Nuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono Giorgio Morale e Roberto Plevano. Entrambi gli autori fanno parte della redazione del blog “La poesia e lo spirito“.
I libri oggetto delle recensioni sono “Acasadidio“, di Giorgio Morale, e “100 miglia” di Roberto Plevano
Due libri diversi, ma che – forse – hanno tratti in comune nella gestione dei rapporti umani e famigliari.
100 miglia racconta il volo, il sogno, e nel volo… la libertà suprema, la scrittura. Acasadidio, fotografa – tra le altre cose – le ristrettezze dell’ufficio, una Milano chiusa e intabarrata nei soliti ritmi, l’oscurità di mura di uno “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”. Una casa di Dio ben impiantata che però nasconde giochi truffaldini e impasti della solita Italia… e le distorsioni di alcune organizzazioni di volontariato.
Così vi domando:
Che rapporti avete con il “volo”?
Avete mai sognato di volare?
Cosa vuol dire sognare di volare: libertà o desideri inappagati? Cosa fu per Icaro?
E la scrittura – come il volo – è libertà o desiderio inappagato? Pienezza o mancanza?
E poi…
L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?
O anche il dovere è libertà?
Che rapporti avete con il mondo del volontariato?
Cosa ne pensate?
Di seguito potrete leggere le recensioni incrociate dei due scrittori/ospiti di questa puntata.
Vi chiedo di interagire con Giorgio Morale e Roberto Plevano, che parteciperanno alla discussione. Come dico sempre… che ciascuno di voi faccia il giornalista culturale e ponga delle domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.
Massimo Maugeri
Extrapost: domani pomeriggio sarò ospite della trasmissione culturale condotta da Mariella Alì a Radio Catania: h. 17-19 circa. Sono previsti gli interventi di Roberto Alajmo e Simona Lo Iacono. La trasmissione si può ascoltare in diretta collegandosi al sito: www.radiocatania.it
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100 MIGLIA di Roberto Plevano
Recensione di Giorgio Morale
Ci sono sere d’estate in cui il mondo è in attesa di qualcosa che non arriva e s’invoca la cessazione di tutto. Ci si affaccia alla finestra e si guarda. È tutto pieno, di sostanze diverse ma ugualmente compatte: case, aria, nuvole. È come essere in un sommergibile o in una tenda a ossigeno. Né vivi né morti, sospesi fra due regni, come gli eroi greci morti senza sepoltura. Si anela al vuoto – chissà quando, chissà dove. Come soccorrerebbe allora un’immagine come questa:
“Era come sospeso a qualche filo invisibile che aveva come punto d’origine il puro nulla, e quel pendolo aereo privo di perno pareva comunque un muoversi con segreta regolarità di oscillazione. O era a tratti un galleggiare su polle e cascate create e disfatte a ogni istante nel silenzio dell’incerto e pur così continuo procedere” (p. 9).
Di tutti i sogni dell’uomo, il volo, pur da tempo tradotto dai sogni alla realtà, pare conservarsi inalterato: forse per essere legato al desiderio inesauribile di libertà, di acquisire una leggerezza che superi la gravità naturale. O forse perché è quello che più ci equipara agli uccelli, gli esseri felici per eccellenza, come ebbe a definirli l’operetta leopardiana. E anche qui c’è una sorta di elogio degli uccelli da parte di un istruttore di volo, strana figura di puro di cuore e truffaldino al contempo, in un discorso a metà tra Leopardi e Francesco d’Assisi:
“Gli uccelli… sono nostri amici. Sono come nostri fratelli. Fratelli maggiori. Ci mostrano l’aria, ci segnalano dove si sale, e dove c’è turbolenza. Osservare sempre! Gli uccelli sono allegri, cantano, e più sono contenti, meglio cantano e meglio volano! Si divertono quando volano. Nessun animale si diverte come loro, volano e cantano e ci insegnano! Aria buona, uccelli cantano!” (p. 133).
Tutto un immaginario mitico e mediterraneo si mescola ad arditezze poetiche e filosofiche, da Icaro a Baudelaire a Nietzsche, nel rinverdire continuamente questo sogno. Come si vorrebbe, noi stessi, poter dire così!
“I rumori, tutti, cessarono… E improvvisamente il mondo si srotolò davanti a me, prese a scorrere a una velocità ridicola… scorrevo anch’io incontro a esso. E non capivo, non sapevo che cos’era, il quadro di riferimenti spaziali che era nato con me e che mi aveva accompagnato fin dai primi miei passi era sconvolto… la terza dimensione era entrata in me con la vertigine e la meraviglia, e poi allargava la cavità del mio petto con una grande euforia” (p. 24).
La citazione di p. 9 è il primo contatto col parapendio, nel romanzo 100 miglia di Roberto Plevano, da parte del protagonista Luca; quella di p. 24 è la sua prima esperienza di volo.
Alcune delle pagine più felici del romanzo sono quelle dedicate al volo:
“È come un conflitto di naturali armonie, la gravità che ti blocca a terra dove sei nato, la spinta che porta in alto, che pare il compiersi di un’antica promessa. Cambia il respiro, cambia la percezione del tuo corpo, una liquida vibrazione comincia ad agitare i polmoni e lo stomaco… sentivo nel corpo la felicità dell’asino che raglia, la gioia del gallo all’alba, la completezza organica dei sensi nell’esercizio dell’azione perfetta e funzionanti in concordia. È una specie di vibrazione interna, il canto della carne” (p. 122).
E una delle scene più toccanti in assoluto è quella in cui uno spettatore non riesce a trattenere l’emozione al vedere uno stormo di cicogne che vola per un tratto appaiato a un gruppo di umani:
“Aprì la bocca, e d’improvviso il suo corpo fu preso da una specie di fremito convulso. Ero dietro di lui e pensai a una fitta di tosse. Erano singhiozzi invece. L’uomo piangeva, come chi non aveva più conosciuto lacrime dagli anni dei giochi e la chiusa delle acque dell’anima fosse andata in frantumi, per lunga usura, in un momento. ‘Ma dove vanno? Dove vanno? Le hai viste? Dove vanno?’. Non riuscì a dire altro, la voce rotta da singulti, un pianto dirotto” (p. 126).
* * *
Lo spirito della gravità in 100 miglia è rappresentato dallo spirito del tempo, in cui “anche i più semplici rapporti personali sono avvelenati da interessi nascosti e da continue manipolazioni” (p. 41), da una “società spuria, che a lungo, nel disinteresse generale, ha incubate alcune malattie degenerative di diagnosi difficile e impossibile cura” (p. 34). In cui “tutti, tutti! Si lamentano che è dura, lavorano tanto, che non hanno tempo, che è sempre più complicato” (p. 53). È rappresentato da una società che presenta una realtà capovolta, in cui ci sono “McDonald’s e simili che vendono cibo che non nutre, delle canzoni che non sono musica, professori che non insegnano… medici che ammazzano… giudici che vendono sentenze per un appartamento in centro,… ricchi che sono poveri e viceversa… partiti che sono club… politica che non è più governo,… arte che è mera esibizione,… religioni fai-da-te con tessera d’iscrizione a scalare secondo il reddito e il livello di plagio,… storia che è diventata successione di eventi, e che è finita, a quanto pare” (pp. 55-56). E arrivano anche sentenze come: “Benessere? Quale benessere?… non c’è nessun benessere in Italia. Ci sono solo un po’ di soldi, e finiranno in fretta” (p. 53).
Ma nella dimensione umana pesantezza e levità si intersecano, comunicano come per osmosi. Così in questo romanzo avviene ai due amici. A Luca, che per la pratica del suo sport preferito potrebbe apparire spericolato, ma in realtà vive nella provincia rassicurante e sonnolenta con moglie e bambini che riempiono il suo mondo, e al cui equilibrio basta l’evasione del volo una volta la settimana. E a Renato, che, dopo l’illusione di un progetto di ricerca in America abortito per l’ignoranza e la corruzione degli ambienti universitari, è diventato agente di commercio, ma anche lui si scoprirà coltivare una sua via per la libertà.
Cento miglia di volo è il percorso che il protagonista Luca aspira a percorrere e la misura della sua libertà, mentre le cento miglia di Renato sono un volumone che Luca trova nell’abitazione, dopo la morte prematura dell’amico in un incidente automobilistico: è come se lo stesso soffio diventasse il vento che alimenta il volo di Renato e lo spirito che ispira la scrittura di Luca. Nel volumone, nonostante l’amarezza della sua esperienza del mondo, perennemente sulle soglie della disillusione e della tragedia, Renato ha salvato grazie alla scrittura la gioventù sua e del suo gruppo di amici. Proprio lui, che sembrava il più lontano dalla scrittura e mai aveva lasciato trapelare questa passione.
Anche se lo stesso Renato lo aveva dichiarato, parlando con l’amico: alla scrittura va affidata “la mia esperienza, quello che ho passato, amicizie, lavoro, amori, affetti, diventare adulti, e la fine della giovinezza… è stata tutta roba abbastanza inaspettata, cioè non l’ho riconosciuta in nessuna storia che ho letto finora”. E anche Anna: “A sentire sulla carne certe verità, che cos’altro si può fare se non lasciare un segno, scrivere, se si può? Può essere una testimonianza… scrivere è una validazione dell’esperienza” (p. 209).
Fa da contraltare ai due amici Anna, l’amore giovanile di Renato, che “Fin da bambina era stata attenta a quello che la circondava. Se anche non capiva subito il mondo intorno, la fede nell’intelligenza delle cose non veniva meno, quasi mai… era sempre un pensare: perché le cose sono così? Perché le persone fanno così?… ‘Il dolore c’è, il male c’è, il male c’è!’. Non era più un pensiero, era un riscontro spassionato, la lettura di una cartella clinica, una mesta constatazione della prognosi infausta… C’era il suo dovere, solo il dovere” (pp. 25-29).
Ma anche lei: con il suo senso del dovere e la sua decisionalità, professionista in carriera e al contempo moglie e madre, colei che come una Parca recide definitivamente i fili con il passato rifiutando la pubblicazione postuma del manoscritto di Renato presso la casa editrice per cui lavora: anche lei è protagonista di una squallida relazione extraconiugale. Insomma, tutte le vite sembrano a metà e pare potersi applicare a tutti i personaggi la sentenza che nella vita non c’è relazione tra intenti e risultati. La fine della giovinezza pare capovolgere i sogni, e forse questo libro, questo 100 miglia, rappresenta per lo stesso autore Roberto Plevano il prolungamento della giovinezza con il compimento di un sogno.
E allora si capisce quanto afferma Luca, che la ricerca vera, nel volo, nonostante le comuni proiezioni e, confesso, anche le mie, non sia la nozione di libertà: “quella è rudimentale. La storia sta nel pilotaggio, che è un’idea di se stessi” (p. 150).
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Roberto Plevano è scrittore colto e ironico. Il suo testo fa rivivere figure mitiche e occhieggia ai classici della letteratura e della filosofia. Il romanzo si fa metaromanzo, dove la stessa penna dello scrittore esercita il suo spirito critico riflettendo sulla scrittura, ad esempio quando affida ad Anna una sorta di definizione della sua opera: “Non c’è una storia, una struttura, un’unità di proposito” (p. 211). In realtà la mancanza di una storia non è un problema. Nonostante gli strilli del mercato che la invoca, la tradizione novecentesca dovrebbe averci immunizzato dalla soggezione alla dittatura della storia – dovrebbe: anche se sappiamo che tuttora non è del tutto così.
Il problema in 100 miglia mi pare risiedere nella struttura. Le storie di Luca e Renato non sono ben intrecciate né procedono parallele, cosicché solo nelle ultime pagine si realizza pienamente la funzione del personaggio di Renato. Mentre la vicenda di Luca (il volo) è raccontata in presa diretta, quella di Renato emerge solo nei racconti in flash back, per cui il suo percorso perde in forza e immediatezza. Le note sullo Zeitgeist anziché essere fatte figura e storia sono affidate ai discorsi di Luca e Renato a tavolino e talvolta appaiono come digressioni non sempre necessarie.
Una maggiore sintesi e una migliore organizzazione della materia potrebbero permettere di gustare in pieno la scrittura sicura e curata e l’insieme dell’opera, in cui sono da ricordare, oltre alle già citate pagine sul volo e quelle su Jacek, quelle sulla corsa di Anna in bicicletta, quelle sulle montagne, sul primo bacio tra Renato e Anna, e quelle finali, che, malgrado l’intenzione parodistica della ripresa della petrarchesca ascesa al monte Ventoso, hanno la trasparenza e lo spessore delle migliori pagine di Plevano, quelle in cui è minore il controllo e l’autore riesce a coniugare armonicamente sensibilità e cultura.
Le critiche sono doverose. Tuttavia 100 miglia è un romanzo insolito, e forse l’intenzione dell’autore non era quella di confezionare un lavoro “riuscito”, calibrato, rispettoso di una certa organizzazione, di regole di costruzione del testo, ecc., bensì quello di presentare vario materiale narrativo e metterlo al servizio della comunicazione di un’esperienza assai particolare: a mia conoscenza, infatti, questa è la prima opera narrativa in assoluto che abbia il volo libero come tema principale. Dal momento però che il volo è materia preferibilmente trattata nel suo valore metaforico (anche se 100 miglia prende il suo materiale in termini molto letterali), rimane allora un interrogativo inevaso a proposito del destinatario implicito di questo testo, che non pare confinato nella cerchia di chi per sorte abbia condiviso questa esperienza.
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Acasadidio di Giorgio Morale
Recensione di Roberto Plevano
Oggetti umili, luoghi a margine, situazioni quotidiane, i piccoli piaceri soffocati nel fastidio delle abitudini moleste: una caffettiera pronta dalla sera sul fornello, l’ufficio nell’“estrema periferia”, “alle spalle le macchine sulla tangenziale”. Impiegate che arrivano alla spicciolata, stanche e incazzate già a metà mattina.
Il romanzo Acasadidio di Giorgio Morale (2008 Manni Editori) si apre con l’umore amaro di una consueta grigia mattina milanese, che sembra stendere una coltre di claustrofobia sopra ogni gesto e ogni ambiente.
E il racconto sembra via via fermarsi di proposito in luoghi circoscritti; non andare, con lo sguardo, oltre il chiuso dell’ufficio, e poi l’abitacolo del tramvai, qualche via cittadina sul cammino di casa, o il collegio di suore imposto per decoro piccolo borghese a una giovane inquieta, la vecchia casa di famiglia dalle stanze chiuse, che rimandano alle stanze chiuse della memoria che trattengono i ricordi, le cose salvate di una passata, inconsapevole, e non proprio rimpianta infanzia, affollati atrî e uffici di questura, o la luce fredda, compressa, di un obitorio, il dolore muto di una madre, che ammutolisce il narratore: “non mi lasciava una parola in bocca”.
L’ufficio, “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”, è un centro di “volontariato” che ha in gestione l’accoglienza e l’avviamento al lavoro degli immigrati: le necessità e i drammi degli ultimi arrivati. In realtà un luogo che l’italico genio, e la retorica dell’impresa, ha trasformato in un pretesto, uno dei tanti in città, di speculare attraverso clientele, appropriazione di denaro pubblico e favori incrociati. La modestia esteriore, l’impronta confessionale, la finzione del volontariato e la locazione periferica, a casa di Dio appunto, sono gli studiati camuffamenti con cui si dissimula il fulcro della via lombarda, e italiana, sgangherata e truffaldina, alle politiche dell’immigrazione, dietro copertura di “servizio” e iniziativa privata: “indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale”. Piana allusione alla struttura di potere della Compagnia delle Opere, e tuttavia Morale si concentra sui caratteri dei personaggi piuttosto che sulla descrizione dei meccanismi di malaffare e di connivenza delle istituzioni.
Il romanzo alterna, in modo un po’ schematico, due piani narrativi.
Molte le storie che si dipanano dalla racchiusa unità di luogo dell’ufficio. Da qui procede il racconto impersonale dell’andirivieni delle faccende di lavoro ed esistenziali dei vari personaggi. Teresa è l’impiegata (forse l’unica in autentica buona fede) che apre l’ufficio, e in un certo senso ne custodisce sempre le chiavi. Il direttore faccendiere, figlio di immigrati meridionali, passato da una gioventù di ristrettezze al caparbiamente e spregiudicatamente cercato successo economico e sociale. La vicecapa Martina (“ha preferenza per le mignotte nere da redimere e i cingalesi dall’aria cattolico-remissiva”), una vedova bulimica e bigotta, delusa di non vedere il figlio prete (e che vedrà assecondata, in modo imprevedibile e imbarazzante, la propria preferenza in fatto di immigrati dal figlio stesso). Ombretta, che “da ex femminista incallita, rifiuta belletti e profumi: «i deodoranti inquinano» dice”. Vanna, una chiusa, che va “diritta per la sua strada”, ostenta senso del sacrificio ma non si è mai sicuri sull’effettivo rispetto degli impegni, e si fa ingannare “da un eterno fidanzato” che nasconde una moglie in Romania. Altri personaggi maschili aggiungono carattere alla vita dell’ufficio.
Teresa prende voce direttamente nel secondo piano narrativo, che occupa i capitoli resi in prima persona e contrassegnati dalla scelta tipografica (non necessaria, a mio parere) del corsivo. Qui il narratore fornisce un commento interposto alla vita dell’ufficio e porta il lettore ad immedesimarsi con la realtà esistenziale di una giovane donna alle prese con rapporti non facili con la famiglia, con la propria stessa crescita, i suoi luoghi dell’anima, con gli uomini, con una gravidanza inattesa. Qui Morale risolve il resoconto episodico in una solida unità di resa psicologica della vita di una donna e del suo incontro con il dolore altrui, da lei accolto con l’ospitalità offerta ad Anila, una prostituta albanese dal destino segnato, e poi alla madre File, venuta in Italia a reclamarne il corpo. File è una figura straordinaria di mater dolorosa che ha in sé le risorse di dare un senso e una tenue speranza in una vicenda che ha il pathos e i lutti di un dramma tragico. File riannoda un linea spezzata di umanità prendendosi cura di Teresa durante la gravidanza e il parto.
La concisione del lavoro di Morale (30 capitoli distribuiti in 130 pagine) non deve trarre in inganno: Acasadidio è un romanzo certosinamente preparato, in cui ogni paragrafo rivela una scrittura nitida e controllata, capace di annullare ogni distanza tra lettore e fatti descritti, tra costruzione dell’impianto narrativo e piacere della lettura. Ecco, questo è il merito del romanziere, di portare il manufatto di testo, con i suoi artifici e dispositivi, a essere come una lama di bisturi che affonda nella realtà politica e sociale della crisi italiana, nella vita delle coscienze distratte e appannate. Il romanzo prende vita sul suo doppio binario di registro narrativo ed è un’importante testimonianza sullo stato dell’umanità dell’Italia nel nuovo millennio, tra emigrazione e condizione speculare del precariato degli indigeni italiani, e le incertezze della vita di tutti. Ma c’è di più.
L’intento ironico, a tratti satirico, di Morale è in realtà uno sguardo politico, che tuttavia forma solo un primo, e forse non così rilevante, livello di lettura, perché la crisi, il fallimento delle classi dirigenti, in una parola la catastrofe italiana che viene da lontano, è davvero sotto gli occhi di tutti, ad ammettere un po’ di onestà intellettuale. La letteratura, oggi in Italia, se si può parlare di letteratura di impegno civile, aggiunge un valore conoscitivo importante ma tutto sommato marginale all’analisi della realtà (e credo che molti non saranno d’accordo con questo apodittico giudizio). Il testo di Morale allora ha la forza di evocare caratteri e strutture esemplari dell’esperienza umana. Si nota, ad esempio, una marcatissima asimmetria di giudizio morale tra personaggi maschili e femminili: il presidente, il padre spirituale nel ricordo della giovane Teresa, il padre che se va, gli approfittatori che lavorano nel centro, il fidanzato albanese, sono figure insicure, disonesti, ipocriti, traditori, detentori di un’autorità usurpata, vengono sistematicamente meno alla responsabilità vera: il romanzo illustra il collasso delle pretese morali dell’autorità maschile. A Teresa, a File, più che alle donne costrette dalle, e vittime delle, aspettativi maschili, viene affidato il compito di fare da levatrici dell’unico futuro possibile, quello incerto ma che, solo, può salvare della disumanità montante del presente. Presente provvisorio, presente sotto continua emergenza, e perenne condizione umana: “escono tutti dallo stesso buco e finiscono tutti sotto la stessa terra” (pag. 123). Quando coloro che guadagnano dalla sofferenza del prossimo non ci saranno più, quando i guadagni illeciti saranno stati spesi, gli uomini e le donne continueranno a nascere e a morire.
Sotto questo aspetto, il titolo del libro oltrepassa l’ironia dell’attualità, ed esprime una dolente, amara presa d’atto del mercimonio che gli uomini hanno fatto del dovere sacro, prima che etico, della relazione di ospitalità, e proprio in nome di quella religione che dello straniero fa il prossimo. Nel romanzo Dio non parla, non c’è, fugge dalle istituzioni che gli uomini fabbricano in suo nome per dissimulare miseria, la loro miseria, e sopraffazione. Sarebbe facile arrestarsi alle considerazioni di un umanesimo laicista, la religione come superstizione, strumento di dominio, imposizione sulle coscienze, e certo Morale condivide questo clima intellettuale, ma l’immediatezza delle sofferenze rappresentate in Acasadidio chiama il compito urgente della compassione, più che dell’analisi razionale. Compassione assente in tutti i volontari del centro, tranne che in Teresa, che accanto alla compassione per l’altro impara la compassione per se stessa.
Forte di questo sentimento, Teresa al termine del romanzo compie l’unico autentico atto di libertà, decidendo di lasciare l’impiego e portare a termine la gravidanza, pur senza la presenza di un compagno e di sicurezza economica. Teresa è testimone e custode del dolore dell’oggi e dell’attesa del domani. È una degna conclusione di un romanzo toccante, in cui Morale descrive con competenza, senza compiacimento né sensazionalismo, i meccanismi di sfruttamento “legale” degli “sfigati” così come quello illegale delle giovani nigeriane e albanesi (ma potrebbero provenire da tante altre parti del mondo) nel micidiale cozzo tra strutture familiari arcaiche e la seduzione pornografica predominante nella comunicazione sociale. È la persistente materia umana della violenza e dello sradicamento. Sono i paralleli dell’inganno, dell’ipocrisia perbenistica del “padre spirituale” per nulla devoto allo spirito, della preside del collegio di suore, e dei finti fidanzati delle ragazze mandate al mercato (che diventa macello) del sesso. Le famiglie, tutte, sono acquiescenti, corrive, impotenti di fronte al male.
Le famiglie tutte. Il romanzo descrive noi, e descrive gli altri che saranno noi nel tempo di una generazione, perché la società oggi si muove in fretta, e tutto assimila. La vita più intima di tutti i personaggi di Acasadidio è inestricabilmente intrecciata con lo straniero, con l’immigrato, che già straniero non è più.
Per chi ci sarà domani, saranno duri da affrontare i risentimenti, le scie di malcontento che la nostra cecità, le nostre furbizie stanno ora depositando, con la rinuncia preventiva, stupida, demagogica, autolesionistica, al tentativo di formare una società meno ingiusta di questa.
Dobbiamo essere grati a Giorgio Morale e al suo Acasadidio per ricordare, con sobrietà e molta fermezza, queste ovvie verità.
Allora… eccoci alla puntata n. 8 delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine.
Come ho già scritto sul post, gli autori ospiti di questo nuovo appuntamento sono Giorgio Morale e Roberto Plevano. Entrambi – come il sottoscritto – fanno parte della redazione del blog collettivo “La poesia e lo spirito“.
I libri oggetto delle recensioni si intitolano: ”Acasadidio“(di Giorgio Morale) e “100 miglia” (di Roberto Plevano).
Due libri diversi, ma che – forse – hanno tratti in comune nella gestione dei rapporti umani e famigliari.
Anzi… pongo subito una domanda ai due autori..
@ Giorgio Morale e Roberto Plevano
Secondo voi c’è qualcosa che accomuna i vostri libri? E cosa, eventualmente?
Come ho scritto sul post, “100 miglia” racconta il volo, il sogno, e nel volo… la libertà suprema, la scrittura.
“Acasadidio”, invece, fotografa – tra le altre cose – le ristrettezze dell’ufficio, una Milano chiusa e intabarrata nei soliti ritmi, l’oscurità di mura di uno “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”. Una casa di Dio ben impiantata che però nasconde giochi truffaldini e impasti della solita Italia… e le distorsioni di alcune organizzazioni di volontariato.
Vi propongo le solite domande “collaterali” sui temi affrontati dal libro…
Che rapporti avete con il “volo”?
Avete mai sognato di volare?
Cosa vuol dire sognare di volare: libertà o desideri inappagati? Cosa fu per Icaro?
E la scrittura – come il volo – è libertà o desiderio inappagato? Pienezza o mancanza?
Ciao Massimo, grazie per l’ospitalità. Sono in linea
L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?
O anche il dovere è libertà?
Che rapporti avete con il mondo del volontariato?
Cosa ne pensate?
Ciao Roberto… benvenuto!!!
Ti ripropongo la domanda: secondo te c’è qualcosa che accomuna il tuo libro a quello di Giorgio?
Cosa, eventualmente?
Come avrete capito Giorgio Morale e Roberto Plevano parteciperanno alla discussione.
Vi invito a interagire con loro…
@ Giorgio Morale e Roberto Plevano
Provate anche voi a rispondere alle “domande collaterali” (se vi va).
Oddio, mi chiedi di addentrarmi nel cuore stesso del mio romanzo.
Come prima cosa, il tema del volo in “100 miglia” non ha il valore metaforico che ti aspetteresti. E’ un’esperienza letterale, vera nel senso che il libro descrive l’apprendistato di un pilota di volo libero. Ho sempre pensato che il volo libero, veleggiato, avesse un enorme potenziale narrativo. Pensa che cosa hanno fatto de Saint-Exupéry e Del Giudice del volo a motore…
(off topic)
Invito tutti a partecipare al “Letteratitudine book award”:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/19/letteratitudine-book-award-2009/
I titoli “in concorso” sono i seguenti:
2666 – Roberto Bolano – Adelphi
Ad un cerbiatto somiglia il mio amore – David Grossman – Mondadori
Firmino – Sam Savage – Einaudi
Fuoco amico – Abraham B. Yehoshua – Einaudi
I cani e i lupi – Irène Némirovsky – Adelphi
Il fabbricante di eco – Richard Powers – Mondadori
Il fantasma esce di scena – Philip Roth – Einaudi
L’uomo che cade – Don DeLillo – Einaudi
Uomo nel buio – Paul Auster – Einaudi
Via Katalin – Magda Szabò – Einaudi
–
Scegliete il vostro!
Il volo, nella sua essenzialità, è esperienza possibile all’uomo solo da alcuni decenni, mentre la navigazione è la storia del Mediterraneo da migliaia di anni. Prova a togliere all’Odissea le digressioni nautiche e marinaresche e vedi quello che rimane.
Horcynus Orca, la sapienza marinara delle femminote…
Ecco, l’idea è stata questa. Un’idea del movimento che è un’idea dello spazio, e quindi del territorio
@ Roberto Plevano
Caro Roberto, è vero… tu racconti una “storia di volo”, in senso letterale.
E il potenziale narrativo è senza dubbio enorme.
Da dove nasce l’esigenza di raccontare questa storia?
Mi hai risposto prima della domanda. Bravo! 🙂
Poi il volo è un desiderio soddisfacibile e soddisfatto. La precarietà, la mancanza di appagamento semmai sta nella vita sulla terra, non so se mi spiego. I personaggi del mio racconto sono “precari” alla radice, se non professionalmente, umanamente, affettivamente. Uno trova la dimensione del volo, l’altro la dimensione della scrittura come “ripercorso” delle esperienze sue, e della sua generazione. L’aria, e l’impalpabile linea della scrittura, alla fine sono tutto quello che resta.
@ Roberto
Secondo te c’è una connessione tra il desiderio di volare e quello di scrivere?
Attendo gli interventi di Giorgio Morale e degli altri amici.
Ovviamente la discussione continuerà nei prossimi giorni.
Per il momento devo chiudere qui.
Auguro a tutti voi una serena notte!
Ho risposto nel romanzo. I due protagonisti principali, due coetanei, trovano un investimento “libidinale”, nel senso di esperienza estetica, di vita, etc. l’uno nel volo, l’altro nella confezione di uno inerminabile (e interminato) zibaldone, tra l’altro nella forma di fogli inseriti entro un romanzo-mondo che è il libro di Musil
Ho letto molti testi di autori “esordienti”, inediti, e altri editi, con un po’ di successo e altri con molto successo.
Non avevano il minimo valore letterario. E questo è il minimo.
Un libro, per essere tale, nella narrativa, non occorre abbia una scrittura priva di difetti, ben costruita, senza errori, ecc. Occorre solo una cosa: che alla fine della lettura ti rimanga qualcosa dentro, magari solo una frase, un impressione, e allora ti dici che vale la pena di averlo letto.
Ho letto “100 miglia”, non una ma due volte (e riletto a salti).
Non lo faccio sempre, ma ho accettato di confrontarmi.
E ora dico: il libro di Plevano ha molti difetti, senza dubbio. Ma molti pregi. Si potrebbero riscrivere delle parti, d’accordo. Ma dentro rimane molto.
Salve, carissimi. Arrivo giusto all’ora di andare a nanna…
Innanzitutto un abbraccio e un grazie a Roberto e a Massimo.
A Roberto per l’attenzione prestata ad “Acasadidio”.
A Massimo per la sua splendida ospitalità.
Comincio a leggere gli arretrati… a dopo.
Il mio romanzo e quello di Giorgio sono molto diversi, come si può capire dalla lettura delle rispettive recensioni.
E tuttavia, ci sono dei paralleli sorprendenti. Non tanto sulla medesima considerazione del presente Zeitgeist, quanto su coincidenze tematiche. In entrambi c’è una visita all’obitorio di familiari di una/un giovane morta/o prima del suo tempo. Il romanzo di Giorgio parla di situazioni di precarietà e di indigenza, e nel mio ricorre a più riprese la figura di un mendicante. In Acasadidio vi è una gravidanza portata a termine, nel mio c’è una gravidanza che probabilmente sarà interrotta.
Un caro saluto a Giorgio
Entrambe gravidanze inattese
Devo dire che non sono un assiduo lettore di scrittori esordienti, ma ciò che più mi ha affascinato della scrittura di Roberto Plevano è la capacità di suscitare intensità. La sua è una scrittura che -nella notevole e dirompente facilità descrittiva del sentire profondo dell’umano- in molte parti vola tuttavia leggera, facendo entrare il lettore in una sintonia pur edificante, ma sempre alla dovuta distanza, con le vite di Luca e di Renato.
Ho letto 100 miglia. E’ di fatto, la storia di una grande amicizia tra due uomini molto diversi che si ritrovano a confronto nel momento critico della mezza età.
Luca è un insegnante di lettere aspirante scrittore, politicamente corretto, buon cristiano nelle parole e nei fatti, arrivato ai cinquant’anni senza scosse, con una famiglia perfetta e discreto benessere. improvvisamente affascinato dalle evoluzioni di uno sportivo del parapendio, sente dentro di sé il richiamo della natura e la voglia di evadere dalla normalità: vuole imparare a volare.
Renato è invece l’amico apparentemente più scapestrato, buontempone, lo scapolo amico di famiglia, che fa il rappresentante di commercio dopo una brillantissima carriera di scienziato all’estero. Dietro questa maschera superficiale c’è però un uomo amareggiato e deluso, vittima, non del tutto innocente, dei giochi di potere che ruotano intorno alle università e alla ricerca: di fatto un immaturo che non riesce nemmeno ad affrancarsi dal fallimento del primo amore adolescenziale.
Il racconto si sviluppa sul filo delle riflessioni del protagonista e molti sono i temi toccati durante il percorso narrativo che, al di là delle
aspettative iniziali, procede in modo talvolta un po’ pedante, senza riuscire a prendere il volo. Lunghe sono le parti dedicate alla scuola di parapendio, che affascinano per la grande abilità descrittiva dell’autore, ma anche un po’ annoiano chi cerca di dare un senso e una continuità all’esile trama del romanzo.
Lo stile della scrittura è lineare, abbastanza calibrato tra dialogo e narrazione, ma a volte interrotto dal vezzo linguistico di puntualizzare alcuni concetti con frasi in lingua straniera.
Tuttavia, pur con i limiti indicati, Plevano è uno scrittore maturo, che riesce ad amalgamare bene i vari piani del romanzo e a offrire momenti poetici di grande valore.
Caro Massimo, sì, io ho sognato di volare, e ti dirò: è stato sempre con grande goduria, ricordo la sensazione fisica e quasi la dinamica del corpo che si leva in alto e plana, sulle case, sui tetti… E’ un sogno che mi piacerebbe fare più spesso.
Confesso che sono tra quelli che per cui, nonostante decine e decine di voli in aereo, il volo non ha mai perso il suo fascino. Perché quando parlo di volo parlo del volo effettuato dall’uomo con il suo corpo, non con una macchina, e in questo senso, almeno finora, la fisicità diventa metafora e pertanto inesauribile.
Cosa voglia dire sognare di volare… non so, libertà, felicità, superamento della gravità e del quotidiano, forse anche questo è inesauribile, meglio fermarci al piacere del sogno e del ricordo.
Di “Acasadidio” posso dire che è molto lontano da qualsiasi elevazione, sia fisica che metaforica.
Una mia amica mi ha detto che è un libro sulla morte materiale e morale del nostro tempo, mi va bene, è questa l’aria che respiro tutti i giorni.
In questo senso aggiungo che l’oscurità non è confinata nel chiuso dell’ufficio, è dentro e fuori, per le strade e per le piazze.
Ciao Massimo e ciao a tutti.
Volo/scrittura. Recentemente ho coronato un sogno che mi porto dentro fin da bambina: volare, ma in determinate condizioni e in un certo modo, volare come un uccello, come una piuma, come un angelo.
Beh, è successo. Mi è successo davvero, e ancora non ci credo.
Sono salita su un aliante e quando l’aereoplanino che ci trainava ci ha sganciato, su di me è sceso un silenzio irreale e io sono diventata Jonathan Livingston, un falco, una poiana… Ho capito Icaro, la sua ansia divorante di sperimentazione, costi quel che costi. Ho capito l’inespressa felicità di guardare dall’alto, e contemporaneamente di essere dentro. Ho vissuto mille riconciliazioni silenziose, ho incontrato i morti, ho toccato i misteri del non detto e ugualmente compreso, le sintonie impossibili per la terra. Ho visto i panorami inesplorati dell’anima, le infinite possibilità. Ho volato alta, in ogni senso.
Ho capito anche che per me la scrittura è sempre stata la ricerca di questo volo, la leggerezza estatica e profonda di andare dove mi porta il vento, e pazienza se cado, non cado. Quell’andare un po’ incosciente dentro un’idea e permettere che l’idea mi prenda la mano senza perderla di vista mai, mentre mi concedo io di perdermi senza smarrirmi. Volo e scrittura sono la stessa casa, la penna è un aliante sempre pronto per me e le ali si possono spiegare in qualunque momento quando si sa cosa vuol dire. Quando si rincorre quell’assenza presente e vigile, eppure catturata da una fascinazione senza alcuna zavorra possibile, che non si può fermare mai più.
Cambiando argomento, il mondo del volontariato è gravido di oscurità e di equivoci, ne ho un’acuta contezza. Ho dovuto guardarmi molto bene, guardare le mie motivazioni e continuare a controllarle dentro i gesti, dentro le emozioni, dentro gli inganni sottili del sentirsi bravi.
La vita mi ha portato a Calcutta a 52 anni. Nessun merito, solo un gioco di correnti. Ma Calcutta ti spacca la testa.
Torni, e capisci che non ti puoi più permettere certe depressioni, certi vittimismi. E cominci a domandarti perchè fai questa cosa. A controllare che non sia una fuga da quello che, invece, dovresti fare a casa tua. A osservarti mentre parli, mentre reagisci. A vagliare le ragioni dei tuoi gesti, dei tuoi scatti, dei tuoi sorrisi. E ti vergogni. Tanto.
E’ per questo che torno ogni anno.
Per non dimenticarmi.
Sorry… non ho compilato il campo prima di inviare. Sono io l’anonima…
io che detesto gli anonimi!!!
Ecco, i veri temi comuni delle esperienze, letterarie e di vita, di cui i libri, anche quelli che abbiamo faticosamente, imperfettamente, scritto noi, non possono non serbare traccia. L’hai detto, Giorgio: il tuo è un libro sulla morte materiale e morale del nostro tempo. Io aggiungerei che la morte è un tale assoluto che non si può confinare nel nostro tempo, o nel tempo di altri.
Io mi sono ritrovato, scrivendo, a descrivere via via un’esperienza di morte: morte di un protagonista, morte delle speranze di una vita di lavoro, morte della parte di noi a cui siamo più attaccati: il tempo dell’amore. Tanto che ho cercato di rendere il personaggio femminile nei simboli associati con le Moire: la forbice, la corda, la veste bianca. Il mio protagonista maschile, uomo di scrupoli religiosi, perde il controllo e prorompe in una cascata di bestemmie oscene appena a ridosso dello shock causato dalla morte dell’amico.
Rieccomi.
Giusto in tempo per ringraziare gli intervenuti e per dare il benvenuto a Giorgio Morale. (Benvenuto, caro Giorgio!)
Ringrazio Carlo Giacchin, Massimo (mio omonimo), Italo e Lorenza per i commenti rilasciati.
@ Giorgio
Scrivi: “Una mia amica mi ha detto che è un libro sulla morte materiale e morale del nostro tempo, mi va bene, è questa l’aria che respiro tutti i giorni”.
–
D’accordo con te. Ma, a tu avviso, in che modo è possibile (se è possibile) sconfiggere (o quantomeno combattere) la morte materiale e morale del nostro tempo?
@ Lorenza Caravelli
Carissima Lorenza,
grazie per la tua bella testimonianza!!!
(Ne è venuto fuori un bel racconto).
Desidero ringraziare anch’io gli intervenuti fino a ora. Lorenza ha condiviso delle belle esperienze, di conoscenza di se e del mondo. Inutile aggiungere, credo, che tra volo e scrittura si potrebbe semplicemente partire dall’immagine di queste recensioni incrociate, perché “penna” è termine metonimico.
Caro Massimo, torno dal lavoro e ti ritrovo con piacere.
Spontanea la tua domanda, Massimo, mi è stata fatta anche altre volte e probabilmente la farei anch’io. Ma in quanto autore di un libro come “Acasadidio” io non ho risposte da dare, non più di quante ne abbia un’altra persona, o forse anche meno, poiché in questioni sociologiche, economiche o politiche mi pare di essere meno esperto di tanti altri.
L’unica cosa che posso dire è che viviamo abitualmente tra tante storture, che forse proprio per essere diventate abituali non ci colpiscono più. Quando riesce a farle apparire come storture la scrittura ha assolto il suo compito. E così quando, dopo aver letto il libro, qualcuno mi dice che ha provato rabbia e disgusto, io penso di aver assolto il mio.
Quello che posso dire in più, come persona, è questo, che vale sempre e in ogni caso, che dico con una fiaba africana tratta dal libro di L. Mortari, A scuola di libertà.
Un giorno nella savana scoppiò un incendio devastante. Tutti gli animali si dettero alla fuga.
Un leone scorse un colibrì che volava in direzione dell’incendio. Preoccupato, cercò di fermare il colibrì, per fargli cambiare direzione. Ma l’uccellino spiegò che stava andando a spegnere l’incendio.
Il leone, meravigliato, replicò che era impossibile spegnere l’incendio con la goccia d’acqua che portava nel becco. Ma il colibrì con decisione rispose:
“Io faccio la mia parte”.
complimenti ai due autori per le recensioni incrociate. mi sono parse sincere e approfondite
una domanda per entrambi gli autori. che cosa vi aspettavate da questo confronto offerto da maugeri?
***
saluti all’uomo con la camicia celeste
@ marvin
Ho raggiunto ormai un’età in cui le aspettative sono solo delle frivole distrazioni.
Ti posso dire che il mio libro è uscito per i tipi di una casa editrice molto piccola, che non ha potuto assicurare visibilità e promozione, e d’altra parte credo che ci sia una storia, nel romanzo, che valga la pena di essere letta.
E poi, per chiunque abbia la tentazione di scrivere storie, e pubblicarle, c’è sempre il dubbio che ciò sia dovuto a megalomania, piuttosto che a un equanime sentimento di condivisione di esperienze letterarie.
Ecco perché ricerco il confronto e il riscontro con il lettore.
Grazie, Marvin, per l’attenzione.
Massimo, che ancora ringrazio, ha offerto innanzitutto a me e a Roberto una occasione di confronto della quale sono lieto.
Grazie al suo invito infatti io e Roberto ci siamo soffermati sui nostri libri e ci siamo scambiati pareri, e mi fa piacere che anche tu li trovi sinceri e approfonditi.
Per il resto, mi rendo conto che è difficile parlare di un libro se non lo si è letto, a meno di non essere particolarmente interessati alla problematica affrontata.
Caro Giorgio, caro Roberto…
grazie ancora per i vostri interventi.
Marvin, alle recensioni incrociate tengo molto.
Per me offrono un’occasione originale di confronto.:-)
Interverrò domani per rilanciare la discussione.
Per il momento chiudo qui e auguro buonanotte a tutti.
Adoro il mare in tutte le stagioni, e per il volo ascensionale?
E’ una senzazione splendida, peccato che sia costretta ad esibirmi solo in
voli pindarici…. “e ai posteri l’ardua sentenza”
Tessy
Sono al lavoro 🙁
Sarò presente dal pomeriggio
Ho già letto ed apprezzato il libro di Morale, dopo lo splendido esordio di “Paulu Piulu”, sul quale scrissi un saggio – uscito, se non ricordo male, sul blog di Sebastiano Aglieco “Isole in viaggio”. Non ho ancora avuto modo di leggere Cento Miglia. Dalle citazioni testuali mi pare un libro innervato della profonda preparazione filosofica dell’autore; un libro, in qualche modo, dotto. La descrizione del volo mi ha ricordato molte memorabili pagine di Simone Weil sull’azione come risultante di tensioni contrapposte, mai mediate. Insomma ho intravisto in questo libro un notevole spessore di pensiero, e non ne dubitavo, avendo conosciuto l’autore negli anni universitari. Nel personaggio di Anna ho visto molto nettamente alcune conoscenze comuni di quegli anni pavesi: ragazze forti e motivate nello studio, determinate, dedite al dovere. Forse costrette a piegarsi già precocemente al famoso (e secondo me mai del tutto risolto) dilemma fra carriera e maternità. Credo, in fondo, che quando si scrive si trasponga sempre qualcosa di vissuto, di nostro: e gli anni dell’università sono assolutamente decisivi per la formazione di un uomo o di una donna. Complimenti ed auguri, Roberto, per questo esordio. Ho sempre pensato che filosofia e poesia siano la mano destra e la mano sinistra di un corpo pensante. Ho sempre creduto ad un Logos creatore, e questa nostra passione comune per la scrittura non fa che confermarmelo. Alessandra Paganardi.
Il volo è il pensiero stesso che trabocca, che si libera, che vortica e si espande.
Non è facile imparare a volare. Così come non è facile che il pensiero si faccia ali, becco puntato a siluro all’orizzonte, occhi abituati alla fatica.
Per questo Icaro cade.
Ma il gabbiano Jonathan Livingston, no.
In questo romanzo di Richard Bach, che 100 miglia mi ha immediatamente ricordato, il volo è desiderio ma è anche vita, stormo nidificante, equilibrio.
Il pensiero, come il volo, è un naturalissimo e complesso gioco di forze, coraggio, tenacia e umiltà. Non vuole impennate nè battute in ritirata, vuole che tagliare l’aria sia come stare nella vita: essere in tutto senza farsi assalire da tutto, traspirarla e ricrearla, plasmarla battito dopo battito assecondando le correnti, sfruttandole, amandole e rispettandone il soffio potente, di traverso, controcorrente.
Ecco, se il volo è questo, desiderio e libertà coincidono. Dovere e libertà anche. Pienezza e mancanza. Cercare e trovare.
—
“Ciascuno di noi è, in verità,
un’immagine del Grande Gabbiano, un’infinita idea di libertà, senza limiti”.
—-
“Il Vostro corpo, dalla punta del becco alla coda, dall’una all’altra punta delle ali,non è altro che il vostro pensiero, una forma del vostro pensiero,visibile, concreta. Spezzate le catene che imprigionano il pensiero,e anche il vostro corpo sarà libero”.
Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston
“Che rapporti avete con il mondo del volontariato?”
Da circa un ventennio, da quando abbiamo adottato nostra figlia indiana, io e mia moglie ci occupiano di volontariato. In pratica, aiutiamo le coppie a dare una famiglia ai bambini che non ne hanno. Cominciato a tempo perso, il compito, specie per mia moglie, è diventato un lavoro a tempo pieno. Naturalmente non retribuito, altrimenti che volontariato sarebbe?
Ogni anno, organizziamo un pranzo con i genitori adottivi e i loro figli. Vi assicuro che paghereste qualsiasi prezzo per esserci. L’Italia multirazziale potreste vederla con i vostri occhi, già fatta, felice di esistere.
Morale? Guardiamo con ottimismo al mondo del volontariato, a quello che da risultati. Poi, si sa, la perfezione non esiste e i problemi non mancano.
Un saluto a Giorgio. Il suo é un libro sul nostro presente. Da leggere.
Profitto per un abbraccio a Massimo
stefania
Innanzitutto faccio i miei complimenti a Roberto Pievano e a Giorgio Morale per i loro libri. Spero di poterli leggere al più presto.
Mi occupo subito di due punti messi in evidenza da Massimo:
avvicinata ad esso all’età di 17 anni. Facevo parte di un gruppo di volontari che si occupavano di anziani, di bambini affetti da gravi disturbi motori. Ne avevo bisogno e mi 1) la scrittura come libertà o desiderio inappagato
2) il rapporto col mondo del volontariato
1) La scrittura è prima di tutto LIBERTA’ a mio avviso, uno spazio illibato dove il libero pensiero e l’immaginazione più licenziosa e irrazionale possono essere ancora espressi e istituzionalmente accettati. La scrittura è come volare, come librarsi dalla severità delle norme comportamentali o dell’omologazione del ‘sentire’. Il poeta scrive perché deve andare oltre la ristrettezza delle vedute, perché deve scrutare l’orizzonte libero da qualsiasi nuvola che ne possa oscurare l’incommesnurabilità. Tuttavia potrebbe anche contenere una sorta di desiderio inappagato: si scrive intensamente quando si è conosciuto il dolore, la sofferenza, non c’è capolavoro che non sia nato dalla consapevolezza di un errore (del mondo, della storia, dell’uomo stesso) ma nel momento in cui si scrive ci si libera di quel dolore. Quindi le due cose possono andare insieme.
) Il mio rapporto col volontariato:
mi sonosentivo ‘pulita’ (la coscienza si alleggeriva, forse volava persino, talmente era libera dei sensi di colpa). Era una necessità per me in quel periodo, poi ho preso le distanze (non dalle persone fragili ma dal gruppo, perché era inaccettabile assistere a litigi per chi doveva andare da un anziano o da un bambino, sono rimasta delusa e ho preferito fare volontariato in modo autonomo, prdiligendo un amico affetto di discrofia muscolare. Oggi confesso di avere pochissimo tempo per andarlo a trovare e a volte mi sento in colpa per questo ma nella vita si fanno delle scelte e si danno priorità, eticamente giuste o meno, adeguandoci ai ritmi della nostra esistenza per arrivare ad avere almeno un barlume di certezza per la sopravvivenza. Mi riprometto sempre di andaro a trovare appena possibile.
Al solito, la mia scrittura (battitura) ormai mi distingue (la mia tastiera ormai in procinto di rottamazione ed io siamo inseprabili).
Un carissimo abbraccio alla dolcissima e bravissima Simona (devo contattari al più presto!! Sei grande Simo!!), così come un caro saluto a tutti i letteratitudiniani, compreso il padrone di casa: l’uomo con la camicia celeste.
Ma cos’è successo nel mio primo post??? Spero riuscirete a decifrarmi…
Ringrazio gli ultimi interventi, che entrano in dialogo con alcuni dei temi posti alla discussione.
Amo il volo, come ho detto più sopra, e anche nella scrittura amo la parola che va dritta al bersaglio: nata dal dolore o dalla gioia, la scrittura è sempre uno spazio di libertà che permette, soprattutto quando è scrittura creativa, di non fermarsi di fronte a nessuna censura. Anzi, quanto più non arretra tanto più è non solo libera, ma anche alata e alta.
Amo anche il volo dei sentimenti, Sabina, e il volo dell’amore. Io stesso ho conosciuto esempi altissimi di dedizione, ma proprio per questo non posso tacere aspetti non secondari della realtà attuale.
Esiste un cosiddetto “terzo settore”, espressione con cui si intendono realtà di volontariato e Organizzazioni a parole non a fini di lucro, che nei fatti pensa più al proprio benessere che a quello di coloro che dovrebbe assistere.
Quando ciò avviene, si verifica lo sfruttamento persino dell’amore per il prossimo a fini di lucro, una sorta di prostituzione morale, insomma.
E siccome queste pratiche fanno il paio con tante altre pratiche diventate ormai diffuse nella amministrazione della cosa pubblica del belpaese, mi sembra, oltre che della criminalità organizzata della mafia e della camorra, sia necessario parlare anche di questi sistemi di potere.
Questo mi sembra un punto di partenza, Massimo, per rispondere più esplicitamente anche alla tua domanda sulle possibili soluzioni per combattere la morte materiale e morale del nostro tempo.
complimenti per la bella discussione e per i temi trattati. ho sempre sognato di volare, sin da bambina. e da giovanissima faccio volontariato. come ogni cosa è bene non generalizzare. esiste il volontariato “buono” e quello “cattivo”.
dimenticavo una cosa : fare buon volontariato può aiutare a volare. per me è così.
ciao
Lasciatemi dire qualcosa sul libro di Giorgio che non ho toccato nella mia recensione. Io credo che sia un libro importante e utile anche come opera in senso lato pedagogica, nel senso di educazione al senso di sé, al rispetto di sé, che è imprescindibile da un corretto rapporto con l’altro. Come ho già detto, sarei cauto a vedere Acasadidio nella luce prevalente di opera satirica, anche se questo aspetto non manca. C’è un sottofondo di malinconia che è la premessa a un realismo letterario e conoscitivo che è davvero l’unica base possibile del discorso umano, sociale, politico, sul tema dell’immigrazione.
Il libro di Giorgio dovrebbe essere in cima alla lista dei testi consigliati per le leture estive dei nostri studenti di scuole superiori, per fare piazza pulita di tanti stereotipi purtroppo comuni tra i ragazzi.
vi ringrazio per le cortesi risposte. siete in gamba.
Desidero ringraziare M.Teresa, Felice, Stefania, Lorella, Sabina, Simona per gli interventi (spero di non avere dimenticato nessuno). Soprattutto la carissima Alessandra, poetessa vigorosa, che ha una prospettiva “privilegiata” su questi due romanzi, conoscendo personalmente i due autori.
@ M.Teresa: sai, amare il mare (Dio, quanto ti capisco!), che non è volere il posto spiaggia ombrellone o il cabinato a motore a Camogli, è già avere una nozione di sé e dello spazio strutturata come viaggio, percorso. Uno dei due grandi archetipi letterari è appunto il viaggio di Ulisse, l’apoteosi dell’imprevedibilità.
@ Alessandra: mi hai suggerito che un altro possibile contatto tra il mio libro e quello di Giorgio è appunto la creazione di un personaggio femminile “forte”, nel senso di capace di stabilire da sé il proprio percorso di vita e di non farsi determinare dalle aspettative e interessi altrui. Tema scottantissimo oggi. Credo che ci sia bisogno di questo tipo di modelli positivi, nella comunicazione sociale, lo vedo dagli atteggiamenti delle giovani. Posso aggiungere che così come il personaggio di Teresa è il vero e proprio narratore, e coscienza critica, nel romanzo di Giorgio, così nel mio la figura di Anna è la chiave del racconto, anche se io poi ho sviluppato aspetti simbolici. Se posso dare un consiglio di lettura, guardati da facili identificazioni con conoscenti comuni (a partire da chi nel romanzo dice “io”).
@ marvin
mi fai arrossire…
Ho scoperto questo blog da poco e faccio tanti complimenti perché immagino lo sforzo che c’è dietro per animarlo. questa delle recensioni incrociate mi pare una buona idea. auguri ai due scrittori invitati ed ai loro libri.
Più tardi o domani vorrei provare a rispondere alle domande.Anche negli altri articoli del blog ho letto domande stimolanti. c’è molto bisogno di qualcuno che stimoli a riflettere……
arrossisci per così poco? sei più timido di me! 🙂
l’anonimo di prima ero io. sorry
Grazie ancora per l’attenzione, Marvin, anche questo incontro lo dobbiamo a Massimo.
Ed estendo anche a Felice e a Lorella quanto dicevo sul volontariato: ne conosco anch’io eperienze luminose, ma gli intrecci tra dirigenti del settore, amministrazioni pubbliche e potere politico ne appannano tante altre.
E poi, caro Roberto, volevo dire che c’è malinconia e anche qualcosa di più in ciò che ho scritto, cioè sofferenza. Ciò che vediamo e/o viviamo e scriviamo non può lasciarci indenni. Ma la scrittura o è fatta di parole e carne oppure non è. Il mondo in cui viviamo ci fornisce la carne e anche le parole, sta a chi scrive restituirle trasformate, sta in questo la sua “azione”.
Da qui può cominciare, Massimo un cambiamento.
Come diceva Carlos Fuentes in un articolo pubblicato su un quotidiano qualche giorno fa, la scrittura ha “il segreto desiderio di essere, al tempo stesso, un disturbo per il mondo che è, e un creatore del mondo che può essere”.
@ simona
capisco come il bestseller del gabbiano Livingstone venga subito in mente, e in effetti certe situazioni, come la conquista dello spazio, sono analoghe. Tuttavia, ti dirò che mentre scrivevo avevo in mente più de Saint-Exupéry (soprattutto Volo di notte) e Del Giudice (tutto l’ultimo capitolo, con la descrizione del sorgere del solesulle montagne, è ispirato alla tecnica descrittiva del vecchio scrittore sui fuochi d’artificio in Atlante occidentale. Oltre naturalmente alle mie proprie esperienze di volo, per le quali a lungo ho cercato parole adatte.
Ciao Giorgio, concordo con quello che dici. La spinta a scrivere spesso nasce da un disagio, o da un vero e proprio trauma (che può anche essere il trauma di esistere, di cui si prende atto all’apparir del vero).
La scrittura, se nasce da un impulso autentico, ti cambia e contribuisce a cambiare, in modi inattesi, a distanza di anni magari.
@ Sabina
Quindi, come vedi, sono d’accordo con quello che dici a proposito della libertà e del dolore. Solo, non credo che dal dolore, da quel dolore, ci si libero scrivendo. Non ci si libera. Se ne può parlare insieme.
“I libri aggiungono all’infelicità dell’uomo una profondità che scambiamo per consolazione” (O. Pamuk)
Ciao, Roberto, per non chiudermi in una prospettiva troppo stretta, direi che disagio o gioia pari sono, e così parlare di terra o cielo, mi pare che il punto di partenza sia una ferita vera della vita, l’essere “trafitto da un raggio di sole”.
Ma, sai, Giorgio, dolore e gioia non occupano lo stesso posto nell’esperienza umana, e di essere uomo. La gioia è il sentimento di meraviglia, di stupore, per il fatto stesso che c’è, esiste, qualcosa. Secondo Platone e Aristotele, è l’inizio stesso della filosofia, del pensiero. Però, se facciamo eccezione dalla lirica, dall’elegia, dalla poesia ispirata dagli inni religiosi, io osservo che gran parte della tradizione letteraria occidentale nasce diciamo in condizioni difficili. Mi viene in mente Primo Levi, un chimico che non aveva mai rivelato tendenze letterarie al liceo, spinto a scrivere dall’enormità della sua esperienza, e dice che ciò che l’ha veramente salvato nel Lager è stato rammentare alcuni versi del canto di Ulisse.
Forse sono condizionato dalle mie attuali letture, ma anche gli scrittori più entusiasti facevano (fanno) in realtà un’operazione alchemica di trasformare in oro un sentimento buio dell’esistenza, penso allo Zarathustra di Nietzsche, all’opera di Hemingway, per non parlare dell’ovvio Dostoevskij.
Pensa a quel gioiello che è il breve di Hemingway A Clean, Well-Lighted Place che nella sua semplicità è una radicale professione di ateismo e di insensatezza della vita.
Roberto, non faccio un discorso statistico, se c’è anche una sola pagina di scrittura che nasce dalla gioia, io non voglio escluderla.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
non è poco
è un inno religioso (che tra l’altro è la più antica forma di letteratura attestata, se non sbaglio, con gli Avesta)
E noi tutti che scriviamo, Massimo Maugeri con questo blog in ‘massima’ parte, tranne poche eccezioni, in Italia non facciamo del volontariato seppur letterario?
@ Giorgio e a Roberto:
mi sono chiesta anch’io se ci fosse della Letteratura (laica) che nascesse dalla gioia o per lo meno dall’assenza di dolore, ma faccio fatica a trovare degli esempi.
Allora provo a pensare alla letteratura che viene generalmente definita :comico/burlesca (quella del filone comico-burlesco del ‘500), ma non mi convinco neanche così, del resto è vero che l’Ariosto scrivesse con il mezzo dell’ironia (che presume un certo grado di distacco dal dolore) ma questa è ancora una volta figlia della constatazione di un errore (confronto tra coscienze), non solo quindi legata al dolore ma anche alla presa di coscienza delle mancanze del mondo, della società.
Per ciò che riguarda la liberazione dal dolore, forse è vero, non si può parlare di liberazione ma di ‘sublimazione’ e trasfigurazione di esso, in tal senso sono d’accordo.
Sabina, non farei distinzione tra letteratura laica e religiosa, a me vengono in mente tanti nomi di poeti e scrittori che hanno espresso la gioia, in modo prevalente o in singole pagine.
Quello che mi interessa sottolineare però è la necessità di non escludere nulla della vita nella scrittura, di legare la scrittura all’essere toccati dalla vita intesa nella sua totalità.
Non discuto invece sul fatto che per la maggior parte ci sia l’esperienza di un dolore e che chi scrive non può non sentirsene coinvolto, questo fa parte della nostra realtà: basta guardare all’oggi, per l’appunto, e alla morte morale della nostra bell’Italia di cui parlavo prima.
Morte morale, una situazione che oggi stenta a trovare le parole. Malgrado il parlare di nuovo impegno, in Italia oggi non c’è un canone sufficientemente condiviso di letteratura (e letterarietà). Tutto diviene “caso” letterario (un mercato dopato): Saviano, i premiati Strega, la letteratura di genere, l’estremo disincanto ironico di Arbasino, l’apocalittica di Ceronetti (e epigoni). Credo che la salute di una nazione si misura dalla solida diffusione di una letteratura di qualità, differenziata, su cui il giudizio può essere articolato.
Concordo, Felice, sull’essere la scrittura un’attività volontaria: non diceva Saba che lui faceva poesie come la gallina faceva l’uovo, perché era nella sua natura? E non diceva lo stesso Marx che Milton scrisse il “Paradiso perduto” come il baco da seta produce seta?
@Simona, volevo scriverti, il tecnico del Computer mi ha perso tutti i vostri indirizzi, quando avrai tempo ti chiedo la cortesia di mandarmelo per posta elettronica.Grazie. Comunque ti penso e ti voglio bene assai.
@ Roberto Plevano, ritengo che sei molto gentile per ricordarti di ognuno di noi. Sono figlia di un Ufficiale di Marina, trascorevo ogni estate della mia adolescenza a Genova. I miei zii avevano la casa accanto alla lanterna, dopo aver divorato tutti i libri di Salgari (allora non mi interessava la qualità scritturale), mi affacciavo alla finestra e immaginavo di imbarcarmi come mozzo…. desiderosa di mirabilanti avventure con i temibili pirati.
Ogni tanto desideravo anche qualche pacifico approdo, magari nella virente Itaca. Grazie Roberto di averci indotto a sognare!
@Celeste Massimo, ardito nocchiere dei nostri pensieri e dei sentimenti
che affluiscono genuini con le più disparate riflessioni da te proposte.
Dopo aver ascoltato le voci del profondo, sarai pronto per laurearti in
psicologia. Non vorrei essere l’ignara pulsella che si innamora di te…..
Ormai sarai così smagato da incantare persino le sirene.
O me Beata, che sono vecchia, – rincitrullita – e non corro simili pericoli.
Col piu tenero affetto platonico
Tessy l’arzillissima ti saluta
Sulla distinzione tra letteratura religiosa e laica si potrebbe aprire un ulteriore dibattito ma non credo resteremmo in tema, ad esempio la Divina Commedia in tale senso potrebbe essere considerata entrambe le cose? Sono dubbi i miei, non ipotesi.
Ma sì, la letteratura è la riflessione sulla vita, che comprende tutti gli aspetti.
@a Roberto Pleviano:
Saviano è un caso editoriale e probabilmente si avvicina più ad un’inchiesta giornalistica che ad un romanzo, ma i parametri per la letterarietà dei testi che vengono scritti sono flessibili oggi, non più come una volta- E’ un po’ come succede con l’arte contemporanea: non si possono più adoperare strumenti di misura canonici, ma considerare i nuovi parametri… Ci si accorge quanto è complicato distinguere il sottile confine tra valore letterario e forma letteraria.
Ma il problema del linguaggio è anche quello che sta alla base della letterarietà… è complesso dare una spiegazione analitica e plausibile di tali distinzioni, per certi testi non è così chiara.
Il romanzo neorealista aveva già cambiato ad esempio il suo linguaggio, oggi tende a modificarsi ulteriormente (anche se io sono legata alla scrittura melodica, musicale, che suscita estasi intellettuale).
@ Sabina
la tua preferenza per uno stile (una scrittura musicale… suppongo che si tratti di una scrittura che “suoni bene”) non è, credo, una pura preferenza personale, perché poi i mutamenti della letteratura italiana sono in buona misura legati a faccende di stile innanzitutto, più che di tema. Hai ricordato i neorealisti (che pure è difficile ridurre ad unum) ma pensa a Gadda, Bianciardi, Calvino, D’Arrigo.
Anch’io mi ritrovo via via più attirato da questioni stilistiche, mi piace Del Giudice per esempio, adoro John Banville, che leggo in inglese, proprio per una prosa che fonde Nabokov con gli sperimentalismi del modernismo.
Credo che la letteratura in Italia dovrà riaffrontare la questione dello stile, non più in termini di parnassianesimo o epica, ma in termini di praticabilità (e rappresentanza) sociale del discorso letterario. Gli scrittori migranti, gli immigrati di seconda generazione, saranno il nuovo riferimento.
@ Roberto (scusa innanzitutto perché ho sempre scritto male il tuo cognome, chi mi conosce ormai sa che scrivo ‘da dislessica :D)
Sì, condivido in pieno il discorso sullo stile, andrebbe rimesso in discussione gran parte del contemporaneo humus letterario.
Bisogna partire tra i tanti da Spitzer ma poi andare anche oltre.
Non ho letto i due romanzi, ma capiasco l’emozione di uno dei personaggi di “Centomiglia” nell’osservare le cicogne in volo. La capisco come “stupore” per le meraviglie del creato ( anche se non si condivide la concezione religiosa di San Francesco, lo stupore può comunque esserci).
Sul “volo” in generale ( per rispondere alle domande di Massimo e ad alcuni commenti sul rapporto VOLO-SCRITTURA) secondo me bisognerebbe distinguere:
-il desiderio di volare degli esseri umani ( che c’è ma non so perché)
dal
-desiderio di “lib(e)rarsi” attraverso la scrittura.
La scrittura non è mai liberazione in senso stretto( né lo spazio bianco della pagina é uno spazio di “libertà”), anzi, è una “condanna”. A me viene in mente l’ALBATROS (perché ahimé non conosco Il Gabbiano Livinghston, né il romanzo di Saint-Exupéry- che mi hanno detto essere molto bello; purtroppo questo scrittore è famoso solo per “Le petit prince..”).
In quel sonetto Baudelaire paragona il VOLO del poeta a quello di un uccello maestoso ( che vola molto in alto, rispetto agli altri esseri umani= i marinai della nave che lo deridono), ma credo che non sia perché nella scrittura c’è “liberazione”; é perché il Poeta è un incompreso, proprio perché “viaggia in alto”.
Credo che i due romanzi siano entrambi interessanti per le tematiche.
Sul volontariato mi sentirei di dire che mi sembra importante, anche se è piuttosto triste che l’aiuto a certe persone in difficoltà ( di qualsiasi genere) venga dalla bontà e dalla volontà dei singoli individui.
anch’io sbaglio, chiedo scusa: capisco.
Ringrazio tutti per i vostri commenti.
E Roberto e Giorgio per la presenza.
@ Felice
E sì, anche la scrittura (anche su questo blog) è una forma di volontariato.
Per me lo è.
Io ci credo davvero.
Peraltro di tanto in tanto mi arrivano offerte da editori e altri di inserire banner a pagamento qui su Letteratitudine.
Per ora ho declinato qualunque offerta.
La mia agente tedesca dice che non riesce a capirmi 🙂
(Scusate l’off topic)
@ Roberta
Per me, in genere, la scrittura è liberazione.
Diventa condanna quando non affiora come vorrei.
Per gli altri?
@ M.Teresa Santalucia Scibona
Tessy, mia adorata Tessy…
La bellezza vera non è mai intaccata dal decorso del tempo.
Tu ne sei un esempio perfetto. 🙂
@ Roberta
L’idea nel mio romanzo è stata quella di istituire un parallelo tra l’iniziazione al volo e la ricapitolazione di una vita attraverso la scrittura. A partire dall’ovvia metonimia del termine “penna”. Il romanzo è disseminato di indizi in questo senso (l’andamento bustrofedico del volo e della scrittura, i movimenti delle dita di Giovanni, l’istruttore, sulla mappa, il titolo stesso, 100 miglia, che si riferisce alla lunghezza di un volo, alla distanza tra luoghi, e alla linea di scrittura, ecc).
Scrivere e volare sono due modi di differire la morte, che pure arriva nella figura di un’agente letterario (ironia voluta, che gli agenti letterari non me ne vogliano).
La tua distinzione dà luogo nel mio romanzo a due piani narrativi strettamente intrecciati.
Quando Roberta dice che “anche se non si condivide la concezione religiosa di San Francesco, lo stupore può comunque esserci”, dice una cosa vicina a quello che volevo dire io.
Parlando di generi ha ragione Sabina, possiamo distinguere una “poesia religiosa” per certe caratteristiche, ma mi pare che quello che Terenzio diceva dell’essere umano, che nulla di umano gli era estraneo, valga anche per i poeti. Infatti Rumi e Kebir mi commuovono, anche se non sono della loro religione.
Ovviamente ringrazio Massimo per l’ospitalità, Roberta per il suo contributo, e auguro a tutti buone nanne. Ci si può risentire (?) domani.
Massimo, non sapevo che tu avessi una agente tedesca. Sta in Germania?
E un caro saluto a GIorgio, che come me è ancora chino a scrivere.
Un caro saluto anche da parte mia, Roberto, sono appena rientrato e non potevo mancare il saluto della buona notte.
E ancora grazie a Massimo, da una Milano sempre più arroventata.
@Giorgio
Già: lo stupore anche nell’individuare nella natura in cosa il “lavoro” degli scrittori..
” non diceva Saba che lui faceva poesie come la gallina faceva l’uovo, perché era nella sua natura? E non diceva lo stesso Marx che Milton scrisse il “Paradiso perduto” come il baco da seta produce seta?”.
Però mi sembra “involontario”, non “volontario”; per questo non lo associo a una “liberazione”. Ma non sono una scrittrice, quindi: Qu’en sais-je?
@Roberto
se i piani che nella mia testa sono distinti, nel Suo romanzo sono intrecciati, è un motivo per me di leggere il Suo libro, per capirne “l’intreccio”.
Buonanotte a voi. Grazie per le risposte.
Correggo: in cosa consiste…
Sembra sempre una questione di “prospettiva”…
Lo spiega bene Michael Jacob nel nostro ultimo post.
Grazie ancora per i vostri commenti.
@ Roberto
Sono sotto contratto con un’agenzia letteraria tedesca. Di Monaco, per la precisione. Ma limitatamente alle pubblicazioni in Germania, Austria e Svizzera.
@ gruppoa.org
Grazie per averci segnalato il tuo ultimo post. Ma perché non ci dici qualcosa su questo pubblicato qui?
Ripropongo per te e per tutti le domandine scritte sopra:-)
Che rapporti avete con il “volo”?
Avete mai sognato di volare?
Cosa vuol dire sognare di volare: libertà o desideri inappagati?
Cosa fu per Icaro?
E la scrittura – come il volo – è libertà o desiderio inappagato? Pienezza o mancanza?
L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?
O anche il dovere è libertà?
Che rapporti avete con il mondo del volontariato?
Cosa ne pensate?
Buona domenica a tutti!
@ Massimo:
WOW!! Sono molto contenta, sono certa che si amplierà tutto sempre più.
Tornando agli stili e ai generi:
n realtà, pur riconoscendone l’esistenza, non credo molto alla distinzione rigida dei generi:
Todorov parlava ad esempio di ‘modi letterari’, più flessibili e meno chiusi. E’ sempre convenzionale l’attribuire un libro ad un genere piuttosto che ad un altro.
Il testo può stupirmi per il linguaggio prima ancora che per la tematica, questo per me è la condizione assoluta affinché un libro mi piaccia.
Il testo ‘religioso’ (poniamo il Cantico di San Francesco, ad esempio), non fa molta presa su di me, ne posso riconoscere il valore letterario in relazione al periodo a cui appartiene (specie se devo insegnarlo in una classe); della Divina Commedia riconosco la grandezza di tutta l’opera (pur prediligendo l’Inferno al Purgatorio e al Paradiso, che trovo meno fluidi e più artificiosi).
Non so se ciò dipenda dai testi religiosi, I promessi sposi hanno una loro religiosità, persino Il Rosso e il Nero la contiene, magari allo scopo di evidenziare le degenerazioni della religione nel suo aspetto pragmatico. E’ senza dubbio, com’è stato detto, una questione di prospettive ma credo che il problema principale sia la distinzione anche tra ‘gusto’ e critica.
Buona domenica a tutti.
Massimo, potrò intervenire da stasera, più o meno.
Ciao, buona domenica.
Buona domenica a tutti anche da parte mia.
Sabina, le mie considerazioni sui generi erano solo precisazioni, ma concordo che la distinzione per generi ha avuto un peso in altre epoche, oggi non mi sembra determinante.
A proposito della poesia religiosa, ti consiglio, se non lo hai già letto, Rumi, ti appariranno tanti livelli di lettura, e tra questi ce ne sarà uno che sicuramente farà presa su di te.
Massimo, per interagire più precisamente, volevo chiederti cosa intendi con “L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?”
@Massimo
L'”oscurità e le angustie dell’ufficio” schiacciano la libera manifestazione dell’essere umano. Il lavoro nell’ufficio credo contenga una certa dose di “alienazione” ( in senso buono, perché anche lì credo che esistano molte persone che lo svolgono seriamente e che lo amino). Mi viene in mente il racconto di Hermann Melville: “Bartleby lo scrivano”, un racconto “nichilista”, visto che poi lo scrivano, appunto, alla fine riesce a dire solamente: “Preferisco di no” che è il massimo dell’alienazione.
Sul “Cantico di San Francesco”: su di me fa molta presa, mi emoziona sempre moltissimo.
Sui generi letterari: sì, è vero che è “convenzionale” attribuire un libro a un genere piuttosto che a un altro, ma la struttura e lo stile di per sé ne identificano in qualche modo anche il contenuto ( nel senso che la sostanza e la forma sono la stessa cosa nell’arte, credo). Una poesia o un’opera teatrale sono sostanzialmente e formalmente diversi da un romanzo o un racconto. Poi, certo, ogni lettore si avvicina al testo a seconda dei suoi gusti.
Mi pare che si stenti un po’ a entrare nel cuore del problema, vedrò di essere più esplicito.
Il problema oggi non è l’angustia del lavoro di ufficio, che comunque è oggi il lavoro prevalente.
Il problema è nel mondo del lavoro tutto quanto: c’è sempre meno democrazia nel posto di lavoro e i lavoratori sono sempre più ricattati e con meno capacità di far valere i propri diritti.
E questo è il risultato di uno sviluppo della società italiana che dà il massimo della copertura a meccanismi che vengono a costituire un intreccio strettissimo tra poteri politici, poteri economici e settori della pubblica amministrazione, uniti a difesa di interessi privati più che pubblici.
Il tutto condito con un’etica che permette di delinquere e prostituirsi alla luce del sole.
Il volo è il sogno dell’uomo da sempre, perché è il superamento dei limiti fisici, mentali, spirituali.
Pensiamo a “Il gabbiano Jonathan Livingstone”…
L’arte è il modo per superare e abbattere barriere, per colmare mancanze, per volare. Come l’amore.
Il volontariato. C’è del bello e del buono e del marcio e del malato, in questo mondo come in tutti quelli abitati dagli umani…
Madre Teresa di Calcutta invitava a scoprire le Calcutte che ci sono nella nostra città, perfino nella nostra casa, tutte le povertà materiali, spirituali, le solitudini, le ferite, le mancanze. Invitava a sorridere. Credo che sapesse volare, quella piccola grande donna. Grazie a Lorenza per quello che ci ha narrato. Il suo è stato un atto di coraggio e consapevolezza.
Un caro saluto a tutti, specie a Tessy e Sabina…
Il volontariato. Rapporto ambivalente. Secondo me è sempre bello quello fatto da persone che in virtù di una esperienza personale la rendono creativa e la fanno germogliare nell’aiuto all’altro. Per esempio gli ex tossicodipendenti sono bravissimi nelle comunità di recupero. O anche il post di sopra, di Felice Muolo che dopo aver adottato una bambina indiana ora aiuta con la moglie le coppie in cerca di adozione. E’ bello.
E ha qualcosa di puro e onesto e utile. Ma ci sono altre forme, forme a cui ho indugiato anche io, per cui te fai il volontario per dinamiche tue personali, in contesti non seri e non controllati, vai in cerca di santità e non ti accorgi di essere il diavolo. Parli di cose che non sai, spari cazzate a non finire, alle volte ferisci in maniera indecente. Certe signore che girano negli ospedali – sarebbe da legarle. “Oh com’è brutto che lei abbia questa malattia così giovane! Una mia amica ha perso la figlia così…” Pensate come sarà stata contenta quella malata di cancro sul letto di ospedale, a sentire questo benintenzionato pensierino.
E’ che in Italia troppe cose sono sulle spalle del volontariato, alcune magari fatte anche molto bene, altre ai limiuti del delirio. Dice bene Giorgio, è un lucro ingiusto, che fa danno alle persone che ne usufruiscono e a quelle che lo esercitano
Ringrazio gli intervenuti, le testimonianze personali e le riflessioni contribuiscono ad articolare il quadro.
Torno però a dire che il problema riguarda più in generale il mondo del lavoro e la società italiana nel suo insieme.
Le dinamiche di lavoro presentate in “Acasadidio” non sono dinamiche esclusive del mondo del volontariato, sono le dinamiche di qualsiasi posto di lavoro, da un ospedale, pubblico o privato che sia, a un negozio di fotocopie…
Dappertutto sono sempre più evidenti la prevaricazione di alcuni e la soggezione di altri; la cultura dominante è più che mai rivolta al “particulare” e all’immediato, difeso con i denti a tutto scapito degli “altri” e dei diversi supposti concorrenti: fino ad arrivare al vero e proprio razzismo palese o strisciante.
“Si anela al vuoto – chissà quando, chissà dove”.
In questa situazione, allora, sì, si anela al vuoto – o al volo…
E l’arte può essere, ancora, uno spazio di libertà.
@Zauberei
E’ vero che certe “signore” che si aggirano per gli ospedali pensando di fare del bene fanno solo danni! Una mia zia stava morendo all’oncologico e questa qua andava ogni giorno a ricordarle che “la vita è bella”, di sorridere, le spalancava le finestre e mia zia riusciva solo a dire debolmente: “vorrei star sola..”. Questa qua è come se ci andasse per ricordare a se stessa che lei non era malata e la malata sì, era malata. Nessuno osava poi dirle di togliersi dai piedi, perché era una sola e non aveva molti interessi nella vita; così “torturava” mia zia. In effetti era mia zia, alla fine, che “faceva volontariato”, ne convieni?
Il punto è ( mi perdoni Giorgio per l’O.T.- mi rendo conto che la mia risposta a Zauberei non ha a che fare col suo romanzo) che non vogliamo mai capire che gli esseri umani sono sostanzialmente e perennemente EGOISTI, tutti, ma proprio tutti. Non è per cinismo che lo dico; è una constatazione. (Premetto che: non ho la fede. Mi si dirà che è per quello che parlo così. Rispetto chi la fede ce l’ha e crede nell’infinita bontà umana. Solo che io non ci credo).
Nei simboli pittorici gli uccelli traducono l’anima.
Caro Giorgio, scrivi:
“le dinamiche di lavoro presentate in “Acasadidio” non sono dinamiche esclusive del mondo del volontariato, sono le dinamiche di qualsiasi posto di lavoro, da un ospedale, pubblico o privato che sia, a un negozio di fotocopie…
Dappertutto sono sempre più evidenti la prevaricazione di alcuni e la soggezione di altri; la cultura dominante è più che mai rivolta al “particulare” e all’immediato, difeso con i denti a tutto scapito degli “altri” e dei diversi supposti concorrenti: fino ad arrivare al vero e proprio razzismo palese o strisciante”…
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E’ una fotografia assolutamente aderente alla realtà di oggi, dove l’ufficio è spesso la cornice di equilibri disarticolati, precari, macchiati da sopraffazione.
Quello che comunemente si chiama “mobbing” ( e che la legge non ha ancora definito compiutamente) non è che il riflesso di forze che si scontrano e non sanno confluire, di antagonismi e crescite mancate, di corse non all’altro, ma contro l’altro, nella concezione – malata e asfittica – di lavorare in trincea con nemici da distruggere.
E’ – purtroppo – lo specchio di tanta parte di società.
Da un punto di vista giuridico il mobbing manca ancora di una definzione legislativa.
Infatti se nel campo della sociologia, psicologia e medicina del lavoro, è identificato nelle diverse pratiche di vessazione e violenza psicologica messe in atto deliberatamente e ripetutamente nel tempo dal datore di lavoro, dai superiori, dai colleghi di pari livello o dai subalterni nei confronti di un soggetto designato, al fine intenzionale di danneggiarlo, una definizione giuridica può essere ricavata dalle due pronunce di merito che hanno sanzionato espressamente il mobbing (Tribunale di Torino, 16 novembre 1999 e 30 dicembre 1999). Si legge
nelle sentenze: “Spesso nelle aziende (…) il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo
dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.”
Cara Simona, ti ringrazio del tuo intervento: cogli nel segno e dai una traduzione giuridica a uno dei problemi sempre più diffusi oggi nel mondo del lavoro.
Il problema purtroppo è che non tutto è traducibile nella norma e quindi sanzionabile. E che c’è una singolarità che sfugge a tante generalità.
Non so se il mobbing possa comprendere tutte le forme di deterioramento di rapporti nel mondo del lavoro. A me viene in mente anche il difficile mantenimento di diritti sindacali e costituzionali…
E a questo punto mi vorrei ricollegare anche all’affermazione di Roberta sull’egoismo: affermazione che si può aprire a tante altre domande e considerazioni.
Infatti l’affermazione di carattere generale non chiude il problema del giudizio da dare alla nostra epoca, perché in alcune condizioni storiche egoismo e cattiveria sono riconducibili alle norme del vivere civile, in altre condizioni no.
Purtroppo quando nella società si privilegia il furbo, il prevaricatore, quando tutto questo diventa stile di vita non solo non sanzionato ma anche spacciato come desiderabile e giusto…
L’albatro di Baudelaire, una delle mie poesie preferite, identifica poeta e uccello, voli della fantasia e ali di gigante che sfidano i nembi…
@ Sabina
Quando dici “E’ sempre convenzionale l’attribuire un libro ad un genere piuttosto che ad un altro” dici una gran verità. Ne discenderebbe che scrittori e lettori avvertiti dovrebbero giocarci, coi generi, un po’ come farebbe una autore disincantato come Eco. Poi mandi un manoscritto alla casa editrice, e te vedi se loro non partono dallo schemino dei generi! Non voglio far partire un altro filone di discussione, ma sai quante volte ho letto “non se ne vedono possibili esiti commerciali”?
@ Maria Lucia
Sono solo parzialmente d’accordo con te. Concepire l’arte come superamento dei limiti rimanda a un sottofondo romantico, al sublime, al giovane Nietzsche. In piena onestà, non saprei dire se ci siano limiti che possano, o valga la pena, di superare. Scrivere, leggere buone storie, può servire a validare un’esperienza trascorsa, può fornire una struttura esemplare su cui “essemplare” un’idea di sé, del mondo. L’uomo è un animale mimetico.
@ Giorgio
Sono dell’idea che chiunque percepisca uno stipendio, un salario, è strutturalmente ricattabile. Oggi certi meccanismi sono solo più esplicitati, ma non esiste proprio che nella fondamentale dis-simmetria delle condizioni tra datore di lavoro e prestatore d’opera la tutela della dignità, della integrità del lavoratore si possa spingere a cose come il salario come “variabile indipendente” ecc.
Oggi il lavoro non è un diritto (non lo è mai stato, in realtà). In Italia le cose sono esacerbate dal conflitto più duro, quello tra il vecchio e il nuovo: il vecchio ha divorato il nuovo, e tenta di formare le generazioni future secondo le immagini, l’ideologia, che i cummenda cresciuti negli anni ’50 e ’60 hanno assorbito: consumismo, idiozia e disponibilità sessuale. C’è la crisi? Non ci sono i soldi? Non importa, comportatevi come se li aveste.
Allora bisogna bonificare e appiattire la scuola, e ogni occasione formativa di pensiero critico. Questo è quello che è successo dagli anni ’80.
L’Italia è sempre un paese interessante. Sembra di assistere alle prove generali di qualcosa che si programma su scala più larga.
Caro Giorgio,
infatti no…il mobbing lascia fuori tutte quelle ipotesi, sia pur velate e incisive, di ostruzionismo e latente ricatto.
La giurisprudenza che ho citato, infatti, specifica che perchè vi sia mobbing il dolo deve essere specifico, ossia volto ad uno scopo determinato (l’esclusione o l’isolamento) e la condotta reiterata.
Restano fuori moltissime e invisibili tipologie di atteggiamenti che – pur non traducendosi in mobbing – alimentano mancanza di speranza e disistima, carenza di condivisione e solitudine.
Questo è il campo di non dominio della norma.
Ma…come dico sempre, tutto quello che resta fuori dal processo può raccoglierlo il romanzo….
Bravissimo, un abbraccio.
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Il dibattito si è sviluppato in maniera interessante.
Adesso rimetterò in primo piano il gioco “Letteratitudine Book Award” (partecipate tutti, dài… è solo un modo per “stare insieme” divertendoci… e prendendo un po’ in giro i premi letterari), ma auspico che qui la discussione continui.
@ Giorgio
Inmerito alla domanda: L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere? O anche il dovere è libertà?
—
Ti dico questo:
Io ho sempre visto l’ “ufficio” in un ottica kafka-fantozziana. Io stesso ci passo molte ore della mia vita, “in ufficio”. E a volte questa realtà (kafka-fantozziana, appunto) che percepisco, mi pesa.
Il peso, ovviamente, deriva dalla mia personalissima (e forse ingiustificata) percezione. Eppure so che i compiti svolti dagli “uffici” – pur angusti, oscuri – sono spesso essenziali.
Da qui le domande (che ho rivolto, in primis, a me stesso).
Auguro a tutti una serena notte…
@ Massi ( e per rispondere alla tua domanda: se il dovere è libertà):
Libertà e dovere sono complementari, alterni interni, vivono in simbiosi e la crescita felice dell’una è la garanzia di sviluppo positivo dell’altro.
Non c’è vera libertà senza autentico senso del dovere.
Il dovere infatti è una conquista. È il valore aggiunto che ci fa percepire chi noi realmente siamo. E’ il riconoscimento di noi stessi per naturale acquisizione.
Ma per arrivare a sentirlo nostro, a viverlo come scelta ( e quindi come identità) deve essere lo sbocco della strada della libertà.
Solo percorrendo un sentiero di crescita profondamente libero (dove libertà sta non per mancanza del limite ma per vita in pienezza) si approda a un dovere sentito, partecipato, intenso.
Roberta hai ragionissima! Sono superd’accordo sulla motivazione egoistica dell’agire umano sempre.
Però se in tutti i contesti operativi – siano essi volontari, siano essi società onlus cioè quasi volontari, siano essi professionisti pagati con salario regolare, si lavorasse un po’ di più sulle motivazioni, si facesse un sano training individuale, non ci crederai quanti altruisti uscirebbero fuori. Altruisti moderati – altruisti con i piedi per terra, ma almeno che non sparano cazzate a manetta.
Scusate l’ot.
@ Roberto:
è vero, sul discorso dell’editoria si dovrebbe aprire una parentesi infinita poiché e l’esempio assoluto della schematizzazione necessaria finalizzata ai meccanismi di business e tutto ciò che vi è legato. Quando hai intenzione di scrivere qualcosa sul nazismo ti senti rispondere:
“A chi vuoi che interessi una cosa del genere, ormai è superato”, come se la storia, con le sue ferite non fosse memoria viva e fervida in tutti noi… Ma chiudiamo qui il caso dell’editoria (tra l’altro affrontato anche qui su Letteratitudine in modo animato).
Forse però ci si può proteggere ancora grazie alla critica autentica, quella che è di larghe vedute e che può ancora ‘salvare’ i libri dalle mere convenzioni.
Un carissimo saluto a Maria Lucia (a quando il nostro prossimo incontro ‘casaule’? Ci vediamo sempre nelle varie presentazioni 😀 ), così come a Roberta e a Rossella, della quale i mi piacerebbe vedere (quando il mio tempo tiranno me lo permetterà) i suoi lavori.
@ Giorgio: ti invio una mail per il discorso de Lo Schiaffo.
@Sabinaaaaaaaaaa: un bacio! Quando ci vediamo? Mi manchi!
Anche tu! dolcissima Simo! E’ vero, organizziamo qualcosa per vederci al più presto. Ho saputo delle cose bellissime su di te e sono felice perché te lo meriti, sono convinta che tra poco tu e Massimo diverrete irraggiungibili… Spero però sempre di riuscirvi ad avere attorno 🙂
Un grandissimo e affettuoso abbraccio
P.S. Scusate per l’off topic mostruoso ma era necessario!
Per carità! La letteratura è socializzazione
@Sabina: non ti libererai mai di me!
@ Sabina
Cara Sabi, se un giorno sarò irraggiungibile dipenderà solo dal fatto di essere “fuori campo”. Nell’eventualità mandami un sms 🙂
Un saluto affettuoso e un ringraziamento a tutti gli altri intervenuti.
E’ ripreso il lavoro, in un clima che non accenna a dare sollievo, dopo un fine settimana di discussione.
Tanti temi sono stati accennati e abbiamo molti spunti per pensare, per fortuna la scrittura ci dà questa possibilità. Grazie anche da parte mia a tutti gli intervenuti.
Un grazie particolare e un abbraccio a Massimo che ha reso possibile questo scambio.
@ Simona: bellissimo, ne sono felice! Ci sentiamo presto allora. Massi, è vero se viaggi in Austria e altri paesi etc. potrei avre qualche difficoltà a contattarti col telefonino 😉
Auguro un grande IN BOCCA AL LUPO a Giorgio Morale e Roberto Plevano. Ma di certo ci saranno altri contesti per piacevoli confronti e/o altri argomenti su Letteratitudine, noi tutti non ci libereremo mai dell’uomo con la camicia celeste (per fortuna) 🙂
Segnalo una recensione di 100 miglia con discussione pubblicata domenica in La poesia e lo spirito da parte di Carlo Giacchin, storico e consulente editoriale.
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2009/05/24/100-miglia-di-roberto-plevano/
Caro Giorgio, caro Roberto…
ringrazio ancora una volta voi per la piacevolissima presenza, e tutti gli intervenuti.
E ne approfitto per ricordare la rubrica di Giorgio sulla scuola:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2009/05/25/vivalascuola-13/