Quest’anno ricorre il centenario della nascita del mitico fumettista italiano Benito Jacovitti (Termoli, 19 marzo 1923 – Roma, 3 dicembre 1997), autore di celebri personaggi dei fumetti come Cocco Bill. Lo ricordiamo con questo articolo di Antonio Di Grado.
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Il fumettista dal genio beffardo e irriverente
Ricorre il centenario del grande Jacovitti: chi si ricorda di lui? Temo che il suo genio beffardo e irriverente sia finito in soffitta con tutto il polveroso trovarobato dell’Italietta angusta e felice di don Camillo e dell’onorevole Peppone. Io che di quel piccolo mondo antico resto nostalgico cittadino sento tuttavia il dovere di dedicare, al sanguigno genio del grande Jac, due parole a metà fra la testimonianza e il tributo.
Da piccolo, i fumetti mi furono proibiti da genitori che li ritenevano anti-educativi e mi consentivano solo le didascalie e gli ottonari del “Corriere dei piccoli”. Perciò leggevo “Topolino” nascosto sotto le coperte, beccandomi una precoce miopia; perciò sbirciavo in sacrestia nelle pagine del “Vittorioso” che gli altri chierichetti sciorinavano sghignazzando, e ricavandone pensieri non propriamente edificanti.
Su quelle pagine spiate squillavano i colori accesi e la comicità irriverente di Jacovitti: cosa ci facesse Jac nelle sacrestie, coi suoi salami allusivi e beffardi, le sue donne poppute e la sua anarchia debordante, me lo sono sempre chiesto, tanto più che la censura democristiana occhiutamente vigilava sugli irridenti spropositi, sulla musa felicemente maleducata, sulla truculenta ed esilarante fisiologia di Benito Franco Jacovitti.Ma l’altra faccia della sua vocazione sovversiva era la disponibilità di Jacovitti, che poteva disegnare la campagna elettorale del missino Michelini come collaborare a “Tango”, il supplemento satirico dell’“Unità”, poteva animare le battaglie di Pannella come prestarsi, dalle pagine del mitico “Linus”, all’oltraggio del suo pubblico iper-sinistro: “Fascista!”.
Fascista non fu né clericale né altro, né tanto meno (stolta ingiuria anche questa da anni ’60-’70) “qualunquista”. In realtà, come il nostro grande Vitaliano Brancati, anch’egli censurato (e in quegli anni lo furono tutti, da Shakespeare a Totò), e anch’egli irriducibile avversario di tutte le chiese e di tutti i fanatismi, e come un Longanesi o un Malaparte, anche l’umile Jacovitti e i suoi omini grassottelli e iperdotati furono a loro modo degli anarco-liberali, timidi e beffardi anti-eroi e perciò cittadini ideali di un’Italia che brechtianamente non abbia bisogno di eroi, di gesti estremi ed espiazioni sacrificali, perché dovrebbero bastare (ma purtroppo non bastano) uno sberleffo o una pernacchia a travolgere il Palazzo del potere, i suoi abusi, le sue menzogne.
Nell’horror vacui e nell’ossessione del dettaglio che costringono Jacovitti a riempire fino agli angoli le sue tavole di ometti e donnone, di salami e uccellacci, di gags e insolenze, in una sorta di intreccio caotico e di moltiplicazione iperbolica della corporeità che deborda e tracima dalla pagina, sopravvivono il gusto “carico” e il rigoglioso immaginario di matrice popolaresca che mezzo millennio fa, scompostamente irrompendo nella compunta ed esangue iconografia del classicismo rinascimentale, proliferarono nelle fiere plebee e nei campi di battaglia ritratti da Bruegel e nelle enclaves dell’inconscio squadernate da Bosch.
In quei grandi come nello strapaesano Jacovitti, nelle loro rappresentazioni sature e smodate, è in atto il medesimo procedimento di “carnevalizzazione”, ovvero di ribaltamento polemico dei valori e dei linguaggi mendacemente “sublimi”, è in atto la stessa franca e irriverente messinscena degli aspetti “bassi” e fisiologici, degli eccessi sovversivi e licenziosi che le culture contadine e plebee contrapponevano, nel tempo circoscritto e vigilato del carnevale, all’algido e mendace spiritualismo delle corti. È il sogno dell’albero di cuccagna ad affiorare dai salami seminterrati di Jac, ovvero l’utopia della spartizione egualitaria e del godimento immediato, così come dai suoi caserecci kamasutra e da quei corpi dilatati e aggrovigliati si sprigionano un vitalismo pagano e una comicità fescennina che nessun aspersorio, per fortuna nostra, ha mai potuto né potrà mai redimere: almeno finché una schietta risata sopravviverà al truce conformismo che ci minaccia e una lisca di pesce ammiccherà ancora in fondo a una coloratissima e ingarbugliata vignetta.
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