REALITY di Matteo Garrone
con Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone
Recensione di Ornella Sgroi
Il Grande Fratello italiano chiude i battenti (almeno per quest’anno), ma il seme del delirio mediatico che ha diffuso ha già da tempo messo radici inconsce che sarà difficile estirpare. Nei meandri di un sogno nazionale che non è fatto di fatica, ingegno e talento come nel modello del grande sogno americano, ma solo di esibizionismo estremo di contenitori vuoti, senza cultura, incapaci anche di una qualche dignità.
Bisogna essere abili, però. Per raccogliere i frutti di un sistema che premia solo i più scaltri e annienta chi vi approda con un bagaglio di ingenuità.
Come accade a Luciano Ciotola (interpretato dall’ergastolano Aniello Arena), il pescivendolo napoletano con famiglia a carico sedotto dal mito del successo danaroso e facile, destinato a trasformarsi in ossessione per lui e in incubo per chi gli sta accanto. La moglie Maria (Loredana Simioli), in particolare, complice dell’istigazione familiare al provino per il GF in un supermercato e vittima della follia surreale in cui precipita il marito man mano che si allontana il sogno di entrare nella Casa.
Ma se questa è la trama che si dipana davanti la macchina da presa di Matteo Garrone in Reality, primo film dopo il successo mondiale di Gomorra, non è una banale critica al mondo della televisione ciò cui punta il regista napoletano. Quanto piuttosto un’analisi sociale e di costume, acuta e inquietante, degli effetti che può produrre il potere manipolatorio della tv, e dei media in generale, su una mente fragile come un bicchiere di cristallo lineato. Trasfigurando del tutto il confine tra realtà e raffigurazione di essa, per esplorare l’aspetto più inedito della percezione soggettiva del reale.
Così, nell’atmosfera rarefatta della favola, in cui si annidano mostri mascherati da amici e pericoli mascherati da occasioni, un po’ come accadeva nella storia di Pinocchio, dietro i colori sgargianti e la luce polverosa della pellicola si celano le tinte cupe e fosche di una realtà inquietante che restituisce verità ad un termine inglese – reality, appunto – che nella nostra lingua è diventato ormai sinonimo di finzione nella grande messa in scena della tv. Quella stessa tv che ha invaso con una grande bolla gonfiabile, temporanea ed effimera, i viali di Cinecittà, dove ancora giacciano cimeli storici, intramontabili ma dimenticati, come l’immensa testa incoronata della Venusia de “Il Casanova” di Federico Fellini.
Come un vero pittore qual è, Matteo Garrone dipinge quadri sconcertanti di vita, tra folle speranza e muta disperazione, danzando con la macchina da presa in mano – sulle note di Alexandre Desplat – intorno ai suoi personaggi. Accarezzati con lunghi movimenti di macchina e primissimi piani che catturano lo sguardo prima vivace e ingenuo, poi folle e determinato di un attore sorprendente come Aniello Arena, che ha imparato in prigione l’arte del recitare, e lo sguardo sempre più lucido e disperato di un’attrice come Loredana Simioli, incarnazione della ragione che vince sulla irrazionalità.
Meritatissimo, dunque, il Gran premio alla regia con cui Cannes ha festeggiato un magnifico regista dallo stile in continua sperimentazione, maestro nel dirigere un cast capace e soprattutto indovinato. Per quanto alcune incertezze narrative e ritmiche, dopo un inizio registicamente folgorante, pesino non poco sull’insieme del film che quasi sembra lasciare disperdere l’idea forte su cui è costruito. Con l’intenzione di una commedia che procede in crescente equilibrio sul filo dell’orrore, verso un finale apparentemente irrisolto che, tuttavia, chiude il cerchio della invisibilità cui si (auto)condanna chi non è riuscito a fare parte dell’illusione della celebrità.
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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri
Il trailer del film
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