Inauguriamo questo nuovo spazio di Letteratitudine, intitolato “Autori/Autrici da non dimenticare“, e destinato a ricordare – per l’appunto – autori e autrici del passato che rischiano, ingiustamente, di finire nell’oblio, con questo servizio dedicato alla figura di Angelo Fiore
* * *
ANGELO FIORE: UN ‘INNOMINATO’ DELLA LETTERATURA DEL NOVECENTO
In un convegno a Siracusa si torna a parlare dell’importanza dello scrittore palermitano apprezzato da grandi critici del Novecento ma oggi misconosciuto
* * *
Scorrendo il recente saggio di Giuseppe Lupo La Storia senza redenzione (Rubbettino, 2021, pp. 279), dedicato al complesso e travagliato rapporto che la letteratura del Meridione ha avuto con la Storia nazionale dall’Unità ai giorni nostri, non può non balzare agli occhi un’assenza: quella di Angelo Fiore (1908 – 1986), lo scrittore palermitano i cui esordi letterari (Un caso di coscienza, Lerici, 1963) furono secondati dal prestigioso parrainage di autorevoli letterati quali Carlo Bo, Mario Luzi e Romano Bilenchi, i quali, intuendone la grandezza, ne propiziarono l’ingresso nel vivace e composito parterre letterario della seconda metà del Novecento, in cui Fiore brillò di viva luce con i suoi romanzi – ll supplente (Vallecchi, 1964), Il lavoratore (Vallecchi, 1967), L’incarico (Vallecchi, 1970), Domanda di prestito (Vallecchi, 1976) e L’erede del Beato (Rusconi, 1981) – sino, purtroppo, ad affievolirsi e a spegnersi quasi del tutto, se studiosi quali Sergio Collura, Natale Tedesco, Antonio Di Grado, Melina Mele, Antonio Pane e pochi altri non si fossero assunti il provvido ruolo di ‘vestali’ di una illanguidita superstite fama, pubblicando, a partire dalla fine anni Ottanta, notevoli contributi esegetici, sollecitando la riedizione dei romanzi e la pubblicazione degli inediti e favorendo la nascita di un Centro Studi e di un Premio a lui dedicati (cfr. www.angelofiore.com).
Estintosi nelle librerie, scomparso nei corsi di studio universitari e nei programmi di insegnamento nelle scuole, sopravvissuto nelle biblioteche e in qualche datato manuale di letteratura, Angelo Fiore, oggi, può essere considerato un ‘Innominato’ della letteratura del Novecento.
Sulla grandezza di Fiore e sul suo imbarazzante statuto di ‘scrittore Innominato’ si è discusso durante un convegno, tenutosi il 24 settembre a Siracusa nella sede dell’associazione “Il Cerchio”, promosso dal Centro Studi “Angelo Fiore” di Bagheria, dal Collegio Siciliano di Filosofia e da “Il Cerchio” in occasione della recente riedizione del romanzo Domanda di prestito (Gattogrigio Editore, 2021, pp. 266) con la cura di Leonardo Tonini e con una nota critica di Antonio Di Grado.
A conversare sulla vita e sull’opera dello scrittore si sono avvicendate più voci.
Serena Miano, insegnante di lettere ed organizzatrice dell’evento (che su Fiore ha discusso la sua tesi di laurea), ha introdotto i relatori e tracciato un profilo sintetico dell’autore.
Frate Matteo Pugliares, counselor e scrittore, ha dato una lettura ‘attualizzata’ del romanzo fra teologia e sociologia.
Roberto Fai, filosofo e docente universitario, ha contestualizzato l’opera di Fiore situandola nella temperie dei temi ‘forti’ che hanno attraversato la letteratura e il pensiero del Novecento, evidenziandone, tra sintonie e discrasie, l’affinità con alcuni scrittori mittleuropei come Kafka, la peculiarità di contenuti filosofico-concettuali riconducibili alla Krisis che matura in Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento e a temi cogenti quali la perdita di identità, lo sdoppiamento dell’io, la frammentazione delle forme simboliche classiche di rappresentazione del mondo. Fai ha inoltre messo in luce il rapporto tra conoscenza e dolore, facendo particolare riferimento ad autori come Gadda, che, nel 1963, anno in cui esce la prima opera di Fiore, pubblica con Einaudi La cognizione del dolore; e la singolarità della cifra stilistica, le ‘asperità’ formali e linguistiche ed i tratti anticipatori e ‘profetici’ dei temi dell’opera dello scrittore palermitano.
Infine, il critico letterario Sergio Collura ha condotto una sentita e intima analisi di due racconti (Le Voci, La gatta) di Fiore arricchita da una preziosa testimonianza del suo legame con lo scrittore e, soprattutto, con l’’uomo’ Angelo Fiore, che lo studioso ed amico descrive mite, semplice, umanissimo, apparentemente ruvido e scontroso nei suoi rapporti con il mondo.
Al convegno erano presenti il presidente del Centro Studi “Angelo Fiore”, Pino Pagano, che ha portato ai presenti i saluti del Centro illustrando le attività e i progetti dell’istituzione; e la moglie Emma Di Giacomo, che ha fatto dono di una sua pubblicazione, Ricordo dello zio Angelo Fiore (Centro Studi “Angelo Fiore”, 2021) a un pubblico attento e interessato.
L’importanza del convegno siracusano non consiste soltanto nell’avere riproposto al pubblico, con una iniziativa che si vuole itinerante, la figura e l’opera di Angelo Fiore, sottraendola alla ‘damnatio memoriae’ che, per una sorta di oscura fatalità o di cieca congiura del caso, incombe ormai da decenni sullo scrittore; quanto, piuttosto, nell’avere tratteggiato – e consegnato alla platea più vasta di lettori, di operatori culturali e di studiosi – un ritratto del Nostro teso e vibrante, colto tra la dimessa intimità del quotidiano e l’enormità della sua statura letteraria europea.
In questo ritratto convergono – conflittualmente ‘aggliommerati’, direbbe Gadda – quel dissidio interiore, quel destino di sconfitta e di resa a un nomos atavico e, insieme, quella «lotta con l’Angelo» (cfr. A. Di Grado, La lotta con l’Angelo, Liguori, 2002) agonisticamente ingaggiata con se stesso e con una natura ‘bifida’ per rivendicare una promessa di Grazia e di Redenzione inscritte nell’ordo spinoziano dell’universo in quanto prerogativa della creatura umana, che hanno caratterizzato l’esistenza del Nostro e che si sono riverberati ossessivamente sui suoi personaggi, e che fanno di Fiore uno dei grandi scrittori ‘metafisici’ siciliani (insieme a Bonaviri, a D’Arrigo, a Pizzuto), e non soltanto siciliani, se si vuole ‘leggere’ la parabola letteraria che egli ha tracciato attraverso il concetto di «letteratura minore» (che, tra l’altro, Roberto Fai chiama in causa più volte durante il suo intervento) elaborato da Gilles Deleuze e da Félix Guattari (cfr. Deleuze e Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, 1975; trad. it., Quodlibet, 2006) a proposito dell’opera di Kafka. Marginalità e «de-territorializzazione» sono, infatti, tratti peculiari della biografia e dell’opera del Nostro.
I piccoli burocrati protagonisti dei romanzi di Fiore sono gli «Employés», gli «impiegati» che Balzac descrive ne Les Employés, un lungo racconto ospitato dal 1° al 14 luglio 1837 sulle pagine de «La Presse».
Rabourdin, un impiegato parigino sposato ad una «donna superiore», nel racconto di Balzac non merita alcuna specifica descrizione. I suoi tratti definiscono quasi una seconda natura, anonima e ‘spettrale’, di «uomo senza più entusiasmo ma non ancora disgustato» dalla vita (cfr. Honoré de Balzac, Gli impiegati, Garzanti, 2001, Milano, pp. 118-119).
Come Rabourdin, Luigi Falchi, il protagonista di Domanda di prestito, o gli altri protagonisti della “trilogia dell’impiegato” (Il supplente, 1964; Il lavoratore, 1967; L’incarico, 1970) vivono una dimensione ‘deragliata’ dell’esistenza, a seguito di fallimenti personali o di una irriducibile incompatibilità con la vita. Una condizione questa, che accomuna i personaggi dell’opera di Fiore a quelli rappresentati nel grande ‘ciclo dell’alienazione’ del romanzo europeo del Novecento (Musil, Svevo, Kafka, Tozzi, fino a Palahniuk e Houellebech).
La «malattia dell’ufficio», per dirla alla Balzac, di cui soffrono gli eroi meschini di Fiore, si tramuta lentamente in ‘morte sociale’, che deforma e schiaccia l’uomo, operando in lui una oscena ‘metamorfosi’, come accade per Gregor Samsa, il personaggio protagonista del racconto La metamorfosi di Kafka.
Qualcuno ha scritto che la dote più grande di Fiore è stata quella «di legittimare lo sbandamento di ogni esistenza» (cfr. G. Spagnoletti, Fiore e i suoi personaggi, Tifeo, 1988, p. 27). In effetti, Angelo Fiore, come i personaggi protagonisti dei suoi romanzi, condusse una vita ‘sbandata’, appartata e schiva che lo portò ad evitare i salotti letterari e le accademie e a ridursi ai margini della società, in un limbo in cui consumò la sua esistenza impiegatizia di burocrate della pubblica amministrazione e di insegnante di inglese, trascinandosi come un homeless di albergo in albergo con due valige alle quali aveva affidato i suoi scritti, le poche fortune e le molte sfortune che hanno segnato la sua esistenza.
Angelo Fiore – che si era laureato in lingue all’Istituto Orientale di Napoli con una tesi su Shakespeare e le fonti novellistiche italiane e che aveva ‘ruminato’ il fior fiore della cultura e del pensiero europei (Dostoevskij, Tolstoj, Proust, Pirandello, Sant’Agostino, San Tommaso, Schopenhauer, Nietzsche).
Quando, nel 1981, pubblicherà L’erede del Beato, Geno Pampaloni, nella sua nota introduttiva, fissa quella che il critico individua come la nota dominante di tutta la produzione narrativa dello scrittore: la «monocromia» e la «iterazione».
Angelo Fiore è uno scrittore ‘monotono’, nel senso che è ‘una’ soltanto la nota che risuona – o ‘distona’ – dentro la sua scrittura. È una nota ossessiva, insidiosa, assediante, che si innerva nel tema dello scacco, del fallimento dell’uomo in quanto ‘essere vivente’, in quanto ‘creatura’ espressione di un progetto divino e in quanto ‘animale sociale’. Per Fiore, l’uomo fallisce nella sua dimensione di ‘zoè’ e di ‘bios’: di ‘programma biologico’ e di ‘programma sociale’.
I personaggi di Fiore (qui accanto in una foto di Letizia Battaglia, n.d.r.), in tal senso, incarnano l’«homo sacer» (cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995), l’individuo punito con l’emarginazione o l’auto-emarginazione, con l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi ‘forma civilis’ e ‘forma divina’, lasciando un ‘residuo’ costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Fiore, declinando il motivo del ‘puro/impuro’ che connota i suoi eroi solitari, anticipa in letteratura la nascita della «biopolitica» inaugurata da Michel Foucault con la pubblicazione nel 1976, per l’editore Gallimard, de La volonté de savoir (cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 2006): «Per millenni l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente». La realtà biologica non è più solo uno sfondo oscuro dominato dalla fatalità, ma funge da referente diretto dei giochi e dei calcoli politici che condizionano il corpo e l’anima con dispositivi pervasivi e annientanti. Nell’opera di Angelo Fiore il ‘dispositivo burocratico’ è una manifestazione della biopolitica ed una ‘estensione’ dello sviluppo del capitalismo, in quanto «inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione».
Quello del corpo è un tema che attraversa tutta l’opera di Fiore, ora ingorgandosi nel greve bramito del sesso pensato, detto, scritto, agito; ora flettendosi nelle devianze e nei disordini legati al cibo (bulimia, anoressia); ora assumendo i travestimenti delle deformità fisiche, ora accentuandosi nei parossismi affettivi e relazionali, divenendo ‘scudo’, corazza, specchio, materia impenetrabile, occulta. In tutti questi casi, il corpo annientato, ‘spettrale’, rappresenta il corpo soggiogato dal ‘bio-potere’.
Gettati nel mondo, i personaggi di Fiore sono creature senza storia e senza prospettiva di futuro. Uomini a «una dimensione», si direbbe; schiacciati, quasi condannati, a scontare un ‘eterno presente’ senza via di uscita, slegati dal resto del mondo, irrelati, incendiati dalla fiamma del sacro, che li consuma e li annienta nella «Malagrazia» del vivere:
La vita ci ha distrutti, mi ha distrutto. Non bisogna aver paura della morte. La vita mi ha distrutto, anche se una parte della divinità è dovuta a me. Ma c’è qualcosa che mi supera ed è la vita stessa (S. Collura, Intervista a Fiore, in Un prepotente spirituale. Appendice al Diario di un Vecchio, a cura di C. Cellini, Tifeo edizioni, 1989, p. 37).
In tal senso, la poetica di Angelo Fiore si configura quale exemplum di quella «vocazione» della letteratura meridionale alla «vena di rivolta e di utopia» e in fiera opposizione «all’omologazione dominante della cultura contemporanea» di cui ha scritto, intorno agli anni Settanta Goffredo Fofi (cfr. Goffredo Fofi (a cura di), Luna nuova. Scrittori del sud, Argo, 1976).
In aperto conflitto con la tradizione letteraria ‘regionale’, Fiore prende le distanze dagli immaginari, dai tipi, dagli archetipi e dai topoi della letteratura meridionale, situando la sua scrittura a un ‘grado zero’ dello spazio e del tempo, in un ‘crono-topo’ in cui, parafrasando Baudrillard, la ‘mappa non coincide più con il territorio’. Destrutturando lo spazio-tempo in un ‘presente astorico’ di verghiana memoria, il crono-topo di Fiore anticipa i luoghi di vuoti simulacri della nostra contemporaneità, la ‘dissonanza’ e la ‘sordità’ dello spazio e dell’uomo postmoderno.
In questo spazio la «sicilitudine» è assente, così come è assente l’«insularità», in quanto lo scrittore ha azzerato qualsiasi punto di riferimento relazionale fisico, psicologico, teologico, morale, culturale.
Gettati in un mondo impietosamente fabbricato da un dio che non è mai morto, ma che si cela all’uomo – un ‘deus absconditus’ di spinoziana memoria – divorati dal dubbio, appesi al cappio di una speranza che non si compie, i personaggi di Fiore, come il loro autore, sono creature irredenti che, passando attraverso la grande notte dell’umanità, penetrano la «sostanza amarissima che vive nel midollo delle cose» (Nicola La Gioia, La ferocia, Einaudi, 2015) giungendo, infine, alla catarsi definitiva attraverso l’esperienza del dolore e dell’Attesa.
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo