Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.
I due autori/recensori invitati sono Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar.
I libri oggetto delle recensioni sono Era mio padre di Franz Krauspenhaar e Devoti a Babele di Valter Binaghi.
Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e si stimano.
Franz ci racconta la storia di suo padre: un tedesco nato in Italia negli anni Venti, combattente della Wehrmacht, l’armata di Hitler, durante la seconda guerra mondiale.
Valter, nel suo nuovo romanzo, ci presenta uno personaggio molto peculiare: Arvo. Chi è Arvo? Lo scopriremo insieme.
Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).
Massimo Maugeri
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ERA MIO PADRE di Franz Krauspenhaar, Fazi Editore, 2008, pagg. 281, euro 16,50 di Valter Binaghi
Franz Krauspenhaar, scrittore milanesissimo eppure di origine tedesca, al suo quarto romanzo. Ma sarà poi un romanzo, un libro interamente dedicato alla memoria del padre dell’autore (“un uomo ormai maturo che ha nel suo cuore ancora questo lutto scosceso che passa per il suo sterno, e talvolta prova ancora dolore”)? Sì che lo è. Ed è il romanzo di ogni uomo, se è vero come è stato detto che la vita spirituale è una lunga, inesausta ricerca del Padre. Non che qui si stia raccontando di uno qualunque: Krauspenhaar senior, combattente tedesco nella seconda guerra mondiale, imprenditore in Italia, ostinatamente onesto come solo certi tedeschi sanno essere, morto in circostanze drammatiche che hanno sconvolto la vita dei familiari superstiti, è in realtà soprattutto per noi un grande personaggio, le cui memorie s’intrecciano a quelle del figlio in uno di quei dialoghi tra vivi e morti che furono impossibili nella vita ma che l’immaginario della vera letteratura restituisce, all’autore e attraverso lui a tutti noi, ché abbiamo nell’Ade i nostri fantasmi senza pace. Krauspenhaar lo sa bene, sa che in questa inestinguibile smania di dipanare le nostre origini, di seguire la polla vitale che è scorsa dal genitore a noi, di riconoscerne la continuità e insieme affermare rabbiosamente la differenza, sta la cifra simbolica di ogni ricerca: “Sì, questo libro è un salvataggio estremo. Un mio bisogno che spero attiri altri bisognosi”. Qui si tratta di evocazione, niente di meno, e di una scrittura che torna ad ammettere la propria origine sciamanica: “scrivo con la matita dell’improvvisatore, ho gli occhi bendati, vago per la notte della scrittura”. E senza tanti fronzoli, prende il lettore per la collottola e lo attira a sé: “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera. …Il romanzo è diventato un genere di conforto, non d’indagine. Io qui sperimento me stesso, io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia, io sono il topo di fiume che viene colpito dai Flobert dei ragazzacci sporchi di dura terra”.
Come si scrive un libro del genere, con questa spudorata fragilità (lo sai, Franz, c’è chi dirà che non sai più cosa inventarti, che ti spogli in pubblico: ma io dirò a questi che ci vuole grande cuore per un grande canto, la falsa modestia è solo dei mediocri), come riescono a convivere la tenerezza del figlio e la freddezza del cronista e creditore? “Papà… non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perchè allora di talento ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. E’ allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato di un testimone scomodo: lui”.
Una cosa è certa: Franz Krauspenhaar ci è riuscito, regalandoci un romanzo che non può entrare in uno dei cassetti del merchandising letterario, e pertanto vi consiglio di ritenere per quello che è: un viaggio lucido e febbricitante nell’anima, a spiare lo stato nascente dell’emozione che si fa offerta di canto, della parola che evoca le fiere del dolore per renderle mansuete con la cetra di Orfeo, un’allegoria pagana dei dialoghi nell’Ade, che si apre alla cristiana rivelazione dell’amore che giunge al perdono: l’unica salvezza possibile. “Io ora cammino con te, mio perduto amore. Ti porto alle giostre ma sei troppo piccolo per salirci. Hai caldo, sudi tutto. Sei stanco. Ti prendo in braccio, bambino mio. Ti guardo negli occhi. Mi sorridi. Ti sorrido. Io oggi, papà piccolo, papà bimbo mai visto… io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio”.
Valter Binaghi
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DEVOTI A BABELE di Valter Binaghi, Perdisa Editore, 2008, pagg. 122, euro 12
di Franz Krauspenhaar
Chi è Arvo, il protagonista del nuovo romanzo di Valter Binaghi, Devoti a Babele, Perdisa Editore, pagg. 122 euro 12,00? Un ragazzo del ‘77, un sopravvissuto al piombo che cadeva sugli omonimi anni, che noi ragazzi nati all’inizio dei Sessanta o ancor meglio verso la fine dei Cinquanta, come il nostro autore, abbiamo assaggiato a lingua protesa, come cani masochisti affamati di quei tempi duri.
Arvo è un piccolo borghese della grande metropoli del nord, una Milano dove alle undici di sera c’è il coprifuoco e per il resto della giornata, se vai in centro, vi trovi più mezzi della celere che taxi, soprattutto nella molto armeggiata Piazza San Babila dei ragazzi nazi dalle scarpe a punta. E’ un ragazzo del suo tempo che tiene in camera i poster dei Rolling Stones e dei Police (siamo all’inizio degli Ottanta e il rock, con la morte di John Bonham dei Led Zeppelin, è per molti ufficialmente morto assieme alla sua epoca) e per il resto si tira in vena appena può la droga dei tempi, l’eroina della botta e via, la “roba” che non ti fa pensare, la droga di chi vuol rallentare le proprie pene e pure il resto fino a rallentarsi anche gli anni di vita; non certo la polvere bianca d’oggi, la cocaina divenuta per tutti i cani e tutti i porci, che ti ingloba ancor di più nel sistema dell’arrampicata mobile e liquida e ti fa accelerare la corsa verso il successo, fino al bang a testa sotto nel solito baratro, all’ultimo capitolo della tua tragicommedia d’un uomo ridicolo. Arvo lo seguiamo attraverso i suoi buchi, le sue colazioni a base di caffelatte e krumiri rubate alla povera madre vedova, lo seguiamo nei suoi accampamenti a Piazza Vetra alla ricerca della maledettissima roba in cambio di stereo “zanzati”. Nella seconda parte, il ragazzo finisce finalmente in una comunità terapeutica, Castalia. Se prima, all’inizio degli ‘80, siamo alla fine di un’epoca fotografabile tra il multicolor della psichedelia di massa e il nero buco di una Vermicino dove si consuma una morte in diretta del tutto simile a quella che troviamo in uno dei capolavori “neri” di Billy Wilder, L’asso nella manica (1951) e si prospetta a larghe falde di spot ramazzotteschi fighettismo e berlusconismo strafottuto da bere, deglutire e -perdio- vomitare, ora siamo arrivati alla fine di questo decennio buggerone e corto, in una succursale fantastica ma anche parecchio brianzola di quel farabuttificio globalizzato che è Dianetics. A seguire il Programma, del quale Arvo diventa sostenitore e in seguito, uscito dal megatraforo della dipendenza, istruttore. Un Programma di normalizzazione ma anche di risucchio dell’anima, cosicchè è vero che si esce dalla schiavitù della droga, ma pagando il prezzo di un abbandono totale della propria indipendenza psicologica, della propria effettiva libertà di scegliere. La terza parte, trattata intelligentemente e abilmente da Binaghi con altro passo stilistico, perchè i tempi lo richiedono per via di un’accelerazione del ritmo della comunicazione, trova Arvo, nel frattempo sposato e inquadrato nella vita piccolo borghese di quasi tutti, alle prese con una nuova, potentissima dipendenza: quella della Rete, delle ossessioni psicodrammatiche del virtuale. Una caduta, la sua, dal virtuale dell’endovena cosmica al virtuale della comunicazione illusoriamente totale, con Arvo – personaggio simbolico di una generazione di figli dei figli della guerra che in una sorta di effetto rebound hanno sconfessato gli sforzi e il sudore e le lacrime dei loro padri – che chiede amore ed erotismo via blog a una sconosciuta che sempre tale rimarrà, ectoplasma danzante nel liquido fintamente amniotico di una blogosfera megafono di semplici, banali sospiri di desiderio. Sarà la famiglia, banalmente ma realisticamente, a raddrizzare la via del protagonista verso una grigia ma solida salvezza dall’ultima dipendenza.
Un romanzo compatto e molto ben riuscito, dalla scrittura – tipica di quest’autore – che s’imbeve di una religiosità affannata e del senso di colpa di un’intera generazione che si è fin troppo stordita con cose che meritavano certamente meno attenzione, e nessuna passione; così che i libri di Binaghi, sempre più lontani, passo dopo passo, cioè libro dopo libro, da qualsiasi “genere” codificato, diventano ben strutturati apologhi di una generazione cardine e certamente più interessante di altre, nella quale si trova successo pieno in una società opposta a quella vagheggiata in anni ben distanti, e al contempo continue ricadute nel bisogno di stordimento, nella vecchia droga, sul filo di un istinto di autodistruzione divenuto purtroppo di massa, in certo senso seminato a rattrappite mani alle nuove generazioni.
Franz Krauspenhaar
Intanto dò il benvenuto a Franz e a Valter qui a Letteratitudine.
Benvenuti!
Invito i frequentatori abituali del blog ad accoglierli cordialmente e a interagire con loro.
(comincerò io a porre qualche domanda)
@ Franz e Valter
Ritenete che le vostre “recensioni incrociate” rispecchino adeguatamente lo spirito dei (vostri) rispettivi libri?
@ Franz
Quando hai pensato per la prima volta di scrivere questo romanzo dedicato alla memoria di tuo padre?
Qual è stata l’esigenza che ti ha spinto alla scrittura e alla pubblicazione del libro?
@ Valter
Com’è nato il personaggio Argo?
Ci sono somiglianze con persone che hai avuto modo di incontrare (magari solo incrociare) nella vita reale?
Chiedo a entrambi di elargirci (se possibile) qualche assaggio delle vostre opere… così possiamo provare a capirle meglio e a discuterne meglio insieme.
@ Tutti
Fate conto che questa sia una semplice chiacchierata tra amici.
Siamo in un bar – per esempio – insieme a Valter e Franz. E chiacchieriamo insieme a loro dei loro nuovi libri.
In fondo Letteratitudine non è altro che questo: un luogo d’incontro tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti, ecc. (ogni tanto mi piace ricordarlo).
Insomma… ponete domande, su!
🙂
Comunicazione di servizio
Franz ha il computer guasto, ma dovrebbero ripararglielo domani.
Noi lo aspetteremo.
—
Intanto ne approfitto per augurare a tutti buon sabato sera…
Rrispondo volentieri alle domande di Massimo, che ringrazio per l’ospitalità.
1) Franz percepisce bene l’aspetto spudoratamente intrusivo della mia scrittura, perchè in questo siamo abbastanza simili: anche lui è uno che prende il lettore per la collottola, e qualche volta a schiaffoni. Anche quando parla di affannata religiosità, tocca un tasto profondo: Arvo, il protagonista del mio romanzo, è idolatra per vocazione, passa dalla religione del Buco, a quella dell’Ideologia, a quella della Telepresenza. Poi parla di una generazione maledetta: in realtà, la storia di Arvo è quella di ciò che è accaduto alla psiche collettiva di questo paese negli ultimi trent’anni: Arvo ne è l’interprete, ne porta le stimmate.
2) In Arvo c’è qualcosa di autobiografico, un mio passato remoto da tossico e uno più recente di confronto con l’Ideologia, ma anche il delirio telematico in cui siamo precipitati tutti quanti da dieci anni a questa parte. E’ una specie di Candide dei nostri tempi, cui ho dato la mia faccia.
Dovrebbe funzionare da specchio per chiunque: tu lo guardi, e vedi te stesso, in lotta o sittomesso agli sterssi demoni.
“Tu sei l’Occidente. Il tuo passato è una collezione di spergiuri, hai sperperato vita per comprarti un’anima, ma era solo la tua videoteca. Anzichè un Mefistofele pizzuto è arrivato Bill Gates a ridarti una giovinezza con gli stivali delle sette leghe: è vero che vai veloce ma sembri più un triciclo che un puledro.
Una macchina ben oliata, coi sentimenti ridotti a temperatura.
E’ il lato oscuro della Forza. Ti ricordi Darth Fener?
Ci vuole vita, per amare la vita, e non potrai averla con un trapianto.”
(Devoti a Babele, Perdisa Pop 2008)
A prima vista i due romanzi mi sembrano interessanti entrambi. Hanno qualcosa in comune secondo i loro recensori autori?
Caro Valter Binaghi,
non ho letto il tuo libro, quindi – e spero mi scuserai – parlerò solo d’una parte del tema che, mi par di capire, affronta il tuo romanzo. Premetto che, riferendomi alla tua biografia, ho conosciuto anch’io il Re Nudo degli anni Settanta e quello successivo, il Re Nudo rinato molti anni dopo, conoscendo pure personalmente il suo direttore Valcarenghi (Majid) nei primi anni Ottanta e successivamente, a Miasto. Per intenderci, anch’io ho vissuto intensamente i movimenti degli anni Settanta. Quindi provo un istintivo fastidio nel leggere l’inizio della recensione (peraltro davvero interessante) di Krauspenhaar: “un sopravvissuto al piombo che cadeva sugli omonimi anni”. Gli anni Settanta sono conosciuti troppo spesso sotto l’etichetta, lo stereotipo, lo stigma di: “Anni di piombo”, mutuando questa definizione, per giunta, da qualcosa che che poco c’entra, dal titolo d’un bel film della Von Trotta su quegli anni, che però parlava soltanto del terrorismo, e in Germania. Troppe inesattezze e palesi errori di ricostruzione storica sono stati compiuti (anche su Letteratitudine) riferendosi a quegli anni. I Settanta non sono stati solo anni di piombo (e quello ha continuato a piovere “tranquillamente”, quasi quotidianamente, come un temporale, quasi in mezza Italia, al Sud, tramite la mafia, nel Settanta e nei trent’anni successivi, fino a oggi, e sembra che nessuno se ne sia molto accorto e non se ne accorga, e te lo dice uno che è nato al Sud e lì ha vissuto e lavorato per diversi anni) non solo piombo – dicevo – e pere e suicidi e galere e polizia e ideologia e comunismo e fascismo e tentati golpe. Ma i Settanta sono stati anche quelli di Basaglia, di Radio Alice, degli Indiani Metropolitani, di ricchi tentativi di destrutturazione linguistica, dell’Erba Voglio di Facchinelli e dei bellissimi libri di quella casa editrice, dei libri del Pane e le Rose, dello splendido cuculo di Forman e dell’apertura dei manicomi, della riforma carceraria (con permessi e semilibertà che oggi Lui & C. vogliono limitare), gli anni in cui si pensava e si provava a teorizzare una possibile società senza galere, della Rete di soccorso psichiatrico londinese di Laing e Cooper, dei quaderni (Fogli di Informazione) di Psichiatria Democratica, gli anni di Magistratura Democratica e del Tribunale dei Diritti del malato, gli anni della caduta delle barriere architettonica per gli handicappati e della fine delle classi differenziali nelle scuole, di Cristiani per il Socialismo, di don Marco Bisceglia, dello striscione “La chiesa è del popolo” sulla facciata della sua chiesa a Lavello, e dei preti sospesi a divinis perchè non in sintonia con le brutalità della Chiesa, del movimento dei militari di leva, gli anni di Osho, della meditazione , gli anni dei teatranti anarchici del Living Theatre, e di Grotowski, degli attori della Comuna Baires, dell’emancipazione femminile, della psichedelia, dei raduni musicali come Parco Lambro e Licola, del festival internazionale dei poeti sulla spiaggia di Castelporziano, ecc. ecc. Non è un elenco da amarcord, ma un modestissimo tentativo di correzione storica, e la distorsione attuale è avvenuta forse per un semplice e banalissimo processo: quella generazione è stata molto bastonata e i bastonatori hanno fatto carriera e potere e hanno riscritto a modo loro dieci anni e oltre di vita italiana.
Spero, ripeto, di non aver preso spazio al tuo libro, ma mi pare che questo sia un argomento che abbia molto a che fare col tuo romanzo, al quale auguro buona fortuna. Un abbraccio,
Gaetano
Per ora ho letto solo il libro di Franz, ne ho fatto una lettura che potete trovare il Bottega di lettura http://www.vibrissebollettino.net/bottegadilettura/archives/2008/05/era_mio_padre_d.html#more.
Quello che non ho scritto, e su cui ho riflettuto dopo, è che mi ha colpito la sensibilità “femminile” dimostrata da FK nell’affrontare il tema del padre.
Franz parla del padre non solo dalla prospettiva limitata del figlio, ma mettendosi nei panni del padre, raccontandoci la sua storia, vista con i suoi occhi.
Dico che, oltre al talento narrativo, vi ho trovato una sensibilità “femminile” (la virilità del buon Franz non se ne dolga;-))),
perchè è risaputo che noi maschietti tendiamo a filtrare tutto, anche gli eventi più importanti nella vita di chi ci è caro, dalla nostra personale visuale. Senza voler fare lo psicologo da condominio, mi limito a notare che noi maschietti tendiamo a dire “mi è morto il padre”, piuttosto che “è morto mio padre”.
Il titolo del libro di FK non è secondario, io credo che abbia un potente senso figurativo, perchè esprime quanto ho cercato di dire sopra, avvisa il lettore che l’autore ha provato a farsi suo padre, a ri-vivere la sua vita, a vedere le cose dalla sua prospettiva. E’ per questo che, come ho scritto nella mia lettura, le parti del libro che più mi sono piaciute sono quelle dove si rievoca la vicenda paterna, non solo per il portato di epopea, ma anche per il significato apparentemente più minimal (ma anche massimo) di farsi suo padre.
Paolo
@ massimo:
come sai, anche in virtù del mio ruolo di apripista insieme con Vito Ferro, sono sempre contento e interessato quando vedo le recensioni incrociate. però, ammesso che sia possibile, sarebbe auspicabile avere quanto prima du estratti dei libri dei quali stiamo parlando. intanto, però, mi piace sottolineare l’impegno e la passione con le quali i due autori hanno parlato l’uno dell’altro.
A Gaetano vorrei dire che in effetti io ho vissuto proprio quel lato degli anni Settanta, il lato freakkettone per intenderci, dove si sperimentavano forme di socialità e identità alternative, e festival musicali, si cominciavano a studiare le filosofie dell’oriente e a progettare una nuova cultura del rapporto mente-corpo (sono stato nella redazione di Re Nudo, ad esempio).Il fatto è che il tutto avveniva all’insegna di un certo velleitarismo immaginifico, che ha lasciato in eredità soprattutto un aggiornamento della società dei consumi. Estendere l’area del consumabile alla sessualità, al gusto etnico, all’alterazione percettiva dello sballo, senza intaccare le strutture autentiche del dominio e dell’alienazione. Gli anni Ottanta (il decennio più disgustosamente disutile del secolo), erano lì dietro l’angolo.
Anche io aspetto degli stralci prima di intervenire. Due uomini che si racconato, ma in modo diverso. Cacciolati parla di scrittura femminile, io lo avevo pensato leggendo la presentazione di Era mio padre; un genitore, che proprio perché è parte di te, lo si odia sempre un po’: ci legge dentro. Sul libro di Binaghi invece si potrebbe parlare, come ha fatto Gaetano, anche a tentoni. Non è mai corretto ma la contemporaneità aiuta…Andrea Valcarenghi…Re Nudo…e poi e poi.
Aspetto gli estratti.
A dopo
Ringrazio tutti e mi scuso per il ritardo… Solo da poco ho potuto riaccedere al computer, non completamente a posto. A Paolo dico che c’è forse una scrittura sensibile all’imedesimazione in qualcuno che abbiamo conosciuto bene. Un’operazione che in fondo fa ogni scrittore col suo personaggio inventato, se ci pensiamo bene. Solo che qui il personaggio è realmente esistito, in tutto e per tutto, e forse è stato più difficile rievocarlo, narrarlo. C’è di mezzo un punto di vista assolutamente parziale, di un figlio. Come ho detto nell’ntervista fattami da Gian Paolo Serino per D di Repubblica è forse più difficile parlare di un genitore amato che di uno odiato. Ma forse, è più facile avvicinarsi a una certa obiettività, perchè l’odio incenerisce tutto, porta con sè tutto all’inferno.
Come mi è venuta l’idea? Grazie a un’altra persona, Massimiliano Governi, allora editor di Fazi, che seguiva il mio lavoro fin dal romanzo epistolare Le cose come stanno, uscito nel 2003. E poi su Nazione Indiana. Avevo anche scritto e pubblicato lì un racconto dal titolo Biscotti salati, che raccontava di quando andai a riprendere mio padre morto in Svizzera, dove morì.
Dapprima fui spaventato dall’idea; poi, cominciai a coltivarla, ma rmandai e rimandai, finchè cominciai a scrivere pressato dalle scadenze editoriali, ne fui davvero costretto. E fu un bene.
Ringrazio Massimo per l’ospitalità e saluto caldamente Valter.
Intanto: cavolo che recensioni! Scritte veramente di stomaco, tutte e due. Forti a colpire. Non ho letto nulla dei due autori, sebbene entrambi siano molto noti e molto citati nella blogosfera. Tra i due volumi proposti, lo dico subito, mi attira quello di Krauspenhaar (che da adesso chiamerò confidenzialmente Franz, che il cognome è uno scioglidita da tastiera!). Mi attira perché amo la storia, amo il periodo dalla seconda guerra mondiale in poi e amo le memorie familiari. Credo siano una miniera inesauribile di storie e di emozioni e convengo con il recensore quando dice che ci vuole coraggio a raccontare del proprio padre e quindi di se stessi, mettendosi a nudo. Insomma, mi sa che è ora di fare la conoscenza della scrittura di Franz perché mi piacciono gli autori che si danno senza sovrastrutture e snobismi e mi sembra (se non lo è me la prenderò con Binaghi) che questo emerga dalla recensione. E passiamo ad Arvo. Mi piace, perché io quell’epoca lì, a Roma non a Milano, l’ho vissuta. Arvo me lo immagino un po’ come un compagno di liceo mio e di Lory, un ragazzo pieno di talenti sprecati che ha cercato di offuscare il proprio inespresso male di vivere confondendosi con droghe, ideologie, frequentazioni strane. Non so che fine abbia fatto, mi piacerebbe ritrovarlo e ritrovarlo in una situazione migliore di quella in cui, mi pare, si trova Arvo ai giorni nostri. Rivivere gli anni ’80, quel decennio effettivamente troppo corto, come dice Franz, che sembra volato via probabilmente perché eravamo tutti convinti che fosse solo il trampolino di lancio per chissà quali meraviglie. Ci siamo svegliati negli anni ’90 con la guerra del Golfo e con la sensazione nettissima di essere stati fottuti. Una sensazione confermata da Mani Pulite e dalla morte di Falcone e Borsellino. Mi sa che pure Binaghi me lo leggo. Però posso fare una proposta? Visto che Massimo Maugeri è così bravo a indirizzarci verso le nuove uscite editoriali, il conto della Feltrinelli o degli ordini su IBS possiamo mandarlo a lui?! :->
Laura
p.s. Massimo, si scherza eh! Grazie per il contatto con Maurizio de Giovanni, credo sia la persona più simpatica che abbia mai incontrato nel mondo degli scrittori!
@Valter, ho lasciato un minimo pensiero nel suo blog, ma anche qui vorrei esprimerle il mio compiacimento per la bella recensione scritta per Franz, così intensa scorrevole e comprensibile.L’articolo elaborato da Franz per lei, mi sembra più crudo e distaccato, forse per l’ambiente che descrive e comunque in netto contrasto con lo stile avvolgente che lui ha usato per il ricordo di suo padre Mi scuso se non potrò leggere i vostri libri.Certamente, ognuno nel suo genere saranno entrambi emozionanti.
@Franz, dal breve stralcio che ho letto, pare che emerga il desiderio, forse compensativo, di voler allacciare con il lettore la sensazione di una vita condivisa.Un sentimento più duraturo e meno aleatorio del breve tempo impiegato per terminare un libro. Mi ha colpito la frase:-“Io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia”
Leggendo tale frase incisiva e per me reale, come lettore mi viene spontaneo dire: amico, soffro con te. E penso che anch’io posso tranquillamente affermare con relativa rassegnazione:– Mi sento una cavia consapevole che freme nella sua angusta gabbia – anche per non poter leggere interamente i vostri libri…..
Reputo che in questo leale e appassionante duello all’ultima virgola, siate entrambi vincitori. Lascio agli altri amici del forum, l’ardua sentenza….
@ Paolo Cacciolati, sbirciando il suo blog , ho trovato esauriente e meravigliosa la puntuale recensione che ha scritto per Franz. Sono riuscita a penetrare meglio la valenza scritturale dell’autore e la ringrazio molto, di tale insperato aiuto. Buona Domenica a tutti
Tessy
\a Tessy, la ringrazio molto per quello che ha scritto; lei ha capito qualcosa che per me ha un valore inestimabile: nella letteratura cerchiamo di condividere l’esperienza della vita con il lettore. Credo che si scriva per se stessi, ma la coda dell’occhio guardiamo il lettore. E’ inevitabile, tanto più in un libro come il mio e quello di Binaghi, che da prospettive diverse, anche molto, raccontano esperienze o smaccatamente reali (come in Era mio padre) o traslate, triturate dalla letteratura d’invenzione ma di provenienza direttamente esperienziale come nel libro di Valter. Io e lui siamo accumunati nel fare letteratura cavando a viva forza tutto il materiale dall’esperienza. Nel mio libro abbiamo a che fare con un romanzo autobiografico: Paolo giustamente parlava di un titolo che raffigura l’intero libro come fosse un quadro o un’insegna, è come lo slogan, va oltre il titolo, è una firma, una specie di firma dell’autore, che si allunga coltre il suo nome e cognome. In certo senso il mio nome sparisce, paradossalmente, nel tentativo, o meglio nella speranza, che la storia mia e di mio padre – io e lui siamo i protagonisti del romanzo, diventi materia di riflessione anche per gli altri. Il tema è nodale, perchè è la vita. Non ho imbarazzi a dire che questo libro è il mio più ambizioso,ed è in qualche modo il punto d’arrivo – e di ripartenza – per appunto una nuova fase. Dopo aver sperimentato il romanzo di racconti di disperata goliardia, il romanzo epistolare, il noir o metathriller, eccomi all’autobiografia traslata, diciamo così, o alla “bioautografia”, come ho scritto io all’editore coniando forse un neologismo. In breve, la mia carriera è stata tutto un avvicinarsi per gradi a questo librio (ho sempre usato l’io narrante ruminante, ho sempre attinto abbondantemente dalla mia vita personale, i miei personaggi mi assomigliano). E’ come se mi fossi spostato per gradi – libro dietro libro, fino a spogliarmi del tutto dell’inven\\
Mi scuso, ma ho problemi con il computer!
Per chiudere l’intervento, volevo dire che sono felice che Terry abbia trovato quel passo del “topo da laboratorio” interessante; sì, io lo dico in faccia al lettore, che sono come una cavia, ma non per un sacrificio, bensì per dare una testimonianza. E’ l’urgenza del testimone che deve scaricare davanti alla giustizia (dei lettori?) le cose che ha da dire, sperando possano colpire ma sempre cn un senso, per essere utili. Non m’interessa una letteratura usa e getta, effettistica. Voglio scrivere per dire a volte urlando: di rabbia come di gioia, ma la temperatura ambientale la voglio variata, come le stagioni.
Sono stato nella gabbia da laboratorio come il topo drogato dalle esperienze, drogato dalla stessa vita.
Un caro saluto,
Franz
Intanto, cari amici, buona domenica a tutti voi e grazie per i vostri interventi.
@ Franz
Benvenuto! Sono lieto che il tuo pc sia stato (anche se mi pare solo in parte) riparato.
Mi sarebbe dispiaciuto far partire questo dibattito senza di te.
@ Gaetano
Grazie per il tuo commento. Credo che possa essere utile per far partire un ulteriore filone di dibattito.
È giusto (o corretto) definire gli anni Settanta “anni di piombo”?
Una curiosità…
Hai scritto: “Troppe inesattezze e palesi errori di ricostruzione storica sono stati compiuti (anche su Letteratitudine) riferendosi a quegli anni”(gli anni Settanta, ndr).
Ti riferisci a qualche post, e a qualcuno, in particolare?
@ Paolo Cacciolati
Ciao Paolo e grazie per il tuo intervento.
Hai scritto: “Dico che, oltre al talento narrativo, vi ho trovato una sensibilità “femminile” (la virilità del buon Franz non se ne dolga)”.
–
Credo che tu abbia fatto un grande complimento a Franz. Nel senso che hai sottolineato (io l’ho intesa così) che la sua è una scrittura capace di andare molto in profondità e di essere introspettiva.
@ Enrico
È vero. Tu e Vito Ferro siete stati i primi che ho coinvolto nelle “recensioni incrociate” di letteratitudine.
Due capostipiti.
@ Laura Costantini
Mandami pure il conto dei libri… io lo girerò a Mr Kataweb
🙂
Grazie per il tuo intervento, Laura
Un saluto a Maria Teresa e a Miriam.
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@ Franz e Valter
Elargiteci qualche estratto significativo estrapolato dalle vostre opere, su…
🙂
@ Valter
Hai scritto: “In Arvo c’è qualcosa di autobiografico, un mio passato remoto da tossico”.
Mi piacerebbe conoscere qualcosa in più su questo tuo passato. Come sei rimasto coinvolto? E come ne sei uscito?
La scrittura ha avuto qualche funzione “salvifica” o non c’entra nulla?
–
Naturalmente, caro Valter, queste sono domande molto personali… quindi se non ti senti di rispondere fa’ come se non te le avessi mai poste.
@Valter Binaghi: mi è molto piaciuto che nella sua recensione abbia messo l’accento sulla spudorata fragilità dello scrivere, sul quel mettersi a nudo attraverso la narrazione, attingendo al “dentro”, alle profondità dei nostri graffi.
E mi piace l’idea che ciò avvenga in una storia di figli, o di padri che vi si specchiano, che al colloquio col più piccolo sovrappongono la propria voce, anch’essa piccola, anch’essa fragile. Mi piace che sia un libro nato dal bisogno.
Anche perchè è dal bisogno che nasce ogni ricerca. Ogni domanda ancor prima della risposta. E’ dal bisogno che nasce il racconto. Che la parola si trasforma in pura necessità.
Ecco, credo che ogni ritorno al padre sia in fondo un modo per dare voce a questa necessità. E che anche la scrittura sia un ritorno al padre – non crede? – un viaggio di scoperte e illuminazioni, di progressivo apprendimento di sè e della condizione umana.
E’ vero. E’ viaggio a ritroso e nell’Ade, è viaggio di fantasmi e memorie.Ma la conquista non è di terra, nè di mare. E’ offrirsi alla vita con un respiro pieno. Di sollievo.
Bravi entrambi.
Ecco uno stralcio. Si tratta delle primissime pagine di “Devoti a Babele”
PROLOGO NELLA PREISTORIA
L’uomo che nascose la sua anima in una pietra ebbe prima mani forti e pazienti, per cercarla tra tutte nella pietraia franata dai fianchi del monte, spezzandosi le unghie e riconoscendo quella adatta dopo molto lavoro, finalmente: un sasso tondeggiante, scuro, appena attraversato da una venatura candida, dalla forma che ricordava un cuore.
Allora sciolse il sacchetto di pigmento che portava al collo, lo versò e lo impastò con la saliva nell’incavo della mano, e quando immergendovi il dito e ritraendolo vide che tingeva perfettamente, tracciò tre circoli concentrici sul sasso, e poi il punto centrale.
Intinse e perfezionò più volte il suo lavoro finché fu soddisfatto. Lo posò su una roccia e lo guardò asciugare al sole giunto allo zenit, che adesso cuoceva le pietre e la savana tutto intorno. Le colline erano silenziose, la selvaggina rintanata, i cacciatori in sosta sotto qualche albero, a bere acqua dagli otri e a sonnecchiare.
L’uomo che nascose la sua anima in una pietra cercò il luogo che gli avevano indicato i suoi sogni, un luogo dove un unico albero nella radura si lanciava contro il cielo come una freccia puntata. Lì, nell’anfratto formato dalle radici dell’albero, infilò il suo sasso, spingendolo bene in fondo, mormorando la preghiera che gli aveva insegnato lo sciamano al villaggio. Poi si voltò e prese a camminare verso ovest, in direzione del mercato: e intanto cominciò a cantare, misurando col numero dei canti la distanza che percorreva.
Ora poteva avviarsi a vendere ciò che pesava nella bisaccia: il frutto di faticose ricerche, diverse pepite di turchese purissimo, con cui poteva acquistare tre pecore almeno, e tornare al villaggio con quei beni, a ricevere i complimenti degli uomini e il sorriso di sua moglie. Aveva fatto tutto quanto doveva per proteggersi dalle impurità che lo attendevano al mercato, come gli aveva raccomandato lo sciamano:
“Vedrai cose preziose che non potrai mai avere, e bellezze di donna che non ti appartengono. Conoscerai genti che disprezzano l’austero dio dei pastori e si prostrano a numi ben vestiti, che elargiscono lascivie. La tua anima sarà come un passero tra i falchi: non dire che sei forte, nessuno lo è veramente tranne il Dio. Affida la tua anima ad un luogo sicuro: qualunque cosa accada a Babele, la ritroverai intatta con la tua pietra”
Arrivato al mercato, il primo giorno vendette tutto il suo turchese acquistando ben quattro pecore e lasciandole alla stalla dell’albergo. Lui andò alla taverna.
Bevve buon vino, disputò con una coppia di cacciatori sulle piste della capra selvatica, giocò e vinse a dadi, di nuovo bevette e perdette ciò che aveva vinto, e terminò la giornata nel letto di una prostituta straniera che aveva caviglie sottili tintinnanti di bracciali e parlava la lingua che si parla di là del mare.
L’uomo che nascose la sua anima in una pietra si svegliò quando il sole era già alto, e la prostituta imprecava alle sue orecchie perchè se ne andasse alla svelta. Provò vergogna per sè stesso, e capì quanto prezioso fosse stato il consiglio dello sciamano: presto avrebbe dimenticato tutto, ritrovando la sua anima preservata da ogni macchia.
Andò all’albergo a ritirare le sue pecore, poi fece per avviarsi. Provò a richiamare alla mente la canzone che aveva cantato il giorno prima, ma a quel punto si accorse che aveva dimenticato tutto: la canzone, il numero, e ogni particolare della lunga marcia. Solo ricordava l’albero solitario, tra le cui radici aveva seppellito la sua anima.
Trascinò le sue pecore in lungo e in largo nel territorio circostante, credendo ogni volta di aver trovato l’albero giusto, e ogni volta cercando inutilmente il nascondiglio, finchè le pecore non morirono di stenti in quel deserto, una dopo l’altra, ed egli le macellò per cibarsene, senza interrompere di un giorno la sua ricerca.
Una ricerca inutile. Dopo settimane (in cui certamente al villaggio l’avevano dato per morto), decise di rinunciare. Non avrebbe mai più ritrovato la sua anima intatta, doveva farsene una ragione. L’uomo che aveva vissuto in semplicità sulle montagne, il pastore e cercatore di turchese, non esisteva più: non poteva tornare lassù, non era più dei loro.
Ma di chi sarebbe stato, d’ora in poi, se non di sè stesso? E quale direzione dare al cammino? Mentre pronunciava mentalmente questa domanda provò un sentimento sconosciuto: intravide davanti a sè una libertà sconfinata e il potere di osare.
Si guardò indietro, e tornò all’ultima pietraia oltrepassata. Si mise a rovistare sotto il sole cocente, finchè gli parve di aver trovato un sasso tanto simile al suo da non potersene distinguere se non per il disegno. Provvide anche a quello, lasciò asciugare e poi si chinò afferrandolo avidamente e stringendolo nel pugno, ma niente.
Niente di ciò che aveva perduto ritornò da lui.
Si avviò verso il mercato, e poichè era senza denaro, il primo giorno per mangiare dovette tendere la mano. Poi si adattò a fare da garzone a un maniscalco, e ad altri mestieri con cui sopravvivere alla giornata, finchè un mattino, osservando il banco di monili e gemme di un mercante arabo, ebbe un’idea.
Per un intero giorno setacciò una pietraia riempiendo la bisaccia di sassi tondeggianti di un colore compatto, grigio, bianco, rossastro. La notte, con pigmenti diversi, tracciò su ognuno di essi l’identico disegno: tre cerchi concentrici, e il punto centrale.
Al mattino si procurò due ceppi, un asse, un drappo e uno sgabello, e allestì il suo banco al mercato, dove dispose le sue pietre.
La gente si fermava ad osservare, il prezzo era buono.
“E’ un amuleto?” chiedevano alcuni. E altri: “E’ un’arma?”
Lui annuiva, lasciava che ognuno credesse ciò che voleva.
L’uomo che nascose la sua anima in una pietra va al mercato di Babele ogni mattina, e siede là, finchè non muore il giorno.
ciao franz,
ti “ho comperato” ma non ti ho ancora letto.
una curiosità.
in rete (forse su vibrisse) qualcuno ha scritto che son tornati i libri-diario, accostando il tuo libro con Prima di sparire di Covacich.
Tu il libro di Covacich l’hai letto e, se sì, ci sono analogie (oltre al fatto, chiaro, che son scritti in prima persona)?
Se non l’hai letto passo a una domanda secca: se tuo padre leggesse cosa pensi che direbbe?
penso che tu te lo sia chiesto, scrivendo.
scusa l’irriverenza, Franz.
un abbraccio e in bocca al lupo (ho visto che sei ben distribuito).
so che – proprio per com’è strutturato – questo libro lo senti di più, rispetto agli altri che hai scritto.
@ Massimo
Grazie a te per la tua consueta gentilezza e per i post sempre molto interessanti.
Riguardo alla tua curiosità: no, non si trattava d’un post, ma d’un semplice intervento di passaggio (non tuo!) di qualche tempo fa, che non ho sottolineato allora per evitare piccole polemiche personali, come evito anche adesso. Spero che tu non abbia considerato indelicate verso Letteratitudine le mie parole da te citate. Un abbraccio a te e a tutti,
Gaetano
@Massimo
La scrittura salva dall’oblio quel che merita di essere salvato. Il resto, è veramente poca cosa. Sono stato un tossico atipico, credo, tra i diciotto e i ventitre anni, mosso soprattutto da una libido sciendi, impegnato con accanimento a sfondare i limiti della percezione, come i cattivi maestri di allora suggerivano di fare, confondendo l’intensità dell’ascolto con il timpano bucato. A quei tempi ho pubblicato il mio primo racconto, e qualche libro sulla musica. Smettere di farmi è stato anche smettere di scrivere, e di suonare. Per vent’anni. Prima di riprendere la parola in pubblico, mi serviva un po’ di purgatorio. E riprendere fiducia in una lingua prostituita dall’ideologia.
Credo – azzardo un po’ – che i due libri abbiano in comune questo: la figura del Padre. Gli anni Settanta, che io non ho vissuto perché piccoletta – sono nata una settimana dopo il golpe in Cile, nell’anno della morte di Picasso, della crisi petrolifera, e sono cresciuta negli Eighties di Candy Candy, Heidi, del Cioè, degli Europe, dei Mondiali di Spagna… Evento per me traumatico: l’omicidio di Dalla Chiesa… ma non divaghiamo – credo che siano stati il rinnegamento anche violento della figura del Padre e della famiglia, vista come una camera a gas.
Padri inutili, padri assenti, padri rinnegati… i padri dei padri di oggi, disorientati, irresponsabili, figure allegoriche che stanno generando una generazione ancora più disperata perché orfana oltre che di padri di ideologie.
Non avere passato o averne uno scomodo, ingombrante, ingenera dolore, malattia. La scrittura può farsene catarsi?
Mi piace tanto quello che scrive Krauspenhaar: “scrivo con la matita dell’improvvisatore, ho gli occhi bendati, vago per la notte della scrittura”. “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera. …Il romanzo è diventato un genere di conforto, non d’indagine. Io qui sperimento me stesso, io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia, io sono il topo di fiume che viene colpito dai Flobert dei ragazzacci sporchi di dura terra”.
“Papà non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perchè allora di talento ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. E’ allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato di un testimone scomodo: lui”.
E Arvo non è anche lui un orfano con l’ingombro dell’assenza, della mancanza di un punto di riferimento, di un padre valore?
La vera scrittura non può essere altro che il canto dell’orfano?
Il pezzo di Binaghi è poetico e vero. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se perde se stesso?
Non facciamo altro che cercare la nostra anima perduta e viviamo di anime prese a prestito, barattate, rubate, taroccate, finte. Morte.
@ Gaetano:
io non confonderei le conquiste sociali degli anni settanta, maturate in lunghi anni di lotta, con l’empietà intellettuale che fino a tutt’oggi ha “violentemente e crudelmente” egemonizzato stili e tendenze dell’arte e della cultura. Proprio oggi Alfonso Berardinelli, sul Sole 24, commentando l’uscita di “Quindici. Una rivista e il sessantotto” punta il dito sull’azione del Gruppo 63 che con la pubblicazione della rivista cercarono di “quotarsi”il movimento. “E’ però imbarazzante che questa antologia ci riproponga lo spettacolo di come fallì il progetto astuto di un gruppo di astuti scrittori che non volevano essere tagliati fuori e che in qualche modo cercarono d’infilarsi nell’evento della rivolta per via traverse e con mezzi chiaramente inadeguati. Lo si vede dalla qualità non buona degli articoli che si leggono in questa antologia per lo più improvvisati, poco pensati, a volte retorici, aggrovigliati e confusi” E ancora: “ l’intervento di Sanguineti è un groviglio di fil di ferro che per quanto te lo rigiri fra le mani resta un groviglio. Le affermazioni sono perentorie nel tono e confuse nel significato. Per esempio: non esiste giustificazione possibile, oggi, per una nozione di letteratura, se non l’idea della crudeltà …l’idea di crudeltà giustifica oggi la letteratura, appunto in quanto la supera, e le dona finalmente, come categoria di giudizio e di giustificazione la categoria del cinismo violento.” Gli anni settanta finirono come sappiamo, ma l’abitudine alla prostrazione, che sostituiva quella della comprensione, ha vissuto ancora per molto.
@ A Valter:
io non mi sono mai “fatta”, nemmeno una canna, ma quella crisi di straniamento, che per anni mi ha impedito di disegnare e soprattutto di leggere, l’ho conosciuta anche io e le cause sono tutte riconducibili all’ingombrante “groviglio”. Ti leggerò con molta curiosità.
sempre da berardinelli “Crudeltà e cinismo violento, sono parole che andavano dette”. Sono andata a rileggermi l’intervista di Nanni Balestrini pubblicata qui qualche tempo fa, il più giovane del gruppo che dalle parole passò alla prassi e che per questo pagò. Forse non è un caso che sia proprio lui a curare la riedizione di Quindici.
Grazie ancora a tutti, bel dibattito. Metto qui iun primo assaggio, totalmente autobiografico, nel senso che parlo di me, mio padre, inquesto passo, viene citato, anche se come pedina fondamentale della caotica “scacchiera”. Si trova tra pag. 94 e 96 a un terzo esatto del libro.
” La mia vita è un altalenare tra questo libro, che ho caro come un segreto, le donne della mia vita che la riempiono con la loro bellezza e il loro sesso, mia madre, che ancora non sta bene, che paga il dazio a una vita difficile e dolorosa con tanti acciacchi, e qualche amico e amica che incontro all’ora dell’aperitivo per parlare di tutto e di niente. Per il resto la mia esistenza è quasi quella di un recluso. Ma penso all’anno scorso, di questi tempi. Mi stavo da poco riavendo dalla depressione più forte della mia vita, nella quale avevo vissuto come in un’angosciosa apnea per più di due mesi. Verso la fine di aprile ero cascato nel gorgo si può dire da un giorno all’altro, ed ero stato così male che ero stato costretto a lasciare S. Per anni non m’ero curato dei miei attacchi d’ansia e di panico, soltanto per sfiducia nei medici. E così avevo immagazzinato malessere, nevrosi, paura, ansia, finché ero scoppiato. C’era stato qualcosa di insano nel mio rapporto con S. Lei stessa era malata, questo oggi lo posso dire. Una donna che non aveva mai preso degli psicofarmaci non è per forza una donna sana, anzi. Perlomeno era malata d’un carattere impossibile. E infatti tutti i suoi repentini malesseri, le sue ubbie, le sue rabbie improvvise, i suoi capricci e i suoi cambiamenti violenti d’umore m’avevano prostrato, oltre ad avermi fatto infuriare varie volte. E così avevano accelerato la mia corsa verso il baratro della depressione. Chiuso in casa tutto il giorno, incapace di dormire, nemmeno di riposare, il mio umore che era a un livello bassissimo del mare nero dell’io, come se sentissi contro il mio corpo premere con forza inaudita l’atmosfera di tutto il pianeta terra. Una sensazione di schiacciamento universale verso il basso, la tensione delle membra, il respiro accorciato , il cuore che batteva all’impazzata come se avessi corso per le scale inseguito dal diavolo. E poi le visite a Villa Turro, una vera tortura , e il viaggio in metropolitana che non potevo fare da solo, e dunque Ernesto mi accompagnava e mi stava sempre vici\no, perché stare da solo fuori di casa mi atterriva. Un lungo mese di indagini e di test, per poi arrivare alla conclusione che io soffrivo di depressione, che le mie ansie avevano un’origine depressiva. Che il mio male aveva origini biologiche, e dunque in qualche maniera io questo maledetto male oscuro l’avevo ereditato. Ecco papà, di nuovo, la sua grande e lunga mano su di me, che fa un’ombra speciale, come in un cono nero e atavico. Papà, grande amore, grande ossessione, grande problema. Ho ereditato da lui una casa ma anche un malessere. La mia depressione è tedesca, è nordica, è bergmaniana; a proposito, ieri è 56ì’morto Ingmar, e se ne vanno con lui gli anni Sessanta, se ne va l’angoscia in bianco e nero, la sua strana parentela con Fellini (cantori dell’angoscia esistenziale entrambi). La mia depressione è teutonica dalla a alla z, è accidiosa, gutturale, espressionistica, dodecafonica. La mia depressione è surrealista, ma ancor di più dadaista. Pezzi volanti, roteanti di collage alla Kurt Schwitters. Cieli marmorizzati di Magritte. E rossi fondi carogna come quelli di Rothko, il suicida da lago di sangue. E graffi antichi di un Baldung Grien, di un Duerer, suo maestro. Nell’arte puoi trovare chilometri di pene, tonnellate di sofferenza accecante. Puoi trovare milioni di notti insonni, puoi trovare milioni di metri cubi di lacrime \inesplose, non sfolgorate.”
Rispondo ora a Remo, che saluto con simpatia e stima.
Il libro di Covacich sto per leggerklo. Sono stato fuori per presentazioni questa settimana e non ho avuto tempo di leggere con quella concentrazione che mi è necessaria per un libro così. Ti saprò dire. Ne ho letto solo l’\\incipt, e mi è piaciuto.
iopadre credo che approverebbe, e edo che si stupirebbe ancora una volta nel vedermi fare cose molto lontane dalle sue capacità. NOn era un uomo che azzardava, bensì\ era un coraggioso, anche perchè aveva scelto il sacrificio.
Il libro è anche la storia di un figlio che vuole assomigliare al pardre, non vi rieesce perchè è molto diverso da lui, e così trova se stesso nella scrittura, ma solo dopo la sua morte. Magari torneremo anche su questo.
Spesso mi dava bonariamente del pazzo, ma con una sorta di rispetto stupefatto.
Grazie Remo per la domanda. Compatobilmente con la tastiera del computer, cercherò di stare “sul pezzo” al meglio. Dunque pedonate gli errori di battitura.
Ringrazio Simona, Remo, Maria Lucia, Miriam per i loro recenti interventi.
@ Gaetano
Hai scritto: “Spero che tu non abbia considerato indelicate verso Letteratitudine le mie parole da te citate.”
–
Ma no, Gaetano. Tu sei delicatissimo. Grazie per lo spunto, invece.
@ Valter
Ti ringrazio molto per la tua risposta alla mia domanda un po’ “personale”.
@ Franz e Valter
Belli e generosi i vostri stralci.
Grazie.
@ Miriam
Ti ringrazio per aver citato e riportato in parte il pezzo di Berardinelli uscito sul Domenicale del Sole 24Ore di oggi. L’avevo letto anch’io con molto interesse.
Pezzo duro e interessante.
(Sono stato tentato di proporlo per un dibattito in un post a parte).
@ Massimo
non sarebbe male…
@ Franz
sicuramente leggerò il tuo libro, con piacere.
felice notte a tutti
🙂
@DA NINA A Massimo Maugeri e gli amici tutti:
Vi saluto con grande gioia dopo un lungo silenzio. Ma sono qui, e non vi ho mai dimenticati. Soprattutto Massimo, per la disponibilità e la generosità che mi ha dimostrato.
Cerco di rientrare con passo felpato, chiedendovi scusa.
Sempre vostra,
Nina
@ DA NINA A FRANZ KRAUSPENHAAR
Caro Franz,
con le nostre lacrime terrestri, in viaggio per latitudini e longitudini umane, potremmo abbeverare la luna.
So cos’è la depressione, specie se ereditata: … un passo distratto, e non sai più dov’è il cielo.
Dobbiamo guarirne: così possiamo. Possiamo tentare di intrecciare altre guarigioni.
Il tuo lamento esce dalle grate. Ci è permesso di ricomporre le costole ingabbiate, emendare parti guaste, superare il senso di morte – persino quello dei vivi – se c’è Amore. Lentissimo viaggio per labbra e per nervi, se Psiche non c’è. Perché è la fusione dell’abbraccio che annulla la solitudine di denti spaiati, memori della necessità della Memoria.
Il tuo libro, caro Franz, è coraggioso, intenso, lirico. Amo questo cuore narratio; di come il tuo Io parli a Noi, di Noi.
Ed è questo Noi a salvarci. Il dono dello sguardo verso l’altro.
*
“Veniamo dall’acqua nelle ore più liete: e non torneremo all’asciutto. Riposeremo a lungo: e di quel niente coglieremo l’attesa. Così l’anima si cerca, si perde, si ritrova, chiamata ad un plebiscito di tenebra.
Come un sommergibile ferito… E quella ciurma di cuori nutriti dal mare, il cui destino si perde nel salgemma sempiterno, che ne farà dell’anima collettiva?!
Invocherà codici intermittenti, affinché a ciascun cuore, nell’ineluttabile suo scoscendere, non venga negato di vivere o morire senza consegnare il pensiero al mondo.
Fosse anche un altro mondo, un angolo concubino realmente esplorato, una preghiera esaudita. Per poi tornare da quel dolore che ci fa misura e resa…”
A Franz da Nina.
Un forte abbraccio, e vola!
Non credo nelle recensioni incrociate, perché non hanno carattere critico: gli scrittori che si recensiscono fra di loro – guarda caso sempre parlando bene dei propri libri – nel più magnanimo dei casi fanno sorridere. Non si conosce più un minimo di pudore, nemmeno nella critica. Ma non è poi così importante, è l’ultimo dei problemi in un’Italia sull’orlo della guerra civile. 🙁
@ Iannozzi
L’Italia non è sull’orlo della guerra civile, bisogna solo risolvere il problema dei rifiuti! O ci mettiamo ancora una pezza?
Il pudore perso non devi cercarlo fra scrittori amici che “benevolmente” presentano i loro libri, ma negli assembramenti turistico-commerciali, dove ogni occasione viene spacciata, appunto, per cultura. E in altro…
Poi un lettore attento come te, può stroncarli entrambi!
🙂
buona giornata
@ miriam ravasio Fosse solo il problema dei rifiuti a Napoli, non sarei apocalittico. Ovvio che sto esagerando apposta dicendo che si è sull’orlo di una guerra civile. Ma all’imbecillità umana/politica non c’è mai fine – come la Storia purtroppo ci insegna -, ragion per cui è ragionevole, dal mio punto di vista, prepararsi in ogni caso al peggio.
Metto sullo stesso piano gli assembramenti turistico-commerciali e le recensioni incrociate. Il problema, cara Miriam, è che a mio avviso gli scrittori che si recensiscono in famiglia mancano di un reale spirito critico. In ultimo aggiungo che quegli scrittori che amano criticarsi in famiglia tentano forse di dare nuovo smalto a una carriera in rovinosa discesa. Non che Krauspenhaar e Binaghi siano i primi a recensirsi. Ben prima di loro tanti altri: il fenomeno non è di certo nuovo.
Per quanto mi riguarda manca di autorevolezza, ma soprattutto di un genuino spirito critico, la pseudo-critica operata in siffatto modo. E penso che sia più deleteria che altro, per gli scrittori stessi. Recensioni così possono appagare momentaneamente lo spirito più narcisistico di chi scrive, ma null’altro. Il lettore, per quanto sempliciotto lo si voglia credere, non è né stupido né idiota.
No, non stronco entrambi. Non vedo perché. Stronco solo se secondo il mio metro di giudizio i libri non valgono.
Auguro comunque a tutt’e due buona fortuna.
Buona giornata
Franz, sto leggendo il tuo romanzo (poi scriverò la mia lettura). A pag. 55 trovo scritto: “Si rompe l’hard disk del computer dal quale scrivo.”
Mi sono fatto l’idea che il tuo computer somigli all’auto malandata del tenente Colombo:-)
Bart
Per me il libro di Franz è un diario “malandato”, che non è quello del tenente Colombo però. Scrittura diaristica, per certi versi infantile e minimale all’estremo: non mi aspettavo un lavoro così. Potrà forse piacere a qualcuno altro, non di certo al mio palato di critico esigente.
“È giusto (o corretto) definire gli anni Settanta anni di piombo”? chiede Massimo.
Un domandone, insomma. Beh, direi che sono stati ANCHE anni di piiombo se con questa specifica denominazione ci riferiamo al terrorismo. Un filone eversivo-sovversivo che si innestava su scenari di criminalità usuale, almeno a Roma.
Nella capitale, in quegli anni, c’era terrorismo delle brigate rosse, dei nap, dei nar, di ordine nuovo e compagnia cantante.
A ciò si aggiungevano le “imprese” malavitose di organizzazioni criminali come “banda della magliana” e “banda delle belve”. senza dimenticare le esecuzioni di dissidenti libici che avevano trovato riparo a roma.
Ma, allargandoci al nord e non solo, c’era in azione la banda di Renato Vallanzasca, l’anonima sarda faceva sequestri di persona a ripetizione, e al sud mafia, camorra, ndrangheta e sacra corona unita spadroneggiavano alla grande.
Insomma, piombo o ghisa, furono anni per certi versi irripetibili
A me l’idea delle recensioni incrociate piace molto ed esorto Massimo ad andare avanti. Mi sembra un’idea carina e genuina.
Ho letto le recensioni e gli stralci e mi hanno convinta entrambi.
Quello di Franz mi pare molto dolente e coinvolgente. Non avrò il palato di critico esigente di di Giuseppe Iannozzi, ma mi considero una lettrice attenta e navigata.
Franz e Valter, vi accontentate?
Smile.
Per Franz e Valter.
Il “dolore” può essere un elemento che accomuna i vostri libri?
La scrittura può salvare dal dolore?
Smile
@Iannozzi:
prendiamoci “il resto dei giorni” con un sorriso. Letteratitudine è un sito dolce, umano e amico; qui è bello vedere due scrittori che amici o no presentano il loro lavoro: è una occasione di conoscenza generosa, che ci viene offerta. Possiamo dire tutto il male possibile, o tutto il bene; oppure manifestare indifferenza. Non è poco, pensaci! Se poi il tuo spirito critico si infiamma o si ripugna, avrai certamente altre occasioni per esprimerti. Qui stiamo bene, ci rispettiamo e ci mandiamo anche a quel paese, ma sempre con affetto e sincerità (che a volte fa così soffrire!)
Io penso che il dovere di ogni intellettuale sia quello di riconoscere ed eventualmente ( ma occorrono i mezzi) demolire i luoghi comuni che sono la vera rovina del nostro paese: un insieme di province.
Negli anni settanta soffrivo e mi stavano cordialmente sulle scatole i figli di papà che avevano scoperto il proletariato e che da piccoli ducetti, quali erano, insegnavano a noi, veri proletari, le vie d’uscita…..
Coltivo da allora una cordiale antipatia per chi sale in cattedre non sue; ma quegli anni sono lontani, restano alcuni luoghi comuni, che per quanto mi è possibile cercherò sempre di evidenziare (ma non so se ne sono capace) nella immagine più democratica: in mutande, come appunto, un Re nudo.
Ciao, con simpatia, Miriam
@ Elektra:
UN BACIONE, miriam
@Elektra
La scrittura non può salvare dal dolore, ma può fare di meglio: dissolverne l’amarezza in un’offerta di canto.
wow!!
@Maria Teresa Santalucia Scibona
Grazie per le belle parole e per la visita sul sito.
@Massimo
Sì, naturalmente hai centrato in pieno cosa intendevo per “sensibilità femminile”.
@Sulla questione delle recensioni incrociate
Noto che spesso chi si mette nei panni del critico tende a parlare INTORNO alla letteratura piuttosto che DI letteratura. Ne consegue la sempre più frequente abitudine di parlare male (o bene) di un libro senza averlo letto o perlomeno senza argomentare il proprio giudizio, senza un’analisi dettagliata sul perchè un libro è o non è piaciuto. Molto più facile sparare contro l’autore o abbandonarsi a fumisterie sui massimi sistemi.
Ciò detto, non mi pare che sia intenzione di Massimo, in questo spazio, fare un’operazione di prona captatio benevolentiae nei confronti dei due autori, credo che ci sia spazio anche per controrecensioni e per le critiche più feroci, purchè si tratti di un approfondimento e non di un motto scolpito su lapide.
Paolo
“La scrittura non può salvare dal dolore, ma può fare di meglio: dissolverne l’amarezza in un’offerta di canto”, dice Binaghi. Ed è quello che ho considerato leggendo l’estratto del suo libro. Non mi coinvolge, dico subito. E non appartiene a ciò che intendo per sferzata adrenalinica. Però, onestamente, la scrittura è estremamente tesa verso un senso di “dissolvenza”, di panacea. Un libro, quindi, che ha sicuramente una suna nobile funzione. Che poi non coinvolga me è del tutto insignificante.
Su Franz:
il coraggio naturale di avere un padre nel cuore, un padre che tende la mano. quel padre è un simbolo, probabilmente, oltre che una persona reale per Franz. Va secondo me accolto come idea platonica del padre. Un libro coraggioso, un sentimento coraggioso. Un libro che non dovrebbe passare inosservato. Spero di leggerlo quanto prima, anche se il mio comodino e ingombro di volumi che chiedono “udienza”.
“La scrittura non può salvare dal dolore, ma può fare di meglio: dissolverne l’amarezza in un’offerta di canto.”
Come dice Giulio….. wow!
Ti leggerò presto.
Smile
Per Miriam,
bacio con sorriso.
Smacksmile
@ MIRIAMHo solo parlato con libertà, in maniera conveniente alla buona creanza, con spirito critico. Mica posso dire bene di un libro che non mi è piaciuto?
Rispetto questo posto tenuto dal bravo Massimo Maugeri e proprio perché tengo rispetto parlo liberamente, sicuro che Massimo preferisce una opinione sincera a quella di uno che fa la faccia che gli conviene. Perché dovrei dire qui una cosa o niente addirittura, e poi altrove dire in maniera diversa?
Demolire i luoghi comuni, cara Miriam, io penso sia parlare con onestà senza la paura di essere randellati sulle gengive.
Ahinoi, poi è inevitabile che ci sia anche chi si fa bello tacciando di questo e quello chi gli sta sulle scatole, per motivi banali e tutti suoi in verità. Dico questo solo perché mi è caduto, purtroppo, l’occhio su un commento lasciato… ma se dovessi rincorrere tutti i ragazzacci in vena di tirare gavettoni farei solo questo e null’altro. 😉 Ed allora, in questo caso, cara Miriam, è il caso di usare un po’ di sana indifferenza.
Baci e cordialità,
Giuseppe
@ Giuseppe: meglio parlare benevolmente qui, chiacchierando come in un caffè letterario, tra amici, che fare la penna prezzolata e suonare il tamburo per libri che non valgono la carta che suo malgrado li ospita…
E poi, come dici tu, il lettore non è scemo. Sa capire se una recensione è una sviolinata o è autentica e sincera. Qui parliamo di letteratura senza atteggiarci a soloni… Sorridi, lo sfascio è altrove! Manteniamo quest’oasi dove si può dibattere. O sbaglio?
🙂
Miriam: bacio…
Se c’è uno che ha proprio niente da guadagnare quello sono io. Nel senso: “fare la penna prezzolata e suonare il tamburo per libri che non valgono la carta che suo malgrado li ospita…”? 🙁 No, no, no, assolutamente no, batto i piedoni da orco qual sono: non ho mai concesso sconti ad alcuno. Ho trattato tutti sempre alla stessa maniera, nemici e amici, così come dovrebbe fare un critico.
Continuo a sostenere che dibattere significa portare opinioni diverse.
Lo dice anche il DeMauroParavia: “discussione di più persone nella quale le diverse opinioni vengono discusse e vagliate”.
Baci,
giuseppe
Un rapido ringraziamento per i vostri nuovi interventi.
—
Un sorrisone per Miriam, Elektra e Maria Lucia.
—
Ora spiego a Giuseppe la mia posizione sull’idea delle “recensioni incrociate”… nel commento successivo.
Caro Giuseppe,
intanto ti ringrazio per il tuo commento.
Sull’idea delle “recensioni incrociate” mi ero già espresso. Avevo posto la domanda provocatoria in una precedente “puntata”: “sono credibili le recensioni di due autori a cui viene chiesto di presentare reciprocamente i rispettivi libri?” (aggiungo, però… nell’ambito di un pubblico confronto dove è possibile interagire in un’ottica di scambio con gli autori medesimi?).
Ora, qualcuno può dire – come hai fatto legittimamente tu (e l’hai fatto in maniera garbata) – , “no, assolutamente no”… per le ragioni che hai spiegato e che possono essere condivisibili.
Qualcun altro può dire “sì”… perché qui gli autori/recensori si espongono nell’ambito di un pubblico confronto. Nel senso che i lettori/frequentatori del blog possono interagire con loro, possono porre domande, possono leggere (e commentare) stralci delle loro opere, possono fare complimenti e auguri, possono criticarli (ma senza scadere nell’offesa o nella mancanza di rispetto… questo non lo posso accettare), possono dire di non credere alle recensioni incrociate. Insomma… possono farsi, in assoluta libertà, la loro idea (anche e soprattutto perché, come dici tu, il lettore, per quanto sempliciotto lo si voglia credere, non è né stupido né idiota… per fortuna, aggiungo io).
Però, al di là della piccola “provocazione” implicita nella stessa idea delle “recensioni incrociate”, ciò che a me preme è l’incontro… perché “l’incontro” è lo spirito che caratterizza questo blog (che sin dalla sua nascita si presenta, appunto, come “luogo d’incontro virtuale tra scrittori, lettori, ecc.”).
Quello che posso promettere a te, caro Giuseppe, e a tutti gli altri frequentatori del blog, è la massima sincerità e onestà da parte mia. Quando inviterò due autori a recensirsi reciprocamente specificherò sempre se i diretti interessati si conoscono oppure no. Per esempio… Salvo Zappulla e Roberto Mistretta si conoscevano bene (e non ho mancato di farlo presente). Enrico Gregori e Vito Ferro, invece, non si conoscevano affatto.
All’interno di questo post dedicato a Franz e Valter ho scritto: “(…) Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e si stimano”. E tra i commenti: “Fate conto che questa sia una semplice chiacchierata tra amici. Siamo in un bar – per esempio – insieme a Valter e Franz. E chiacchieriamo insieme a loro dei loro nuovi libri. In fondo Letteratitudine non è altro che questo: un luogo d’incontro tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti, ecc. (ogni tanto mi piace ricordarlo).”
Franz e Valter si conoscono e si stimano (e quello che hanno scritto nelle loro “recensioni incrociate” lo pensano veramente… e dunque – per quanto mi riguarda – le suddette recensioni sono sincere). Ripeto, sono stato io che li ho invitati qui a presentare i loro libri (e ribadisco… precisando, per correttezza, che i due si conoscono e si stimano). È chiaro che nel momento in cui Franz e Valter accettano l’invito si mettono un po’ in gioco… ma sempre nell’ottica dell’incontro con i frequentatori del blog. Questo, in fin dei conti, è lo spirito che mi sforzo di imprimere qui.
“Letteratitudine” non è un luogo dove si fa (alta) letteratura. È un luogo d’incontro.
Però, Giuseppe, (lo dico a te e a tutti) se nel portare avanti l’idea delle “recensioni incrociate” – perché continuerò a portarla avanti – denoterai, da parte mia, nonostante quello che ho precisato, delle “mancanze” (o l’assenza di un minimo di pudore)… farai molto bene a dirlo (come hai fatto). Io accetterò la critica (che ha i suoi fondamenti) con molta serenità e ti rinnoverò sempre e comunque il benvenuto a frequentare Letteratitudine.
A te, come agli altri.
🙂
—
Un caro saluto a te e a tutti.
Potrò tornare a intervenire stasera.
Va bene, Giuseppe?
Dài, stretta di mano… anche se non ti piace, o reputi sbagliata, l’idea delle recensioni incrociate.
Ti va?
🙂
Potrò tornare a intervenire in tarda serata.
Buona cena a tutti.
@Giuseppe Iannozzi:
siamo forti! vero?
baci, cordialità e saluti. Aug! (un saluto fine anni settanta)
🙂
@ Giuseppe: no, no, no… batto il piedino e proclamo che non mi riferivo certamente a te né a nessuno dei frequentatori di questo blog…
🙂
Ho capito il tuo punto di vista: tu ritieni un po’ discutibile l’idea delle recensioni incrociate ed è nel tuo pieno diritto esprimere questa tua perplessità. Io volevo solo dire che trovo meglio recensire anche benevolmente il libro di un amico che il tamburo etc etc…
Ma naturalmente Massimo ti ha risposto più esaurientemente di me…
ML
Caro Giusepppe Iannozzi,
l’esercizio critico a volte puo’ lasciare qualcuno un tantino deluso, ma altrettanto DEVE essere utile sia ai lettori che agli autori per migliorare le proprie scelte. Io la vedo cosi’. Ed aggiungo che, a volte, quando c’e’ qualcuno che proprio e’ negato per la scrittura, se il critico gli dicesse ”Cambia mestiere” farebbe il suo sacrosanto dovere. Non sopporto gli hobbisti e i circoli del tempo libero: la scrittura deve essere vista come una professione; pertanto valgono le regole di qualsiasi altro impiego… non tutti i pediatri, i falegnami ecc. sono buoni, vero?
Ciao, caro
Sergio
Ciao Sergio! Dibattiamo allora, come dice il De Mauro Paravia giustamente citato da Giuseppe… dibattito è… “discussione di più persone nella quale le diverse opinioni vengono discusse e vagliate”.
🙂
Ciao, Maria Lucia!
Certo, dibattiamo. Ma ricordati che io vivo in Slovenia: non posso acquistare un libro in italiano sotto casa come voi. Le novita’ che considero di rilievo, tuttavia, me le faccio spedire da Perugia ogni tanto. Ma costa parecchio ed io seleziono solo il meglio del meglio, non mi basta la curiosita’ per spendere venti euro. Per me venti euro sono tanti e non li butto col primo che capita. Cosi’ si campa scrivendo solamente: carmina non dant panem. Di conseguenza i libri in questione non li ho letti. Vedremo. Forse. Prima mi informo in giro.
Era mio padre; un bel titolo, che promette una lettura interessante e, per molti, rivelatrice.
Tutti abbiamo un padre, o l’abbiamo avuto; il percorso della vita umana prende qui atto del succedersi delle generazioni in forma di un’analisi profonda, sia d’accusa come d’accettazione e gratitudine.
Sullo stato del rapporto tra padre e figlio si decidono infine le condizioni reali della società proiettata verso un futuro, che tutti vorrebbero migliore del presente.
Come deve essere un padre per garantire il successo del progresso societario ed umano, come deve comportarsi un figlio, affinché il padre sia sostenuto nei suoi buoni intenti e non contrapposto con lo scopo di avvalere la propria identità, giovane e senza esperienza.
Un rapporto difficile, nel quale influiscono fortemente le condizioni esterne a loro che, come la spada di Damocle, incidono sull’esito dei loro sforzi.
Analizzando la storia degli ultimi decenni, non possiamo non riscontrare la mancanza d’ideali seri e sani, gli unici che aiutino a realizzare un rapporto sereno ed equilibrato tra un padre e un figlio, e quindi nella società intera.
Anni bui di corruzione in ogni attività umana, di buonismo falso e ipocrita hanno lasciato le loro tracce nelle generazioni, la cui fine sembra di non esserci ancora.
Il frutto di tanto malessere, creato per pure negligenza e disinteresse per il bene della nostra anima, è la fuga nella droga, che rende ogni contatto tra un padre e un figlio impossibile e la cui fine è la distruzione di ogni rapporto famigliare e infine civile.
È bene scrivere libri su questo tema che assilla la società consumistica del profitto individuale e indicare come uscire da questo dilemma, affinché i padri imparino dalla storia e i figli da loro, e garantire così il processo evolutivo comune.
Saluti
Lorenzo
P.S.
In poche parole, qui a Letteratitudine quasi tutti hanno un impiego fisso e poi parlano di libri per piacere o per passione. Io no. Io devo starci con la testa veramente.
@ MASSIMO MAUGERI
Quello che posso promettere a te, caro Giuseppe, e a tutti gli altri frequentatori del blog, è la massima sincerità e onestà da parte mia.
Questa tua sincerità, caro Massimo, non ho mai pensato di metterla in discussione, altrimenti non mi troveresti qui a commentare. E’ il tuo spazio uno dei pochissimi in Rete dove si riesce a discutere con calma e con un molto ampio spettro di educazione, la qual cosa non può che invogliare a leggere i tuoi post così come gli interventi dei tuoi ospiti. Sei un ottimo conduttore, che lascia spazio a tutt* e a tutte le opinioni, purché espresse con garbo. Tutto ciò non l’aprezzo poco o molto, ma lo apprezzo moltissimo e te ne rendo giustamente merito, così come è giusto che sia.
Però, Giuseppe, (lo dico a te e a tutti) se nel portare avanti l’idea delle “recensioni incrociate” – perché continuerò a portarla avanti – denoterai, da parte mia, nonostante quello che ho precisato, delle “mancanze” (o l’assenza di un minimo di pudore)…
Verissimo. Hai specificato e in maniera più che chiara. Franz e Valter sono amici. Forse sono anch’io un po’ loro amico, e proprio perché “un po’ amico di entrambi” mi permetto di andarci giù un po’ pesante, anche in maniera provocatoria. 😉 Aggiungo che al di là del fatto che il libro di Franz mi sia piaciuto poco, sono comunque contento di averlo letto in una veste che non è quella del romanzo di genere. Che è a mio avviso più semplice da scrivere e da far arrivare al pubblico; gli riconosco quindi di avere del coraggio.
Di Valter avevo letto a suo tempo i “Tre giorni all’inferno di un cronista padano…” e mi piacque e molto, nonostante non sia un mistero per nessuno che io e Binaghi siamo di idee diametralmente opposte su quasi tutto. Mi piacque anche “Cattivo sangue”: un noir che a mio avviso non è stato recepito da tutti nella giusta prospettiva. Ma ancora qui invito a leggere anche “Cattivo sangue” di Franz Krauspenhaar. Mi permetto di riportare il commento che lasciai a suo tempo su IBS: In “Cattivo Sangue” c’è rabbia, passione, disperazione; c’è un po’ di quel sole dei morenti che Jean Claude Izzo ci ha lasciato, c’è l’ironia feroce che fece nera e di più la verve di Léo Malet, e ci sono quelle latebre che James Ellroy ha messo in luce ne “I miei luoghi oscuri”, ma c’è anche una sana dose di cattiveria spinta al limite estremo d’un cinismo à la Céline. E sì, c’è pure dolcezza, una dolcezza che ha il sapore quasi d’un ricatto, quasi d’un riscatto impossibile, perché per Bruide nessuna redenzione possibile né in cielo né in terra: la dolcezza che Bruide sa è d’una qualità che non si dimentica, come in “Fight Club” di Chuck Palahniuk. Un’abbondante emorragia di schiettezza à la Dürrenmatt domina su ogni sentimento e durezza di Bruno Bruide: così è “Cattivo Sangue” di Franz Krauspenhaar, un noir onesto fino all’ultimo colpo.
Mi piace questo posto, si discute bene e si è fra persone che sanno comportarsi, quindi, caro Massimo, se dovessi esagerare con le mie provocazioni, ti prego di bacchettarmi pure, perché a volte me lo merito. 😉
Certo che sì, una bella stretta di mano. 🙂
Con stima sincera,
giuseppe
@ MIRIAM
Credo di aver risposto rispondendo a Massimo, anche a te, cara Miriam.
kisses
giuseppe
Conosco i due libri. Ho letto quello di Valter. E’ forte, definitivo, senza scampo. Violento e sensuale. Ti costringe nelle spirali della disperazione, poi nella paranoia dei media e infine ti alza nell’erotismo virtuale dell’ultima parte. A lui piace pensare di aver consegnato al lettore una parabola, ma io credo che si sia spinto oltre. Ti propone un viaggio senza ritorno, dove sicuro, se stai al suo gioco, alla fine ti ritroverai diverso. La letteratura se è buona, dovrebbe cambiarci, o no? Ecco credo che volendo, qui, sia possibile. E poi è scritto con il corpo. Anche se costruito con la testa. Così come quello di Franz. Giocoliere della parola, capace di fare liste sublimi (e rido perchè davvero ne ho in mente qualcuna geniale). Qui emoziona in continuazione. E’ nel solco di un nuovo verismo, di una scrittura essenziale dove il piccolo racconta l’universale. Sì, devo dire, che dopo averlo letto ho pensato di avere di lui già tutto quello che mi serve. Generoso, condivide coi i lettori l’amore (grande) per S. e quello (immenso) per suo padre. E molto altro. Pelle d’oca, per questo flusso di coscienza che lascia sulle pagine ritratti di persone in carne e d’ossa. Non sono due autori così distanti. Sono autentici entrambi, caro Massimo, sono da leggere, perchè senza dubbio, queste loro storie hanno uno scarto dallo scontato. E magari ci viene anche la voglia di leggere le altre scritture, di aprire il Bonetti di Valter, oppure di sbirciare il sito di Franz, dove con la poesia (e l’ironia che gli appartiene) regala sorrisi e lacrime. Se è con la pancia e con il cuore che ci avviciniamo ai libri, questi due certo non ci tradiranno.
elisabetta
@ SERGIO SOSI
Caro Sergio Sosi,
condivido appieno: scrivere comporta anche delle responsabilità, non poche e non prive di valori. Con i libri si formano le idee della società a venire, si formano gli animi, si trasmettono valori sociali politici religiosi, e non da ultimo si trasmette l’amore per la bella scrittura, per lo stile troppo spesso trascurato. Se non si è capaci, meglio cambiare mestiere: non c’è scritto da nessuna parte che tutti debbano essere degli scrittori.
Cari saluti,
giuseppe
@ Franz Krauspenhaar.
oggi meditavo su come articolare alcuni pensieri che questa sera, poi, ti avrei postato, ma Enrico Gregori me li ha “rubati”. Mi ha preceduta “il coraggio naturale di avere un padre nel cuore…come idea platonica del padre. Un libro coraggioso, un sentimento coraggioso. Un libro che non dovrebbe passare inosservato”. Mi hai ricordato La strada di Mc Carthy, ma non solo; mi sembra che, le particelle sospese, quell’insieme di percezioni che sovrastano azioni e pensieri, stiano mandando nuovi messaggi e non più rinviabili. Un ripensare alla figura maschile, non più in contrapposizione all’emisfero femminile (scusatemi la semplicità dell’affermazione), ma che si sviluppa da sé, avulsa dalla congestione conflittuale che ha caratterizzato questi ultimi nostri anni. Sicuramente un bene.
Purtroppo non ho letto il tuo libro (che farò appena possibile); mi piacerebbe ritornarci dopo, magari in un post, se Massimo vorrà, dove potremo confrontarci, noi tutti, considerando anche altri testi.
Ciao, Miriam
comprato il libro di K
@ Giuseppe Iannozzi
Va be’… adesso non esagerare con i complimenti a Franz e Valter, altrimenti mi viene l’invidia.
🙂
E a proposito di invidia…
Hai scritto: “Sei un ottimo conduttore”.
Ogni volta che mi date dell’ottimo conduttore, Pippo Baudo si rode il fegato. E temo che prima o poi rimarrò vittima di una delle sue note esternazioni.
—
Scherzi a parte, mi è piaciuta questa tua frase:
“Con i libri si formano le idee della società a venire, si formano gli animi, si trasmettono valori sociali politici religiosi, e non da ultimo si trasmette l’amore per la bella scrittura, per lo stile troppo spesso trascurato.”
È un pensiero ottimista, questo. Anche a me piace crederci.
Invece quando sono un po’ a terra mi viene da pensare che i libri, oggi, contano molto meno di una volta.
@ Sergio
Sei proprio negato per la scrittura. Cambia mestiere.
🙂
@ Sergio
Scherzi a parte…
Hai scritto: “qui a Letteratitudine quasi tutti hanno un impiego fisso e poi parlano di libri per piacere o per passione. Io no. Io devo starci con la testa veramente.”
–
Fino a pochi mesi fa facevi l’insegnante (poi ci sono stati problemi con la scuola… va be’, questa è un’altra storia). Ora, quando facevi l’insegnante ritieni che ci stavi un po’ meno con la testa?
Io non credo.
A mio avviso, posto fisso o meno, uno la testa… o ce l’ha, o non ce l’ha.
@ Miriam
Hai scritto: “mi piacerebbe ritornarci dopo, magari in un post, se Massimo vorrà, dove potremo confrontarci, noi tutti, considerando anche altri testi.”
–
Carta bianca, Miriam.
@ Elisabetta Bucciarelli
Grazie per il tuo commento, cara Elisabetta. Molto bello.
–
Salutami tanto Maria Dolores Vergani.
A proposito… come sta?
Ringrazio Enrico, per aver risposto alla mia domanda scaturita dall’intervento di Gaetano (a sua volta stimolato dall’incipt della recensione di Franz).
La ripropongo di nuovo a tutti voi (augurandovi buonanotte):
È giusto (o corretto) definire gli anni Settanta “anni di piombo”?
Buonanotte, Massi…
🙂
Anche se con questa domanda non si dormirà…
Agli anni come alle persone si mettono delle etichette comode ma spesso inesatte o poco esaurienti. Io non ho vissuto i Settanta ma gli Ottanta sì e non furono solo edonismo esasperato o corruzione, anche se per la gran parte lo sono stati. Stessa cosa per i Settanta che hanno offerto anche quello che ricordava Gaetano ad inizio post. Solo che la rovina degli anni Sessanta e Settanta è stata l’ideologia. Ideologia senza ideali molto spesso… tant’è vero che ci si è risvegliati dopo la sbornia di peace and love con gli spari e le bombe dei terroristi e poi con quelle degli attentati mafiosi. Credo che il 1978 sia stato un anno cruciale: attentato a Moro – lo Stato è fragile – , al Papa con corollario di sequestro Orlandi etc etc… Poi cosa? Gli Ottanta. Televisione, rampantismo, moda, Milano da bere – altra etichetta – …
Massimo,
forse non hai letto la mia lettera a Maria Lucia prima del post scriptum: in essa io dicevo che non posso mettermi a buttare i soldi per ”verificare” la bonta’ di un libro perche’ per me costa troppo farlo, visto che non vivo in Italia. Ecco cosa intendevo con il mio ”starci con la testa”: se hai pochi soldi e non hai un posto fisso, i quattrini non li regali. Li destini ad autori veramente validi, non ”forse” validi. ”Starci con la testa”, in italiano, ha anche l’accezione di ”fare (piu’) attenzione”.
Ciaobbello
Caro Giuseppe Iannozzi,
Siamo in perfetta sintonia. Il problema e’ che oggi non esistono, in Italia, eccetto i luoghi storici come l’Accademia dei Lincei e quella della Crusca, altri veramente basilari organi, di grande autorita’, per fare il punto critico sui titoli italiani. Un ”gran setaccio indipendente” che andrebbe fondato e seguito, con molti finanziamenti e serieta’. Dunque, dicevo, la realta’ editoriale e’ fuori controllo. Servirebbe un mensile molto ben strutturato e corposo (che non sia L’Indice, ormai purtroppo decaduto) che faccia il punto della situazione per orientare il pubblico senza impedimenti d’ordine ideologico-politico. Lo vorrei con tutto il cuore, ma non ho una lira.
Ciao, caro, lieto di averti ”conosciuto” in questi spazi virtuali.
P.S.
”SOZI”, farei di cognome, non ”Sosi”, ma non importa. Solo l’etimologia, che parla di ”soci in affari” latini ne soffrirebbe, non l’orgoglio.
Io gli anni Settanta me li ricordo bene. Erano proprio di piombo. Altro che frasi fatte. Poco ”love and peace” e molte P.38. In strada. Meglio che siano passati: anni di dolore e di morte, anni disperati con un Paese sbandato, disorientato fra marosi pazzeschi, bufere infernali a preludere la decadenza attuale. Dal Sessantotto ad oggi e’ stata tutta una discesa nell’Ade. Ma a cominciare dal velenoso Dopoguerra. E penso, sento anzi, che tornare a sentirsi figli dell’Anteguerra sarebbe un modo per andare avanti meglio, verso una rinascita, o almeno un prosieguo dignitoso. Basta con le angosce. Fuori dai piedi la diossina.
Questa delle recensioni incrociate è un’idea molto bella massimo. bella davvero. Complimenti.
sono d’accordo con Rosa Maria, omonima della mia ex più amata.
@ Giulio:
ciao, tutto bene?
🙂
che libri interessanti! bello il dibattito e originalissima l’idea delle recensioni incrociate. son d’accordo con giulio, rosa maria e gli altri.
recensioni incrociate, recensioni incrociate, recensioni incrociate
🙂
Grazie per i vostri nuovi commenti
@ Sergio
Ora ho capito… in effetti non avevo afferrato.
Un grazie a Rosa Maria, Giulio e Luisa.
Le recensioni incrociate continueranno.
Che bella discussione, saluto Walter che conosco (per via del suo blog) e dico semplicemente che dopo aver letto tutti questi messaggi mi viene voglia di leggere i libri di cui si è parlato. Se questo spazio serve anche (e non solo) a far leggere i libri in questione, allora benvenga. Poi ogni lettore si farà il suo giudizio critico, ma bisogna pure leggerlo un libro prima, giusto?
Ringrazio anche la cara amica Maria di Lorenzo che ha segnalato sulla sua rivista (In purissimo azzurro) questo blog che prima non conoscevo.
Un saluto a tutti!
Elisabetta Modena
Li ho letti entrambi: diversissimi.
Era mio padre, è come ha scritto sopra il Gregori, un testo coraggioso, l’idea platonica del padre, ma non solo. Il testo è un gorgo di correnti, pensieri intimi e citazioni, esperienze e proiezioni di vita. Doloroso e insieme risolto: tiene il lettore attento alla trama, che c’è, perché è la vita del padre e la sua. Franz Krauspenhaar è un grande comunicatore che si regala a tratti e a tratti si ritrae. E se la scrittura, per quel suo scavarsi dentro, in un primo momento sembra quasi femminile, le donne stanno fuori, sulla porta. Non c’è spazio, se l’autore non lancia i suoi sms; il rischio è quello di trovarsi con il lupo! E’ un libro su cui sarebbe bello confrontarsi a lungo.
Devoti a Babele, invece è un testo a tempo, anzi di quel tempo; le comuni tappe sono così riconoscibili che fanno stare male. Eppure penso che a suo modo, sia quasi un testo pedagogico. Non l’ho letto con piacere, come quello di Franz, l’ho fatto con serietà, con impegno ma senza farmi coinvolgere. Una difesa.
@ Miriam
Ma sei… bravissima!
🙂
@ Elisabetta Modena
Benvenuta in questo luogo, cara Elisabetta. Spero di ritrovarti ancora.
Intanto ti saluto e ti faccio tanti in bocca al lupo per la tua scrittura.
Grazie Massimo, vorrei solo avere più tempo da dedicare a questi stupendi approfondimenti… e potermi concentrare un pò di più, senza la confusione dei miei tre bimbi in sottofondo…
Addio a Mario Rigoni Stern, uno degli scrittori a me più cari per quella sua asciutta, straziata, antiretorica, umanissima rievocazione di una delle pagine più amare della storia del Novecento, che di pagine amare, purtroppo, ne ha conosciute tante: la ritirata dell’armata italiana in Russia, lungo la linea del Don. Un massacro: i fanti, gli alpini, tutti i poveri soldati mandati al macello nell’ARMIR, ricevono nelle pagine de “Il sergente nella neve” una consacrazione non finta, non voluta, ma autentica e profonda, come autentiche e profonde sono sempre le pagine di questo grande libro: «Giuanin mi domandava sempre più spesso: – Sergentmagiú ghe rivarem a baita? – Anch’io sentivo che qualcosa non andava. I russi al di là del fiume avevano avuto il cambio e di notte lavoravano a tagliare cespugli e piante per aprire il campo di tiro alle loro armi. Quando ero solo, guardavo laggiù, a sud, dove il fiume girava e vedevo dei bagliori come lampi estivi. Ma erano tenui e pareva che venissero di là dalle stelle… «Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità e cercavo di rincorarmi parlando di ragazze e di sbornie. Tra noi v’erano ancora di quelli che scrivevano a casa: «Sto bene, non preoccupatevi per me, sono il vostro…» ma mi guardavano con occhi mesti e indicando l’ovest mi chiedevano: – Da che parte dovremmo andare in caso di…? Che cosa prenderemmo con noi? ………
Addio, Sergente Maggiore Stern. E grazie di tutto. Agli insegnanti una preghiera: facciano leggere sempre questo picolo grande libro ai loro studenti.