Che rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?
Pensando alla letteratura del passato (italiana e internazionale)… in quali opere il corpo, la “fisicità”, diventano elementi caratterizzanti delle opere medesime?
E nell’ambito della letteratura contemporanea?
Quale romanzo scegliereste come testo rappresentativo del rapporto “corpo/letteratura”? E perché?
Pongo queste domande prendendo spunto da un testo inviatomi dalla scrittrice Barbara Gozzi: i corpi nella letteratura italiana contemporanea. Un testo che sintetizza un progetto (maggiori dettagli qui e qui).
Avremo modo di parlarne con Barbara, che ci spiegherà meglio come è nato il progetto e quali sono gli obiettivi.
Intanto, vi invito – se ne avete voglia – a provare a rispondere alle domande di apertura del post.
Di seguito, il testo di Barbara Gozzi.
Massimo Maugeri
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Progetto “i corpi nella letteratura italiana contemporanea“: ragioni, obbiettivi, contenuti, appartenenze.
di Barbara Gozzi
Leggo, studio, scrivo, analizzo, confronto, ascolto, sostanzialmente seguo e lavoro entro letteratura, editoria e storie ormai da diversi anni entro tempistiche differenti, parallele ma parzialmente sfasate da crescita, opportunità e ritmi.
A inizio 2009 ho avvertito una sorta di ‘smarrimento’. Da alcuni anni concentro il lavoro verso libri e scritture recenti, di autori italiani contemporanei. Eppure qualcosa mi sfuggiva.
In seguito ho avuto la netta impressione che ci fossero leitmotiv, ci ho sentito nelle diversità, pulsioni verso elementi comuni ovvero ‘i corpi‘. Mi sembrava, insomma, che i corpi nei libri degli scrittori contemporanei che andavo leggendo e analizzando, iniziassero a prendere forme precise, usi consapevoli, fossero più ‘fondamenta’ di quanto lo erano stati nei decenni precedenti. Dunque i corpi come elementi narrativi che parlano, che si impongono nei tessuti quanto nei simbolismi, nel modo di narrare, esprimere, sentire, nel tentativo di trasferire al lettore una carnalità che buca la bidimensionalità delle parole scritte e si tende ad ‘altro’.
Riprendendo letture e studi della letteratura del secolo scorso (attività tutt’ora in corso), osservando ciò che è stato ‘dei corpi’ nel novecento e incrociandolo con quanto ho fin ora percepito dai corpi scritti dai contemporanei (evidentemente in divenire), ho come ‘inchiodato’ di fronte a uno sbarramento improvviso: l’identità.
Nell’ultimo anno, inoltre, altre persone, entro scambi, discussioni, incontri, hanno rilevato, manifestato e condiviso da angolazioni differenti, somiglianze nei pensieri, nei dubbi verso identità e corpi.
Sono dunque arrivata a un’impressione ovvero che la letteratura italiana contemporanea si sta muovendo. Piano. Lentamente. A scatti forse. Entro ristagni, silenzi, prove anche solitarie. Eppure nelle scritture, entro maglie di voci e storie, io credo sia in corso un certo ‘dissidentismo’.
Dissidentismo rispetto a ciò è diventata la letteratura in Italia, scivolando in appiattimenti, discussioni e tendenze alla moda.
Dissidentismo rispetto all’identità individuale di chi scrive, di chi impasta storie che si tendono a lasciare ‘qualcosa’ oltre le mere emozioni usa e getta, specchio del nostro tempo, di una società in corsa ma incapace di trattenere e scavare.
I corpi sono un nodo, è ciò su cui sto riflettendo.
Anche la mia identità, mia come persona che legge, studia, lavora e scrive entro la letteratura (in senso ampio) è soggetta a tutte queste oscillazioni.
Posso sapere consapevolmente chi sono, ciò che sono senza tentare di capire ciò che sono e dove stanno andando gli altri attorno a me? Gli altri che, come me, affondano le braccia nella letteratura?
Il progetto ‘I corpi nella letteratura italiana contemporanea‘ è l’unica risposta che sono riuscita a darmi.
Sono necessarie, però, delle precisazioni semplici.
Parlare e scrivere di letteratura sono attività frequentemente assorbite come ’individuazione di ciò che ci sopravvive’. Di una dimensione da ’residuo duraturo’. Un qualcosa destinato a essere insegnato, magari tra i banchi, o comunque ricordato entro allocazioni preziose, luccicanti. Entro un tramandare per non dimenticare. Per non lasciar morire.
Ma ciò che tra venti, quaranta, sessanta e più anni sarà considerato ’il peso di una scrittura necessaria, rappresentativa di questa società’; questo peso muterà forme, sostanze, opinioni, analisi per altri venti, quaranta, sessanta e più anni.
Rapportarsi lucidamente, passionalmente e visceralmente con gli autori italiani contemporanei, le scritture, le storie e le voci; tutto questo non sottintende – nelle mie intenzioni – un altro rispetto ai significati delle parole stesse: lettura, studio, ascolto, riflessione, confronto.
I libri, gli autori, le storie che le future generazioni sceglieranno di leggere, ascoltare, considerare non possono emergere oggi nell’oggi.
Questo progetto parte proprio da qui, dalla non-ricerca di ’vincitori’. Gli scritti oggetto di scavi, interrogazioni, riflessioni, connessioni vengono ripresi per essere ascoltati. Per offrirsi a comprensioni, collegamenti.
Questo è l’approccio, questo è il corpo del progetto.
Partire da parole, dalla carne nelle parole.
Allungarsi, ove possibile, alle voci, gli autori, gli intenti.
Digerire sensi, percezioni.
Tenderli verso comprensioni, verso eventuali fili che passando uniscono. La letteratura di oggi nell’oggi. Le identità che attraverso le parole sono forme forse riconoscibili. Gli strumenti che dalla lingua, saltano pagine e supporti bidimensionali, per conficcarsi. Da qualche parte.
E questi sforzi riunirli in uno scritto (una forma aggregativa di contenuti, riflessioni, spunti, analisi, stralci) e diffonderli attraverso contatti. Contatti aperti a tutti entro eventi, iniziative ’concrete’, piccole e grande, lunghe o corte, vicine e lontane, tutto quello che si potrà a partire dal 2010.
Infine, precisazione non ultima per importanza: l’appartenenza.
Non si tratta di chiudersi ma di aprirsi. Non è ricerca del nuovo ‘fenomeno mediatico’ da lanciare con l’intento di colpire e veicolare attenzioni. Non si discute di ‘forme’ ma di sostanze, polpe di lingue, voci, storie, dove c’è – evidentemente – spazio necessario alle forme delle scritture, ma non alle apparenze che attorno ai libri ruotano (e che comunque sempre ci saranno).
Il progetto non sarebbe tale, insomma, senza collaborazioni, confronti, consulenze. Non soltanto di chi ha scritto (o lo sta facendo), interpretato, espresso, questo sentire entro-per-sui-attorno ai corpi nella letteratura italiana recente, ma anche grazie all’aiuto prezioso di chi tali sentire li ascolta e si impegna a divulgarli.
Progetto ambizioso, me ne rendo conto. Ma che non ha scadenze, obblighi men che meno pretese da ‘raggiungimento di mete prefissate’.
Forse si arriverà a constatare che ciò che ho avvertito era errato. Che non c’è nessun collegamento, che non c’è movimento nella letteratura italiana contemporanea.
O forse chissà.
Non sento importante definire un punto di arrivo preciso, entro il corpo del progetto, piuttosto una modalità che permetta di seguire le necessità di comprensioni, divulgazioni, ascolti, recuperi anche dell’operazione più comune ovvero la lettura.
Barbara Gozzi
novembre 2009
Come avete capito l’idea per la pubblicazione di questo post mi è venuto dopo un piacevolissimo scambio con Barbara Gozzi…
Barbara sta portando avanti uno studio molto originale e interessante basato sul connubio tra letteratura e corpo.
Leggendo il testo di Barbara capirete megllio di che si tratta.
Trovate approfondimenti qui: http://www.agoravox.it/tempo-libero/cultura/Parlare-e-scrivere-di-letteratura
e qui: http://progettobutterfly.splinder.com/post/21649350/Progetto+%27i+corpi+nella+letter
Insomma: letteratura e corpi, letteratura e fisicità…
Ne potremmo discutere.
Come al solito, per favorire il dibattito, ho preparato qualche domandina.
Ve le ripropongo di seguito…
Secondo voi che rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?
Pensando alla letteratura del passato (italiana e internazionale)… in quali opere il corpo, la “fisicità”, diventano elementi caratterizzanti delle opere medesime?
E nell’ambito della letteratura contemporanea?
Quale romanzo scegliereste come testo rappresentativo del rapporto “corpo/letteratura”? E perché?
Quando la letteratura prende corpo, dunque (questo il titolo del post).
Be’, spero che anche questa discussione – con i vostri contributi – possa prendere corpo. :-))
Chiedo a Barbara di intervenire in maniera cospicua e di fornire ulteriori dettagli su questo progetto.
E a tutti voi di interagire con lei (provando – se volete – a rispondere alle domande del post).
Una serena notte a tutti.
Per quanto ne so io, nella lettura c’è molta interpretazione personale, perché ogni lettore fa inconsciamente della proiezione mentale di se stesso e delle proprie esperienze. Per tutta scrittura anche chiara ed esplicita, c’è l’interpretazione del lettore che compie questo processo come auto-difesa contro l’invasione del proprio territorio, del proprio spazio-ego e delle proprie idee, per cui egli non puo’ assimilare il contenuto di un libro se prima non lo analizza ed interpreta a modo suo, secondo le sue convinzioni ed i suoi bisogni più reconditi. Per cui quando un autore scrive, lo fa per se e non per un pubblico. Lo fa per le sue proprie convinzioni e i suoi propri bisogni, astrazione fatta di ogni altra considerazione. La sua opera verrà immancabilmente letta da coloro che avranno bisogno del messaggio veicolatovi e che non sarà palese ad altri. Dixit.
Eccomi qui.
Innanzi tutto ringrazio Massimo, sensibile, attento e disponibile come sempre. Cercherò sì di essere presente il più possibile. Il progetto che curo credo si capisca (quanto meno nell’ossatura) già dai testi segnalati in questo post. Mi farebbe molto piacere se in questo spazio aperto, si potessero iniziare ascolti, confronti, idee, suggerimenti, percezioni. Io sono partita da un ‘certo sentire’ che mi è arrivato dopo uno ‘smarrimento’ legato alle scritture italiane contemporanee. Una ‘sabbiolina’ latente, che mi rimaneva spesso tra le dita dopo aver letto, studiato e analizzato. E dal momento che la sabbia può essere fastidiosa se rimane appiccicata tra la pelle… 😉
Intanto buona giornata a tutti!
Non so se la letteratura ‘prende’ i corpi. Nel senso ho più l’impressione sia attualmente in Italia una sorta di ‘ritrovo’, non proprio recupero perchè di fatto nelle narrazioni i corpi ci sono sempre. Ma da elementi obbligati, comparse, soprammobili, mi pare si stiano facendo largo. Entrano nei tessuti. A volte parlano direttamente, questi corpi. Sono protagonisti, hanno una lingua, comunicano con il lettore la carne delle parole entro storie, voci.
“Aspetto dieci minuti, i respiri che prendono forma; mi giro sulla pancia, riaccendo e metto subito le mani a conca intorno alla luce. Resto fermo qualche secondo, la luce che dentro la grotta delle dita si fa arancione. Studio il dorso delle mani, la forma delle falangi, lo stacco rosa scuro delle unghie contro i polpastrelli; esamino anche le ossa, mi sento informe. Poi un po’ leggo sfogliando piano, sentendo le vibrazioni della carta, un po’ poso la testa sul giornaletto, l’orecchio contro i disegni, e chiudo gli occhi per qualche minuto.”
(pag.37 – il tempo materiale di Giorgio Vasta, Minumum Fax 2008)
Argomento interessante e questione ben posta. Ora sono in partenza ma ritorno a dire la mia.
Mi permetto di aggiungere che Barbara sta lavorando intorno a questo tema da molto tempo (verticale e orizzontale, la misurazione del tempo funziona in tutti e due i modi), di lei apprezzo l’apertura al dialogo senza preconcetti, slogan o rigidità ideologiche. Perché, come abbiamo potuto dirci anche via mail, parlare del corpo senza pensare a nuovi modi per parlarne, non ha alcun senso. Prima ancora di pensare a chi rivolgersi, sarebbe opportuno trovare parole nuove per dire e per affermare un femminile NON diverso, ma finalmente compreso. Ognuno ci prova con i mezzi che ha. La scrittura, l’arte, la musica, e la vita.
buona giornata
Elisabetta
ho proposto uno brevissimo stralcio da ‘il tempo materiale’ perchè lo sto studiando ora, in questi giorni. In giornata appena potrò proporrò altri brevi stralci di lingue. Sempre nell’ottica da ‘non vincitore’ bensì da mero ascolto. mi piacerebbe si ripartisse ad assaporare la lingua, i suoi usi, ciò che scatena, le visioni, le voci e le storie che si diramano tra parole che possono anche avere spessori, aderenze carnali secondo me. possono, anche il suo contrario ovviamente.
Ah. E sempre nell’ottica parziale delle umane possibilità di lettura e studio. Non c’è assolutismo nel mio lavoro. E sicuramente c’è moltissimo ancora da fare. Sebbene da qualche ‘parte’ bisogna comunque e sempre partire.
Grazie Elisabetta.
Il senso dello ‘smarrimento’ nella letteratura che fin ora ho potuto affrontare è anche questo. Mi pare ci sia una flessione che nella lingua manifesta un nuovo modo di approcciarsi ai ‘corpi’. Questo in generale. Perché, come precisa anche Elisabetta giustamente, oggi in Italia, ci sono palesi implicazioni sociali, politiche, morali, commerciali, di fedi varie e intenti attorno ai ‘corpi’. E credo sì, sia impossibile svincolarsi, ignorare completamente queste dinamiche che in realtà ci colpiscono ovunque nel quotidiano. La letteratura probabilmente sta assorbendo. Ogni autore a modo suo, coi propri tempi, stili, logiche anche di intenti. Non c’è un’unica direzione. E aggiungo ‘fortunatamente’. L’importante sarebbe afferrare un’ ‘identità’ entro i corpi, secondo me. ‘Identità’ come individui (tutti, che si scriva o si faccia altri mestieri). ‘Identità’ di chi scrivendo narra, espandendo sensi, visioni, storie…
barbara, è interessantissimo lo studio e il progetto che tu proponi. e quello del rapporto tra corpo e letteratura mi pare un ottimo argomento di discussione.
molto centrate, come sempre, le domande di massimo. e, come sempre, prima di tentare di rispondere ci voglio pensare molto bene. 🙂
@ barbara
hai mai pensato di esaminare il rapporto tra letteratura e corpi anche rispetto allo spirito?
cioè, secondo me nella società di oggi (quella occidentale) c’è ancor più che in passato uno scollamento tra sfera corporea e quella spirituale.
secondo te di questo scollamento ne risente anche la letteratura?
massimo, scusa se mi metto anche io a porre domande….. ma tu fai prendere gusto.
però in effetti il rapporto tra corpo e spirito in letteratura potrebbe essere una altro elemento di discussione in questo dibattito, no?
Ci tengo a precisare un altro ‘nodo’ sul quale credo ci sia bisogno di molta trasparenza. La fenomenologia. Qui, in questo spazio, e nel mio progetto, in ciò che faccio, non c’è alcun intento legato ‘al lancio di una nuova moda’. Le tematiche dentro, attorno ai ‘corpi’ non solo non sono nuova in letteratura, men che meno sono state taciute oggi ma anche in passato. Il punto che vorrei ‘inquadrare’ è ‘la polpa’ della lingua, delle scritture, del narrare. Riprendere in mano storie e tentare di ascoltarle. E ascoltandole capire se quella sabbiolina che ho io tra le dita c’è, oppure no. E se quella sabbiolina è destinata a rosicchiarci qualche strato superficiale di epidermide, se lascerà tracce insomma, spostando magari ‘gesti’ o approccio, oppure il contrario se è ‘illusione momentanea’ destinata a svanire come un ologramma.
Della letteratura italiana si dibatte spesso in termini disfattisti. Le percezioni anche fuori i confini non sono quasi mai edificanti. Che non vuol dire non ci siano best seller o autori e libri ‘acquistati’. Non è un affondo commerciale, entro logiche di mercati, domande e offerte e scelte aziendali. Si tratta di ‘coltivazione’. Si tratta di leggere una scrittura qualunque e notare, se possibile, il sapore che è arrivato alla lingua o i tremori alle mani, i borbottii dello stomaco, le contratture della fronte.
mi fa piacere trovare qui uno spazio dedicato a questo aspetto significativo nella letteratura contemporanea: il corpo.
mi fa piacere ritrovare qui gli spunti di barbara gozzi, che già ho avuto modo di leggere e con cui mi piacerebbe confrontarmi, perché in questo periodo sto interessandomi in modo particolare alla letteratura contemporanea italiana scritta dalle donne (e non dico al femminile per ragioni che in questo contesto sembrerebbero fuori luogo).
il mio lavoro, le mie ricerche si stanno concentrando su autrici giovani. l’intento è quello di capire non soltanto dove stia andando “questa” letteratura, ma di tracciare (laddove possibile) le linee della sua identità. ecco. il corpo in questo ambito è risultato uno degli elementi fondanti della scrittura in particolare delle donne. il corpo negato (insieme alla voce) fino a poco più di un secolo fa, oggi parla, si esprime, in modo assolutamente unico e differente rispetto a quelle che banalmente si possono intendere le dinamiche di una scrittura maschile (che con il corpo non ha mai vissuto un rapporto di negazione, scissione).
trovo in questa ottica molto significative le opere di due autrici: la stanza di sopra della Postorino e in tutti i sensi come l’amore della Vinci. il discorso ovviamente è lungo e complesso. sarebbe bello poterlo sviscerare in un dibattito a più voci. ora ho molta curiosità di conoscere il pensiero di barbara e il vostro riguardo questo binomio: corpo e scrittura delle donne.
lucia ravera
@Letizia è un ottimo spunto entro cui ‘indagare’. Secondo me lo scollamento c’è già stato, ma ammetto di non essermici ancora del tutto addentrata. Nel senso che mi pare di percepire più un ‘ricollegamento’ ora tra corpo e spirito, piuttosto che una divisione netta. Anche perchè, andrebbe chiarito cosa si intende quando si usa la parola ‘spirito’. E in che senso ‘corpo’ e ‘spirito’ possono essere ‘entità’ separate.
Provo a scrivere qui con sintesi brutale due cose che con Barbara e altri ci siamo già detti. In questa cosa del corpo io vedo due (orrendo, lo so) tendenze: da una parte il corpo come luogo d’elezione se non esclusivo per il transito del male, in una specie di emozione apocalittica che io trovo più maschile; dall’altra, il corpo come tramite all’esperienza; di male o di bene non importa: esperienza di vita, direi. Di ciò di cui, appunto, non è possibile dubitare.
In questa bipartizione, vedo nascere una sorta di letteratura che mi viene da definire «religiosa», percorsa da turbamenti vetero o neotestamentari, e se dovessi dare un colore a tutto questo sceglierei il nero.
D’altro lato, leggo molte cose di viscere aperte, di vite – e corpi – per lo più dolenti; e se dovessi dare un colore anche a questo sceglierei il rosso.
@Lucia, ma che piacere! Grazie per la condivisione e i sentire. C’è molta carne al fuoco, direbbe qualcuno… 😉
Confrontiamoci pure quando vuoi.
La scrittura di Rosella Postorino ha una sua dimensione, un suo corpo assolutamente e ‘La stanza di sopra’ (che fa parte anche del mio progetto) lo testimonia. Ma anche ‘L’estate che perdemmo Dio’ ha molta ‘pelle’ tra dilazioni e snodi.
grazie, barbara. la mia sensazione è che questa nostra società che vive nella fretta e spesso in superficie, tenda sempre più a concentrarsi nell’ambito corporeo (inteso in senso estetico e non solo) piuttosto che in quello spirituale (inteso nel senso di cura del proprio mondo interiore). mi domandavo se questo aspetto merita di essere approfondito e se questa percezione trova riscontro anche in letteratura.
il rapporto tra letteratura e corpo è più al maschile o al femminile?
avete citato la postorino e la vinci.
però barbara ha nominato anche giorgio vasta.
comunque, la discussione per me è molto interessante. continuerò a seguirvi con attenzione.
In mezzo ci sono altre tinte e altri corpi di carne letteraria, e son quelli verso i quali da lettrice (ma forse anche da scrittrice) sento più attrazione.
@Federica eccoti. Grazie.
Federica ha molto da dire sull’argomento. Sui sentire. Sui corpi. Sulle narrazioni. E devo ammettere (lo faccio sorridendo) che questo è uno degli aspetti che più mi fa piacere, del portare avanti un progetto sulla letteratura, ovvero la possibilità di diramarsi, aprirsi, agli spunti, gli ascolti, gli assorbimenti degli altri. La possibilità di ascoltare ciò che altri hanno avvertito e da lì partire a ragionare, tentare virate, nuovi affondi. Diverse letture degli ultimi mesi mi sono state segnalate, suggerite o solleticate comunque da scambi. E di questo arricchimento ringrazio di cuore tutti quelli che condividendo anche con me, aprono spirargli, muovono ‘neuroni’ come dico spesso.
Nei libri di Stephen King, per esempio, il riferimento alla corporeità ( non solo in senso ‘splatter’) è sempre stato caratterizzante, sin dalle prime opere.
Vi ricordate il romanzo Carrie? uno dei primi.
Il rapporto difficile della protagonista con il proprio corpo, la sindrome mestruale (e premestruale), la metamorfosi dell’aspetto fisico.
@Riccardo io strapperei da subito le targhe in generale. Nello specifico quelle di genere. Davvero. Io non credo ci sia una genere in questo contesto. Non se ragioniamo su autori italiani di oggi. Mi vengono in mente Dadati, Mancassola, Falco, Pasa, Tonon, Paolin, Vasta sì assolutamente. Ma ripeto: non è questione statistica. Non è classifica. Non ci sono premi. Dunque io ci ho sentito brandelli anche in Postorino, Patelli, Pugno, Mazzucato, Bucciarelli, Sgaggio (appunto)… e sono tutti esempi. Federica ragionava entro linee di sentire sui corpi.
@ Letizia, e se riappropriarsi del corpo (in tanti modi) fosse invece urgenza di ricarezzare, coltivare, trovare, sentire fortemente il proprio ‘dentro’? In alcune narrazioni il corpo che parla lo fa proprio per spiegare, esprimere, suggerire ciò che dentro il personaggio accade, ad esempio. Senza bisogno che lo dica il personaggio stesso magari pensandolo o in un discorso diretto. Un corpo incurvato, rattrappito, descritto nelle pieghe in un momento di abbandono, ad esempio, in una storia può anche essere comunicazione di ferite interiori, di fatiche e dolori che trovano spiegazioni nei precedenti snodi narrativi.
@ Letizia, la società si avvale spesso dei ‘corpi’ come involucri. Li usa. Li stupra. Li possiede. Li strumentalizza. Li rende vuoti poi li glittera. Questo è un fatto tangibile, secondo me entro marketing, massmedialità, mode, ma anche serie tv a volte, film al cinema…
Il corpo diventa facilmente ‘oggetto potente’. Da lanciare addosso per formare anche ‘pensieri’ e ‘logiche’ utili a un dato fine.
Ma ciò che fa la letteratura può non essere questo.
Io credo che scrivere sia esattamente il suo contrario oggi. Scrivere di corpi, inserirli scrivendo, dar loro consistenze, voci, espressioni tangibili, sentire, metterli in primo piano, descriverli con nuda onestà… tutto questo può diventare anche un modo per ‘riempire il contenitore imposto’.
[gli autori e le autrici che ho citato sopra sono alcuni esempi, lo risottolineo, il lavoro è in divenire, studio continuamente. ho scritto alcuni nomi per dare appunto una ‘materialità’ tangibile ai sensi. ho scritto quelli che avevo in mente in quel momento. Non c’è senso da circolo, da standard di vendite, men che meno da vassallismo. e ci tengo che sia trasparente tutto questo. che ha a che fare anche con chi sono io, come lavoro, cosa cerco di afferrare e magari lasciare, capire entro le mie imperfette capacità, i tempi e gli spazi che come tutti incastro nel mio vivere ogni giorno.]
barbara, mi hai convinta 🙂
@Giacomo Rodi. E’ vero. Quanto tempo è passato da quando lessi e rilessi ‘Carrie’…
Un esempio è proprio riscontrabile proprio all’interno di questo blog. Non so sei d’accordo, Barbara Gozzi
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/05/letteratura-e-obesita-kaddish-di-francesca-mazzucato/
Auguri per il tuo lavoro.
@Maria Consoli grazie.
@Barbara complimenti e auguri per il tuo progetto così interessante e necessario.
IL corpo è letteratura,ci respira dentro,palpita vive e muore. Si trasforma e trasmigra dal soggetto all’oggetto.Penso anche all’uso delle parole:quando diciamo “nel corpo del testo”,bello no?Inoltre penso agli scrittori del novecento,per aggiungere al vostro pensiero sugli scrittori contemporanei,che del corpo hanno parlato e sottolineato in un passaggio epocale.Pasolini, il corpo come simbologia di un pensiero che muta (Il discorso sui capelli), Teorema da cui l’eros sconvolge e può mutare le coscienze, ma anche Morante e Moravia.Ancora più la passione di D’Annunzio,Il corpo cantato nella poesia.Ma il corpo è anche ferito,dilaniato nel pulp,nell’effeto splatter.Potremmo chiederci il perchè della necessità di ferire e dilaniare il corpo in maniera così evidente,forse proprio per riafferrarlo nel momento in cui il corpo troppo esibito ci sfugge ?Io credo che oggi come non mai ci sia il bisogno profondo di risentire la corporeità,attraverso tutti i sensi, anche in letteratura,quando nel reale si perde il valore dello spazio del desiderio,dove il corpo immaginato cresce a dismisura dimenticando,obliando il corpo fisico.La perdita della contiguità dei corpi del respiro che si nutre di vicinanza e si fà calore e si riconosce,forse porta il cambiamento della percezione del corpo anche in letteratura.E il corpo tenta disperatamente di farsi più presente,di farsi carne e sangue per rinascere trasformandosi.
Barbara come pensi che la trasformazione del corpo si rifletta in letteratura?Siamo effettivamente in un’epoca in cui non c’è più un concetto di corpo, ma di corpi.Come un essere che ancora non sa cosa diverrà,ma lo vuole e lo necessita fortemente.
un abbraccio
barbara. hai la mia mail. io ho il tuo indirizzo facebook. teniamoci in contatto.
riccardo. il rapporto con il corpo ha a che fare con vissuti sia maschili sia femminili, anche nella letteratura. è piuttosto la prospettiva che cambia. lo sguardo delle donne parte quasi sempre dall’interno per approdare al mondo esterno e la visione (qualsiasi visione, scritta, detta, immaginata) risente di queste interiorizzazioni. l’occhio maschile compie a mio avviso un percorso inverso. dall’esterno verso una possibile interiorizzazione. vasta parla di corpi, ma tra il corpo e la scrittura pone il filtro di quello sguardo che pur essendo il suo, appare tuttavia extra. lo sguardo che descrive il corpo, capisci? come si trattasse di una mediazione. che non troviamo quasi mai nella scrittura delle donne, dove il corpo coincide con il testo in modo viscerale, fortemente carnale, quasi fosse il suo prolungamento.
@Francesca Giulia, domanda importante. E difficile. Che ha bisogno di una visione d’insieme o qualcosa di molto vicino che ancora io non ho. Secondo me la letteratura è sempre diramazione, assorbimento del tempo, del contesto in cui vivono gli autori. Nelle scritture su cui fin ora ho lavorato i corpi si tendono, allungano, sporgono, strappano, aprono, mostrano piaghe ma anche porosità. Si trasformano anche, svincolandosi il possibile dalle rigidità, dai silenzi, dal rimanere nell’angolo buio sapendo di non essere notati, capiti, ascoltati.
Lo scrissi tempo fa, che siamo in un momento di perdite esposte. Perdite nel sociale, tra politica, etica, morale, religione, comunicazione. Perdite anche di allocazione professionale. Mi sembra si siano sgretolate molte ‘appartenenze’ da intendersi non come un ‘intero unico’ anzi, le appartenenze sono tante, diverse per ognuno anche nelle priorità.
Allora il corpo che è essenza dell’essere, io lo sento scalpitare. Dalle parole forse prima ancora che dal contatto carnale diretto.
lucia, non lo so. può essere. forse hai ragione tu.
non avendo letto il libro di vasta non posso esprimere un giudizio, però qualcuno prima ha citato ‘carrie’ di stephen king.
king mi pare un maestro. i personaggi e i loro corpi escono dalle pagine.
Estrapolo da un mio intervento del 3-11 su AgoraVox:
Dopo tutto questo c’è una rimanenza, come già scrisse Giulio Mozzi il 19 agosto 2009 [“La mia sensazione, dunque, è che da dentro questo resto che è il corpo dolente, al quale ci si riduce dubitando e dubitando di ogni esperienza, si possa parlare e raccontare.” – n.d.r.].
Rimanenza che è risposta a una domanda: qual è il risultato di tutte queste sottrazioni? [Ovvero: cosa (ci)resta?].
Il corpo ha alzato la voce, io credo. Il corpo ha chiesto e preteso. E alcuni scrittori italiani hanno sentito, strutturato, lavorato entro carni, sangue, strumenti e simboli. Ancora lo fanno, evidentemente, entro un fenomeno in divenire, fresco, dai lembi scoperti, contorni ancora da mettere a fuoco. Fenomeno lo diventerà, quando questi fatti saranno osservabili ‘concretamente’, parole tra le mani.
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Il link diretto all’intervento di Giulio Mozzi: http://vibrisse.wordpress.com/2009/08/19/tentativo-di-descrizione-di-una-tendenza-in-atto-nella-narrativa-italiana-ovvero-come-liberarsi-dellinutile-categoria-dellautofiction/#more-3702
Per recuperare il senso pieno del mio intervento del 3-11, eventualmente:
http://www.agoravox.it/Corpi-tra-societa-identita-e.html
In un lunghissimo thread su Satisfiction, quello avviato dall’idea di Raul Montanari sull’esistenza del post-noir, io azzardavo un’interpretazione di ciò in cui consistesse questo «post».
Ci riprovo anche qui, perché c’entra anche col corpo.
Mi veniva da dire che il noir nasce da un’impotenza soggettiva (anagrafica o generazionale), ma strettamente dipendente – per quel che mi par di vedere – dall’impossibilità di trovare un comune orizzonte politico; in sostanza, da un’impotenza individuale che si radica in un’impotenza collettiva.
Nella morte della politica, insomma, gli scrittori hanno tentato di ricostruire l’esistenza di un mondo in cui questa morte politica e civile veniva rappresentata (penso, per dire, a tutte le descrizioni sul nordest italiano comparse nei romanzi, che so, di Carlotto o di Avoledo, i primi che mi vengono in mente) e in una certa misura sconfitta dal meccanismo noir che svelava un colpevole, ne seguiva le mosse, lo guardava da vicino. Ma a parte il disvelamento e la scoperta del colpevole, il noir non lascia altro margine ai suoi personaggi se non quello di agire entro i limiti costrittivi e definiti della propria vita individuale, nella celebrazione – appunto – della propria impotenza.
Di qui io vedo nascere una sequela di (investigatori) micro-eroi tendenzialmente sfigati perché nel corpo e nella vita sono stati piagati dalla storia. Sarebbero i post-tenenti Colombo, se dovessi azzardare una formuletta.
Il post-noir, forse, fotografa un diversi tipo di storie, nel quale non solo non c’è più la centralità di un cadavere, perché è come se non ci fosse più bisogno di uccidere nessuno per dimostrare che almeno qualcosa (trovare l’assassino nei «whodunnit», o percorrerne gli strati di coscienza negli altri tipi di narrazione «pseudo-gialla») si è in grado di farla.
È come se i nostri corpi – passati attraverso l’ubriacatura del fitness e delle palestre (anche se non individualmente frequentate da tutti) – ci avessero detto che essi – i corpi, e dunque NOI – siamo in grado di agire nonostante la morte della politica e l’assenza di un orizzonte collettivo.
Non celebriamo più la nostra impotenza; non oscilliamo più fra il titanismo e la merdizzazione di noi stessi, tra onnipotenza e impotenza, riducendo a zero il territorio del «possibile».
Ci riprendiamo pezzi di noi.
Ci ridiamo voce, corpo e forza.
Nei libri mettiamo la suspense anche senza cavaderi perché abbiamo da raccontare cosa sappiamo fare, finalmente. Non siamo più solo periti settori, anatomopatologi della vita in putrefazione.
Siamo costruttori di vita e di cose e di storie e di scenari; e lo facciamo con urgenza. Dunque c’è suspense eccome. C’è ritmo noir.
Ma non abbiamo più necessariamente bisogno dell’espediente-cavadere.
Tutto questo è molto poco nero nel senso in cui dicevo prima (apocalisse, male, nuovo e vecchio testamento), ma è anche molto poco rosso (nel senso di viscere e sangue).
Questione a parte, poi, il parlare di sé. Questa è proprio un’altra cosa.
[ Altra precisazione che sento fondamentale: questo sentire, nel complesso entro varie sfumature e angoli, che fa parte del mio progetto, non è un *sentire mio*, sentire che io *per prima* o enunciato o brevettato. Assolutamente. Non ho intenzione di ‘prendermi’ condizioni genitrici non mie. In molti, negli ultimi anni ci hanno ragionato. Ognuno a suo modo. In spazi diversi e con rimbombi diversi. In molti ci stanno ragionando tutt’ora. Stanno scrivendo. Ascoltando. Tentando interpretazioni, divulgazioni. Non è anche qui, una questione di proprietà o di alzate di mano. Ma di sostanze, di scavi. Tentativi. Che evidentemente investono anche me in quello che faccio. ]
Argomento di estremo interesse, e progetto di grande ambizione, Barbara. Mentre leggevo il post, il volume di Vasta è stato il primo a venirmi in mente; non ho ancora finito di leggerlo, ma mi pare di ravvisare, in quell’ambito, non solo un protendersi dei corpi al di fuori della pagina, ma anche, parallelamente, uno scavo, quasi autoptico, dei corpi stessi. Del corpo di se stessi, e dei corpi degli altri. E delle dinamiche che, volenti o nolenti fanno sì che il nostro corpo sia uno strumento con cui essere individuati e auto-individuarci. Due appunti sparsi, quindi: non solo il corpo in sé, ma le “direzioni” nell’indagine di esso. E ancora, più generalmente: un movimento che ci sembra di scorgere nella letteratura italiana, sì. Ma quali i possibili riscontri esteri? Quali le possibili linee? Certo, arduo a dirsi, oggi come oggi, e quasi certamente gravato dall’impossibilità di distacco storico, ma ci si può provare.
“Ci riprendiamo pezzi di noi”. Ecco un altro nodo. Grazie Federica. Guardarsi attorno e accorgersi che l’intero non c’è (se mai c’è stato). Che le perdite ci hanno sgretolato, spezzato, fatto letteralmente a pezzi. Eppure, in tutto questo, i pezzi ci sono ancora. Pezzetti piccoli magari, brandelli di carne che ancora pulsa. Attende. E da questi pezzi di cose che siamo tutti, pezzi di corpi tentare ripartenze. Iniziando proprio dal pezzo, dal prenderlo in mano, saggiarlo, ascoltarlo, stringerlo. Alcune narrazioni io credo già lo facciano. Si concentrano su pezzi. Per espandere sensi. Per riappropriarsi di appartenenze e identità.
Arrivati fin qui, mi pare giusto inserire un’altra osservazione. Si è tanto discusso delle ‘narrazioni ombelicali’. Del fatto che in Italia chi scrive lo fa spesso o insistentemente entro ‘cose sue’ dunque esperienze del suo vissuto, problemi suoi, incapacità di relazionarsi, perdite individuali ect.
Io penso che attualmente qui ci sia una virata che dall’ombelico individuale (dunque importante per il suo proprietario, evidentemente, ma totalmente irrilevante per tutti gli altri) si amplifica nei sensi che non sono più solo di un ‘uno’ ma diventano potenziali collegamenti e percezioni di ‘molti’.
I pezzi secondo me sono anche questo. La mia perdita, ad esempio, di una collocazione morale, perdita che mi ha scatenato dei pezzi, mi ha reso frammentata, tutto questo entro una narrazione può non restarmi dentro l’ombelico. Può diventare altro che investe pance, colli, spalle di altri. La differenza, io credo, la determini sempre ‘la polpa della lingua’, la scrittura, l’intento di chi scrive, come sviluppa eventuali messaggi, livelli diversi.
@Alessandro Puglisi, io i riscontri ‘eventuali’ esteri li lascerei al futuro e all’estero, sinceramente. Non che non sia importante la percezione oltre i confini nazionali, anzi. E’ un indicatore a volte anche utile. Ma in questo contesto, in questo momento, mi pare urgente restare dentro i confini, dentro i corpi, assecondare sentire (propri o altrui) e vedere se davvero c’è qualcosa. Provare a leggere ‘sentendo’. E se non si sente è grave. Provare a seguire una narrazione domandandosi anche. E se raramente ci si domanda, altrettanto mi pare grave. Gli autori scrivono avendo precisi intenti, motivazioni nelle storie di cui si occupano. Al di là che ci siano poi simboli evidenti o altre strutture. Il punto è, anche: interessa ciò che chi scrive ha da dire? Cosa si sta dicendo? Quali sono gli intenti? Possono investire anche me (un ‘me’ generale) che vivo la mia vita e probabilmente non so neanche che faccia abbia questa persona che ha scritto? Il mio corpo la sente questa onda? O ne rimane lontano, anestetizzato? Forse non ne ha bisogno. Può essere tutto. Ma tendersi alla letteratura italiana contemporanea per me è anche questo.
Ciao Barbara, ciao a tutti, bel tema!
Io scelgo e segnalo Valerio Magrelli:
* l’opera poetica “Poesie 1980-1992” – http://www.einaudi.it/libri/libro/valerio-magrelli/poesie-1980-1992/978880614080
* il racconto-romanzo “Nel condominio di carne”, http://www.einaudi.it/libri/libro/valerio-magrelli/nel-condominio-di-carne/978880616667.
La scrittura che si fa corpo e il corpo nella scrittura.
Luca Rosati
Come accade a Barbara, anch’io come autrice e essere umano, sto riflettendo (e scrivendo) da molto tempo sul tema del corpo. I nostri pensieri, le nostre parole, mie e di Barbara, si sono incontrate più volte su questo tema che non solo è affascinante, ma fondamentale. Perché il corpo non è solo oggetto e soggetto di scrittura, ma è strumento. E’ casa, prigione, icona. Mi è capitato spesso di pensare quanto la mia scrittura, per esempio, sia legata al mio modo di respirare, alla fatica che come mielolesa ciò comporta, al fatto che la mia scrittura, spesso, è fatta di pause legate più che a una scelta stilstica, a un’esigenza vitale: respirare.
Il corpo sta al centro di molte narrazioni ed è il fulcro attorno a cui ruota la nostra vita. Il corpo c’è sempre: ripudiato, accettato, segnato, sognato.
Ringrazio Barbara per tutto il lavoro che sta facendo e per la capacità di dare spazio a tante voci.
@Barbara Garlaschelli, un abbraccio e grazie.
[Da un estratto di alcuni appunti di prossima pubblicazione sul saggio ‘Dissolvenze’ a cura di N.Vallorani, Il Saggiatore, 2009 – ]
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C’è un sottile filo, che richiama a un nodo centrale (fortemente attuale), negli scritti di Garlaschelli e Vallorani: i corpi come movimenti.
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‘Movimenti’ da intendersi come azioni, gesti, carne che si sposta, fa, agisce. Ma sono ‘movimenti’ anche le mutazioni, i cambiamenti a cui i corpi sono soggetti malgrado ciò che si vorrebbe, malgrado le volontà e l’impegno di mantenerli sani, belli, perfetti nell’estetica consumistica che associa apparenza ad accoglienza vuota da accettazione sociale fugace.
I corpi sono movimenti.
Questo dicono gli scritti di Garlaschelli e Vallorani, che partendo da due punti distanti (l’accadimento che danneggiando il corpo ne limita le mobilità, sposta equilibri di movimenti anche basilari – per Garlaschelli – e la malattia, nella fattispecie l’Aids, che deturpa il corpo anche nel suo impatto sociale, entro maglie che riconoscono nel contagio la colpa, nei tocchi la trasmissione del male che quello stesso corpo ha cercato facendo ‘cose cattive’ e in esse è mutato), si ricollegano entro dinamiche di ‘movimento’, ammissioni di variabili spesso imprevedibili e incontrollabili che spostano equilibri, costringono i corpi a mutare percezioni, intenti, energie.
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“L’incidente mi ha messo di fronte alla verità che il corpo muta n continuazione, a diverse velocità e che è, nonostante tutti gli studi e le analisi, un anagramma difficilmente decodificabile.
I corpi raccontano storie che non sempre è possibile comprendere. I corpi cambiano. […] Il corpo umano è legato al movimento. Noi immaginiamo i corpi come una somma di gesti, guizzi, scatti. I corpi vivi sono il movimento. Concepire un corpo vivo immobile per sempre è quasi un controsenso. […]… quella che era la tua casa, quello che eri tu – e cioè il tuo corpo – diventa d’improvviso altro da te. La cosa strana è che di molti non ricordo bene il volto, a di tutti ricordo i corpi.”
(pag.136- il corpo saggio di Barbara Garlaschelli)
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“I malati di Aids, dunque, sono definiti da un destino doppio, che combina la morte fisica con la morte sociale, e che è l’origine e la conseguenza della loro invisibilità. L’Aids è un segno che non può essere cancellato. Esso possiede una potenza narrativa che risiede nella sua capacità di determinare una revisione radicale nell’anatomia del corpo e nel produrre un nuovo tipo di soggetto sociale: né maschio né femmina, né bianco né nero, né ricco né povero, questo corpo è qualificato soltanto dalla sa necessaria esclusione dalla collettività. […] L’immagine del corpo del malato come contenitore infetto produce la necessità di prendere distanza da esso, designandolo come anomalo e dunque irrevocabilmente Altro.”
(pag. 166 – visioni per ciechi di Nicoletta Vallorani)
Altro spunto di riflessione, recuperando un passato non poi così lontano:
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“perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano del sesso? Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura – e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa – mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico – in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo. Era in tale realtà fisica – il proprio corpo – che l’uomo viveva la propria cultura.
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Estratto da ‘Scritti sulla politica e sulla società’, pag. 260, Pier Paolo Pasolini. [Da un’intervento del 1973- n.d.r.]
A proposito di ‘resto’, ‘parti’ e ‘scrittura’. Altro spunto di riflessione:
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“Io scrivo perchè se ne salvi un resto. Di quella ragazza sul greto del fiume non sapremo mai il nome, l’età e la nazionalità, ma in queste poche righe lei arriva ad essere vivissima. Nel pomeriggio invernale con la luce calante, gli uomini intorno a quei vestiti dozzinali e volgari, lei sopravvive a me, sopravvive ad ognuno di noi, perchè è scritta.
E’ la redenzione, che mi pare di vedere in ogni quadro di Caravaggio, una redenzione che non è salvezza, non c’è salute se non nell’oscuro in cui tutti sprofonderemo, ma un misero salvare delle parti, portadole via dall’oblio delle cose che si guastano.
Quindi alla fine scrivo per togliere un pò di male agli altri e a te, a cui sono dedicate queste note su Caravaggio. Lo faccio perché dicendoti ti redimo.
E tu? Sembri chiedermi.
Io non mi salvo, ma mi mostro con lo sguardo spaventato di un Oloferne in prolungata agonia.”
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Estratto da ‘Figure III (Parigi/Tanaro) in ‘Caravaggio, Figure III’ di Demetrio Paolin [ file pdf QUI: http://vibrisse.files.wordpress.com/2009/11/np-6-paolin-1.pdf – n.d.r.].
Restando in tema di corpi tra letteratura e realtà, entro ciò che accade oggi in Italia e che qui si è accennato in precedenza, segnalo un articolo pubblicato da Marco Mancassola il 14-11 su Il Manifesto. Titolo ‘L’anno del corpo’.
http://www.marcomancassola.com/marco_mancassola_a_nord/2009/11/lanno-del-corpo-berlusconi-cucchi-cristo.html
Ecco invece, per recuperare analisi sul novecento e i corpi, brevissimi stralci di quanto scritto da Marco Bazzocchi:
… il Novecento oscilla continuamente entro questi poli: la necessità di tornare al corpo nudo per ridare legittimità all’individuo, per ‘liberarlo’, e, all’opposto, il bisogno di rivestire di simboli densi il corpo per farlo parlare.
(pag.8 – Corpi che parlano di Bazzocchi, Bruno Mondadori)
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Viene a maturazione in questi anni un discorso sulla funzione e sull’importanza del corpo che si innesta nella situazione storico-politica e la interpreta con profonde implicazioni, forse mai più raggiunte dopo (dopo rispetto agli anni sessanta-sessanta – n.d.r.)
(pag.11 – Corpi che parlano di Bazzocchi, Bruno Mondadori, 2005)
Beh, direi che questa discussione ha preso corpo alla grande. Complimenti a Barbara per il suo lavoro e per gli spunti. Ed a Massimo per offrire sempre belle opportunità di scambio.
Infine, restando su quanto ha già studiato e analizzato ‘Bazzocchi’ sul novecento, ripropongo uno stralcio del mio intervento del 16-11 su AgoraVox:
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Marco Antonio Bazzocchi, conclude il saggio ’Corpi che parlano’, Bruno Mondadori, 2005, così:
Il corpo di oggi non esibisce più i propri traumi sessuali, non è più il luogo di lotte tra le pulsioni e il loro dominio La rappresentazione della sessualità come nucleo dell’individuo sembra essere ormai fuori moda, così come sembra esserlo l’immagine di un corpo che drammaticamente si libera delle convenzioni sociali. Nelle teorie dominano immagini leggere, interscambiabili, soft: simulacri, pellicole, travestimenti, giochi e scambi. Un carnevalesco tutto patinato, privo di sostanza corporea. E un erotismo bidimensionale, che non va al di sotto dello spessore della pagina o dello schermo del video. Né il modello rappresentativo né quello liberatorio sembrano più funzionare. In un mondo grigio dominato dall’uniformità, gli unici corpi che continuano a parlare sono i corpi tragici della sofferenza, quelli che si susseguono di giorno in giorno nei notiziari sulle guerre e sulle carestie, sulla povertà e sul dolore. [ In Anthropologize du corps et modernité (Puf, Paris, 1990), David Le Breton nota che la società occidentale moderna ha cancellato le manifestazioni concrete del corpo, privilegiando la strategia della messa a distanza del corpo, e quindi il senso dello sguardo, a scapito dell’olfato e del tatto. ]
[…]
Le immagini del corpo estetizzato che ci circondano sembrano solo un involucro fragile che deve nascondere i corpi rovinati dalla tragedia.
[…]
Non siamo forse tutti entrati a far parte del gruppo eletto dei violenti Signori pasoliniani, torturatori sì, ma di corpi inesistenti? Mi chiedo se sia questo l’ultimo esito a cui deve approdare, fra molti dubbi, un discorso sul corpo, sulla sessualità e sul desiderio: ci sono tanti corpi, non c’è più nessun corpo.
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Ora, a fine 2009, guardando imperfettamente, tra parzialità e affondi ancora in divenire; ho l’impressione che questa ’messa a distanza del corpo’ enunciata da Le Breton nel 1990, sia fatto tangibile anche nelle modalità in cui si vive, respira, segue la letteratura oggi, in Italia. Pare quasi non esserci più l’esigenza. L’esigenza carnale di ascoltare un autore, una storia, attraverso una vicinanza materiale da accostare alla lettura, all’appropriarsi di una storia scritta, lasciata.
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Inoltre, questo cancellare le ’manifestazioni concrete del corpo’, questa scelta non è ben chiaro dove ci stia portando come società, dove stia veicolando la cultura. Pare perché i dibattiti, gli scritti, non ’parlano la stessa lingua’, non si appoggiano gli uni agli altri assecondandosi. Ci sono, io credo, dei ’dissidenti’ che l’identità e le direzioni, di queste scelte, mettono in discussione. Che tentano di lasciare il perduto, per ritendersi verso la sostanza della carne, dell’essere che c’è nella carne, nelle parole di carne.
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Per ora, a fine 2009, tra scavi imperfetti, parziali, in divenire e lenta digestione mi chiedo: ancora ’ci sono tanti corpi, non c’è più nessun corpo’ nella letteratura italiana contemporanea?
Splendidi spunti, Massimo. Ci ragiono anch’io, da un po’ (da sempre, anzi, a ben pensarci). Nei prossimi giorni mi farebbe piacere mandarti qualcosa.
a presto
cl
A me viene in mente Narciso e Boccadoro,in cui le due figure principali antiteticamente svolgono il rapporto corporeità e spiritualità,libertà e regola.Anche Chesil beach di Ian McEwan mette in risalto il rapporto dei protagonisti con la propria corporeità,con la propria sessualità in questo caso.Non so se ho risposto esattamente alla sua domanda comunque questo mi è venuto da pensare.Un saluto
@ Barbara Gozzi
Cara Barbara, intanto complimenti. Come consideri l’esperienza della ‘gioventù cannibale’ nell’ambito dell’attività di studio e ricerca che stai conducendo?
Per chi come me ha sempre temuto di frammentarsi o peggio ancora di dissolversi questo tema rappresenta ulteriore motivo di analisi.Noi siamo fatti del nostro corpo.E’ il nostro corpo che ci rappresenta,che ci permette di vivere,di pensare di confrontarci , di scrivere.Sto pensando in questo momento a Proust ,al suo corpo sofferente d’asma,diventatomi cosi’ familiare durante la lettura della Recherche.
Penso alla Yourcenar, al corpo malato di Adriano che detta i tempi nella narrazione di se’,e quindi della sua vita. Sto riflettendo sul fatto che ho avvertito il mio respiro mentre scrivo e che questo mio corpo, attraverso la scrittura, diventa un tramite tra me e la possibilità che ho di confrontarmi.
@Grazie Massimo per questo luogo “non luogo” che però riesce ad essere “corpo” attraverso la forza che le parole hanno.
@Marco. ‘gioventù cannibale’ resta ai margini di questo lavoro, incentrato sull’oggi, sulla contemporaneità italiana. ma resta come bagaglio, sfilacciamento. ‘Dosso’ mi verrebbe da definirla come esperienza. Probabilmente sbaglio, riprenderò lo studio prossimamente.
Bene. Mi pare che la discussione abbia “preso corpo” in maniera molto interessante. :-))
Grazie a tutti per i vostri interventi.
E grazie soprattutto a Barbara per aver messo a disposizione di tutti, tra i commenti, parte del frutto della sua attività di studio e ricerca…
Come sempre ne approfitto per salutare e ringraziare tutti gli intervenuti (dando il benvenuto a chi si è affacciato su Letteratitudine per la prima volta).
Grazie a: Benedetta Pignataro, Elisabetta Bucciarelli, Letizia, Lucia, Federica Sgaggio, Riccardo, Giacomo Rodi, Maria Consoli, Francesca Giulia, Alessandro Puglisi, Luca Rosati, Barbara Garlaschelli, Vale, Claudio Morandini, Davide Barbanera, Marco, Grazia (ehi, grazie a te!).
Un saluto e un ringraziamento specialissimo (ci tengo molto) a Barbara Garlaschelli…
Grazie per il tuo intervento, Barbara.
@ Barbara Gozzi
Cara Barbara, mi farebbe piacere se potessi dirci qualcosa sui possibili sbocchi di questo tuo studio in progress…
Per il momento devo chiudere qui.
Auguro a tutti una buona serata.
Caro Massimo,
grazie ancora per l’ospitalità, l’accoglienza e l’opportunità di divulgare, proporre, ascoltare, confrontare.
L’aspetto ‘sbocchi’ è evidentemente sostanziale.
Ho scritto nel testo di presentazione: “Non sento importante definire un punto di arrivo preciso” riferendomi a ciò che lo studio e le analisi avrebbero o non avrebbero delineato entro risultanze precise.
Ma questo progetto che è partito e insiste sulle ‘polpe’ delle scritture, gli ascolti, attualmente si sta sviluppando in forma testuale. Leggo, studio, annoto, raccolgo impressioni, mi confronto, scrivo estrapolando anche dalle stesse divulgazioni e analisi che preparo per le testate con cui collaboro (AgoroVox e ThePopuli). Quale strada prederà, alla fine, questo che nella sostanza sarà un ‘saggio’ (nella presentazione l’ho definito ‘forma aggregativa di contenuti’perché attualmente in onestà è esattamente questo, in virtù del work in progress), non è possibile stabilirlo ora.
Sin dall’inizio, però, l’idea che avevo era di ‘portare in giro’ questo sentire. Dunque tra gli obbiettivi che mi sono prefissata già a partire dal 2010 c’è l’organizzazione, la partecipazione e la collaborazione a eventi entro cui ragionare sugli autori e le scritture che poco alla volta inserisco nel progetto.
Eventi da intendersi nel senso più ampio possibile.
Di iniziative letterarie in Italia ce ne già sono diverse, diramate e ben ideate, ma l’intento in questo caso è unire entro un sottile filo (la keyword dei corpi) libri, scritture, autori che hanno poi differenze e peculiarità altrettanto importanti su cui ragionare.
Sostanzialmente questo vorrebbe essere un progetto non ‘per’ addetti ai lavori. Ma aperto a tutti, ai lettori, agli autori, a chi si interessa e sente ‘i corpi’ in questa nostra società in corsa perenne, spesso incapace di trattenere ciò che sfiora.
C’è poi la possibilità che questo lavoro che sto facendo nel complesso, sui corpi entro una dimensione di letteratura, società, massmedialità e individuo, approdi oltre i confini italiani. Un altro progetto che sto curando ‘attorno al corpo di Eluana Englaro’ (una prima forma testuale già in divulgazione su AgoraVox) sarà ospitato l’anno prossimo a Bruxelles all’interno di alcune iniziative culturali. E ci sono altre iniziative, nell’ambito della comunità europea, entro l’interscambio culturale, per le quali sto lavorando proponendo appunto anche gli studi e le percezioni su ‘corpi’ e ‘letteratura italiana contemporanea’.
Il progetto mi sembra molto interessante.
Vorrei dire che la corporeità è un elemento essenziale dell’identità, e pure dell’identità letteraria. Dietro lo schermo di un pc o una pagina scritta o stampata ci sono dita, corpi di autori che non sono solo mente e anima.
Molte opere letterarie sono basate sul corpo sognato, goduto, violato, negato. Se l’autrice rileva oggi un’attenzione maggiore alla corporeità credo sia perché oggi viviamo in un ambiente spersonalizzante, in una società digitalizzata che sostituisce sorrisi carezze baci sangue e lacrime con i tasti premuti, i videowall, i touchscreen, il cybersex…
Forse c’è un anelito alla nostra vera natura.
Forse è un barlume di cambiamento.
Mannaggia a voi, uno si assenta per un’importante riunione di lavoro e si ritrova 76 commenti!
Ho letto qualcosa al volo, ma il primo pensiero va al romanzo di Francesca Mazzucato “Kaddish profano per il corpo perduto”. Bello.
Recensito qua (ma per favore, non prendete questo commento come autopromozione, non vuole esserlo assolutamente): http://angolonero.blogosfere.it/2008/06/kaddish-profano-per-il-corpo-perduto-di-francesca-mazzucato.html
Una visione del corpo che spiazza e disorienta.
Credo che a Francesca farebbe piacere essere coinvolta in questo post.
Buona serata a tutti,
Alessandra
Grazie a te, Massimo.
In questa tua iniziativa io percepisco un’apertura che mi colpisce enormemente.
Una specie di – è un elogio – candore che mi fa ritrovare fiducia.
Grazie a te e grazie a Barbara.
@Alessandra ciao.
Sì Francesca Mazzucato è parte del progetto. E secondo me ci sono picchi di affondi nei-dai corpi entro recenti sue pubblicazioni on line che meritano attenzione. Non si tratta solo di esporre un corpo, di mostrarlo nella sua carica erotica, sensuale. C’è una lingua che ‘lavora’, che si insua tra carni lasciando tracce.
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[ pubblicazione originale: http://eroticnotes.menstyle.it/237/questo-tempo-carnale ]
Tempo di viscere e di sangue che sgorga. Anche di pioggia, certo. A volte provo sconcerto di fronte alla massa – decisamente morta o morente o anemica- delle mie parole. Le scelgo, le limo, le analizzo, le ripulisco di polvere e patina, le scarto o magari le recupero( raccolta differenziata di lemmi rifiutati, naturalmente, riciclabili ed ecologici). Le voglio carnali, sì.
…
Parole carnali. Parti cesarei fatti con le mie stesse mani
..
Lo sconcerto resta. Quello che è vivo è disorganizzato, per sua natura caotico.
…
E’ fatto di strati che noi reifichiamo per rassicurarci sulla nostra esistenza. E’ un flusso, una scansione di immagini, sbagliate, sovraesposte, inquadrate male, imperfette o superlative, ma scorrono e scorrono e scorrono e scorronoo veloci queste immagini come le parole degli altri e le nostre e la nostra musica che si ripete in un continuo PLAY e REW nel nostro cervello, tutto diventa un impasto.
…
Siamo questo. A volte si scalda, a volte no, resta freddo, isolato. Mi sconcerta questa morte lenta, questa impotenza che non conosce pillole risolutive( se non il diazepam per sedare chimicamente l’ansia del niente e del bianco vuoto, della privazione, della mutilazione amorosa e sottesa a ogni atto, a ogni fatto) Mi sconcerta la difficoltà enorme a costruire una storia che si tenga in piedi e che possa sopravvivere in questo contemporaneo della scheggia rapida, del frammento quasi mistico, perché così simile a un’apparizione a una processione.
…
Continuo, incessante,martella, propone reputazioni rovinate, notizie false,omesse, inventate, dismesse, arte arrangiata e arte povera e carica d’incanto, pianto e rigurgito di ambizioni, scrittori poveracci, giornalisti cialtroni, scrivani del potere,finzioni e cordate, scrittrici inventate dalla sera alla mattina, altre che fra detriti di parole e cose trovano viottoli e li rendono una strada che vale la pena di.
…
Questo contemporaneo mistico della violazione di privacy che si rimangia, di dignità che non si rigenera, di video, storie, post, microblogging, grida d’aiuto, d’assalto, d’assedio, erotiche o fredde, operazioni a cuore aperto, chemioterapie palliative per ogni tipo di situazione non- rimediabile che non vuol dire perduta.
…
Questo contemporaneo carnale che si ritrova di pixel, asettico come una sala operatoria, disinfettato- batteri via, virus, si fa quel che si può, umori, fluidi corporei? Qui, sospensione.
…
A volte tutto questo mi sconcerta, a volte rimpiango di aver sbagliato anno di nascita, di aver perso quel novecento che ancora mi manca, a volte semplicemente so di essere stanca ma non voglio mollare, e nemmeno morire.
Di Barbara Garlaschelli, invece, suggerisco la lettura della ballata ‘Il tuo corpo’ pubblicata nella raccolta ‘Corpi’ (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2009): http://barbara-garlaschelli.splinder.com/post/21687354/Eccomi
Virando tra sentire e scritture.
Un altro approccio, dove l’allocazione dei corpi ruota.
Estratto da ‘L’ubicazione del bene’ di Giorgio Falco (Einaudi, 2009):
“Sono ritornato in box e ho verificato il livello dell’olio, rabboccato un altro litro e atteso che l’olio scendesse nel modore. Il sedile avvolgeva e invitava al sonno. Ho girato a fatica la chiave, sentivo un peso, un formicolio al braccio, il dolore si estendeva alla spalla, fosse stato il sinistro avrei creduto a un infarto. Ho acceso il quadro elettrico, la spia rossa era sparita, la macchina profumava come al solito di fragola, un’essenza di fragola sintetica scendeva dalla narici alla gola e più in giù, dettava i tempi del respiro, entrava nello stomaco dove vagava, ignorava le gambe e il sesso, mi sentivo un mutilato alla fragola, l’odore ritornava alla bocca e da lì al confine della testa, nel pulsare della tempia sinistra.”
(pag.22-23)
Bellissima questa ricerca, la sua apertura, la sua necessità! Bravissima Barbara Gozzi.
Per rispondere a una delle domande di Massimo, credo che uno dei nodi più potenti tra corpo, simbolo e letteratura ce lo offra Dante nel canto V dell’inferno, dove chiude la narrazione dell’amore di Paolo e Francesca:
—
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
—
Ecco…quel caddi come corpo morto cade, quella pesantezza che è di materia e di dramma, di indicibile pietà, di solitudine, credo sia la sintesi della simblogia del corpo in letteratura.
Sensualità, perdizione, desiderio.
E poi..caduta del sogno, morte e resistenza. Ostinata opposizione all’ombra.
O ancora…Luogo di male. Di bene. Di negazione. Di affermazione.
Sul corpo si posano le cicatrici, le ferite, i baci. Dal corpo passano i figli. Nel corpo si annidano gli uomini.
Niente come il corpo – e la letteratura – narra il principio e la fine.
Buon sabato e grazie ancora per i nuovi interventi.
@ Barbara
Cara Barbara, grazie per i nuovo interessanti spunti… spero che da questa discussione ne possano nascere altri, utili per il tuo lavoro di ricerca sull’argomento.
Un saluto a Maria Lucia e ad Alessandra.
–
@ Federica
Grazie a te, Federica. E grazie per l’elogio… ti invito a tornare a intervenire qui e sul altri post (e sentiti sempre a casa).
–
@ Simona
Lo sai che il riferimento a Dante “E caddi come corpo morto cade” l’avevo pensato anch’io? 🙂
Auguro un buon sabato sera a tutti.
Rilancio oggi un altro spunto, angolo di visuale sulla carne comune ad alcuni autori italiani contemporanei.
Estratto da ‘La metà di tutto’ di Silvia Nirigua (Sartorio, 2008)
“La metà di tutto
Ti svegli col mal di testa.
E’ lieve ma tenace, ogni volta, che giri la testa si intensifica, hai l’impressione che il cervello impieghi un istante a seguire i movimenti del capo. Qualcosa si sta rallentando dentro di te. Gironzoli per la casa con una cautela che non appartiene alla tua vita quotidiana ma ogni gesto brusco si ripercuote sulla tua testa e sei costretta a fare attenzione.
Hai l’impressione di vivere nell’appartamento di una persona malata e devi fare piano per non disturbarla. Non ascolti la radio, non accendi la tv, ti limiti a far borbottare il suo scontento alla moka che si è stancata di una mansione tanto ripetitiva. Realizzi che un dolore fisico distrae da quello psicologico, ti obbliga a concentrarti sul tuo corpo. Il male alla testa si porta via i tuoi pensieri, anche quelli tristi, e ti lascia con la consapevolezza di avere un cranio, come ogni altro essere umano. La sofferenza fisica è democratica, duole a tutti allo stesso modo e prevede praticamente gli stessi rimedi per ognuno. E’ confortante perché tu li conosci, sai esattamente quali molecole possono funzionare, sei capace di lenire qualunque dolore.”
(pag.64)
Chiedo scusa, nel copia e incolla ho erroneamente incluso anche il titoo dell’opera. L’estratto inizia con ‘Ti svegli col…’.
‘Corpi e letteratura’. Sì, pare anche a me interessante. Complimenti e auguri alla Gozzi.
Anche io nei nuovi scritti ho notato un interesse nuovo per i corpi e la corporeità.
La maggior parte dei post presenti in questa pagina sono firmati da donne.
Mi permetto di porla io una domanda. Può esserci una ragione per la quale l’interesse per i corpi così come è inteso qui è più delle donne?
Mi piacerebbe conoscere soprattutto l’opinione di Barbara Gozzi. Cioè, nel corso del tuo studio hai riscontrato qualcosa del genere? Ciao a tutti.
E del ‘cranio’ narra anche Vasta nel già citato ‘il tempo materiale’. Nel caso qualcuno avesse il libro, consiglio di leggere o riprendere le pagine dalla 83 alla 89, dove iniziando una fase precisa della trasformazione del protagonista, l’ ‘occhio’ del narratore fa ‘emergere’ questa parte del corpo, il cranio appunto, entro logiche e io credo anche un certo simbolismo da strato non superficiale ma neanche troppo fondo.
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“Dio chiede a Ezechiele il cranio, di rivelargi il cranio, di regalarglielo denudandolo. E di restituire, attraverso il sacrificio rituale, tutto ciò che è mascheramento e orpello.[…] Tutti prima o poi dovrebbero conoscere il proprio cranio, toccarlo con i polpastrelli, misurarlo a spanne con i palmi aperti contorcendo le braccia per completarne il perimetro e comprimerne l’area, assorbendone la forma e la durezza, la tenerezza, e individuare la fessura della fontanella, la piccola vagina dalla quale il mondo silenzioso ci entra dentro. Tutti, poi, dovrebbero almeno una volta lavare il proprio cranio, insaponarlo, …”
[Il tempo materiale, di Giorgio Vasta, Minimum Fax, 2008]
@Sebastiano ciao.
Sai che attualmente non mi trovi d’accordo?
Nel senso che sia dal punto di vista della letteratura italiana, dunque autori, voci, dibattiti; sia entro la sfera del ‘sociale’, per ora non ho notate né avvertito più partecipazione, più interesse o più sensibilità da parte di donne. E’possibile, come sostengono in molti, che ci siano delle differenze negli scavi, negli approcci, nelle modalità in cui si affronta, annega, condivide nonché esprime ‘il corpo’. Questo sì. Lo credo anch’io. Ma che attualmente la tematica nel complesso coinvolga e interessi più il genere femminile, sinceramente non mi sembra. Ci sono, tornando alla letteratura, diversi esempi che ho anche già citato ieri, di autori maschi che entro il corpo dicono, esprimono, notano, annusano.
@ Caro Massimo un abbraccio. 🙂
Buon sabato a tutti!
Ci riaggiorniamo stasera o domani.
Barbara mi ha segnalato ieri questo spazio e lo vedo inondato oggi di tantissime informazioni. Sto spesso discutendo con Barbara Gozzi di quest’argomenti, proprio oggi vorrei mandarle una scheda su Petrolio (di Pasolini, ovviamente); neppure si può dire che Pier PAolo Pasolini scrivesse di “corpo”, c’è molto di più, la sua letteratura, la sua opera è CORPO;
due annotazioni, visto che qui già se ne parla: trovo pochissimo interessante parlare del rapporto fra letteratura e corpi circoscrivendolo “al femminile” secondo categorie abusate in Italia (tant’è che vi sono scrittori e scrittrici dalla scrittura androgina che neppure si pongono l’argomento, per fortuna); inoltre fra corpo e parola è sottinteso lo spirito; corpo mente e spirito per me agiscono contemporaneamente. Stephen King, qui citato a più riprese, non ha mai fatto distinzioni fra le tre parti dell’uomo. Eccetera eccetera…
D’accordo con Patrizia Caffiero.
La mia, del resto, era solo una curiosità. E Barbara ha risposto alla mia domanda soddisfacendo la mia curiosità. Grazie e buona prosecuzione a tutti.
Carissima Barbara, sono d’accordo.
Credo che vi sia un grande e generalizzato interesse per il corpo ( e per le tracce incise su di esso)sia da parte degli scrittori che delle scrittrici.
Mi ha di recente colpito in questo senso “La macchia umana” di Philip Roth.
Qui il corpo è apparenza, ombra, macchia, appunto.
Non è solo materia ma evocazione. Viene usato per dissimulare, per nascondere, per addomesticare dolori, ferite, ricordi.Eppure continua ad essere un irredimibile testimone della “macchia”…per quanto l’uomo cerchi di cancellarla.
Non so se hai letto questo libro o se ne conosci la trama (te la riporto più giù ) ma vorrei chiederti se nella tua ricerca è emerso qualche altro autore o autrice che scriva del corpo come sigillo del passato, come sintesi della contraddittorietà del reale di cui anche il corpo è espressione.
Dice Roth:
“Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere”.
Grazie infinite dell’attenzione e complimenti per il tuo interessantissimo lavoro.
La macchia umana di Philip Roth:
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Coleman Silk è un professore universitario di lettere antiche stimato e rispettato. E’ stato persino preside. La sua carriera di colpo s’interrompe il giorno in cui, per indicare due studenti che non si presentano mai a lezione, usa la parola “spooks” (spettri), desueto termine spregiativo riferito anche alle persone di colore. Quel che Coleman non sa è che i due studenti sono appunto dei neri. Costretto a dimettersi per evitare un “processo” pubblico, il professore vede la sua vita andare lentamente ma inesorabilmente a rotoli a causa di un equivoco puramente lessicale.
Si lega a una giovane inserviente del college all’apparenza analfabeta, e per questo riceve lettere anonime che lo accusano di “abusare sessualmente” di una donna in difficoltà. Tutto il suo passato fatalmente emerge e con esso un segreto.
Proprio lui, accusato di razzismo, è portatore della stessa macchia sul corpo.
In un flashback sorprendente si scopre infatti che ha genitori di colore.Che per farsi strada nella vita ha disconosciuto origini e affetti familiari. Che per quanti sforzi abbia fatto il suo corpo conserva una macchia, sia pure invisibile.
Insomma….”noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui”.
‘Sotto il reggiseno vuoto le costole di Marta erano sfocate, gli addominali cascanti. Lei si comportava come se non ci fossi, da quando aveva cominciato a dimagrire aveva anche smesso di rivolgermi la parola. Poco male. Le ossa della sua schiena sembravano persino meno definite di quando sporgenti tra le bretelline del sottogiacca mi avevano colpita al cuore. Forse fu un effetto del neon allucinato che le pioveva addosso, ma anche le sue braccia sembravano meno sottili dall’ultima volta che era venuta a scuola senza maniche. Del solco profondo che ne scavava la parte interna non era rimasto che un timido ballonzolante accenno.
Conoscevo a memoria ogni puntuto centimetro del mio corpo nudo, e Marta non era affatto più magra di me. Anzi. Se con i vestiti addosso poteva sembrarlo, era perché sotto la stoffa il suo scheletrino di cartilagine si ripiegava pietosamente in una sorta di guasto punto interrogativo. Io ero anche più magra, ma i muscoli dell’aerobica mi tenevano dritta. Come le modelle di Donna Moderna. Marta Cantalupo non ci sarebbe arrivata neanche in mille anni. Sei dimagrita, mentii. Un lungo brivido di piacere scosse le spire della sua colonna vertebrale mentre si affrettava a rispondere che no anzi era ingrassata, pinzandosi in via dimostrativa tra il pollice e l’indice la pelle molle intorno all’ombelico. Io le dissi ma và e lei rispose ti giuro. Io Figurati e lei Guarda che è vero. Alla fine mi arresi all’evidenza dei fatti: forse rispetto a un mese prima, un mezzo chiletto l’aveva messo su. Sulle braccia, precisai. Ma ti giuro stai meglio’: un breve estratto dal racconto ‘marta cantalupo, l’incanto di terza elle’ di barbara di gregorio. mi dicono che il suo romanzo d’esordio sia in uscita per rizzoli: aspettiamo fiduciosi.
@Simona molto bello il brano di Roth che hai inserito,il corpo è evidentemente la mappa del nostro vissuto,il segno di noi. E pensare che oggi molti fanno una gran fatica per annullare questi segni in nome di canoni estetici irrealizzabili.Si aspira ad un corpo “resettato” del proprio passato, ripulito della propria storia come una tabula rasa su cui poter riscrivere ciò che ci garba,ma da qualche parte il segno incontrovertibile di chi siamo si farà sempre sentire…per fortuna!ma questo forse è un altro discorso.
@Barbara pensavo fra gli autori italiani anche a Elsa Morante e alla carnalità del linguaggio stesso nell’Isola di Arturo,dove il corpo emerge nella scoperta, nella crescita,nelle disillusioni e nel paesaggio che pare in alcuni casi un suo stesso prolungamento.
Questo il pezzo in cui Arturo bacia la matrigna:”Nel momento stesso che la sua volontà disperata ripudiava il mio bacio,il suo corpo ( che all’improvviso mi si faceva riconoscere, come se l’avessi visto ignudo), mi implorava, all’opposto, di ribaciarla ancora!Questa implorazione palpitante e selvaggia attraversava tutte le sue membra,dai piedi rosa alle punte del petto,che sporgevano acute sotto la maglia. E nei suoi occhi spaventati trasaliva ancora quello sguardo umido,meraviglioso,intinto di un vapore azzurro, che vi avevo intravisto poco prima mentre la baciavo.”
@Simona ciao e grazie per la tua partecipazione e i contributi.
Mi chiedi:
“Qui il corpo è apparenza, ombra, macchia, appunto.
Non è solo materia ma evocazione. Viene usato per dissimulare, per nascondere, per addomesticare dolori, ferite, ricordi.Eppure continua ad essere un irredimibile testimone della “macchia”…per quanto l’uomo cerchi di cancellarla.
Non so se hai letto questo libro o se ne conosci la trama (te la riporto più giù ) ma vorrei chiederti se nella tua ricerca è emerso qualche altro autore o autrice che scriva del corpo come sigillo del passato, come sintesi della contraddittorietà del reale di cui anche il corpo è espressione.”
Mi è venuto in mente così, di colpo, ‘quando verrai’ di Laura Pugno. Il corpo della bambina protagonista parla, la sua pelle è un sigillo non tanto di un ‘certo’ passato ma di un ‘certo’ sentire entro simbolismi.
Estratto da alcune riflessioni su AgoraVox a proposito di ‘Quando verrai’:
”
[…] Ma c’è anche un altro senso, tra i tocchi, entro le maglie di una carnalità che divide personaggi, distingue sani da malati. Per tre di loro, già citati sopra, le macchie, le finte psoriasi, sono diversità che allontanano dagli altri. Quegli altri che facilmente li considerano appestati e che loro vorrebbero e non vorrebbero toccare (Eva è spesso combattuta, Ethan indossa perfino dei guanti pur di evitare ogni contatto, Montserrat è costretta a toccare per lavoro). Ma le macchie, la pelle diversa, si riconosce. Tra loro, toccandosi non provano nulla. E in quel nulla, nell’assenza di percezioni, visioni, verdetti, i protagonisti trovano un sollievo ristoratore. Al punto da cercarlo, invertendo le dinamiche del resto, quel tocco tra loro.
Le dita di Eva sfiorano le sue mani, ed è come toccare una pietra lasciata dal mare sulla sabbia, come il sasso che Eva ha raccolto ieri, sulla strada di mare, e che ora è sul comodino.
(pag.82)
Eva riesce a pensare che il corpo di Montserrat è vuoto come un barattolo di vetro, bianco come una stoffa, non c’è morte dentro.
(pag.102)
C’è un evidente legame bidimensionale tra tocchi e morte, corpi e fine.!
La pelle di Eva è piena di macchie, è probabilmente un’enorme macchia che la distingue da tutti (eccetto altri due personaggi che incontrerà lungo il suo percorso). La sua pelle le fa vedere e sentire ‘cose’ che gli altri ignorano. E per questo la isola, le da un ‘potere’ difficile, confuso, destabilizzante al punto da desiderare di ‘non sentire’ per trovare solievo, per recuperare un certo ‘silenzio dentro’.
Ci sono diversità con Roth, Simona, ma così di pancia leggendoci ho pensato a questo. Poi magari me ne verranno altri in mente…
@Giulia Belloni grazie per il passaggio e la segnalazione. 🙂
@Francesca Giulia hai ragione su ‘L’isola di Arturo’, ma il romanzo di Elsa Morante è uscito nel 1957. Rientra a pieno titolo tra le opere del novecento. Se ne occupa anche ‘Bazzocchi’ in ‘Corpi che parlano’. Per questo non rientra nel progetto che curo ma certamente in un discorso generale sugli autori italiani e i corpi.
Per stasera vorrei lasciare uno stralcio che vira rispetto alla narrativa contemporanea italiana ma che ho letto oggi e mi è rimasto molto impresso.
Estratto da ‘I corpi’ di Umberto Galimberti, prima edizione giugno 1987, diciottesima edizione luglio 2008, Saggi Universale Economica Feltrineli:
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“Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere pechè nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro, dove dire è u-dire, rispondere è cor-rispondere. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all’anonimia che le trattiene nella loro ‘inseità’, per restituirle ai nostri gesti ‘abituali’ che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le ‘sue cose’, preso di sé.
[…]
Se solo abitandolo col corpo posso conoscere il mondo e la giusta forma delle sue cose, il mondo e le sue cose, a loro volta, inviano informazioni sul mio corpo. […] Per disporre del proprio corpo non è sufficiente una perfetta organizzazione anatomica e fisiologica, ma è necessario un mondo dove il corpo possa muoversi ed esprmersi con senso.”
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Buona serata a tutti!
Dimenticavo!
@Patrizia eccoti finalmente! 😉
Buongiorno,
sono un po’ sconcertato dalla lettura. Sono sconcertato soprattutto sono smarrito. Penso al corpo, alla sua definizione nella fisica moderna, ovvero una porzione di materia, è lo smarrimento lascia spazio ad una sorta di disagio che non so comprendere. Penso al rapporto tra letteratura e corpo, fisicità per dirla in modo che assomigli di più ad un concetto letterario, ed il disagio si dissolve: è diventato abbrutimento . Faccio dei ragionamenti strani, me ne rendo conto, ma allora penso anche al rapporto inverso, ossia quella del corpo nella letteratura e non riesco ad immaginare nulla che possa anhe soltanto avvicinarvisi. Il corpo, la materia, non esiste nella letteratura. Forse esiste lo spazio, forse esiste il concetto di tempo, ma non quello di corpo e materia. Spesso non esiste neppure la sostanza. Soprattutto nella letteratura contemporanea.
Massimo, ti saluto, in ritiro da tutto sulle Alpi Elvetiche, dove mi sono estraniato in preparazione del mio secondo lavoro.
A presto
Giancarlo
gcobino@gmal.com
Grazie per aver espresso il tuo punto di vista, Giancarlo. E salutaci le bellissime Alpi Elvetiche…
@Giancarlo buon lavoro e buon ritiro.
Su questa frase mi piacerebbe scavare:
“Il corpo, la materia, non esiste nella letteratura. Forse esiste lo spazio, forse esiste il concetto di tempo, ma non quello di corpo e materia.”
Forse è un problema di lingua e significati.
Che il corpo e la materia non esistano nella letteratura, come affermazione semplice mi sembra grave, estrema e impegnativa. Necessiterebbe di motivazioni, magari esempi, chiarimenti sull’uso dei termini e dei concetti. Rapportando tali argomentazioni all’altra affermazione ovvero che ‘forse esiste lo spazio e il concetto di tempo’.
Ringrazio Barbara per i nuovi interessanti spunti che ha condiviso con noi.
Buon giorno Massimo! Buona domenica.
😀
(Barbara, ci siamo incrociati…):-))
Desideravo salutare anche Sebastiano e Patrizia Caffiero.
Grazie per essere intervenuti.
@ Simona
Simo, interessantissimo il riferimento a “La macchia umana” di Philip Roth. Un libro importante di cui avevamo anche parlato in merito alle connessioni a un altro rapporto a cui tengo molto (e a cui tieni moltissimo tu): quello tra diritto e letteratura.
Saluto e ringrazio moltissimo Giulia Belloni per essere intervenuta e per aver voluto condividere con noi l’interessante brano inserito nei commenti precedenti.
Grazie, Giulia.
@ Francesca Giulia
Trovo molto bello anche il riferimento all'”Isola di Arturo” della Morante. Brava!
Invito tutti a continuare a intervenire nella discussione, anche con riferimenti alla letteratura straniera e/o del passato.
Sappiamo bene che il lavoro di Barbara è concentrato (e incentrato) nella letteratura italiana contemporanea, tuttavia ritengo che tali spunti ulteriori possano essere utili anche al fine di tentare (in futuro) una sorta di analisi comparata.
Per esempio, Barbara… ho ricevuto – per mail – un interessante contributo di Donatella Trotta sul rapporto tra corpo e letteratura con riferimento alla letteratura giapponese.
Penso di inserirlo più tardi.
Una buona domenica a tutti!
@Massimo assolutamente. Ringrazio sin da ora Donatella Trotta. L’oggi non è ‘entità’ assestante. E studiarlo, tentare comprensioni, non può svincolare da ciò che c’è stato prima, quanto meno in un prima che gli autori, le voci possono aver assorbito, a loro volta letto e con cui si sono confrontati. Stesso approccio per la geografia. Una delle variabili che determinano l’ ‘intero’ storia scritta è l’autore nel quale intervengono a loro volta molte altre variabili (interne ed esterne) che possono anche essere geografiche (dunque viaggi, esperienze in altri paesi, letture di scritture di altre nazionalità, frequentazioni…). E’ evidentemente necessario trattare confini per non rischiare di perdersi tra ‘nebbie dense’ ricche di tanti spunti che non si riesce ad afferrare. Ma questi confini non sono, non possono esserlo, rigidi. Chiusi. Inviolabili. C’è in letteratura una fortissima componente di mescolanza, che è parte del processo creativo, della cultura che coltiva senza scremare a priori, dell’arte in generale.
Grazie.
😉
Barbara,
che sia grave, estrema ed impegnativa soltanto perché non supportata da esempi mi sembra una affermazione altrettanto grave, forse più estrema, sicuramente parimenti impegnativa. Sto sperando che il tutto non si riduca ad uno sterile discorso circa la realtà di molta letteratura che sembra avere un corpo, una fisicità sprigionata dalle proprie pagine. Sono curioso, lo ammtto, perché vorrei capire meglio di cosa si tratta.
Da parte mia non ho esempi, o quanto meno non ho esempi che desidero portare alla luce, ma senz’altro posso dire una cosa – che peraltro ho già espresso. Il corpo, inteso come la fisica lo intende e onestamente non vedo altri significati (probabilmente per mio limite personale) non esiste nella letteratura. Esiste un concetto di spazio, che è altra cosa. Ancora una volta mi viene in aiuto la fisica: spazio inteso come l’elemento dell’universo attraverso il quale ci muoviamo ed esistiamo. Questa è soltanto la mia umile opinione…
Salute a voi tutti,
Giancarlo
@Giancarlo,
sicuramente mi sono espressa male io.
non è ‘grave, estrema ed impegnativa’ perchè non supportata da esempi. assolutamente no. ma per il suo contenuto, per i significati. intendevo dire che affermare in un modo così netto, preciso, senza argomentare impedisce a me (dunque probabilmente è un mio limite) di capire a fondo il senso della tua affermazione. capire non stabilire un ‘giusto’ o ‘sbagliato’ che non è affatto in questione. Siccome poi, qui di dibatte di ‘corpi’ in letteratura, non di corpi in generale, mi è venuto spontaneo ragionare per esempi, per capire lingue o autori, tutto qui.
spero anch’io che non resti ‘sterile discorso sulla letteratura italiana’, che non sia aria insensibile, vuota, che non lascia, non è.
Grazie dell’opinione giancarlo. Buona giornata.
“Louise, la tua nudità era troppo per me, che non avevo ancora imparato l’estensione delle tue dita.
Come potevo dominare quel territorio?
Si sentiva così Colombo quando vide le Americhe?
Io non sognavo di possedere te. Volevo che tu possedessi me.”
Volevo segnalare, attraverso questo frammento, un libro che ho amato moltissimo
“Scritto sul corpo” della Winterson in cui il corpo è al centro della narrazione a volte nella sua dimensione carnale e deperibile, a volte come strumento e tramite di sentimenti, come via per incontrare la profondità di un’anima, fittamente intrecciata a essa. E comunque sempre protagonista.
Oltretutto, in un superamento del contrasto maschile\femminile il personaggio centrale della storia mantiene la sua ambiguità fino alla fine senza darci possibilità di capire se sia un uomo o una donna.
Complimenti a Barbara Gozzi per il suo progetto e a Massimo per cogliere tutti i fremiti letterari trasformandoli in interessanti argomenti di riflessione e discussione.
Buon pomeriggio a tutti.
Grazie a te Massimo, notavo che tutti gli interventi /commenti non sono inutili, di questi tempi è un grosso risultato 🙂
Ritornerò spesso su questa pagina.
Un caro saluto.
@Mavie che bello che tu abbia parlato di Scritto sul corpo,è un libro a cui avevo pensato anch’io,proprio perchè l’io narrante nè maschile nè esplicitamente femminile sembra acorporeo,ma si sofferma molto sull’aspetto carnale della relazione.bellissimo libro!Grazie Mavie.
@Massimo aspetto con grande curiosità e piacere l’intervento sulla letteratura giapponese che ti ha mandato Donatella Trotta.Avevo pensato molto al significato del corpo nell’opera di Mishima,ma anche in altri come Tanizaki,sono lieta che si parli anche di qusto.
un abbraccio”corporeo” e virtuale a te!
Caro Massi,
uno scrittore giapponese che ha fatto del corpo e del suo movimento uno specchio dell’arte dello scrivere è Haruki Murakami. Quando si dedicò alla scrittura, infatti, Haruki scelse di impegnare il corpo e di correre,correre…
Perchè?
Il motivo è qui:
http://www.passionelibri.it/blog/2009/10/20/larte-di-correre-di-haruki-murakami/
Ma la metafora è anche: muscoli, sangue, respiro che trasformano l’azione in contemplazione, il movimento in energia…come la scrittura.
Un abbraccio giapponese …credo sia uguale a quello italiano… 🙂
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@ Carissima Francesca Giulia, L’isola di Arturo è, insieme a “La storia”, uno dei libri da me più amati! Credo che anche l’isola sia corpo … Un bacio grande grande
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@Barbara Gozzi: grazie! Bellissimi i riferimenti!
Complimenti per il blog, veramente pieno di contenuti.
Un saluto
Vi aspetto anche sul mio blog
Ciao!
*Che rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?*
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La stesura dell’opera letteraria può essere vissuta dall’autore come la formazione di una creatura vivente – ecco la prima cosa che mi viene in mente. La genesi di un romanzo (di un racconto, anche, ma il romanzo ha davvero la complessità di una vita, e le dimensioni, le lungaggini pure) fa pensare (mi fa pensare, sempre) allo sviluppo di una organismo, animale più che vegetale. Davvero sento le frasi combinarsi in sequenze, le sequenze in capitoli, i capitoli in un corpo. E le stesure, le revisioni, i rifacimenti, i pentimenti, i rimaneggiamenti, diventano come fasi di una vita, momenti di una crescita. Non c’è bisogno a questo punto che il corpo del romanzo sia perfetto (non esistono corpi perfetti in natura): è importante che, nutrito di parole, alimentato di pensieri, quel corpo si muova.
E si muove, eccome. Spesso si muove in direzioni che l’autore non ha previsto. Striscia verso soluzioni non programmate, o si intestardisce a non procedere. Credo che sia un bene, in questi casi, assecondarlo, le gabbie progettuali non gli fanno bene, ne limitano la visuale, ne azzerano la libido. Impediscono anche a noi, che lo abbiamo scritto e continuiamo a nutrirlo di parole, di provare lo stupore di chi assiste a qualcosa di inaspettato.
Detto questo: la letteratura racconta essenzialmente di corpi. Gesti compiuti da arti. Movimenti nello spazio di corpi. Sguardi, sfioramenti, approcci sensoriali alle cose, elaborazioni di organi sensoriali. Anche i pensieri sono prodotti di reazioni chimiche – chi si addentra nell’interiorità dei personaggi non dovrebbe dimenticarlo. Tutto è materia – cioè parole che rappresentano la materia.
*Pensando alla letteratura del passato (italiana e internazionale)… in quali opere il corpo, la “fisicità”, diventano elementi caratterizzanti delle opere medesime?*
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Alla rinfusa, e immagino con gravi lacune di cui mi vergognerò presto: le opere della letteratura greca e latina in cui si insinua il realismo, e attraverso il realismo il corpo, anche nelle sue funzionalità più basse e private; dunque la narrazione antica, Petronio, Apuleio, perché il realismo è narrazione, per gli antichi, ed è comico. Ma anche le opere in cui il mito di trasformazione viene stilizzato con eleganza, e attraverso la metamorfosi i corpi si scoprono in affanno, in doloroso spostamento verso forme dalla fisiologia sconosciuta: Ovidio, dunque. Poi su, a Dante: l’Inferno dei ladri, ad esempio. Rabelais, ma su di lui dovrei riempire pagine e pagine. Swift, altri giganti altri sguardi sgomenti. Mary Shelley. Verga: corpi affaticati, ostinati, piegati dal lavoro e dalle ossessioni, racconti come referti clinici. La “Fosca” di Tarchetti, certo. Il dottor Semmelweis raccontato da Céline. Le riflessioni della Woolf sul rapporto tra malattia e letteratura. L’”Amedée” di Ionesco, quel cadavere che cresce e invade con i piedoni tutta la scena. Il “Gilles et Jeanne” di Michel Tournier, così lucidamente crudele nell’indagare il contraddittorio rapporto tra santità e ferocia. “Fame” di Hamsun. E, paradossalmente vividi, i testi dei mistici cattolici – stavo per dimenticarli – che raccontano di corpi provocati, martoriati, martirizzati, abbandonati a se stessi, lasciati sanguinare, derisi, percossi dall’interno. E forse soprattutto – stavo per dimenticare pure questi – certi saggi vasti come vite, appassionanti come narrazioni (Praz, Camporesi, Barthes…).
*E nell’ambito della letteratura contemporanea?*
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Il corpo ingombrante, la fisicità che invade la pagina, il corpo che cambia (sempre in peggio: che casca, si sfalda, si ammala, reagisce male, si lascia invadere, si ribella, si sfibra, impallidisce, muore) forse lo sanno raccontare solo gli ipocondriaci. Solo gli scrittori che, per lunga e dolorosa e angosciosa dedizione, hanno imparato ad ascoltare o osservare o supporre i minimi segnali del loro corpo come segni di un codice criptato, e che, se solo si concentrano, sentono cambiare il loro corpo, lo sentono (ma non vorrei suonare melodrammatico) lavorato dall’interno da forze ostili, e attraverso la scrittura sanno attribuire un valore simbolico forte e per così dire universale a quei segni al momento di trasferirli sul corpo di un personaggio.
Il primo nome che mi viene in mente non è uno scrittore, ma un pittore: Bacon. Ha una qualità narrativa più che descrittiva molto particolare, nell’isolare un dettaglio (orecchio naso occhio occhiale denti) per consegnarlo al nostro sguardo attonito come una possibile chiave d’accesso alla vita e alla storia di quel corpo che si sta contorcendo davanti a noi in quel tinello.
Ma, per rispondere più appropriatamente, cito subito la “Diceria dell’untore” di Bufalino, vasto rimuginio splendidamente scritto sulla malattia, la stanchezza del vivere, la vecchiaia e la morte. Poi torno a citare alla rinfusa, tra i libri che ho amato: “Corpi estranei” di Giannubilo, “Je ne connais pas ma force” di Stéphanie Hochet (prima di morire vorrei veder riconosciute anche in Italia le qualità di questa brillante e profonda scrittrice francese), i romanzi di Rosa Matteucci (“Lourdes” in particolare, ma anche “Cuore di mamma”), “Fosca Bis” di Guido Conterio. “Bondville” di Barbara Gussoni. E il Michele Mari di “Verderame”, sicuro – di Mari tutto, anzi.
C’è poi un piccolo romanzo di DeLillo, “Body art”, in cui la presenza di un corpo si misura con l’assenza dell’altro, e con la permanenza di tracce, ombre, ricordi.
*Quale romanzo scegliereste come testo rappresentativo del rapporto “corpo/letteratura”? E perché?*
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Molti romanzi di oggi sembrano voler affrontare il racconto dei corpi in modo cinematografico, imponendone la presenza in inquadrature, lasciando che quell’ingombro di corpi invada la scena e si imponga da sé. Ma questi corpi si muovono troppo velocemente, procedono con una sicurezza studiata a tavolino, vivono di una vita convenzionale, hanno facce troppo spesso riconducibili a quelle di attori, recitano insomma una parte, sono pensati con uno spirito da sceneggiatori più che da autori di romanzi.
È un limite, secondo me: il vero corpo ha una sua lentezza, una sua inerzia, che il cinema (quello che riempie le sale, per lo meno) non sa riprodurre e forse nemmeno capire. Il sonno del corpo, gli odori, la fatica, il male, la nausea, l’ebetudine, gli affanni, la ribellione, il tremore, il sudore, le reazioni incomprensibili, l’abbandono tramortito, la fisiologia, i tempi morti, i gesti segreti – questo mi manca, nel cinema e in molta letteratura di oggi. Troppo spesso mi imbatto in impeccabili architetture, in strutture narrative in cui tutto è dosato, educati automi che non sorprendono perché sono fatti per accontentare, e che rischiano di assomigliarsi tutti.
Perciò, per rispondere, sparo fuori il romanzo imperfetto, necessariamente imperfetto per eccellenza, il “Moby Dick” di Melville, gigantesco, solenne imprendibile organismo marino. E butto lì la “Recherche” di Proust, sonnacchioso pachiderma malato di finissima memoria adagiato su un lettone comunque troppo stretto.
E, andando indietro nel tempo (le cronologie non servono, quando si parla di classici, che continuano a parlarci e convivono fianco a fianco nelle nostre librerie e ormai sono ricoperti, per noi, che li prendiamo in mano, da fitte ragnatele di rimandi impliciti), cito le opere che hanno fatto soffrire i loro autori, per decenni, continuamente rimaneggiate, purgate, ricucite, riaperte, disinfettate. La “Gerusalemme” di Tasso, che so (non è un romanzo, va bene, ma è anche narrazione) , “I promessi sposi”, immane corpo mummificato, dalla vita travagliatissima, al cui giaciglio ogni generazione ha dovuto recarsi, volente o nolente, e che talvolta sembra di veder muovere ancora.
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
@ Mavie
Grazie a te, cara Mavie. E in bocca al lupo per il tuo romanzo in uscita “E sono creta che muta” (Perrone Lab, 2009).
Dato il titolo, ti domando… ha in qualche modo a che fare con il tema “letteratura e corpi” di cui stiamo discutendo?
@ Patrizia Caffiero
Cara Patrizia, grazie a te.
Torna presto… e sentiti sempre a casa, qui 🙂
@ Francesca Giulia
Grazie a te, Fran. I contributi di Donatella Trotta sono in arrivo… 😉
@ Simona
Carissima Simo, grazie per i riferimenti ad Haruki Murakami.
Un bacio:-))
E grazie anche a Claudio Morandini per i suoi interessanti interventi (Claudio, torna a intervenire… ci conto, eh).
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[In bocca al lupo a Giuseppe per il suo blog]
@Massimo grazie…e caddi come corpo addormentato cade.
buonanotte!!
E ora veniamo al già citato “lavoro” di Donatella Trotta.
Si tratta di un vero e proprio saggio che dividerò in otto parti per ragioni di carattere grafico (mi dispiace non essere in gradi di riprodurre le note).
Prima di inserire i paragrafi, però, copio il testo della mail inviatami da Donatella (giusto per farvi capire meglio l’oggetto del saggio).
Donatella mi ha scritto:
Caro Massimo,
rispondo all’ultimo dei tuoi stimolanti quesiti inviandoti, in allegato, un mio piccolo contributo al rapporto tra corpo (femminile, nella fattispecie, e giapponese) e letteratura, apparso di recente nel n. 2 della rivista del dottorato di studi di genere “La camera blu”, edita a Napoli da “Filema”. Numero monografico, come è consuetudine della rivista, dedicata in quel caso proprio a “Corpi e linguaggi”. Spero possa interessarti e contribuire al dibattito da te aperto.
Un caro saluto.
donatella trotta
Buonanotte a te, cara Francesca Giulia. Leggerai il contributo di Donatella domattina 🙂
Prima di inserire i paragrafi, però, mi sembra giusto presentare Donatella Trotta:
Donatella Trotta è nata a Roma e si è formata tra Italia, Giamaica, Svizzera e Giappone. Laureata in Lettere, vive a Napoli, dove lavora dal 1983 alle pagine culturali del «Mattino». Giornalista, è autrice e curatrice di numerosi libri. Per “Liguori” ha pubblicato testi su Di Giacomo (in Salvatore Di Giacomo settant’anni dopo, 2007) e Serao (in Matilde Serao. Le opere e i giorni, 2006), alla quale ha anche dedicato l’Album Serao (Fausto Fiorentino, 1992). Tra i riconoscimenti più recenti: l’Andersen, il Premio internazionale di giornalismo civile dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il Premio internazionale Eip-Italia dell’Unesco, il Capri San Michele e il Premio di giornalismo Matilde Serao.
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte I)
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1. Cattive ragazze.
Un mondo ibrido. Androgino. Un mondo mutante, a tratti perverso, inquieto e – per molti occidentali – radicalmente “altro”: estremo, spiazzante, perturbante. Un mondo di cattive ragazze amorali, più ancora che immorali, alla ricerca di emozioni forti nel sesso come nella vita, ma anche di adolescenti, studentesse e lavoratrici part time in cerca d’amore e identità, e poi casalinghe in rivolta, che oltrepassano talora con violenza ruoli predeterminati attraversando la linea d’ombra dell’alienazione collettiva: fino al nocciolo di buio del disagio di civiltà.
Le protagoniste del panorama letterario giapponese contemporaneo offrono innumerevoli esempi di un mondo incarnato in corpi di donna che ribaltano canoni e convenzioni, letterarie sociali e di genere, manipolano e addomesticano a nuove possibilità e frontiere erotico-esistenziali stereotipi di attività e passività sadomaso e sconfinano con disinvoltura tra generi, codici e temi diversi, in una costante pratica di crossover che ri-disegna traiettorie spesso inedite, nella modernità liquida della globalizzazione. Lungi dall’essere femministe militanti, autrici ed “eroine” di carta dell’odierno impero nipponico dei segni – e dei sensi – sembrano piuttosto prefigurare un «nuovo tipo di donna che non sia femminista né tantomeno conservatrice», come sottolinea con studiata ambiguità una di loro, Matsuura Rieko, classe 1958, esordiente a vent’anni e controversa autrice di culto di libri come Nachuraru ūman (Natural Woman, 1987), un testo di amori saffici tradotto e curato da Alessandro Giovanni Gerevini per Marsilio con un’utile nota finale all’edizione italiana (Corpi di donna, 1994), e del fluviale romanzo L’alluce P (1993, trad. italiana di Annalisa Zanoni per Marsilio, 1998), storia surreale e postkafkiana della metamorfosi dell’alluce di una ventiduenne in un pene, che dischiude progressivamente alla protagonista una stralunata galleria di ritratti deformati e situazioni abnormi inscritte dalla critica giapponese in un filone di “pornografia pulp” o “letteratura lesbo-femminista”, ma in realtà difficilmente etichettabile nella sua Weltanschauung deviante e provocatoria, intenzionata a riflettere sul corpo sessuato nella società contemporanea e sull’androginia.
Alla stessa generazione appartiene anche Yamada Eimi (1959), il cui primo libro, pubblicato nel 1985 e tradotto in italiano da Giuliana Carli (Occhi nella notte, Marsilio 1994), suscitò scalpore per il linguaggio colto ma trasgressivo e disinibito con cui l’autrice (sposata come diverse protagoniste dei suoi libri con un militare americano di colore) parla di passione, sesso e differenze culturali e biologiche, che tornano anche nella raccolta di racconti Bad Mama Jama (1987), quasi un piccolo affresco della new generation di Tokyo, dei suoi slang, riti e miti, edito in Italia nel 1996 da Marsilio (tr. Giuliana Carli) con un Monologo finale dell’autrice stessa che chiarisce il suo approccio personale ed eterodosso alla lettura, alla scrittura e al suo rapporto con il corpo: «Penso – dice in conclusione Yamada – che molti dei romanzi scritti da donne scaturiscano da posizioni vittimistiche, si tratta di opere in cui le autrici non riescono ancora a sentirsi mentalmente indipendenti. Quelle che al contrario lo sono, svolgono a meraviglia nei confronti di se stesse una funzione terapeutica, e mi pare di poter dire che aumentano di giorno in giorno». Chiave di lettura funzionale per addentrarsi in una folta e fortunata (in quanto pluripremiata e tradotta all’estero) produzione contemporanea di letteratura di donne che affonda peraltro le sue radici in una tradizione antica in Giappone, risalente almeno all’epoca Heian (794-1185), con la stesura di diari poetici e monogatari (storie) scritti in giapponese, anziché nel cinese dei documenti e delle opere letterarie ufficiali di allora: e basti pensare a due nomi fondanti della letteratura moderna, non soltanto nipponica, come Sei Shonagon e Murasaki Shikibu, tessitrici di emozioni e sentimenti attente alla soggettività dell’esperienza , che torna comunque alla ribalta anche nel Novecento, con l’affermazione dello shishōsetsu (romanzo dell’io) e dello jidenshōsetsu (romanzo autobiografico).
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte II)
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2. Oltre il sentiero d’ombra.
Ma per tornare ad oggi, dopo il boom di scrittrici giapponesi negli anni Sessanta-Settanta del Novecento che scardinava i rigidi ruoli sociali tradizionali a favore di un nuovo spazio di protagonismo femminile sulla scena letteraria e di ridefinizione del rapporto tra i sessi, sulla base di un ordine simbolico diverso – non esente da un profondo senso di inquietudine -, è a partire dagli anni Ottanta che si è delineata, secondo Paola Scrolavezza, un’evoluzione che ha dato vita a «una sorta di scrittura post-femminista, pacificata nella fluidificazione dei confini, di ruolo, di genere, e anche di genre con le sue incursioni frequenti nel mondo del cinema, dell’anime, del manga», guadagnandosi uno spazio di tutto rispetto nel panorama letterario giapponese con lavori che hanno quasi sempre protagoniste femminili, rivolti a un pubblico di donne, accomunati da una precisa impronta realistica, se non autobiografica, comunque riferita a esperienze comuni tra coetanee. Tema centrale, ancora una volta, «la ricerca dell’io, la definizione della propria identità in una società che sembra finalmente offrire alle donne opportunità finora negate» . Un universo femminile insomma affollato di voci vivamente intenzionate a uscire, attraverso la scrittura, dal sentiero d’ombra femminile (Onnazaka), strappando le maschere di donna (Onnamen) che segnano le esistenze del secondo sesso nel paese del Sol Levante, per usare due suggestivi titoli di una capostipite del Novecento letterario giapponese come Enchi Fumiko (1905-1986), autrice di libri che con nitore classico raccontano storie di donne dalle vite quotidiane intessute di umiliazioni e sofferenze provocate da una organizzazione familiare basata sulla vessazione sistematica del ruolo femminile, comunque indomabile e resistente, sia pure sottotraccia, a qualunque forma di oppressione dell’ambiente esterno. Grazie a risorse interiori insospettabili.
Una testimone paradigmatica di questa svolta è a mio avviso Tsushima Yuko, oggi sessantenne, figlia del celeberrimo scrittore maudit Dazai Osamu (morto suicida nel 1948, quando Yuko aveva un anno), che incontrai a Tokyo a metà degli anni Ottanta: tormentata autrice di romanzi che focalizzano l’attenzione sull’intimismo, sulla sfera privata e sentimentale, Tsushima mi aveva colpito per il suo unico romanzo poi egregiamente tradotto in italiano con una opportuna nota critica da Maria Teresa Orsi, Choji (1978), Il figlio della fortuna (Giunti Astrea 1991): storia di solitudine e incomunicabilità di Koko, una giovane donna divorziata dal marito, madre di una figlia adolescente che preferisce stare nella famiglia borghese della zia. Koko vive così da sola in un modesto appartamentino di città, inanella frustranti relazioni sentimentali e sessuali con altri uomini, finché una gravidanza inattesa non la mette in contatto con la parte più profonda di sé, attivando nuove energie e fantasie sul figlio in arrivo intrecciate con frammenti di ricordi del fratello minorato mentale, l’unico con cui Koko riuscisse a comunicare autenticamente da bambina. L’amara rivelazione che la gravidanza è isterica, ovvero immaginaria, non arresterà però il flusso di coscienza ormai sprigionato dal bozzolo chiuso della donna.
Il tema dell’attesa di un figlio ritorna anche in un racconto di una scrittrice della new wave nipponica, Ogawa Yoko, classe 1962, che a 28 anni esordì conquistando il prestigioso premio Akutagawa con il racconto intitolato, appunto, Ninshin Karenda (Diario di una gravidanza), sguardo straniante della protagonista adolescente sullo stato interessante della sorella, ora pubblicato anche in italiano nella raccolta di tre racconti La casa della luce (Il Saggiatore 2006, tr. Di Mimma De Petra), che rivelano il talento di un’autrice capace di addentrarsi lucidamente nel mondo adolescenziale: tra innocente perversione e ricerca della verità, consapevole crudeltà e inconsapevole malinconia, ai confini di una impalpabile bellezza e tristezza. Diade suggestiva che, come nell’omonimo romanzo del Nobel Kawabata Yasunari, segna i vuoti, i silenzi e le emozioni più oscure di molta estetica tradizionale giapponese: riverberata, soprattutto all’inizio della sua fortunata traiettoria letteraria, anche nei libri di Yoshimoto Mahoko, in arte Banana, scrittrice di successo planetario, nata nel 1964 e rivelata in Italia nel 1991 da Kitchen (Feltrinelli), in prima traduzione mondiale grazie alla raffinata mediazione di Giorgio Amitrano, cui hanno fatto seguito le pubblicazioni di molti altri romanzi dalle atmosfere rarefatte, andati a ruba tra le giovani generazioni, e non solo. Sulle pulsioni erotiche (ma non pornografiche) come esplorazione di senso nella crescita di una giovane donna si sofferma invece un’altra autrice di punta in Giappone, molto apprezzata in Francia: Kawakami Hiromi, nata a Tokyo nel 1958, anch’essa segnalata dal premio Akutagawa (riconoscimento che in Giappone funziona da talent scout, tanto da aver dato visibilità, tra gli altri, al Nobel Ōe Kenzaburo). Nel suo romanzo Sensei no Kaban (La borsa del professore), edito in Francia nel 2005 da Philippe Picquier con il titolo Les Années douces, la relazione sensuale che si instaura tra un vecchio professore di giapponese, vedovo, e la sua allieva single, di molti anni più giovane, incontrata per caso in un caffè cittadino echeggia per certi versi, ma con altre forme ed esiti, la sottomissione sessuale-intellettuale ad un uomo anziano – traduttore dal russo segnato da un dolore oscuro – di Mari, l’adolescente protagonista del romanzo di Ogawa Yoko Hotel Iris (Marco Tropea 2005), dove la scoperta dei sentimenti, del corpo e la perdita dell’innocenza passa per un’iniziazione perturbante e ossessiva.
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte III)
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3. Sex & sushi.
Non è allora un caso che nella raccolta di racconti erotici giapponesi Sex & Sushi, datati dal 1983 al 2000 e pubblicati a cura di Cristiana Ceci (Mondadori 2001), otto autori su dieci siano donne: e tra queste, anche le già citate e più note Yamada Eimi e Kawakami Hiromi, con l’unico testo finora tradotto in italiano, Tenebre, tratto dall’antologia di racconti Oboreru (Infatuarsi), dove l’irruzione del rapporto con il soprannaturale opera slittamenti di senso nella dimensione quotidiana e carnale delle relazioni umane (come nel caso dei due coniugi protagonisti del racconto) basate, come molte espressioni dell’arte e della letteratura giapponese, su una profonda fisicità e plurisensorialità che lega profondamente la psiche dei personaggi anche alla natura circostante. La scrittrice più anziana, nell’antologia Mondadori, è Minagawa Hiroko, classe 1930, origini coreane e una passione per i gialli, il mistery e il noir, accanto a Nakayama Chinatsu, nata nel 1948, inizialmente attrice e conduttrice tv, poi scrittrice e attivista politica militante; le altre (Matsuda Shiori, pseudonimo di Tanaka Juri, 1962, giornalista ed esperta di arte italiana e fotografia; Hayashi Mariko, 1954, concentrata sulle relazioni di sesso e amore dal punto di vista femminile; Uchida Shungiku, 1959, autrice di manga che trasferisce anche nella scrittura il suo mondo fumettistico; Ieda Shoko, 1958, formazione giornalistica e vita movimentata con scelte estreme riverberate nei suoi romanzi, racconti brevi e saggi) sono quasi tutte coetanee. Accomunate, pur nella diversità, dall’attitudine a sperimentare nuovi itinerari esistenziali proprio «dilatando l’universo erotico», come sottolinea Cristiana Ceci specificando opportunamente che in Giappone la distinzione tutta occidentale tra “alto” e “basso” è superflua, anche in letteratura, a favore semmai della categoria del “popolare”: nella quale si inscrive anche il tema del sesso, e del corpo, argomento tutt’altro che trasgressivo o dissacrante, in un Paese ove – va ricordato – non esiste condanna morale né senso del peccato intesi in senso giudaico-cristiano, tanto da aver dato vita nei secoli passati alle stampe erotiche “didattiche”, definite con un’immagine poetica shunga, ossia «immagini della primavera»; sicché quello stesso tema, precisa ancora Ceci, «trattato in modo hard o soft», dimostra come nell’impero dei segni, e dei sensi, anche il sesso sia «non un genere, non un contenitore, bensì un contenuto trasversale a stili e approcci diversi».
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte IV)
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4. Monache laiche tuttofare.
Un filone di riflessione fecondo, da questo punto di vista, lo offre il sostrato buddhista analizzato, in uno scenario storico molto complesso, dalla studiosa Roberta Strippoli (già curatrice di una raccolta di racconti del Medioevo giapponese dal titolo La monaca tuttofare, la donna serpente, il demone beone, Marsilio 2001), che il 27 aprile del 2005 ha tenuto all’Orientale di Napoli una conferenza per il ciclo «Buddhismo e letterature» intitolata «Madri, monache o donne di malaffare? Le religiose buddhiste nella letteratura giapponese dei secoli XIII-XIV», dove la variegata fisionomia emersa dal quadro tracciato dalla Strippoli offre non poche chiavi di lettura anche per il panorama contemporaneo. Basti pensare ad alcuni ritratti di monache tuttofare, dotate di laicissime arti seduttive; a devote e oblative madri di famiglia decise a prendere i voti per svariate ragioni, personali e sociali; ad autorevoli e controverse leader politico-spirituali assimilate (come Hojo Masako alla fine del XII secolo) a una spregiudicata gestione del potere, tanto da essere denominate “monache shogun”; ad artiste di strada e danzatrici come Gio, già concubina di un capo militare, passata alla storia come donna virtuosa nelle trasfigurazioni letterarie successive alla narrativa epica dell’Heike Monogatari (XIII-XIV secolo); o alle aggressive e intraprendenti “donne serpenti”, simboli di passioni distruttive tramandate dai miti di fondazione di alcuni templi buddhisti nipponici: «L’identità femminile delle religiose del Giappone medievale è un caleidoscopio di immagini a lungo avvolto da una cortina di confusi pregiudizi, soprattutto da parte di osservatori stranieri che le hanno dipinte come prostitute, eppure significativo per ricostruire uno spaccato reale della società del tempo», dice Strippoli.
E lo può dimostrare, tornando ai giorni nostri, la parabola di due autrici: una è la già citata Ieda Shoko, che dopo aver svolto inchieste per la tv e i giornali sull’industria del sesso, sulla violenza e sull’Aids – temi poi ripresi nei suoi libri di fiction a partire dal bestseller Yellow Cab, del 1992 -, e dopo due matrimoni con neri americani, entrambi falliti, ha preso i voti da monaca buddhista e vive dal 1999 in un monastero a Kagoshima, continuando a scrivere opere spesso trasposte sul piccolo e grande schermo.
L’altra, oggi pluriottantenne (è nata nel 1922), è la scrittrice di fama internazionale Setouchi Harumi, laureata in letteratura giapponese alla Women’s Christian University, divenuta monaca buddhista nel 1973 con il nome di Jakuchō dopo una vita molto tumultuosa costellata, fra il resto, da un divorzio, dall’abbandono del figlio (come la nostra Sibilla Aleramo di Una donna), da una travolgente storia d’amore con un giovane studente del marito, da un lungo soggiorno in Cina negli anni dell’occupazione giapponese, dal suicidio di amici scrittori come Mishima e Kawabata, dalla tentazione di farla finita e infine dalla scelta radicale del monastero: una tranquilla casa-tempio nella quiete dei boschi di bambù a Saga, a ovest di Tokyo – dove andai a trovarla nel 1992 per un libro sul sacro in Giappone che stavo preparando – che non le impedisce ancora oggi di continuare a scrivere, viaggiare ed essere presente nel dibattito internazionale. In Italia, Setouchi è diventata celebre al giro di boa del nuovo millennio, quando il valente Gianluca Coci ha tradotto il racconto autobiografico (del 1966) La fine dell’estate per Neri Pozza, editore che ha poi pubblicato anche altri tre libri della scrittrice, un personaggio davvero straordinario: La virtù femminile (2003), ambientato nello stesso monastero-rifugio dell’autrice (che nel 2006 è stata non a caso insignita di due prestigiosi premi: il Nonino in Italia e l’Ordine della Cultura in Giappone) e Il monte Hiei (2005).
Libri che affrontano l’eros, il triangolo amoroso, ma anche lo zen, i problemi del mondo e temi come l’abbandono di un figlio e l’aborto senza reticenze, ma con molte sottili metafore. Come quella che dà il titolo a Le mani sporche di Dio, romanzo potentemente antiabortista di Sono Ayako: nome di penna di un’altra autrice giapponese, Machida Chizuko, classe 1931, convertita al cattolicesimo con il battesimo a 17 anni e moglie di uno scrittore giapponese cristiano, Miura Shumon, insignita nel 1979 dell’onoreficenza pontificia Pro Ecclesia et Pontefice e molto apprezzata nelle file degli scrittori nipponici convertiti al cristianesimo. Il romanzo è uscito per la prima volta in Occidente nel 1990, per i tipi dell’editore italiano Spirali (tr. Di Rosario Maniera): ambientato in una clinica di ostetricia e ginecologia dove si intrecciano storie e destini spesso ispirati anche da fatti reali accaduti, è un libro corposo innervato su temi come la vita e la morte, l’amore e il sesso, ma anche, in anticipo sui tempi, sulla fecondazione artificiale, la sterilità, l’eugenetica e soprattutto l’aborto, con duro atto d’accusa dell’autrice per i milioni di bambini mai nati in Giappone, una sorta di invisibile strage degli innocenti per la quale esistono appositi spazi nei cimiteri nipponici, con tanto di piccole statue di Bodhisattva ornate di bavaglini, cuffiette, con peluche e biberon ai piedi, a simboleggiare la cattiva coscienza di molte madri mancate per una scelta sovente praticata con disinvoltura, senza reale necessità, come contraccettivo estremo .
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte V)
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5. Le scosse della letteratura.
Per molte di queste donne scrittrici, la scrittura letteraria diventa davvero, come per Virginia Woolf, la capacità di ricevere (e magari trasmettere) scosse, ma anche di usare parole usuali per dire cose inusuali (e viceversa), e oltrepassare così lo specchio opaco della realtà svelandone le contraddizioni, le trappole, le zone d’ombra annidate sotto la superficie delle convenzioni di una civiltà antica che conserva aspetti tradizionali anche in molte pratiche contemporanee proiettate o addirittura immerse nel futuro . Dei tanti esempi possibili vorrei allora sceglierne, per concludere, tre dei più recenti, “incontrati” di persona (libri e scrittrici) tra Italia e Giappone. Il primo è incarnato da Taguchi Randy, nata a Tokyo nel 1960, sposata e madre di una bambina di dieci anni, in passato coordinatrice di una grande agenzia pubblicitaria poi lasciata per creare, prima donna in Giappone, un web magazine di culto (oltre centomila contatti il primo anno), dove è diventata seguitissima columnist e “regina” della Rete affrontando temi sociali, psicologici, ecologici, religiosi e di una quotidianità segnata dalla paura della morte, dalla violenza e dalla follia. La stessa che a un certo punto ha cambiato la vita della scrittrice, con il suicidio per hikikomori (autoisolamento volontario fino alla morte per inedia) del fratello, sensibile e geniale, da lei mai menzionato esplicitamente. Il romanzo Presa elettrica, best seller tradotto in Italia l’anno scorso da Gianluca Coci per Fazi/Lain, racconta questa esperienza sconvolgente trasfigurata nella storia di Yuki, giornalista economica con studi di psicologia alle spalle, che indagando sul mistero del suicidio del fratello scopre in sé insospettate doti sciamaniche che le consentono di fiutare – letteralmente: sentirne l’odore -, malattie mortali nei suoi partner, e di debellarle con il potere taumaturgico del sesso, in una spirale plurisensoriale che nel romanzo oltrepassa la soglia del visibile e intreccia dimensione onirica e fantastica, virtuale e reale, veglia e sogno, psicologia scientificamente fondata e poteri occulti, passioni e spiritualità sullo sfondo di un Giappone ipertecnologico del nuovo millennio dove i problemi della globalizzazione, ti dice l’autrice, provocano «difficoltà, deformazioni mentali e un senso di cupezza in molti giovani: figli della “grande bolla” economica evaporata quindici anni fa, i quali riverberano così all’estero una mentalità considerata tra le più strane al mondo, ma che in realtà adombra una profonda, dolorosa crisi, generata in passato da due “scontri di civiltà” che hanno cambiato il Giappone: il primo nell’era Meiji, con l’apertura totale del Paese all’Occidente, l’altro dopo la seconda guerra mondiale».
E sono cifre inquietanti quelle che ti fornisce pacata la scrittrice, non a caso fasciata in un elegante kimono viola costellato di gigli in omaggio alla tradizione di un Paese dove, oggi, il 70 per cento dei bambini delle elementari non vede un futuro, nell’ultimo quinquennio si sono tolte la vita 30 mila persone, muoiono circa 10mila lavoratori ogni anno per karoshi (surmenage lavorativo) e circa un milione di giovani hanno scelto di “staccare la spina” con tutto e tutti (lavoro, relazioni, cibo, acqua), spegnendosi per hikikomori: «Un’emergenza sociale», sottolinea Taguchi, scrittrice autodidatta che da Presa elettrica, sua opera prima, parte di una trilogia (con Antenna e Mosaico) che ha già dato vita a due film per il cinema, dal 2000 ad oggi ha già pubblicato 15 volumi di fiction e oltre venti di saggistica. Un record. Con quali riferimenti letterari? «Non giapponesi – è la replica spiazzante -. Da ragazza ho letto molta fantascienza (Asimov, Bradbury, Brown), ma anche Tabucchi. Amo le scienze naturali, la filologia classica e ho subìto forti influenze psicoanalitiche: soprattutto Jung e Lacan, ma anche Kawai Hayao, uno dei più noti studiosi nipponici del mondo dei sogni. Ed è da Jung che ho mutuato lo sforzo di cercare una sintesi tra Oriente e Occidente, in un momento di grande transizione per il Giappone, che ha radici animiste e una spiritualità antica, insita nello sciamanesimo – soprattutto femminile – nato cinquemila anni fa da un sostrato siberiano tuttora intrinseco, anche se in gran parte assopito, nella società, nell’anima e nella coscienza del mio popolo. Ed è questa spiritualità, di cui i giapponesi hanno particolare bisogno, che ho cercato di risvegliare con il mio libro».
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte VI)
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6. Gioventù tatuata.
In tutt’altro orizzonte si colloca invece l’opera di una giovanissima autrice, Kanehara Hitomi, anch’essa autodidatta, e come l’amica Yoshimoto Banana (figlia di un autorevole critico letterario) in qualche modo “figlia d’arte” ben introdotta negli ambienti letterari giapponesi, dove ha subito sfondato raggiungendo un successo che nel suo Paese di lettori forti e onnivori si traduce in copie vendute con tirature semplicemente inimmaginabili in Italia: nel suo caso, un milione di libri per il primo titolo. Kanehara è una ragazza filiforme per le sue tendenze anoressiche, dalla pelle bianchissima, la folta chioma corvina ossigenata fino a virare in un improbabile biondo mielato, con un accurato look da icona della cultura giovanile pop e underground (minishort rosa shocking, canotta griogionera rigorosamente firmata Dolce & Gabbana, borsa griffata Gucci, come i sandali dagli altissimi tacchi a spillo: neri, in tinta con le unghie laccate dei piedi). È lei che nel 2004 è diventata un caso letterario, vincendo la 130esima edizione del premio Akutagawa con il romanzo Hebi ni piasu, pubblicato in Italia da Fazi nel 2005 con il titolo Serpenti e piercing (tr. Di Alessandro Clementi), in contemporanea con Gran Bretagna e Stati Uniti. In Giappone, il libro ha un padrino d’eccezione: lo scrittore Murakami Ryu, già autore (e regista dell’omonimo film di funebre e perverso fascino) di un libro dall’eloquente titolo Tokyo Decadence (Mondadori 2004), nonché a sua volta premio Akutagawa nel 1976 con il romanzo Blu quasi trasparente (Rizzoli 1993), che segnò una svolta nella scena letteraria nipponica. Per Murakami, Kanehara «è un vero talento, che nel suo primo libro delinea il ritratto di un mondo eccentrico, dove viene chiaramente messo a fuoco cosa passa per la testa delle giovani giapponesi di oggi». Affermazione che un po’ mette i brividi, se si approfondisce, leggendo il libro, quale sia il mondo sotterraneo scelto dall’autrice come ambientazione al suo romanzo: quello delle dolorose pratiche di “body modification”, modificazioni corporee anche estreme messe in atto da certa gioventù ribelle e insofferente alle convenzioni borghesi, dai tatuaggi più o meno elaborati ai cheloidi fino ai piercing più radicali (come lo split tongue, ossia la lingua biforcuta dalle estremità mobili e indipendenti come quelle dei rettili).
È il mondo della disgregazione (dell’assenza) delle istituzioni sociali simbolo della tradizionale coesione giapponese (famiglia, scuola, azienda), in una desolante solitudine limbica della shinjinrui, la “nuova razza” definita da Tanaka Yasuo “di cristallo” per la sua fragilità o “della moratoria” (così Okonogi Keigo) per la sua tendenza a non voler crescere: una generazione figlia della recessione e di una cultura disimpegnata del kawaii (“carino”), ma anche protagonista di fenomeni scottanti come l’enjo kousai, la prostituzione minorile per futili motivi consumistici e la pornografia. Un panorama di ragazze e ragazzi spesso minorenni, che crescono in bilico tra precoci esperienze erotiche anche sadomaso e noia, nichilismo ed edonismo stoico, in una Tokyo del disincanto postmoderno costellata di localini hip hop, trance e tecno non a caso sfondo di un altro romanzo lucidamente impietoso e disperato su questa adolescenza alla deriva: Oro rapace di Yu Miri, 38enne autrice giapponese di origini coreane (tradotta da Mimma De Petra per Feltrinelli, 2001), che attorno alla storia del 14enne Kazuki, ricco e viziato protagonista di uno stupro che dà l’avvio al libro, rispecchia una generazione che ha perso di vista i confini morali dell’esistenza, e non riesce più a distinguere tra realtà virtuale e verità, “sballo” e normalità di tutti i giorni, in una totale incapacità di gestire relazioni affettive autentiche con gli altri, se non in un orizzonte minimalista circoscritto a coetanei. Un po’ come avviene in Serpenti e piercing di Kanehara, singolare “educazione sentimentale” della 19enne Luì con Ama, il compagno punk ma bravo ragazzo, e il sadico e perverso amante tatuatore Shiba, in un triangolo di sesso e morte, dolore e piacere dagli esiti pressoché inevitabili.
Ma come nasce un romanzo di questo genere, nell’immaginario della giovane autrice? «L’idea – è la risposta di Kanehara – mi è scaturita leggendo una rivista che descriveva e fotografava queste pratiche di mutazione corporea, che mi hanno molto colpito: la lingua tagliata è stato lo spunto iniziale da cui è nata la storia, perché non è come un semplice piercing o un tatuaggio, ma si tratta di mutare una forma. E modificare la forma di un uomo credo sia un diritto che spetti solo a un dio. Così, conoscere questo mondo è diventata per me un’ossessione personale, tuttavia non autobiografica, che ha messo in moto le mie intuizioni e la mia fantasia». Ma se le chiedi per chi scrive, allora, o in chi e in che cosa crede, quando ha iniziato a scrivere, e che rapporto ha con i classici del Giappone, ti risponde laconica: «Scrivo per me stessa, e credo in me stessa. I classici non li ho letti, tranne il Genji Monogatari in versione moderna. E la lettura di romanzi contemporanei mi ha invogliata all’esperienza della scrittura». Per la precisione, a undici anni, dopo scuole frequentate saltuariamente (in seguito abbandonate, prima del liceo) e durante un soggiorno di un anno a San Francisco: quando il padre Mizuhito, affermato traduttore dall’inglese e docente universitario poi seguito dalla figlia in corsi e seminari, le portava sporte di libri per non farla allontanare dalla lingua madre. Un’autodidatta, insomma, che ha lasciato la famiglia ad appena 15 anni per andare a vivere con il suo ragazzo e che di sé e del suo successo dice, sibillinamente: «Anch’io, adesso, desidero che la gente mi giudichi dall’apparenza. Se in questo mondo non esiste un posto senza la luce del sole, allora sarò io a cercare il modo di farmi ombra».
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte VII)
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7. Oltre i generi.
L’attuale Giappone delle donne , come traspare da queste testimonianze inevitabilmente parziali fin qui riportate, offre insomma di sé un ritratto disomogeneo, quasi uno specchio frammentato di un arcipelago non soltanto geografico, o generazionale, o tematico, per esplorare il quale la letteratura diventa una bussola preziosa. Ne ho avuto conferma l’ultima volta che sono stata a Tokyo, per una settimana nel settembre 2006, alla vigilia della controversa “svolta” politica con il nuovo premierato di Abe Shinzo. In quell’occasione ho incontrato, tra gli altri, l’avvocato Fukushima Mizuho, unica donna leader in politica (è presidente del Partito Socialista Democratico). Minuta e battagliera, affabile ed elegante ma di acciaio sul fronte della militanza per la tutela dei diritti umani, soprattutto di donne e bambini, Fukushima è impegnatissima, nella sua minoranza da sinistra (e di genere, in un Parlamento dominato dagli uomini) nella stesura di nuove leggi di prevenzione della violenza domestica, degli stupri, della prostituzione minorile, della discriminazione sul lavoro (“dove i tre quarti delle donne lavorano part time, con stipendi molto più bassi di quelli maschili, frutto di una forte pressione sociale per convincere le donne a smettere”, afferma Fukushima). Non solo: “Il 5 per cento del nostro campione di donne intervistate ha paura per la propria vita”, aggiunge Fukushima che riscontra però nei più giovani “una nuova voglia di arrivare ad un obiettivo comune nell’annosa, tradizionale distanza tra uomini e donne”. Ma la strada, a suo avviso, non può che essere una massiccia campagna di sensibilizzazione, a partire dalle scuole, evitando anche le manipolazioni dei libri di testo e aggirando gli ostacoli di un codice civile per il quale, ti dice, dieci anni fa ha dovuto combattere in difesa di una docente universitaria che voleva usare il proprio nome da nubile, riuscendo così a creare un precedente giurisprudenziale tutt’altro che scontato.
Ecco perché una scrittrice di enorme successo internazionale come Kirino Natsuo sottolinea sempre che uno dei punti di partenza delle sue opere è la coscienza che «nascere e vivere da donna nella società giapponese è già di per sé una difficoltà», perché una donna in Giappone non è mai se stessa, ma sempre qualcos’altro, ossia il riflesso di quello che vogliono (o desiderano e auspicano) gli uomini. Non a caso, Kirino è stata ospite d’onore con Elena Gianini Belotti a un importante convegno interculturale su “Donna e società: Giappone e Italia a confronto”, promosso dal 23 al 26 novembre 2006 dall’Associazione Donne italiane a Tokyo e dall’università Ochamomizu presso la nuova sede dell’Istituto italiano di cultura a Tokyo progettata da Gae Aulenti. Kirino e Gianini Belotti sono state invitate a discutere con Ken Satoko e Laura Testaverde sul tema dell’”identità femminile tra conflitti familiari e ruolo sociale” e sulla condizione femminile attraverso la letteratura contemporanea. Due mesi prima del convegno, sono andata a trovarla nel suo studio a Musashino-City, alle porte di Tokyo, per un’intervista. Kirino è una donna bella e curata, che dimostra meno dei suoi 56 anni. In un angolo del suo studio, dove tutte le pareti sono ordinatamente tappezzate di libri, occhieggia una rivista patinata molto glamour, “Shosetsu Shinsho”, che le ha dedicato sin dalla foto di copertina un numero monografico, “The Kirino Natsuo Special”, dal titolo emblematico: “The Cool!”. Pagine e pagine sui suoi libri, i film, le opere teatrali e i drammi televisivi che da essi sono stati tratti, con tanto di servizio fotografico sull’autrice: originaria di Kanazawa, un’antica città del Giappone centrale, sposata e madre di una figlia, diventata dal 1993 – quando si aggiudicò il prestigioso premio Edogawa Ranpo con il romanzo Pioggia sul viso, storia di una giovane detective che da sola risolve il caso di un furto ingente e di una scomparsa misteriosa – un’affermata autrice di gialli, thriller e noir che hanno per protagoniste donne. Ma l’espediente del genere adombra, in Kirino, un’accurata introspezione psicologica e sociale che fornisce così ai lettori spaccati emblematici della vita giapponese contemporanea: dalla disumanizzazione dei rapporti, al conflitto tra sessi, fino alla violenza sotterraneamente dilagante, in pagine che risultano forse più istruttive (di certo di maggiore impatto emotivo) di tanti trattati sociologici.
Se ne può avere conferma leggendo le uniche due opere sinora pubblicate in italiano dall’editore Neri Pozza: Le quattro casalinghe di Tokyo (titolo originale, conservato nell’edizione inglese: Out, 1997, tradotto da Lydia Origlia nel 2003) e Morbide guance (Yawarakana hoho, 1999, traduzione di Antonietta Pastore, 2004). Il primo (insignito con grande clamore e successo di pubblico e critica del premio dell’Associazione giapponese degli autori polizieschi, in genere appannaggio maschile) è uno spiazzante noir al femminile. Dove le protagoniste, quattro frustrate operaie del turno di notte di una fabbrica nipponica di cibi pronti alla periferia di Tokyo, amiche e confidenti di una vita a vario titolo vessata da privazioni e ingiustizie che le accomunano nel loro sogno di riscatto, trovano nel delitto del marito di una di loro, Yayoi (che in un raptus strangola all’improvviso il coniuge inetto e fedifrago, trasformandosi da vittima succube e predestinata alla violenza in feroce aguzzina), una nuova criminale complicità in un crescendo devastante, innescato dopo aver oltrepassato l’esile soglia tra bene e male che dischiude e rivela alle quattro donne gli angoli più bui, perversi e insospettabili di ciascuna. Un libro scioccante per molti, che ha suscitato polemiche in Giappone dove gli uomini si sono sentiti “minacciati” dalle tesi provocatorie del romanzo, la conquista dell’indipendenza femminile non soltanto economica attraverso la violenza: “Con la consueta mentalità maschilista – commenta ironica l’autrice – il conduttore di una radio, intervistandomi, mi chiese preoccupato: ma lei pensa davvero che sia giusto uccidere qualcuno?, ritenendo pertanto che, avendolo scritto una donna, il punto di vista femminile delle protagoniste potesse essere condiviso; mentre se l’avesse scritto un uomo, sarebbe di sicuro stato liquidato come mera fiction”.
Il secondo romanzo, Morbide guance (premio letterario Naoki), ruota intorno alla misteriosa scomparsa di una bambina, Yuka, figlia di una donna adultera, Kasumi, che tornando nella sua nordica terra natale, l’Hokkaido, lasciata da ragazza per crearsi una nuova vita a Tokyo, porta a compimento una lenta deriva, in una spirale di sensi di colpa ed espiazione, vita desiderante e amore impossibile, sogno di cambiamento e realtà di morte. Deriva (psicologica ed esistenziale) che l’autrice sviluppa come un avvincente viaggio interiore nelle prigioni e omissioni dell’anima, nei fantasmi della psiche e nell’inquietudine irrisolta di donne contemporanee che aspirano a mutare la propria vita ma alternano in solitudine forza e vulnerabilità nello scacco delle passioni e dei sentimenti, pagando spesso un prezzo altissimo al loro auspicio di libertà e felicità. Ne parliamo con Kirino, a partire dalla scelta di usare uno pseudonimo per firmare i suoi libri (il suo vero nome è Hashioka Mariko). Un mimetismo dovuto a che cosa? “Fondamentalmente, è una scelta legata a una questione di tutela della privacy – risponde – perché qui in Giappone, contrariamente all’Occidente, gli scrittori diventano più facilmente personaggi famosi come pop star, con tutte le conseguenze invasive della popolarità. Eppoi ho scelto questo nome perché è un nome maschile, dunque non mi vincola, come scrittrice, ad un pubblico esclusivamente femminile, come capita da noi, ma posso essere invece letta anche dagli uomini”.
Voci femminili dall’impero dei segni, dei sensi e del crossover (di Donatella Trotta – parte VIII)
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8. Canone inverso.
Kirino Natsuo ha iniziato a scrivere romance novels, per poi passare ad altri generi (mistery, detective stories), sfidando i limiti imposti, nel canone letterario nipponico, dal gender. E’ d’accordo con chi ha parlato, per le sue opere, di genere ibrido, che travalica i confini del genre? La scrittrice sorride: “Quando ho iniziato a scrivere pubblicavo opere romantiche per adulti, romanzetti rosa per ragazzine delle medie, fiabe per bambini. In Giappone esistono molte possibilità per chi desidera diventare scrittore, anche se io inizialmente non aspiravo esattamente a questo. Vivevo sin da piccola un senso di disagio e di alienazione rispetto al fatto di essere donna, perché avendo un fratello maggiore ed uno minore, e pur essendo stata educata dai miei in modo uguale, sapevo che avrei avuto un destino diverso dal loro, con molti limiti imposti dalla società giapponese al mio genere, che costringe donne solo in apparenza libere a impieghi part time sottopagati, senza possibilità reali di carriera, di avanzamento e di emancipazione. Ecco, questa percezione oscura di un disagio diffuso, la sensazione di essere differente è stato l’inizio della mia ricerca. Che mi ha portata poi a scrivere e affrontare temi un po’ diversi dai consueti, attinti dai problemi forti sottostanti la società giapponese nel suo complesso. Ad esempio, ero attratta dagli aspetti psicologici del crimine, e sono diventata famosa come scrittrice di mistery, considerata una letteratura d’intrattenimento, di evasione, anziché letteratura pura. Ma io ritengo che il crossover che pratico sia lo spazio di scrittura per me più congeniale, non volendo porre limiti alla mia indagine sull’animo umano e femminile. Anzi, auspico di offrire con i miei libri un nuovo tipo di romanzo, e una nuova visione della società giapponese, che superi la rigida divisione di generi e ruoli. In questo senso il noir, il mistery o la crime story non costituiscono per me una mera ricerca del colpevole, ma nascono da un interesse direi giornalistico, che possa sezionare lateralmente, trasversalmente la società nipponica oltre la sua superficie per raccontarla attraverso uno spaccato in profondità, da altre angolazioni e punti di vista: che si prestano a molteplici letture e prospettive della verità. Uno sconfinamento che mi viene fuori istintivamente, non per scelta razionale, ma perché da quando ero bambina continuo a cercare la libertà dalle etichette e dai limiti, anche di genere”.
Prende spunto da fatti di cronaca per i suoi libri? “Assolutamente sì: ad esempio, nel mio nuovo romanzo Grotesque, in uscita in contemporanea in Usa e Gran Bretagna nel marzo 2007 con Ramdom House, mi ispiro alla storia vera di una ragazza, una giovane e bella Office Lady impiegata nell’azienda Toden, trovata uccisa in un appartamentino di Shibuya dove la sera si prostituiva. Nel libro immagino che la sorella maggiore indaghi sulla misteriosa morte della ragazza, attivando così nel contempo un’inchiesta sulla psiche di due giovani d’oggi e sul contesto in cui vivono”. Condivide dunque quanto diceva Enchi Fumiko, per la quale l’arte nasce solo dalla realtà quotidiana? “Sì. Mi piace molto scavare e tirar fuori qualcosa d’altro da un dettaglio banale, apparentemente insignificante della realtà della vita di tutti i giorni”. E quali riferimenti letterari ha nel suo lavoro? “Flannery ‘Oconnor, innanzitutto. Ma anche Hayashi Fumiko, Tanizaki Jun’ichiro, Anne Tyler, Steve Erickson. Da ragazza ero una accesa fan di Murakami Haruki, ma ora preferisco Murakami Ryu”. Che cosa pensa di un fenomeno definito in Giappone “Enjoyst”, crasi tra l’inglese “enjoy” e il giapponese “Joen”, relativo all’associazionismo femminile? “Questo genere di associazionismo è in mano a signore di una certa età, casalinghe che non sono mai al centro dell’attenzione e alle quali ho cercato di dar voce e visibilità con i personaggi di Out, grazie al quale molte persone hanno preso coscienza che il problema esiste. In Giappone, come nel resto del mondo, c’è un grande aumento della violenza contro le donne e contro i bambini. Le associazioni, sotto questo aspetto, sono utili, anche se non mi sembra riescano a imporsi sulla scena sociale con una certa incisività. Penso ad esempio all’utilità di un movimento come il Nishi Masho, o Gendafri (Gender Free, liberiamoci dal Gender): fino a qualche tempo fa era finanziato, ma il Jimito ha deciso di eliminarlo perché metteva in discussione la mascolinità e la femminilità. Il Giappone non è una società di coppia, tant’è che si parla di società-club, con gli uomini rigidamente separati dalle donne, il che crea la premessa per una difficile realizzazione della parità. Un’altra conseguenza non adeguatamente valutata è che in Giappone nascono sempre meno bambini, un po’ per una sorta di inconscia vendetta e reazione delle donne alla loro oppressione, un po’ per le difficoltà oggettive di chi deve oggi portare avanti una famiglia. Bisognerebbe parlarne di più, perché c’è troppa vulnerabilità in giro”. La scrittura, per lei che è stata baciata dal successo, può essere uno strumento di cambiamento? “Per me, è una piccola luce sul buio della società, che può aiutare a illuminare le sue zone d’ombra. Nulla mi dà più gioia che ricevere lettere dai miei lettori che mi incoraggiano: hai fatto bene a scrivere tutto questo, leggerti mi ha aiutato. Certo, non penso che la letteratura possa cambiare la società. Ma ogni parola in più che scrivo rappresenta per me un passo in avanti verso una maggiore libertà delle donne”.
Ringrazio ancora Donatella per aver voluto condividere con noi questo suo lavoro…
E a tutti voi auguro una serena notte e un buon inizio settimana.
Buon giorno a tutti e buon lunedì.
Grazie a tutti davvero, non riporto nomi per non rischiare dimenticanze. Stamattina sono di corsa ma grazie davvero. Un ringraziamento a parte a Donatella Trotta per questo saggio che aggiungo al materiale di studio.
@Massimo un abbraccio.
Buona giornata!
@ crepi il lupo. spero tanto di averti alla mia presentazione.
Per risponderti, il mutamento al quale mi riferisco nel mio romanzo è più un adattamento dell’essere umano alla vita che scorre, alle mutate condizioni.
E’ la storia di una donna, ma potrebbe essere la storia di un uomo, una storia di realtà quotidiana, una storia di pensiero più che di azione ma in cui il corpo ha un ruolo preponderante nella misura in cui dobbiamo rendergli conto. Noi siamo il corpo e il nostro corpo è noi stessi.
Scappo al lavoro e ti auguro una buona giornata, a te e a tutti gli altri amici.
Bellissimo post. Datemi il tempo di rimettermi in carreggiata leggendo i commenti e dirò con piacere la mia.
Grazie per aver pubblicato il saggio di Donatella Trotta. Per chi, come me, è appassionato di letteratura giapponese è una chicca. Complimenti per la discussione e per il blog.
Non avrà certo bisogno dei miei apprezzamenti Donatella Trotta stimatissima giornalista e d autrice,che fra l’altro ho avuto il piacere di ascoltare l’anno scorso in un intervento sull’opera di Matilde Serao nell’ambito degli incontri Strane Coppie organizzati a napoli da A. Cilento.però volgio farle ugualmente i miei complimenti per questo saggio interessantissimo sulla panoramica contemporanea della letteratura giapponese che ci aiuta anche a capire un aspetto sociologico del paese e ci fornisce uno sguardo critico sulla condizione femminile e su come questa sia trasposta nella scrittura.Grazie a Donatella per avermi segnalato anche autori che non conoscevo e per aver portato all’attenzione di tutti un’importante realtà letteraria.Con il suo stimolo leggerò cose nuove e per me particolarmente interessanti,in quanto,come Adriano,e chissà quanti altri, appassionata e in passato studiosa della lingua e della letteratura giapponese.Anche se il sogno non si realizza in progetto di vita professionale -digressione personale!-ha diritto di continuare ad esistere e respirare nella passione e nella pienezza di una gioia di approfondimento fine a se stessa e non seconda ad un qualsiasi obiettivo esterno.
Conserverò questi brani che Massimo ci ha messo a disposizione del saggio di Donatella con cura,grazie e grandi abbracci.
aggiungo i miei ai ringraziamenti di adriano e francesca g.
si sta spargendo la voce tra gli appassionati di letteratura giapponese 🙂
Che rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?
– Un rapporto molto stretto. Se la letteratura racconta l’uomo, e se l’uomo è corpo e anima, essa non può non avere un rapporto strettissimo con il corpo.
Può essere interessante studiare l’evoluzione di questo rapporto e verificarne lo stato attuale. Tanti auguri alla Barbara Gozzi.
Spero di rispondere alle altre domande più tardi. Ciao a tutti.
Francesca Giulia, ti quoto volentieri…
Andrai alla mostra di Alessio Grillo, mio carissimo amico? Lo presenteranno Antonella Cilento e Adelia Battista, due care amiche anche loro…
@Maria Lucia carissima,Antonella mi metterà al corrente di sicuro anche di questa iniziativa,perciò ti farò sapere della mostra del tuo amico.
🙂
grazie del tuo affetto
@ Maria Lucia e Francesca Giulia.
Gli acquerelli di Alessio sono molto belli. E secondo me crescerà ancora di molto. Tifiamo per lui 🙂
Cari amici ho inserito nel post traduzioni un piccolo omaggio poetico a questo discorso sui corpi……senza alcun commento da parte mia perchè non serve,leggetelo e godetevelo.Questo signore sì che quando parla di un corpo amato fa venire i brividi lungo la schiena…
buona serata a tutti
@M.lucia e Mavie Andrò alla mostra e vi farò sapere se mi è piaciuto! 🙂
Ringrazio tutti per i nuovi commenti (e ancora una volta Donatella per aver voluto condividere il suo saggio).
Un saluto ad Amelia, Adriano, Margie.
Complimenti e in bocca al lupo ad Alessio Grillo per la sua mostra napoletana (grazie per averlo ricordato, Mari).
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Mavie, certo che ci sarò alla tua presentazione…
Ancora grazie, Fran…
@ Barbara
Se hai altri spunti e considerazioni… inseriscili pure 🙂
Vi preannuncio che da domani sera prenderà il via un interessante dibattito sul Sud della nuova narrativa italiana.
Una serena notte a tutti.
Buon giorno,
e grazie ancora a tutti.
@ Massimo 😉
Estratto da alcune annotazioni preliminari sulla scrittura di Alessio Pasa (Appuntamento con il notaio, inizialmente pubblicato on line da Vibrisse Libri, poi da Barbera Editore, 2009).
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I capelli grigi, le spalle larghe,
serra forte nella mano la biro blu,
cerchia un intero paragrafo,
soffia, un alito spesso, appena trattenuto
(pag.9)
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Una mano posata sulla testa morbida di Tommy,
nell’altra stringo le scarpe bianche.
(pag.13)
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Le orecchie piccole, aderenti alla pelle del cranio,
il naso corto, gli occhi chiari,
ben distanziati, un taglio oblungo, perfetto.
(pag.16)
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Mi stringeva vigorosamente la mano,
la faccia scura, un tremito sulle labbra.
Si siede con disinvoltura sulla scrivania,
le gambe confidenzialmente penzoloni.
(pag.24)
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Maria Giovanna ha gli occhi di una bambola
E quando mi domanda se mio fratello non abbia una ragazza
Si sistema con cura i lunghi capelli dietro le orecchie.
(pag.79)
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I corpi di Pasa sono dettagli, singole inquadrature che specificano, ingrandiscono l’apparenza minuscola. Parti di corpi. Sono capelli, mani, piedi, spalle che fanno e risucchiano affezioni, colori, suoni, odori. Pasa restituisce frammenti di corpi in contesti che sono sempre altro, dove attraverso i dettagli carnali, gli oggetti, le singole azioni, aleggiano sottintesi pesanti, destabilizzanti, nudi nell’eccezione di onesti, senza infrastrutture.[…]
Eventualmente, per chi fosse interessato, un’analisi generale sul libro su AgoraVox qui:
http://www.agoravox.it/spip.php?page=article&id_article=9486
Virando completamente per stile, tipologia narrativa, intenti e lingua.
Stralci da ‘Il nemico’ di E.Tonon (Isbn, 2009) entro alcune keyword-leitmotiv sebbene le parole di carne, in questo libro siano pulsioni protagoniste ovunque.
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A parte ‘corpo’, ‘carne’ e altre parti (ventre, torace, inguine, gambe, braccia, mani, palmi, piedi, labbra, pancia, occhi, polmoni, pelle, ossa, cazzo, coglioni, unghie) ma anche ‘padre’ e ‘figlio’ (questi ultimi utilizzati con urgente insistenza, necessità primaria, a seconda della parte considerata entro quel concetto di trinità accennato sopra – lo Spirito Santo sarà il prossimo romanzo).
A parte insomma i leitmotiv di cui sopra, ci ho ritrovato insistenze negli usi di:
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Niente.
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Il corpo di mio padre era l’esatta manifestazione di Dio nel mondo: niente.(pag.12)
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Restano esattamente il suo rischio e il mio, la processione gongolante del dolore, l’incistarsi delle sue ultime poche parole dette senza fiato. Quindi niente. Quel niente che sta tutto nel portarsi addosso il male. (pag.24)
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Ho imparato che niente è puro, qui, in questo regno transitorio.(pag.25)
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… quanta volontà di provare ancora qualcosa che non sia questa coscienza del niente, quanta volontà di fronte alla perfezione di questa primavera, quanta volontà inghiottita dalla fossa.(pag.43)
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Si può vincere la battaglia, non la notte, mi dico mentre guardo il nero dietro la porta del salotto. E la mia sposa bruciacchiata comincia a pesarmi, per quel niente che pesa, sulla schiena.(pag.59)
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Male.
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Non che il male serva a qualcosa, intendiamoci, il male serve unicamente a se stesso, il male si nutre di se stesso. Il male prolifera autoinseminandosi, autofagocitandosi.(pag.25)
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I più si lasciano invadere completamente, corpo e anima, e questa è la malattia, il male. Lui ha trovato questa intangibilità in Dio.(pag.30)
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Io so che non è giusto ma io son ancora qui, nella confusione, nel male. Non posso distruggere il male finché permango nel male. Devo uscire da questo male, devo raggiungerti. Devo chiamare l’angelo cieco che avrebbe dovuto chiuderti gli occhi.(pag.45)
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La nostra vita è puro adeguamento al male.(pag.94)
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Amore.
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… io e la mia sposa muta facciamo l’amore soltanto nel sonno, sogniamo insieme di fare l’amore e quando siamo nella veglia ci ricordiamo dell’amore fatto nel sonno, ci guardiamo e andiamo avanti. Tutto l’amore che sogniamo, tutto quell’amore che resta nel buio della stanza, così, sopraffatto dalla stanchezza, tutto quell’amore mangiato dal buio.(pag.72)
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Ecco l’errore, la crepa della vita, lo sbaglio dove s’incunea il Nemico del genere umano: l’amore detto. Non dite mai l’amore, dice l’antico rito. L’amore di questo mondo è parole destinate alla catastrofe. Le ho detto ti amo e lei mi ha detto altrettanto. Poi abbiamo smesso di parlare e siamo entrati nel regno dei morti…(pag.76)
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… e lei sola mi ascolta, mentre cavalca, è solo così che mi ama del suo amore di morta, di sposa del Dominatore dell’altro mondo (quanto amore, quanto amore mi resta addosso, appiccicoso, quanto amore che cerco di lavare via sotto la doccia lunga che ci concediamo ogni sera prima di scendere nel regno dei morti. Quanto amore, mentre le passo sulla ragnatela di ossa la spugna, quanto amore da quelle sue labbra saldate…(pag.78)
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Abbiamo solo continuato, imperterriti, determinati, ciechi, a scavarci gli occhi, a cucirci le labbra, a morire. Il nostro amore è consumato nella malattia. La nostra vita è puro adeguamento al male.
(pag.94)
Eventualmente, alcuni appunti generali su ‘Il nemico’ da ThePopuli:
http://www.thepopuli.it/2009/11/tonon-emanuele-il-nemico-parte-i/
Poi.
Vorrei riproporre qui un intervento di Rosella Postorino sulla rivista Reset n.115 di Settembre. Riflessioni, logiche, intenti, scavi entro i ‘corpi’ come nodi.
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“Spesso mi hanno chiesto come mai il corpo sia così centrale nelle cose che scrivo. Provocatoriamente, altrettanto spesso ho risposto: di cos’altro dovrei scrivere?
Il corpo è politico. Il corpo è sempre un luogo pubblico. È lo spazio che occupiamo nel mondo, lo spazio del contatto: il modo in cui ci illudiamo di ridurre la separazione incommensurabile dall’altro – che, dice Teresa de Lauretis, segna l’inizio di ogni storia, personale e collettiva: da lì nasce il desiderio, ma anche il bisogno di riconoscimento, identità, appartenenza, la «progettualità politica».
È col corpo che andiamo in guerra, che subiamo torture, umiliazioni, stupri. Il corpo rivela nei suoi sintomi le tracce delle relazioni che abbiamo o abbiamo avuto col mondo. Il nostro corpo è regolamentato dalle leggi – la possibilità di dare la vita e quella di dare la morte al centro di dibattiti. È l’ossessione di diktat religiosi e lo stendardo di battaglie sociali. E poiché l’unico modo in cui – sembra – possiamo essere cittadini è produrre (p)e(r) consumare, il nostro corpo diventa un prodotto, come tanti, dentro la logica di mercato che tutto codifica.
Di cos’altro dovrei parlare, quindi? Io sono una donna, e il mio corpo è oggetto di disquisizioni etiche e filosofiche, di ansie religiose e strategie elettorali: è uno strumento politico. Io sono una donna, e i corpi delle donne sono esibiti, modificati, standardizzati, costretti a esprimere un unico parziale aspetto, la loro sessualità: sono strumenti di mercato. Io sono una donna: di cos’altro dovrei scrivere?
Quando avevo 14 anni, il ragazzino più quotato della comitiva si chiamava Clo. Non era particolarmente bello, aveva le scapole in fuori e il suo torace pallido lasciava intravedere le costole, se si metteva in costume. Tutte le ragazze volevano stare con lui, salire sulle sue spalle quando al mare si giocava alla battaglia acquatica, essere destinatarie delle sue prese in giro, essere annoverate fra le sue conquiste. Mara, con una voglia di cioccolato un po’ eccessiva sul collo, non era considerata una bella ragazza. Nemmeno Clo lo era, ma per lui non contava. Con le costole da denutrito e le scapole alate, che suggerivano un portamento un po’ curvo, deteneva lo stesso il ruolo di maschio Alfa dell’estate.
Isa invece era bella. Stava iniziando proprio quell’estate a diventarne consapevole. Trafugava magliette striminzite dall’armadio della sorella maggiore, ed esibiva il suo corpo come tutte avremmo imparato a fare da lì in poi: lo avrebbe confezionato in modo da diventare l’oggetto del desiderio di Clo e di tutti i maschi Alfa e non della sua vita.
Mara voleva baciare Clo. Forse pensava che essere baciata da Clo avrebbe migliorato la sua reputazione, l’avrebbe affrancata dal marchio di bruttina con la voglia deforme sul collo (anni dopo, per cancellare questo marchio, lei si sarebbe sottoposta a un intervento chirurgico), l’avrebbe accolta nel gruppo, avrebbe sancito la sua appartenenza. Clo invece voleva baciare Isa, che era già così bella e considerata da non aver bisogno della sua approvazione, e di nessun riscatto, e quindi in definitiva non era così sensibile al suo fascino. Davanti ai miei occhi allibiti di quattordicenne, Clo, Mara e Isa strinsero un patto. Se Isa avesse baciato Clo, lui avrebbe concesso un bacio a Mara. Isa era la migliore amica di Mara, quell’estate, e si disse pronta a compiere questo sacrificio per lei. A Mara non suonò umiliante.
Il fine giustifica i mezzi, pensavo io, ma il fine autentico non capivo quale fosse. Non la consideravo una forma di prostituzione, quella di Isa. Eppure mi sembrava una cosa squallida. E il risultato che Mara avrebbe ottenuto: che valore aveva, se mancava il desiderio, se mancava la verità? La possibilità di essere accettata dal maschio era più importante della dignità, per lei?
Io mi promuovevo molto più matura di loro mentre pensavo che avessero stipulato un accordo assurdo, che al posto di Mara mi sarei sentita offesa, e mi dimenticavo di come tagliassi i jeans cortissimi finché non svelavano, indossati, i fiori stampati sul mio costume (salvo tirarli giù con forza e camminare in modo innaturale per renderli più coprenti prima di tornare a casa) soltanto per attirare l’attenzione di un coetaneo bresciano in vacanza. E sebbene le sue battute mi sembrassero scontate, sebbene sapessi che non avrei mai potuto parlargli del Deserto dei Tartari e di come quell’estate Buzzati fosse diventato il mio autore preferito, anche io probabilmente volevo essere accettata in quanto oggetto di desiderio, come Mara.
Osservando le ragazzine romane sugli autobus che portano in periferia, vestite come veline – proprio come noi, che ci facevamo consigliare da «Cioè» – ma verbalmente più aggressive di quanto lo eravamo noi, quasi avessero assorbito la modalità di conversazione proposta da Uomini e Donne, potrei essere tentata di credere che il velinismo sia insito nella natura femminile. Innato. Ma le differenze sessuali sono tutt’altro che innate: è palese che famiglia, scuola, media e prodotti di consumo rappresentino e continuino a rappresentare – anzi, a costruire – un’immagine «secondaria» di donna.
Provate a cliccare su http://www.missbimbo.com, il «virtual fashion game and community» inglese per bambine: l’obiettivo delle iscritte, 1.771.644, è diventare la Bimbo più popolare, più trendy, con la casa più «cool» e il boyfriend più «hot». Registrandosi si ottiene una quota iniziale di mille Bimbo dollars, da investire in abbigliamento e cure estetiche per accaparrarsi boyfriend ricchi che facciano guadagnare nuovi punti e Bimbo dollars. Il vecchio principio del «sistemarsi», insomma. Tranne che l’obiettivo non è più metter su famiglia, ma reinvestire in chirurgia estetica e trattamenti vari per mantenere e alimentare il proprio successo – legato appunto al corpo.
John Berger scrive che «una donna deve costantemente guardarsi. È quasi costantemente accompagnata dalla sua immagine di sé. […] Gli uomini guardano le donne. Le donne si guardano essere guardate. Ciò determina non solo la maggior parte dei rapporti tra gli uomini e le donne ma anche il rapporto tra le donne e se stesse. La parte della donna che si osserva è maschile: la parte che si sente osservata è femminile. Così la donna si trasforma in oggetto – e più precisamente in un oggetto di visione: una veduta».
Perché questo accade? Potrei dire, come diceva nel 1949 Simone de Beauvoir, che l’umanità è maschile, che l’uomo definisce la donna in relazione a se stesso, e quindi la donna non è un essere autonomo, è l’Altro, rispetto all’uomo che è l’Assoluto; ma citare quel capolavoro che è Il secondo sesso ben 50 anni dopo la sua uscita mi sembrerebbe come ammettere che nulla da allora è cambiato.
Anche nella letteratura – ecco, lo dico – avviene questo. C’è quell’insopportabile etichetta di «scrittura femminile». Come se esistesse la scrittura tout court, e poi, a lato, la scrittura femminile, una categoria a parte, una specie di minoranza etnica o sociale. Anche manifestazioni che hanno scopi del tutto ammirevoli sembrano vittime di questa logica da apartheid. Io per esempio ho vinto col mio primo romanzo un premio, cui sono grata, destinato però alla «donna che scrive» – mi viene da dire: questa sconosciuta. Questo inspiegabile fenomeno.
Non c’è bisogno di cercare ambiti specifici – come quello della politica – per rendersi conto della difficoltà di coltivare le proprie inclinazioni e i propri progetti quando si è una donna. Certo, le vicende degli ultimi tempi, che un mio amico giornalista una sera ha liquidato dicendo che il Presidente del Consiglio è un vecchio signore, che in fondo ragiona come gli uomini della sua generazione – come se essere alla guida di un paese non prevedesse proprio lo sforzo di vivere il tempo in cui il paese è immerso, di conoscerne le problematiche e le contraddizioni per tentare di attenuarle; le vicende politiche che hanno giocato sporco sulla dicotomia tra pubblico e privato, come se fosse verosimile; le vicende politiche che mi hanno mostrato donne ancora una volta non solidali, assuefatte allo sguardo degli uomini su di loro e quindi pronte a giustificare chi è sotto accusa e a condannare chi prova ad alzare la testa e per una volta ad accusare, mi confermano che è molto facile operare distinzioni artificiali tra ciò che è politico e ciò che non lo è, e scovare troppo spesso una responsabilità individuale, che ricade a maggior ragione sulla donna, e non una responsabilità collettiva perché culturale, che coinvolge tutti noi cittadini.
Nel documentario Il corpo delle donne, che raccoglie un campionario di agghiaccianti immagini televisive dove le donne sono rappresentate in maniera grottesca e umiliante (appese a ganci in mezzo a prosciutti mentre un timbro viene impresso sulle loro natiche seminude in un programma in prima serata, per esempio) e che riflette sulla chirurgia estetica – inevitabile strumento cui le donne devono ricorrere se vogliono continuare a essere presenti in quella stessa Tv – come mezzo di cancellazione del volto, con i suoi segni di vita vissuta e quindi la sua identità, gli autori Lorella Zanardo e Marco Maldi Chindemi si domandano perché le donne non si oppongano.
Molti uomini con cui in questi mesi di sconcertante clima ho chiacchierato obiettano che, acconsentendo all’attuale stato delle cose, le donne lo favoriscano, proprio perché ne traggono un vantaggio. Quegli uomini parlano addirittura di logica assistenziale: la maggioranza delle donne ricercherebbe nell’uomo assistenza, e ciò penalizza il genere e la società. Finché ci sarà anche una sola donna che accetta il compromesso – sanciscono senza finire la frase.
A me viene in mente Heiner Müller, la pièce Lo stakanovista. Finché c’è anche un solo operaio disposto a sostenere condizioni di lavoro disumane (riparare il forno mentre è acceso, come fa Balke) perché l’unico modo per garantire i propri interessi sembra quello di garantire gli interessi del sistema in cui si è inglobati, i lavoratori sono traditi. Perdonate il parallelo, che potrà sembrare forzato. Ma questo è un discorso sul potere e la sua ineguale distribuzione. E del resto la leggendaria femminista Catharine MacKinnon sosteneva che la sessualità sta al femminismo come il lavoro sta al marxismo.
Non ha assunto la forma di un tradimento, nei confronti della società della produzione, anche la possibilità delle donne di procreare, oggi? Sembra che nel mondo in cui viviamo le donne siano costrette o a diventare uomini, ignorando persino di poter essere madri, oppure a essere donne parziali: soltanto femmine. Quale e dove sarebbe, dunque, la logica assistenziale?
Io riesco a farmi ancora solo le stesse domande di quando avevo 14 anni: il fine giustifica i mezzi? Che valore ha quello che si ottiene con il compromesso? Quanto è doloroso non essere accettati, essere scartati o esclusi, ma anche adeguarsi al sistema per continuare a esistere? Dino Buzzati forse quell’estate mi rendeva un po’ più forte. Ma già allora sapevo che è difficile sottrarsi alla scorciatoia del corpo come lasciapassare, salvo poi sentirsi sminuite e mortificate proprio dal corpo come peso da trascinare. Ogni donna lo capisce sulla propria pelle. Ogni donna, crescendo, vive questo pericolo, questa specie di ferita.
Io mi chiedo spesso, forse solo per curiosità, che cosa ne sarebbe stato di Madame Bovary se l’avesse scritto una donna.”
Proponendo briciole che dei confini nazionali non si curano:
***
Ogni perdita è un buco nella carne
col bisogno di catturare
per colmare ciò che è perduto:
un’assenza come morte
differita in vita.
Anche gesti e parole scavano
la crosta del mattino
spessa come la paura
sulla falla del corpo acquattato
svaria la luce
il flusso il moto
il sussulto d’ogni cellula
fino all’ultimo vivido strato.
***
.
[Da ‘il cielo aperto del corpo’ di Ghenzovich Fabia, testo integrale qui:
http://www.homolaicus.com/letteratura/poesie2/GHENZOVICH.htm%5D
Tornando in Italia, entro ‘polpe’ del mio studio recente, stralcio di alcune annotazioni su ‘Il libro nero del mondo’ di G.Dadati (Gaffi, 2009):
.
Il corpo della ragazza è proiettato in avanti, tiene le braccia allacciate dietro la nuca di Gabriele e si alza quasi in punta di piedi. La sua bellezza cresce momento dopo momento mentre si baciano, la pelle si illumina e i lineamenti sono definitivamente lisci. Hanno entrambi gli occhi chiusi e le sensazioni liquide aprono i loro corpi a partire dalla bocca. La luce entra. Il bacio che si danno discende all’interno, convoca ogni organo: che partecipa. Una marea di sangue monta fino alle tempie, i genitali sono irrorati, la meccanica dei tessuti obbedisce a un desiderio condiviso. La luce artificiale mostra lembi di pelle sempre nuovi mano a mano che vengono scoperti. Si confondono il dentro e il fuori di ognuno dei due corpi.
Il collo della ragazza si allarga fino a comprendere le spalle e si allunga fino a scoprire il seno. Gabriele lo bacia e poi lo morde.
(pag.46-47)
.
Da notare, nel breve stralcio sopra, l’uso della parola ‘corpo/i’. E le ripetizioni, qui appena accennate, in altri passi decisive. I termini che ritornano, in questo romanzo sono precise voci, sottolineano con modalità più o meno insistenti, parole che sono sensi, sotto-livelli, incastri. […]
Infine, uno stralcio che svincola dal discorso ‘corpi e letteratura’ nel senso che non ne sono il ‘centro’.
Un estratto da ‘Il romanzo, l’Io’ di Philippe Forest (Bur, collana Scuola Holden, 2004).
In questo saggio Forest dibatte di ‘ego letteratura’, ‘autofiction’ e quello che definisce ‘il romanzo dell’Io’ che sono logiche tutt’ora dibattute a fasi alterne anche in Italia (definendo certe scritture ‘ombelicali’ per esempio).
Lascio insomma un estratto generale, sullo ‘scrittore’ e il ‘romanziere’.
.
“Uno scrittore è molto semplicemente qualcuno che se ne ritorna (cosa che Holderlin, a modo suo, ha sempre affermato). Cioè anche: qualcuno che sopravvive… Poco importa peraltro a quale catastrofe, minuscola o maiuscola, che passa talora inosservata per tutti e persino per lui stesso… Lascia dietro di sé il disastro della sua esistenza ed esercita la sua inesauribile curiosità sul dominio ormai abbandonato di una realtà nella quale, per lui, non vi è luogo in cui si possa consolare. […] Il romanziere è un’ombra che ritorna. Il desiderio lo riconduce al reale. Non può essere appagato dal tranquillo sollievo cui aspirano la anime prigioniere. Assomiglia agli spettri di Shakespeare o a quelli di Zeami, legati alla terra, ai suoi segni, alle sue figure da una passione inesausta.”
grazie, barbara. bravissima
mi piace la citazione di forest. l’idea del romanziere come ombra che ritorna, spinto da un desiderio che lo riconduce al reale.
proprio bella.
Carissima Barbara, grazie per i nuovi spunti anche da parte mia.
@Massimo un abbraccio.
E grazie ancora.
Buona serata a tutti!
ps: uno stralcio da… scherzo! Stasera relax! 😉
Ma no, Barbara… qui si continua 🙂
Tu, però, intervieni pure sul nuovo post…
😉
Caro Massimo, so di essere polemico per natura, ma giuro che non si tratta di un atteggiamento costruito. per questo vorrei fare un appello. Leggo di questo post sul corpo nella letteratura, che onestamente mi pare piuttosto divertente, ma non leggo nulla di quel che riguarda l’italia, un paese oramai avviato al declino totale. Credo fermamente che la letteratura dovrebbe occuparsi di questo oggi, della massa di ignoranti che calpestano la nostra terra, governando con le mani rozze e la pancia piena. Scusa lo sfogo e il commento fuori tema.
Saluti a tutti,
Giancarlo
Giancarlo, hai ragione. Come si fa a parlare di arte e di bellezza quando il mondo va allo sfacelo?
Ma è la bellezza che salverà il mondo, saranno i pazzi e i visionari e gli idioti a trovare nuove strade, come dissero Dostoesvkij e un certo Jehoshua ben Joseph.
La rabbia che tu provi è anche la mia. Vedere che i maiali indossano stivali calpestando ciò che è bello (parafraso Battiato e “Povera patria”).
Ma abbiamo bisogno della visione, delle parole per contemplare la bellezza e ribellarci al suo calpestamento
Caro Giancarlo, capisco lo sfogo. Oltre a quello che ha già scritto Maria Lucia aggiungo che – in effetti – degli odierni mali italici ne parliamo piuttosto spesso tra un post e l’altro (vedi, per esempio, quello su”il Sud nella nuova narrativa italiana).
Ne abbiamo parlato anche in maniera più esplicita. Ti segnalo due vecchi post che mi vengono in mente:
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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/27/litalia-tra-la-paura-dello-straniero-e-gli-sguardi-perplessi-dallestero/
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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/16/cara-italia-dimmi-come-ti-vedono-e-ti-diro-chi-sei/
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