immaginario collettivo è quella iniziale in cui un bambino, risvegliatosi in un obitorio, tocca lo schermo della cinepresa: cinepresa che (attraverso uno stacco meta-narrativo) mostra ora se stessa con il volto della madre: lo schermo così riflette il volto di Elizabeth (che si confonde impercettibilmente a quello dell’amica Alma), nell’atto di separazione (una rappresentazione della separazione) dall’amore impossibile per suo figlio. Mentre il bambino continua ad accarezzare in maniera struggente lo schermo raffigurante il (doppio) volto della madre, questa chiude gli occhi.
L’atto dello scrivere la lettera per rivelare il segreto dell’amica si rivela un modo indiretto di Elizabeth per accusare se stessa, per liberarsi della sua terribile colpa di non voler essere madre. Questo tematicamente è già radicale, due rivelazioni tabù per le donne, entrambe collegate alla sessualità: il piacere e il dovere diventano un peso invivibile per l’una e per l’altra.
Le sceneggiature di Bergman sfiorano altitudini letterarie profonde, tanto che egli è da considerare uno scrittore prima ancora che un regista, anzi la regia è al servizio della sua scrittura, senza la quale si annullerebbe il sospiro metafisico che contraddistingue la sua opera. In “Persona” questo doppio piano della scrittura è particolarmente accentuato, per non dire rivelatore di un film tra i più complessi e profondi mai creati. L’identificazione tra le due donne è resa cinematograficamente attraverso un’intuizione che la dice lunga sul valore del cinema “artigianale”, quando si sperimentava direttamente durante la produzione lavorando sulla composizione del profilmico o in post-produzione ritagliando i fotogrammi della pellicola, ricucendoli e sovrapponendoli. Le due donne, durante una notte che risente delle parole e dei silenzi confessatesi, immerse in un’atmosfera surreale creata da una controluce in cui si muovono silenziosamente le tende, si stringono l’un all’altra in una morsa segreta: voltandosi, si specchiano nella cinepresa stessa, fissando il loro sguardo nell’obiettivo, rompendo così la finzione cinematografica rappresentata dalla quarta parete[2]. Questo momento ritornerà più volte nel film, come a volersi rivelare gradualmente. Le donne stanno guardando, riflettendosi, dentro se stesse: l’una nell’altra presentono il confine del proprio corpo, del volto e degli occhi, staccarsi in trasparenza fino a confondersi. Cercano l’una rifugio e salvezza nell’altra, quasi in un’identificazione che le dissolva dalla corporeità, dal peso del loro passato.
“Persona” è uno dei rari film tutto al femminile in cui l’anima di una donna è incisa sullo schermo nella sua purezza, deturpata dello sguardo maschilista in anni cinematografici in cui esse erano più oggetti del desiderio che non soggetti del proprio desiderio. Questa femminilità dell’anima è rappresentata anche a livello formale: il film è scisso nella sua struttura in due parti speculari: i due punti di vista delle donne si ripetono da prospettive diverse, ora inquadrando il viso dell’una mentre si confessa, ora inquadrando l’altra per mostrarci le sue reazioni. Fino a incrociarsi nella scena dello “specchio” in cui il film, come detto prima, sfiora il punto estremo di unione, d’identificazione, di sintesi.
Quando la storia sembra stia pian piano manifestando la sua trama segreta, tra lunghi monologhi e distesi silenzi, accade qualcosa di inatteso, una scena che resta tra le più oscure, originali e impressionanti del film.
Elizabeth guarda da fuori attraverso la finestra Alma che si trova in casa: tramite una soggettiva vediamo ciò che lei vede: lo schermo si blocca sul volto di Alma, si delinea, si scuote, si graffia in un suono stridente, si brucia nella pellicola stessa: compaiono in un vortice accelerato una serie di fotogrammi apparentemente sconnessi, alcuni dei quali erano apparsi già nella sequenza iniziale: nello scorrere di una pellicola si mescolavano un pene in erezione (censurato all’epoca), la proiezione di un cartone animato, le mani di un bambino, un ragno, le budella di un agnello, una gag di Charlie Chaplin, un primo piano di un occhio che lascia vedere la cornea, un martello che pianta un chiodo su una mano, simbolo quest’ultimo del dolore universale caro al suo autore. Quindi vediamo sfocatamente avvicinarsi Elizabeth: l’immagine di lei si fa nitida e riprende la narrazione diegetica dalla prospettiva interna. Elizabeth che stava guardando Alma, vede nuovamente se stessa. Bergman ci ha condotti, sotto l’apparente quiete della realtà, nel sottosuolo dell’anima, dove il disagio, il trauma e il caos contrastano con ciò che le donne mostrano o devono mostrare di sé: l’interiorità fa così visivamente irruzione nella scena e scuote l’apparente maschera della serenità. Ciò che non poteva essere comunicato, che non poteva essere visto (che si manifesta talvolta in gesti e sguardi inaspettati, inspiegabili, irrazionali, in parole che, non riuscendo a trattenersi, fuoriescono a pressione) trova nel flusso di coscienza della pellicola stessa la sua massima espressione. Ma prima di ritornare su questa sequenza iniziale del proiettore che si interpone più volte e si confonde con il film stesso, c’è ancora un punto rivelatore e risolutore circa l’identificazione delle due donne.
In una delle scene finali, Elizabeth si addormenta mentre Alma le sta parlando a pochi millimetri dal petto: sogna che suo marito venga a prenderla, ma sostituisce la sua persona con quella dell’amica, così da potersi liberare del peso di una vita che non vuole vivere. La voce fuori campo del marito chiama il suo nome, ma la cinepresa rimane nella stanza ed è Alma a dire ad Elizabeth nel sonno (ma siamo già nel sogno senza che Bergman abbia fatto stacchi discontinui): “Ti chiama di nuovo. Vado a sentire che vuole da noi. Qui nella nostra solitudine.” Così arrivata davanti al marito (che rimane inizialmente fuori campo), mentre questi le confida verità sull’amore, lei s’affretta a dirgli di non essere sua moglie. Elizabeth s’avvicina dietro Alma, guarda e ascolta, finalmente con il giusto distacco, la sua vita adesso trasferita nel corpo dell’amica. Prende in mano la mano di Alma e tocca il volto del marito (che scopriamo essere Gunnar Björnstrand, uno degli attori feticci del regista svedese). Adesso Alma è Elizabeth e riesce ad amare suo marito, la sua vita e il suo bambino. Nell’inquadratura successiva Elizabeth è alle loro spalle, li sente ma non li vuole guardare. L’idillio d’amore dura poco perché nello stacco seguente si trovano tutti e tre nella camera da letto: qui anche Alma vuole liberarsi del marito. Elizabeth, rimasta in silenzio, non riuscendo più a sopportare la finzione di quella felicità, urla attraverso il corpo di Alma, colpevolizzandosi del suo non potere e non volere essere una buona moglie e madre. Non potendo accettare la propria colpa, Elizabeth usa il corpo e la voce dell’amica per parlare con se stessa. Ma il trasferimento della propria persona nell’altra si rivela illusorio, perché ogni vita nella sua singolarità (fatta di ricordi, scelte, desideri) è irreversibile. Prima o poi, sembra volerci dire l’autore, i demoni tornano a perseguitarci e l’unico modo per scacciarli è quello di tenerseli accanto, perché “forse si diventerebbe persino migliori se ci si accontentasse di essere come si è.”
Non bisogna dimenticare che Bergman è un autore moderno e il cinema della modernità, la nouvelle vague anzitutto, non è interessata a raccontare storie logiche e conclusive come faceva il cinema classico, ma tenta invece di smantellare il film a livello critico, a scomporlo nella sua artificialità narrativa, a mostrare i meccanismi cinematografici nell’accadere stesso degli eventi. Meccanismi cinematografici che nel regista svedese (a differenza di un profanatore come Jean-Luc Godard) rivelano, in un’analogia che trova una felice sintesi, i meccanismi spirituali: il flusso di coscienza della sequenza iniziale e centrale ritorna per concludere il film. Il proiettore (uno dei titoli provvisori del film era appunto “Cinematografo”) mostra se stesso mentre la pellicola inizia a bruciare. Lo schermo in cui le due donne si sono specchiate per guardarsi in faccia oltre la maschera, non può penetrare il loro ultimo segreto. La vita per Ingmar Bergman non è più vera della finzione dello schermo che la riflette “come in uno specchio”. L’opera artistica resta l’unico potente strumento per rappresentare il dramma interiore, per tentare di chiarirlo, per avvicinarsi a comprendere chi è la nostra «persona».
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[1] Qui «persona» assume il significato originario di maschera del personaggio: scopriamo che la protagonista è una donna che convive con le proprie maschere interiori e lo fa oltretutto per mestiere.
[2] Già in Monica e il desiderio del 1953, Bergman si era avvalso di questo espediente. La protagonista (Harriet Andersson), dopo una vita dissoluta, in preda al pentimento e alla dissoluzione dell’anima, accende una sigaretta e guarda verso la macchina da presa. Fu un primo piano che fece scalpore non solo per la durata (circa 40 secondi), non solo perché rompeva i meccanismi della finzione classica, ma anche per lo sguardo ambiguo, contraddittorio e oscuro di un’anima femminile.
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