Periodo di grandi commiati, questo, per il mondo letterario.
Ieri, 1° febbraio 2012, si è spenta a Cracovia la poetessa e filologa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996. Era nata a Kórnik, il 2 luglio del 1923.
Le sue poesie sono tradotte e lette in tutto il mondo. Tra le sue opere, ricordiamo “Appello allo Yeti”, “Sale”, “Gente sul Ponte”, “Uno spasso”, “Due punti”.
Apro una “pagina bianca” in onore di questa grande poetessa. Come accaduto con altri artisti della scrittura che ci hanno lasciato, questo piccolo “tributo” vuole essere appunto un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere Wisława Szymborska a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, un verso, una sua poesia, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare la Szymborska e la sua produzione poetica.
Di seguito, un articolo pubblicato su La Stampa e alcuni video che ho selezionato appositamente per questo post.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che, con il loro contributo, riempiranno questo spazio di contenuti.
Massimo Maugeri
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da LA STAMPA – 01 febbraio 2012
Addio alla nobel Szymborska, poetessa polacca della memoria
Autrice e filologa, aveva 88 anni
È morta la poetessa e filologa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996. Era nata nel 1923 a Kornik, cittadina vicino a Poznan.
Il Nobel le era stato assegnato «per la capacità poetica che con ironica precisione permette al contesto storico e ambientale di venire alla luce in frammenti di umana realtà». Con Czeslaw Milosz, anche lui premio Nobel, e Zbigniew Herbert, Wislawa Szymborska fa parte della triade dei grandi poeti contemporanei polacchi.
Le sue prime poesie, pubblicate nel 1945 su un quotidiano, rispecchiano i canoni estetici del realismo socialista. Si impone, però, all’attenzione a partire dal 1956 con raccolte come “Richiamo allo Yeti”, “Sale” e “Gran divertimento”, nelle quali il quotidiano viene raccontato attraverso profonde riflessioni morali e poetiche. La sua fortuna all’estero ha inizio con le prime pubblicazioni del 1960 in Germania, Inghilterra, Russia, Svezia, traduzioni che si sarebbero poi intensificate notevolmente dopo l’assegnazione del Nobel. Negli Usa i suoi “Collected poems” hanno avuto grande successo. In Italia Vanni Scheiwiller ha pubblicato un’edizione fuori commercio nel 1994, poi nel 1996 la silloge “Gente sul Ponte”.
Altre poesie della Szymborska sono apparse su riviste tra cui “L’almanacco dello specchio” (1979), “Nuova rivista europea” (1979) e nell’antologia del 1961 sui “Poeti polacchi contemporanei”, a cura di Verdiani, alla quale è seguita nel 1977 quella sulla ’Poesia polacca contemporaneà Autrice di numerose raccolte poetiche – tra le più recenti “Dwukropek” (Due punti), uscita in Polonia nel 2005 – nei suoi versi mette la vita spirituale davanti a tutte le cose. In liriche, spesso brevi come aforismi, la Szymborska dà voce con profonda lucidità e ironia a problemi morali della nostra epoca partendo da avvenimenti semplici, dagli accadimenti e osservazioni del quotidiano. Nella sua opera l’uomo appare in una condizione di estraneità e contrapposizione al mondo della natura. Il traduttore italiano Pietro Marchesani, curatore di alcune sue raccolte, ha spiegato che «l’incanto» è il vero segreto della poetessa. «Per me – ha detto la Szymborska – la poesia nasce dal silenzio». Tra le sue opere, le traduzioni in polacco di numerosi poeti francesi e saggi di critica letteraria.
Cari amici,
come ho scritto sul post questo è un periodo di grandi commiati, per il mondo letterario.
Nei giorni scorsi abbiamo reso omaggio a Carlo Fruttero e a Vincenzo Consolo.
Ieri, invece, è scomparsa una grandissima poetessa…
Ieri, 1° febbraio 2012, si è spenta a Cracovia la poetessa e filologa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996. Era nata a Kórnik, il 2 luglio del 1923.
Le sue poesie sono tradotte e lette in tutto il mondo. Tra le sue opere, ricordiamo “Richiamo allo Yeti”, “Sale”, “Gran divertimento”, “Gente sul Ponte”, “Due punti”.
Apro una “pagina bianca” (bianca perché deve essere riempita di contenuti) in onore di questa grande poetessa.
Come accaduto con altri artisti della scrittura che ci hanno lasciato, questo piccolo “tributo” vuole essere appunto un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere Wisława Szymborska a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, un verso, una sua poesia, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare la Szymborska e la sua produzione poetica.
Sul post, un articolo pubblicato su La Stampa e alcuni video che ho selezionato da YouTube.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che, con il loro contributo, riempiranno questo spazio di contenuti.
Inserisco uno stralcio della motivazione del Premio Nobel 1996: “per la poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana”…
A tutti, una serena notte…
Il 16 maggio 1973
Una delle tante date
Che non mi dicono più nulla.
Dove sono andata quel giorno,
che cosa ho fatto – non lo so.
Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
– non avrei un alibi.
Il sole sfolgorò e si spense
Senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
E non ne presi nota.
Mi sarebbe più lieve pensare
Di essere morta per poco,
piuttosto che ammettere di non ricordare nulla
benché sia vissuta senza interruzioni.
Non ero un fantasma, dopotutto,
respiravo, mangiavo,
si sentiva
il rumore dei miei passi,
e le impronte delle mie dita
dovevano restare sulle maniglie.
Lo specchio rifletteva la mia immagine.
Indossavo qualcosa d’un qualche colore.
Certamente più d’uno mi vide,
Forse quel giorno
Trovai una cosa andata perduta.
Forse ne persi una trovata poi.
Ero colma di emozioni e impressioni.
Adesso tutto questo è come
Tanti puntini tra parentesi.
Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata –
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.
Scuoto la mia memoria –
Forse tra i suoi rami qualcosa
Addormentato da anni
Si leverà con un frullo.
Questa è una di quelle che preferisco ma mi permetto di inserirne un’altra, molto molto bella.
Prospettiva (da “Due punti”)
Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall’alto
Sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.
Grande poetessa. Saluti cari a Massimo e a tutti.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/02/wislawa-szymborska-incantevole-poetessa/188432/
Un articolo sulla poetessa.
grazie.. grande donna!!!
Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d’amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.
da Wislawa Szymborska, Taccuino d´amore.
http://www.ilpost.it/2012/02/02/le-poesie-di-wislawa-szymborska/
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1996/
Qui potrete leggere le motivazioni per il Nobel dato alla poetessa.
http://www.adelphi.it/libro/9788845924002
Qui un libro che dovrebbe raccogliere tutte le sue poesie.
Si può fare poesia anche con un soffio leggero sopra le cose vere della vita.
Ed ora davvero una buona notte.E spero una buona lettura a coloro che la conoscevano come poetessa e a quelli che la vorranno conoscere adesso.
« Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta »
(Wisława Szymborska, Torture)
Che belli i suggerimenti di Francesca. Ciao Francesca.
E ora,qualche dato biografico.
Wisława Szymborska (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1° febbraio 2012) è stata una poetessa e saggista polacca.
Premiata con il Nobel nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni. In Polonia, i suoi volumi raggiungono cifre di vendita che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante in un’occasione Szymborska abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektorzy lubią poezje), che la poesia piace a non più di due persone su mille.
Szymborska utilizza espedienti retorici quali l’ironia, il paradosso, la contraddizione e la litote, per illustrare i temi filosofici e le ossessioni sottostanti. Szymborska è una miniaturista, le cui poesie compatte spesso evocano ampi enigmi esistenziali. Benché molte delle sue poesie siano lunghe una pagina appena, esse toccano spesso argomenti di respiro etico che riflettono sulla condizione delle persone, sia come individui che come membri della società umana. Lo stile di Szymborska si caratterizza per l’introspezione intellettuale, l’arguzia e la succinta ed elegante scelta delle parole.
« Sono, ma non devo
esserlo, una figlia del secolo »
(Wisława Szymborska)
——-
Nel 1931 Szymborska si trasferì con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino a tutt’oggi. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939, continuò gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavorò come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo cominciò la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Cominciò inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.
Sempre a Cracovia, Szymborska cominciò nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto venne coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontrò Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.
Nel 1948 sposò Adam Włodek, dal quale divorziò nel 1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. In seguito si sposò con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che morì nel 1990.
La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie furono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel 1952, quando la poetessa aveva 29 anni.
In effetti, negli anni ’40 la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel 1949, non superò la censura in quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (Per i giovani che costruiscono Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al 1960.
Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Oggi Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.
Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al 1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume.
Nel 1957 fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei.
Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.
Dal 1981 al 1983, fu redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ottanta intensificò le sue attività oppositive, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność.
Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco.
Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».
Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné.
Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; Karl Dedecius ha diffuso le sue poesie in tedesco; il Premio Nobel Czesław Miłosz ha tradotto vari testi in inglese, seguito poi da Joanna Maria Trzeciak e dalla coppia di traduttori Stanislaw Baranczak e Clare Cavanagh.
La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi.
Szymborska preferiva usare il verso libero nelle sue poesie. Le sue opere sono contraddistinte, dal punto di vista linguistico, da una grande semplicità. Il celebre critico tedesco Marcel Reich-Ranicki ha affermato: «È la poetessa più rappresentativa della sua nazione, la cui poesia lirica, ironica e profonda, tende verso la poesia lirica filosofica».
Dopo diversi mesi di malattia, il 1 febbraio 2012, Szyborska è scomparsa nel sonno presso la sua casa a Cracovia.
OPERE PRINCIPALI
…
Dlatego żyjemy (Per questo viviamo, 1952)
Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa, 1954)
Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti, 1957. Edizione italiana: Scheiwiller, 2005)
Sól (Sale, 1962. Edizione italiana: Scheiwiller, 2005)
Sto pociech (Uno spasso, 1967. Edizione italiana: Scheiwiller, 2003)
Wszelki wypadek (Ogni caso, 1972. Edizione italiana: Scheiwiller, 2003)
Wielka liczba (Grande numero, 1976. Edizione italiana: Scheiwiller, 2006)
Ludzie na moście (Gente sul ponte, 1986. Edizione italiana: Scheiwiller, 1996)
Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative, 1992. Edizione italiana: Adelphi, 2005)
Koniec i początek (La fine e l’inizio, 1993. Edizione italiana: Scheiwiller, 1997)
Widok z ziarnkiem piasku (Vista con granello di sabbia, 1996. Edizione italiana: Adelphi, 1998. Scelta antologica basata sul volume View with a grain of sand apparso in lingua inglese per la Harcourt Brace & Company di New York)
Poczta literacka (Posta letteraria, 2000. Edizione italiana: Posta letteraria, ossia come diventare (o non diventare) scrittore, Scheiwiller, 2002)
Chwila (Attimo, 2002. Edizione italiana: Scheiwiller, 2004)
Dwukropek (Due punti, 2005. Edizione italiana: Adelphi, 2006)
Opere, a cura di Pietro Marchesani: Adelphi (collana La Nave Argo, 2008)
La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009): Adelphi, 2009 (con testo polacco a fronte)
ALTRE EDIZIONI ITALIANE
—
25 poesie («I Miti Poesia», Mondadori, 1998)
Taccuino d’amore (Scheiwiller, 2002)
Discorso all’ufficio oggetti smarriti. Poesie 1945-2004 (Adelphi, 2004. Scelta antologica in parte basata sul volume Poems new and collected apparso in lingua inglese per la Harcourt Brace & Company di New York)[3]
Elogio dei sogni (Edizione speciale per il Corriere della Sera, Un secolo di poesia vol. 1). Milano, RCS 2011.
PREMI
1954 – Premio letterario della città di Cracovia
1963 – Premio del Ministero della cultura polacco
1990 – Siegmund-Kallenbach-Preis
1991 – Premio Goethe della città di Francoforte
1995 – Premio Herder
1995 – Laurea honoris causa dell’Università «Adam Mickiewicz» di Poznań
1996 – Premio del PEN Club polacco
1996 – Samuel-Bogumil-Linde-Preis
1996 – Premio Nobel per la letteratura
E’ uscita in silenzio, con passi felpati e, ci ha lasciati soli, in un appartamento vuoto.
L’arguta, raffinata, elegante Wislawa Szymborska se n’è andata.
Caro Massimo, diventiamo sempre più poveri, le voci eccelse si spengono come le candele, una per volta. Si spera nei giovani, nelle loro voci fresche, giacché senza poesia la vita non è che un deserto arido, nefasto.
Ho aperto un suo libro poco fa, e riporto questi versi emblematici del suo spirito:
Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.
La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.
Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l’amore non può darlo,
né riesce a toglierlo (…)
——–
Informo i lettori che molte sue liriche sono riportate, tra gli altri, nel sito Pensieriparole.it
Questo è il link: http://www.pensieriparole.it/poesie/autori/w/wislawa-szymborska/pag1
Cordialmente, A.B.
“Dire addio e farsi addio è ciò che tocca”, ha scritto Jaime Saenz, poeta boliviano…
“Tutto è mio, niente mi appartiene
nessuna proprietà per la memoria, e mio finchè guardo. (…)
Benvenuto e addio in un solo sguardo”.
Wislawa Szymborska Elegia del Viaggio in Vista con un granello di sabbia
Addio a una vista
Non ce l’ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.
Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.
Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sulle acque
abbiano di nuovo con che stormire.
Prendo atto
che la riva di un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora bella
come era.
Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.
Riesco perfino ad immaginare
che degli altri, non noi
siedano in questo momento
sul tronco rovesciato d’una betulla.
Rispetto il loro diritto
a sussurrare, ridere
e tacere felici.
Suppongo perfino
che li unisca l’amore
e che lui stringa lei
con il suo braccio vivo.
Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.
Non esigo alcun cambiamento
dalle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.
Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro
ora nere.
Una cosa non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza ci
rinuncio.
Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.
L’incanto della poesia. Ecco cos’era lei. Incanto. E leggerezza, anche nel dolore.
Della sofferenza non coglieva mai la grandezza. Ma il posarsi su piccole cose. Su resti della quotidianità travolti. Violentati come bucce di frutti lasciati su un piatto.
E’ stata la cantrice dell’immenso nel piccolo, della grande storia nella giornata, del delirio nella compostezza. Per questo la definivano “la miniaturista”, o l”l’esperta del paradosso”. Ma al di là delle definizioni, la Szimborska offre, nella poesia, la pura contemplazione dello sguardo. E lo sguardo si posa sulle cose, sulla realtà, sulle persone e sulla natura. Da esse trapassa e diviene anche occhio sull’anima.
Ecco, per esempio, in che modo la poetessa canta la morte dell’amatissimo compagno della sua vita: pensando a un gatto in un appartamento vuoto.
———
Il gatto in un appartamento vuoto
———
Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.
Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.
Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c’era qualcuno, c’era,
e poi d’un tratto è scomparso,
e si ostina a non esserci.
In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Cos’altro si può fare.
Aspettare e dormire.
Che provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.
Wislawa Szymborska
da “Koniec i poczontek” (Fine e principio), 1993
Da Gli Imboscati.com Quotidiano d’informazione e approfondimento fatto da italiani che vivono all’estero. “Esterrefatto
Il malizioso demone della poesia
di: Anna Vasta – 2 febbraio 2012
È morta Wislawa Szymborska, poetessa e saggista polacca, Nobel per la letteratura 1996. In Lei la Poesia ha trovato una voce dagli accenti bassi, andanti, volutamente sottotono, ma con Improvvisi di accensione e di sconfinamento nel suo mistero.
Il malizioso demone della poesia
Capriccio o rivalsa di un demone impertinente-il demone della poesia-il privilegio toccato in sorte a Wislawa Szymborska, poetessa e saggista polacca, Nobel per la letteratura 1996, di essere la più amata tra i poeti europei del secondo Novecento? Proprio lei che in una sua lirica “Ad alcuni piace la poesia” constata con la consueta ironia come la poesia non sia amata, neppure dagli stessi poeti (“ce ne saranno forse due su mille”). Dichiara di non sapere cosa sia la poesia, e di aggrapparsi a questo non sapere come alla “salvezza di un corrimano”. Attenti a non cadere nella trappola minimalista della Szymborska, maliziosa “signora omicidi della poesia, che possiede il dono di ferire al cuore le cose senza perdere mai la grazia”(Roberto Galaverni). Il lettore non si lasci fuorviare dal tono volutamente dimesso, mai sciatto e prosastico – in lei anche la prosa ha trafitture liriche-, del suo poetare. Non si faccia abbindolare dalle vesti di Cenerentola che indossa a bella posta per camuffarsi e depistare. Dietro tanta umiltà si cela la nonchalance di un esercizio poetico aristocratico ed elettivo, la sobrietà di una pratica di scrittura severa, ascetica come una passione dominante. La consapevolezza, così salda da non avere bisogno di proclami, di uno stato di grazia, “non esclusivo dei poeti e degli artisti in genere, ma di tutti coloro che sono visitati dall’ispirazione”(da “Il poeta e il mondo”). Un misto di “passione e fantasia, di curiosità e stupore” dinnanzi allo spettacolo prodigioso del cosmo e al quotidiano enigma della vita. “Non so” è la formuletta magica, propiziatoria, l’apriti sesamo di ogni conoscenza e iniziazione. In ogni momento, atto, gesto del vivere e del comprendere il poeta dovrebbe recitarla a se stesso. Un’idea alta, elitaria di poesia come lama affilata di introspezione, inesausta fonte di stupefazione e mistero. Essa percorre tutta la produzione poetica della poetessa di Cracovia – originaria di Kòrnik, dove nacque nel 1923 – a partire da quella degli esordi ( è del 1945 “Cerco una parola”, la sua prima poesia apparsa su una rivista letteraria) sino alle più recenti liriche. Dagli anni del “giovanile errore”- l’adesione ai fervori ideologici e agli entusiasmi rivoluzionari del nascente comunismo (“ho fatto parte di una generazione che ha creduto”), la militanza, l’impegno civile e letterario – ai tempi tristi, che non tardarono a venire, della disillusione, della scoperta dolorosa e amara del volto brutale, liberticida del socialismo reale, fino alla rottura definitiva, nel 1966, col partito.
Seguono gli anni della dissidenza, dell’adesione da laica a Solidarnosc che coincidono con una svolta poetica – nel 1957 pubblica “Appuntamento con lo Yeti”- all’insegna di una originalità e personalità di scrittura non contaminata da elementi extraletterari, e di respiro universale. Ai temi civili e politici subentrano quelli esistenziali del dolore, della malattia, della vecchiaia, dell’amore e della morte (“senza esagerare”). Una poesia quella della Szymborska assai apprezzata nel nostro Paese, che di sicuro non si distingue per una particolare affezione al genere poetico. Da quando nel 1996, l’anno del Nobel – in notevole ritardo con gli altri Paesi europei, dopo le prime reazioni di infastidita sorpresa per il conferimento del prestigioso premio a una carneade della poesia senza arte né parte -, si scoprì di dover fare i conti con una poetessa nota, tradotta in parecchie lingue, pluripremiata in Polonia e all’estero, la Szymborska è diventata poeta di culto, grazie anche all’opera meritoria di divulgazione svolta da Scheiwiller, suo primo editore in Italia, in anticipo sul Nobel, e da Adelphi.
Perché piace, viene da chiedersi, la poesia della Szymborska? Perché discorsiva, colloquiale, ragionativa? Perché narra il quotidiano, predilige i bassi fondali, e si tiene lontana dal mare aperto? Anche dati per veri questi luoghi comuni, risultano riduttivi, mortificanti della forza smagante e disvelatrice di un discorso lirico che squarcia l’opaca compattezza del visibile aprendo varchi all’invisibile, cedendo il campo a una visionarietà che fagocita e vanifica il reale in una torbida luce di eclissi. Incanta l’amabile perfidia -del tipo “arsenico e vecchi merletti”- con cui la poetessa polacca smaschera le più sublimi menzogne, falcia l’erba alle più ovvie verità, uccide col ridicolo le più stolide fantasie. Attrae quel suo perverso giocare come il gatto col topo a coprire e discoprire le crepe dell’esistenza da cui occhieggia sornione il nulla.
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Dire addio alla Szymborska è molto doloroso per chi ama la poesia. è stata una grande poetessa, una delle figure più significative della poesia del nostro tempo. Anch’io voglio ricordarla con una sua lirica. Quella del gatto, splendida, me l’hanno portata via. Ne inserisco un’altra, che traggo dal bellissimo volumetto, Elogio dei sogni, uscito di recente per il Corriere della Sera come primo della collana; si tratta del Monologo per Cassandra, nella traduzione di Pietro Marchesani, traduttore storico della poetessa polacca, scomparso lui pure da poco e al quale va il mio grazie. Come avrei fatto a leggere queste poesie meravigliose senza di lui?
MONOLOGO PER CASSANDRA
Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.
È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se mai fossero esistiti.
Ora rammento con chiarezza:
la gente al vedermi si fermava a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.
Li amavo.
Ma dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e nulla è più facile che vedere la morte.
Mi spiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.
Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –
È andata come dicevo io.
Solo che non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.
Malgrado le sue attrattive l’isola era deserta
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.
Come se da quì si andasse soltanto via,
immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.
Nella vita inconcepibile.
(Versi tratti dalla poesia Utopia)
Oggi mercoledì 1 febbraio 2012 è mancata Wisława Szymborska. E’ stata, ma che dico, sarà parte della mia vita.
Solo una volta dovevamo incontrarci, o meglio io avrei dovuto assistere a un suo intervento. Era a Genova, l’anno del mio servizio civile…ma questa è un’altra storia…
Di seguito trovate un mio personalissimo omaggio, estratto da La Foto di Bruguel, libro che non leggerete mai.
1957
Quello che vedo è un quadro.
A dirmi la verità, non è nemmeno tanto famoso, visto che si è perso, con il passare del tempo da qualche parte su una parete anonima di un lontano museo della fredda Berlino.
La tela è dipinta in sfumati cieli di tinte celesti e in abissali mari purificati da un pallido sole.
Ho visto questo quadro tempo fa, in una fotografia riprodotta su qualche catalogo d’arte autorizzata.
Di questi tempi serve un’ autorizzazione per tutto.
Anche per l’arte. penso mentre me sto seduta al tavolo volgendo le spalle al futuro.
– Legno delle foreste di Rzesow- penso mentre le mie dite ne grattano nervosamente la superficie piana.- Dalle venature del legno sembra sia ancora possibile risalire ai racconti delle nevi degli inverni passati…
Sul legno fisico e sulla neve mentale giace un foglio di carta.
Un foglio giallo e grezzo, autorizzato, come tutto del resto, dalla legale volontà della Repubblica.
In fondo si tratta sempre di carta che viene dal legno. Per scrivere una poesia,alla fine, ci vuole per forza un albero. Poesia della natura. – Salvo autorizzazione.
Bevo un bicchierino di vodka.
Per buona educazione, da queste parti quando si ricevono ospiti, si offre sempre qualcosa da bere.
Per questo motivo ho aperto la mia bottiglia miglior proveniente dalla mia piccola riserva personale non autorizzata.
La migliore che avevo in casa.
Ovviamente se è buona non è autorizzata dalla Repubblica, ma è una di quelle distribuite dal secondo canale.
Il canale delle persone e dei soggetti non ufficiali.
Ho aperto la mia bottiglia migliore pensando al rischio che hanno corso tutte quelle persone per distribuire qualcosa di proibito come questo.
Vodka come libri.
Alcool come poesie.
Emozioni che bruciano clandestinamente l’animo.
Brindo solennemente.
– Alla nostra. E mentre il bicchiere è ancora levato in aria una voce lontana sembra rispondere.- Alla tua Wisława.
Anche oggi ho ricevuto la visita di una vecchia amica, la poesia..
L’ospite è di casa ma questa volta si comporta in maniera diversa, inusuale nella sua immobilità: se ne sta lì, ferma, silente all’altro capo del piccolo tavolo di legno, a qualche venatura di distanza, sepolta dalla neve caduta del passato.
Questa separazione ricorda una fantasticheria di qualche tempo fa.
Una di quelle visioni giovanili che segnano le notti prima degli esami, tremolanti ed eteree nelle dissolvenza del mattino.
Dalla finestra entra una falena, attratta da un cuore che batte cieco nell’oscurità.
– Un segnale- codifico un’immagine che squarcia l’oblio di questa notte.
Sogno di essere al mare, persa in un panorama esotico. Non il mare di Elbląg, autorizzata località turistica della Repubblica. Sogno di essere in qualche paesino bizzarro come Witold nella lontana Argentina o come Sławomir a Chiavari e solo in questo sogno mi accorgo che nel dizionario, tra le parole dell’uomo, non esiste un’azione appropriata per la poesia.
Davvero, non si “poesiagisce”.
La poesia si fa.
Si scrive.
Si recita.
Si interpreta.
Imprigionata lì dov’è, dal non avere un verbo tutto suo.
Come una scimmia legata alla catena.
Incatenata al tavolo, dalla Repubblica e dalla vita.
Non è forse questa la storia dell’uomo?
Guardo, con la lentezza di uno sguardo invernale il panorama che si staglia lì, fuori da quel taglio nel muro che è la finestrella. Bianco di neve.
Come un fiocco cade il mio sguardo sul foglio. Giallo.
Affido al destino la mia poesia mentre c’è già chi si prende fin troppa cura della mia vita: la Repubblica Popolare Polacca che si preoccupa della vita di tutti i suoi bravi cittadini.
E forse, quella di una poetessa è una vita che vale di meno?
Le due scimmie di Bruguel[1]
Questo di maturanda è il mio gran sogno:
sul davanzale due scimmie incatenate,
fuori svolazza il cielo
e fa il bagno il mare.
In storia dell’uomo
balbetto e arranco.
Una scimmia osserva ironica la scena,
l’altra sembra appisolata-
e quando alla domanda resto ammutolita,
mi suggerisce col quieto tintinnio della catena.
[1] La gioia di scrivere-tutte le poesie (1945-2009), Wislawa Szymborska, Adelphi Edizioni, 2009
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.
Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?
Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
Uno “scusi” nella ressa?
Un ‘ha sbagliato numerò nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.
Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?
Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.
(W. Szymborska)
Un amore felice. È normale?
E’ serio? E’ utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?
Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,
i primi venuti fra un milione, ma convinti
che doveva andare così – in premio di che? di nulla;
la luce giunge da nessun luogo –
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Sì.
Ciò infrange i principi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Sì, infrange e butta giù.
Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano –
sembra un complotto alle spalle dell’umanità!
È difficile immaginare dove si finirebbe
se il loro esempio fosse imitabile:
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?
Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.
Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.
Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.
( Wislawa Szymborska )
Notorietà
Eccoci qui distesi, amanti nudi,
belli per noi – ed è quanto basta –
solo con foglie di palpebre vestiti,
siamo immersi nella notte vasta.
Ma già sanno di noi, già sanno
queste quattro mura, la stufa spenta,
ombre sagaci sulle sedie stanno
e il tacere del tavolo è eloquente.
E sanno i bicchieri perché sul fondo
il tè non bevuto si raffredda.
Swift ormai non può certo fare conto
che questa notte qualcuno lo legga.
E gli uccelli? Non illuderti per niente:
ieri li ho visti scrivere volando
con arroganza e apertamente
quel nome con cui ti sto chiamando.
E gli alberi? Qual è il significato
del loro incessante bisbigliare?
Dici: solo il vento forse è informato.
Ma di noi come ha potuto sapere?
Dalla finestra è entrata una falena,
e con le sue piccole ali pelose
atterra e decolla di gran lena,
fruscia sul nostro capo senza posa.
Forse quell’insetto, più di noi dotato
d’una vista acuta, vede meglio?
Io non ho intuito, né tu indovinato
che i nostri cuori splendono nel buio.
Taccuino d’amore, Wislawa Szymborska, Libri Scheiwiller, Milano 2002
Una grande poetessa. Una perdita importante per la letteratura mondiale. Ma i suoi versi rimangono per essere letti. Ogni volta che ciascuno di noi li leggera’, l’arte della parola avrà vinto la sua battaglia sulla morte.
Per rendere l’idea di una società al “singolare” , una società dei “Due punti” che non si incontrano mai, pur stando uno di fronte all’altro :
“Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,(lei alla tana)
lui alla sua auto……….(lui in libertà)
………………..
lei è sparita dietro la porta a vetri
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta
come se nulla fosse accaduto
………………
immemori
di essersi per un breve attimo
amati per sempre.
……….
Grazie Massimo per questo tributo che condividiamo .Mi piace ricordarla con la poesai 16 maggio 1973 Chapeau bas di fronte a una poesia come questa che personalmente mi fa pensare a qualcosa di doloroso consumatosi quel giorno .Non ha neanche usato la parola DOLORE ( sa che il dolore non e’ salvifico !!) Eppure in ogni sua parola, legata alla successiva formare una immagine di assenza e di fuga, di voluta dimenticanza ,di smemoratezza, di “rimozione ” come si direbbe con parola psicanalitica…C’E’ il dolore senza essere nominato.C’E’ una morte interiore, C’E’ uno stacco, C’E’ l’abbandono ,C’E’ il lutto ancora da elaborare ….
Mio esimio Dottor Maugeri,
ma è mai possibile che da qualche tempo a questa parte non faccio che rendere omaggio a illustri letterati che ci lasciano?
Consolo, ed ora la meravigliosa Szimborska.
Ma come…. e proprio io, con tutti gli acciacchi che ho, le cataratte che velano la vita, i piedi azzoppati dalla gotta, l’aria spaesata e lasciata nel secolo scorso, proprio io che poeta non sono, resto a guardare tanti miei compagni del Novecento trasmigrare nell’Ade?
So che mi precedono, e mi scoccerebbe assai aspettare ancora a questa sponda che Caronte passi a ritirar il suo obolo, se non fosse che qui esiste questa sua pagina, caro ragazzo, e nell’al di là nessuno – che io sappia – si è similmente attrezzato, a meno che altri grandissimi non abbiano principiato a interessarsi alla cibernetica.
Ma dubito, e dubito che lì serva. Non avremo occhi nè corpi, e quello che qui facciamo con un click,lì lo realizzeremo meglio con l’anima e col pensiero.
Dunque sono ancora tra voi, in questa pelle avvizzita e tra queste quattro ossa. E finchè ci starò mi permetterò di lasciare qualche commentuccio, qualche minimo contributo a quanto già leggo.
Non so se lo sapete, ma la poetessa stessa si sarebbe fatta beffe della morte….Per questo io mi sono permesso di divagare con spirito faceto…
Vi lascio questa sua indimenticabile ode e mi ritiro, cari miei. Sulla pentola bolle il sugo, con cotica e tutto il resto. Non mi faccio mancare la pasta, e il secondo lo annaffio sempre con un bel rosso, meglio se dolciastro.
Non mi resta molto, già lo dissi…a che pro rinunciare al gusto?
Buon pranzo, allora.
Sempre vostro,
Professor Emilio
***
Sulla morte, senza esagerare
*****
Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno fin ora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova. Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Comincio a conoscere questa poetessa da questo post di letteratitudine. Leggo le poesie che avete condiviso. Sono belle.
Grazie a tutti.
Periodo di lutti letterari… Fruttero, Consolo e ora questa straordinaria poetessa, che ha fatto del quotidiano lo scintillio metafisico dell’esistenza.
Uno stile chiaro, luminoso, ironico, mai sentimentale ma ricco di sentimento e profondità, di pensiero leggero nel senso calviniano.
Una grandissima.
Ricambio i saluti affettuosi di Margherita! E ringrazio anche io tutti gli altri che hanno postato contributi, un abbraccio a Simona e scusate se mi ripeto dicendo che mi emoziono sempre leggendo le parole dello squisito prof. Emilio!
Professor Emilio, il cuore della Nostra batte all’unisono col suo, sempre leggero e ironico, garbato e opportuno..
scriveva in “Sotto una piccola stella”
..so che finchè vivo niente mi giustifica
perchè io stessa ni sono d’ostacolo”
E’ molto bello leggere i vostri messaggi dedicati a Wislawa Szymborska. Credo che mi autoregalero’ una sua raccolta per il mio imminente compleanno.
Si può essere più leggeri e più commoventi?:
“Io un’adolescente?
Se ora d’improvviso si presentasse qui
dovrei salutarla come una persona cara
benché mi sia estranea e lontana?
Versare una lacrimuccia
baciarla sulla fronte
per la sola ragione che la nostra data di nascita è la stessa?
Siamo così dissimili
che forse solo le ossa sono le stesse
la calotta cranica
le orbite oculari
perché già gli occhi
è come fossero più grandi
le ciglia più lunghe
la statura più alta
e tutto il corpo è fasciato
dalla pelle liscia senza un’imperfezione
In verità ci legano
parenti e conoscenti
ma nel suo mondo di questa cerchia comune
sono quasi tutti vivi
mentre nel mio quasi nessuno
Siamo così diverse
I nostri pensieri, le parole
così differenti
Lei sa poco
ma con un’ostinazione degna di miglior causa
Io so molto di più
ma non in modo certo
Mi mostra delle poesie
scritte con una grafia nitida, accurata
con cui io non scrivo più da anni
Leggo quelle poesie
Le leggo
Bé forse quest’unica
se fosse accorciata
corretta qua e là.
Dal resto non verrà nulla di buono
La conversazione langue
Sul suo modesto orologio
Il tempo è ancora incerto
e costa poco
Sul mio è molto più caro
ed esatto
Per commiato
nulla
un sorriso abbozzato
e nessuna commozione
Solo quando sparisce
e nella fretta dimentica la sciarpa
Una sciarpa di pura lana
a righe colorate
che sua madre ha fatto per lei all’uncinetto
La conservo ancora.
Grazie Wislawa
Una DONNA, una POETESSA come WISLAWA ti entra nella pelle, dentro gli occhi accende lo sguardo, nelle orecchie lascia suoni ARMONICI.
E la melodia dei suoi VERSI continua a viaggiare in movimenti a spirale che vanno, vengono e mai ci lasciano.
Un grazie d’INFINITO a questa GRANDE ANIMA *
Grazie anche a te Massimo per questo splendido Omaggio, ed a tutti gli Amici che hanno voluto ricordare WISLAWA SZYMBORSKA con meravigliose testimonianZe *
Caro Massimo,come vedi la tua scelta letteraria ci ha entusiasmati in molti.
Grazie per questo spazio e grazie anche ai commentatori. Ci vedo come contagiati dalla bellezza che scorre dentro i versi di Wislawa Szymborska le cui parole sembrano gli alberi in fila lungo i viali di Kracovia dove la tristezza del paesaggio ho visto mutare in gioia e canto.
Chi sa rendere poesia
“cappotti, giacche, gilè ,camicette
di lana, di cotone, di terital
gonne calzoni, calze, biancheria
posando, appendendo, gettando su
schienali di sedie, ante di paraventi”….. (da Gente sul ponte)
è una che non solo scrive poesie ma è lei stessa la poesia che rende emozione anche quell’oggetto di uso comune,e umano il gesto con cui ad esso ci si avvicina.
Salve a tutti. Non ho mai letto Wislawa Szymborska, ma a questo punto mi sento molto invogliato a farlo. Qualcosa ho già letto qui.
Devo dire che sono rimasto piuttosto impressionato dalla moltitudine di commenti. Ed anche dal tono e dalla qualità.
Eppure dicono che la poesia ha scarso seguito.
Sarà poi vero?
Se n’è andata pure Wislawa Szymborska. Quando vinse il Nobel, mi portarono dal suo editore essendo l’unica che sapeva pronunciarla.
E a me è capitato di esserti accanto. E davvero non vedo in questo nulla di ordinario.
(per Wislawa Szymborska)
Non c’è vita / che almeno per un attimo / non sia immortale.
(Wislawa Szymborska)
“Alla nascita d’un bimbo / il mondo non è mai pronto”
( per me il più bel verso di Wisława Szymborska )
QUALCHI PALORA NCAPU A L’ANIMA
di Wislawa Szymborska
versione in dialetto siciliano di
Marco Scalabrino
marco.scalabrino@alice.it
L’anima nuatri ci l’avemu di tantu in tantu;
nuddu mai ci l’avi di cuntinu.
Li jorna e l’anni
ponnu passari comu nenti senza di idda.
A li voti
si ferma p’un pizzuddu
nna la carusanza;
autri voti ni veni a truvari di vulata
nna la vicchiania;
di raru ni duna na manu cu li camurri
tipu quannu sturnamu, quannu semu carrichi di valigi,
quannu caminamu cu li scarpi chi ni macirianu li pedi,
e si canzia propriu siddu avemu a capuliari la carni
o ni tocca jinchiri fogghi e fogghi di carti bullati.
Ntra milli discursi chi facemu
idda s’apprisenta forsi nna unu, e mancu sparti,
pirchì prifirisci lu silenziu
e giustu quannu la midudda ni scoppia
ni saluta e si la scoffa.
Pirchì ci abbutta.
E ci abbutta vidirini nna la fudda,
trippiari cumminannu ogni sorta d’affari,
trafichiari p’un vantaggiu qualegghè,
e siccomu lu preju e lu siddiu
nun sunnu pi idda sintimenti sparaggi
sta cu nuatri sulu quannu chissi dui su’ tutta na cosa.
Ci putemu fari cuntu
siddu capita chi nun semu sicuri di nenti
e curiusi di tuttu,
e ntra li cosi di stu munnu nesci foddi pi li ruloggi a pennulu
e li specchi, chi sgobbanu puru quannu nuddu li talia.
Nun dici di unni veni
né quannu vota tunnu e si ni va,
sutta sutta però spinna chi ci lu dumannamu.
Cuttuttu pari chi nuatri avemu bisognu di idda
comu idda di nuatri.
Cari amici, vi ringrazio tutti per i numerosi contributi che avete fatto pervenire per ricordare e omaggiare Wisława Szymborska.
Come sempre, ne approfitto per salutarvi e ringraziarvi personalmente.
Un caro saluto e grazie mille a: Francesca Giulia Marone, Silvia, Margherita, Daniela, Ausilio Bertoli…
E ancora saluti e ringraziamenti a: Anna Maspero, Simona Lo Iacono (ciao, socia!), Anna Vasta (grazie per il bell’articolo), Desi, Marino Santalucia, Fabio Izzo, Biribolina…
http://gabriellarossitto.wordpress.com/2012/02/04/io-la-ricordo-cosi/
E ancora grazie a: Angela, Giorgio, Mela Mondì, Angela Argentino, prof. Emilio (i suoi interventi sono sempre commoventi, grazie!), Alessandra, Maria Lucia Riccioli, Claudia, Cinzia di Ramondi, Maria Teresa Bedini, Marlene Carboni, Aurelio, Marco Scalabrino.
E grazie anche a Gabriella Rossito, che ci ha appena lasciato un link dal suo blog.
Grazie di cuore a tutti, cari amici. Anche a coloro che non ho citato, agli anonimi che hanno comunque lasciato un contributo.
Un saluto speciale a coloro che sono intervenuti qui per la prima volta.
Benvenuti a Letteratitudine!
Sarebbe bello andare a caccia degli articoli su Wisława Szymborska pubblicati a seguito della sua scomparsa…
Insomma, un po’ di rassegna stampa.
Per il momento chiudo qui, augurando a tutti voi uno splendido sabato sera.
L’indifferenza dei media sulla Szymborska dice che siamo diventati dei rincretiniti di tecnicismi. Gente senza poesia. Tutto spread e grigiore
Devo molto | a quelli che non amo. | Il sollievo con cui accetto | che siano più vicini a un altro. || La gioia di non essere io | il lupo dei loro agnelli. || Mi sento in pace con loro | e in libertà con loro, | e questo l’amore non può darlo, | né riesce a toglierlo.
(da Ringraziamento, citato in Wisława Szymborska, gironi.it)
Hanno scoperto una nuova stella,
ma non vuol dire che vi sia più luce
e qualcosa che prima mancava.
–
di Wisława Szymborska (da Eccesso; 1998)
La poetessa delle parole (apparentemente) semplici
di Stefano Salis
–
Quando un poeta diventa popolare? Quando è capace di parlare un linguaggio che tutti capiscono, con parole che possiedono, ma che solo lui, il poeta, è in grado di trovare, di rimescolare, di pronunciare con una precisione disarmante e farci scoprire, grazie a quelle parole, qualcosa di noi e della poesia.
La poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, morta ieri a Cracovia, era una grande poetessa in questo senso. Aveva 88 anni, tutti dedicati alla letteratura. Aveva molto successo in Italia, era diventata amatissima grazie agli editori Scheiwiller e Adelphi. Le sue raccolte sono facilmente reperibili in libreria. Non è un caso.
In Italia aveva esordito grazie, ancora una volta, a Vanni Scheiwiller. L’editore più raffinato d’Italia la volle, nel 1993, per una delle Strenne Franci, una serie di piccoli libri fuori commercio, che spesso arrivavano a pubblicare (come in questo caso) autori che avrebbero avuto fama e onori. In quella plaquette, oggi rinomata chicca bibliografica per i cercatori di libri, c’era già tutto della poesia della scrittrice polacca. “La fiera dei miracoli” è il paradigma della capacità della Szymborska di giocare con il linguaggio comune, una nitidezza di espressione e una capacità di ironizzare sul reale che pochi altri poeti hanno avuto con il suo grado di consapevolezza.
«La scintilla, la precisione, la molteplicità degli interessi filosofici e scientifici, la sua non appartenenza a nessun gruppo o corrente letteraria fanno della sua poesia un piccolo miracolo di assoluta semplicità e immediatezza». Con queste parole la presentava Vanni ai lettori italiani e la Szymborska, sempre tradotta da Pietro Marchesani che ne ha saputo restituire davvero la grandezza poetica e umana, iniziava a diventare da allora una stella fissa nel firmamento letterario.
Le cronache del tempo che è venuto dopo sono quelle di una poetessa, una gentile signora con il sorriso garbato e l’occhio sempre un po’ incredulo rispetto a ciò che ha davanti. Le cronache del tempo che è venuto dopo sono quelle di migliaia di persone alle sue letture, gli autografi, i riconoscimenti.
Eppure non a questo badava lei. Come spesso diceva nella sua rubrica sui giornali polacchi “Posta letteraria” (poi tradotta in italiano) agli aspiranti poeti, non è spesso la scrittura cui prestare attenzione, ma la lettura. Così noi, suoi lettori, restiamo con le sue fragile, densissime, potenti poesie tra le mani e le rileggiamo e le ripensiamo ogni volta, fieri del nostro piccolo segreto, vogliosi di espanderlo e condividerlo, con le persone giuste.
La Szymborska è diventata popolare, è vero. Ma spesso sfugge la complessità dietro quelle apparentemente ingenue poesie. Con il pensiero e con la poesia non si può barare: o li si possiede o niente. Ecco: abbiamo perso ieri la poetessa, le sue poesie ci faranno compagnia per molto e molto tempo.
Quando si ha la fortuna di vedere un classico in vita, non c’è molto altro da fare che contemplarlo e ammirarlo.
–
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-02-02/poetessa-parole-apparentemente-semplici-153440.shtml?uuid=AaVhtxlE
Un miracolo comune:
l’accadere di molti miracoli comuni.
Un miracolo normale:
l’abbaiare di cani invisibili
nel silenzio della notte.
Un miracolo fra tanti:
una piccola nuvola svolazzante,
che riesce a nascondere una grande pesante luna.
Più miracoli in uno:
un ontano riflesso sull’acqua
e che sia girato da destra a sinistra,
e che cresca con la chioma in giù,
e non raggiunga affatto il fondo
benché l’acqua sia poco profonda.
Un miracolo all’ordine del giorno:
venti abbastanza deboli e moderati,
impetuosi durante le tempeste.
Un miracolo alla buona:
le mucche sono mucche.
Un altro non peggiore:
proprio questo frutteto
proprio da questo nocciolo.
Un miracolo senza frac nero e cilindro:
bianchi colombi che si alzano in volo.
Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3,14
e tramonterà alle 20.01
Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.
Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.
Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l’inimmaginabile
è immaginabile.
–
(Traduzione di Pietro Marchesani)
Su concessione Scheiwiller e Giorgio Lucini
Roberto Calasso – su Il Corriere della sera
–
Sapeva parlare a tutti i lettori
di Roberto Calasso
–
Il nome di Wislawa Szymborska l’ho sentito pronunciare per la prima volta da Josif Brodskij vari anni prima che a Brodskij fosse dato il Nobel e il modo di pronunciarlo era tale da fare capire subito in quale alta considerazione la tenesse. Nel ricordo, tutti i nomi dei poeti suggeriti da Brodskij erano giusti e disparati. Ma la figura della Szymborska acquisì per me una nuova dimensione quando Adelphi cominciò a pubblicarla, nelle traduzioni felicemente congeniali di Pietro Marchesani. Allora mi accorsi, con sorpresa non soltanto mia, di che cosa vuol dire per un poeta essere popolare. Situazione improbabile, che ho visto in atto soltanto in questo caso. La Szymborska penetrava fra lettori di ogni tipo, dai più esigenti a quelli che, in linea di massima, evitano la poesia. I più sorprendenti, per vari motivi, erano questi ultimi; mossi dall’ammirazione e da una singolare forma di affetto, come verso qualcuno che sapesse qualcosa di molto preciso su loro stessi. Che cosa trovavano questi lettori, non strettamente letterari, nella Szymborska e non trovavano in altri poeti? Qui il discorso diventa inevitabilmente ipotetico. Ma almeno un punto è sicuro. Molti hanno letto la Szymborska come maestra di una disciplina indispensabile e spesso ignorata: l’arte di essere vivi. Nei suoi versi molti lettori hanno incontrato percezioni elementari ed essenziali a cui non sapevano – o non osavano – dare un nome, ma che tuttavia appartenevano alla tessitura nascosta della loro esperienza. Da qui un senso di gratitudine verso chi aveva rivelato – innanzitutto a loro – quei segreti, talvolta minuscoli e potenti, che altrimenti sarebbero rimasti impigliati e muti in quella tessitura. Non ho visto accadere nulla di simile con altri poeti, anche grandi, degli anni recenti.
–
Roberto Calasso
2 febbraio 2012
http://www.corriere.it/cultura/libri/12_febbraio_02/calosso-sapeva-parlare-tutti-lettori_0866cdc4-4d97-11e1-bd39-8bec83f04289.shtml
Tutto il mondo oggi piange la scomparsa di Wislawa Szymborska, la più grande poetessa del Novecento insignita nel 1996 del Premio Nobel.
Non starò qui a ripetere quanto in queste ore molti qualificati esperti, critici e giornalisti hanno scritto sulla grandezza della sua poesia, che sa unire in maniera unica levità e profondità, comicità e tragedia, pessimismo cosmico e ricerca continua del significato della vita. Una vera incarnazione postmoderna della Alice di Lewis Carroll, alla rilettura delle cui avventure non a caso ci stiamo dedicando da qualche mese: curiosa, ironica, piena di dubbi ma pronta a cercare delle soluzioni al nonsenso apparente che ci circonda con rinnovato ottimismo, disponibile a farsi stupire dalle Meraviglie che sotto il velo opaco della quotidianità ci può riservare ogni momento della nostra vita.
Poichè ho avuto la fortuna di poter collaborare con lei e con il compianto Pietro Marchesani (il suo impareggiabile traduttore italiano) nella realizzazione del volume Nulla due volte, che tentava l’incredibile azzardo (aspramente osteggiato da molti degli esperti di cui sopra, per ragioni che forse si comprenderanno meglio se si avrà la pazienza di leggere quanto segue di sotto) di reinterpretare la prosa manageriale alla luce delle sue poesie, vorrei limitarmi qui a ricordare alcune osservazioni sviluppate in quel libro, relative ad una sua composizione, dal titolo:
–
Ad alcuni piace la poesia
Ad alcuni –
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.
Piace –
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.
La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.
Wislawa Szymborska, Premio Nobel per la letteratura, lo ammette. Non lo sa. Non sa cosa è la poesia. Tanto meno, dunque, a cosa serve. Meno che meno, possiamo supporre, a che possa servire in azienda. Non fa parte della schiera di “esperti” che, come scrive Francesco Varanini a margine della sua raccolta di poesie L’irresistibile ascesa del direttore marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, vorrebbero fare sapere agli altri “meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro”. E neppure di sicuro è fra coloro che “in base alla propria qualifica, o magari ad una semplice autocertificazione, ci offre il suo aiuto (naturalmente al giusto prezzo) per farci da guida nelle oscure segrete della nostra anima” (Zygmut Bauman).
Mentre invece rappresenta un ottimo esempio del vero poeta, che non accetta di ingabbiare l’esistente in un ordine dato: la poesia va alla ricerca degli infiniti percorsi che l’impermanenza della realtà rende possibile tracciare. Un’altra poetessa, Emily Dickinson, così esprime questa idea:
Nella prosa mi chiudono
come quando, bambina,
mi chiudevano dentro lo stanzino,
perché volevano stessi “tranquilla”.
Tranquilla! Avessero potuto sbirciare,
vedere la mia mente che frullava,
tanto sarebbe valso rinchiudere un uccello,
per tradimento, dietro uno steccato.
“Oh, oh, la poesia in azienda non solo è inutile: è pericolosa!”, osserverà lo scientific manager dedito al culto della pianificazione burocratica e del controllo rigido, invece che alla riflessione sui fini da perseguire, all’esplorazione delle potenzialità dell’impresa e alla ricognizione dei mezzi necessari per tradurle in atto, al rafforzamento di una leadership flessibilmente disposta a percorrere le imprevedibili biforcazioni dei sentieri che si snodano nel giardino del futuro (a rischio di spingersi là dove tutti i percorsi, segnati sopra il rigoglioso verde in forma d’ingegnosi labirinti, sono cancellati, o perché da tempo immemorabile non più calcati da alcun piede, o perché vergini).
Risposta: certamente è così, se è la stabilità ciò che si vuole preservare, dei campioni della quale la nostra poetessa ha già scritto l’epitaffio: Ogni loro previsione è andata in modo totalmente diverso/o un po’ diverso, il che significa anche totalmente diverso (Le lettere dei morti). Ma se è la creatività, l’innovazione, il coraggio di svelare le ipocrisie dell’organizzazione presente per edificarne una più forte e rivolta al futuro, fondata su trasparenza, fiducia e attenzione reciproca dell’uno per l’altro, ovvero convivialità; se è questo ciò che serve, l’immissione di dosi massicce di poesia in azienda diviene l’unica salvezza.
Quando scrive: Ho toccato il mondo come una cornice intagliata, sembra che Szymborska alluda alla teoria del frame di Erving Goffman (lo stesso cha ha lavorato anche sul concetto di Mondo Vitale), secondo cui la realtà non è unitaria, ma è costituita da un complesso di cornici (frames) innestate una sull’altra: non esiste quindi alcuna “verità vera”, ma solo interpretazioni che sono valide per ciascun individuo. Si tratta di un’illazione destituita di fondamento; eppure l’associazione è rafforzata dall’esame della composizione poetica in cui ci si domanda, come in un gioco di specchi o labirinto borgesiano, cosa la poesia sia. La sua articolazione tripartita adotta la medesima modalità con cui ci viene insegnato da bambini a fare l’analisi logica e grammaticale (classificando le varie parole, assegnando ciascuna di esse a una delle nove parti del discorso, indicando, per ogni parola così classificata, tutte le caratteristiche morfologiche, come genere, numero, tipo). Cosa c’è di più facile? Per noi adulti, almeno, provvisti di una normale istruzione scolastica. Eppure, se ci cimentiamo nell’esercizio proposto dalla professoressa Szymborska, facciamo una scoperta vertiginosa: ciascuno dei termini, che sembrano rimandare a definizioni inequivocabili nel quadro di una frase scontata, di un luogo comune (ad alcuni piace la poesia), è carico di ambiguità.
Alcuni. Pronome. Maschile. Plurale. Il singolare è proprio del linguaggio arcaico e oggi in sua vece si preferisce la forma “qualcuno”. Benissimo. All’apparenza. Ma, in pratica, questi “alcuni” quanti (e chi) diavolo sono? Non tutti, il che non ci aiuta molto; non la maggioranza bensì una non meglio identificata minoranza; saranno almeno due su mille? …forse! Meglio passare al verbo: piace. Terza persona singolare del verbo piacere. Non ci si può sbagliare, per quanto si tratti di un verbo subdolo, intransitivo ed irregolare. Ma cosa significa, piacere? Per il vocabolario, innanzitutto, “recare diletto ai sensi” o “appagare il senso estetico”. Sì, ma il conforto procurato da una pasta in brodo è diverso dalla protezione che una vecchia sciarpa offre contro il gelo (proveniente dall’esterno o dall’interno, come sa bene Linus, benché lui preferisca una coperta): tanto meno è assimilabile alla sensazione piacevole provocata dalla visione del colore azzurro. A meno che abbia ragione Paolo Conte quando mette insieme tutte queste cose: “Entra e fatti un bagno caldo/c’è un accappatoio azzurro/fuori piove, è un mondo freddo…. (Via con me)”. E’ sempre il vocabolario, inoltre, ad insegnarci che “piacere” può significare “incontrare il consenso, l’approvazione altrui, specificamente sul piano morale”. Okey, però il consenso che scaturisce dalla competizione vittoriosa fra uomini lupi di altri uomini ha un carattere ben diverso da quello generato dall’empatia che proviamo verso altri esseri viventi, siano essi persone o animali (piace accarezzare un cane); ed è ancora differente dall’approvazione espressa dall’adulazione (piacciono i complimenti), contro la quale non si stanca di ammonirci Shakespeare. Niente da fare, ne sappiamo quanto prima.
Ed infine il soggetto, la poesia: chi può dire che cosa è? Nessuno: perché la poesia, come la vita, è inafferrabile, se ci si illude di racchiuderla in una frase, in un significato precostituito o, come fa lo scientific manager, in una formula. Ha scritto Borges: “Non possiamo definirla proprio come non possiamo definire il gusto del caffè, il colore rosso o l’amore per il nostro paese. Sono cose così profonde dentro di noi, che possono essere espresse solo da quei simboli comuni che tutti condividiamo”. La difficoltà è tale, che se ne può forse venire a capo solo seguendo Hans Magnus Enzensberger, quando indica queste Opzioni per un poeta:
Dire la stessa cosa con altre parole,
ma sempre la stessa.
Con sempre le stesse parole
dire una cosa tutta diversa
o in modo diverso la stessa.
Oppure tacere in modo eloquente.
La poesia rivela o occulta? Se la seconda fosse l’opzione corretta, gli scientific manager allevati alla scuola del largo consumo…di risorse umane (che spesso è, direbbe Montale, uno scialo vano, più che crudele) potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Chi meglio di questi tecnocrati, heidegerriani chiacchieroni, usa le parole, persino inconsapevolmente, non per rivelare o costruire, ma per contrastare l’emergere di qualsiasi significato, che non sia quello pre-determinato, assoluto, immodificabile (o ritenuto tale) imposto dall’alto? Per usare un riferimento biblico che piacerebbe a Szymborska e ricordato da Bauman (che lo riprende da Nigel Thrift, il quale a sua volta cita Kenneth Jowith), essi agiscono ancora nell’ottica del “discorso di Giosuè”, per cui il mondo è ”centralmente organizzato, rigidamente delimitato e istericamente ossessionato dal creare confini impenetrabili”. Allo stesso modo Francesco Varanini, nel suo contributo al Manifesto dello humanistic management, cita una fonte biblica, il libro di Neemia, che “incide indelebilmente nella nostra mente questa scena: Esdra, il sacerdote, il ‘commissario ecclesiastico di Gerusalemme’, ritornato dall’esilio a Babilionia, in alto sul palco; accanto a lui schierati i rappresentanti del potere temporale. Nell’esilio Esdra aveva riscritto a suo modo la Parola, il vecchio Libro della legge, espungendo, sottolineando, censurando. Ora la folla lo ascolta. Lui parla come se possedesse la verità. Il popolo conosceva la propria storia, la conosceva a memoria. Non solo l’aveva vissuta, ma l’aveva creata in quanto opera letteraria, storia orale. Ma ora di questa storia, espropriata, conta solo la versione ufficiale, ri-scritta e poi letta dall’alto dal sacerdote.” Così lo scientific manager si comporta nelle organizzazioni attuali: “Immaginate di partecipare alla tradizionale Convention annuale. Sono invitati tutti i dipendenti. In un teatro, o nella sala convegni di un albergo, tutti sono stati riuniti per essere informati ufficialmente dell’andamento dell’anno appena chiuso, e per ricevere dal vertice aziendale messaggi in merito al futuro che li attende. Parlano il Presidente, l’Amministratore Delegato, il Direttore Generale, i Direttori di Divisione. Sono tutti schierati sul tavolo coperto di panno verde, in alto sulla pedana, ognuno con davanti il suo microfono e il suo cartellino con il nome. Non che ce ne sia bisogno. La folla conosce a memoria i loro nomi. Ma i simboli – metafore della distanza, della superiorità, del possesso della verità – contano. Come per Esdra e per Neemia e per gli altri esponenti del potere sulla tribuna di legno. Non c’è nessuna differenza.”
Si tratta tuttavia di un approccio che la natura della società contemporanea -prismatica, molteplice, liquida, inafferrabile – determinata, in particolare, dall’affermazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, rende del tutto illusorio. In azienda, la massiccia introduzione di strumenti informatici web-based ha costituito un punto di non ritorno, poiché consentono forme di conoscenza della realtà non più sequenziali, razionalmente ordinate e del tutto coerenti. La multimedialità, l’ipertestualità, il social networking, le diverse possibilità di interazione tra chi ascolta e chi racconta permettono a tutti noi di indagare la complessità in cui siamo immersi. Complessità intesa proprio come l’impossibilità per ogni sistema formale (dunque scientifico) di cogliere in modo adeguato tutte le proprietà del mondo reale. Non c’è analisi grammaticale che tenga. Platone nel Politico così descrive lo iato esistente fra la “realtà” e la sua rappresentazione simbolica: “E’ impossibile, per ciò che è del tutto semplice, adattarsi a ciò che non è mai semplice”.
E qui cadono gli attuali epigoni del taylorismo: essi non sanno sciogliere paradossi e ambiguità derivanti dall’incertezza, dal cambiamento continuo, dallo spazio esistente fra legge astratta e realtà concreta di quel “mondo vitale” che è l’azienda. Finiscono per cadere preda della mania di Bartlebooth (uno dei protagonisti del romanzo di Georges Perec La vita istruzioni per l’uso), che sceglie “di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo (…), di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile (…), di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé”. Per dieci anni, impara l’arte dell’acquerello; nel corso dei successivi venti, viaggia per il mondo dipingendo su fogli di carta Whatman ogni quindici giorni una “marina” e spedendo poi il quadro ad un artigiano specializzato il quale, dopo aver incollato l’acquerello su di una tavola di legno, lo scompone in un puzzle di 750 pezzi; nei vent’anni successivi, tornato in Francia, Bartlebooth rimette insieme, di nuovo uno ogni quindici giorni e nell’ordine nel quale sono stati creati, i puzzle: i quadri, ricomposti come fossero i dipinti originari grazie ad una sostanza speciale, sono rispediti nei luoghi nei quali erano stati dipinti e quindi immersi “in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto. Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore”.
Come accade a molti manager, il delirio di onnipotenza legato all’illusione di potere controllare tutto (un tutto troppo trasparente e arrogante, Il melo), o anche una parte del tutto – un progetto, un programma, un insieme di attività magari finalizzate al perseguimento di obiettivi assolutamente inessenziali, come quelli di Bartlebooth – si dimostra tale. L’ultimo capitolo del libro ce lo mostra morto: tra le mani ha la sagoma di un pezzo a forma di W, mentre il vuoto dell’unico pezzo mancante del suo quattrocentotrentanovesimo puzzle (che “raffigura un piccolo porto dei Dardanelli vicino alla foce di quel fiume che gli antichi chiamavano Maiandros, Meandro”) disegna la forma di una X, segno di un’impossibile perfezione. Ma Bartlebooth è sconfitto non solo perché muore prima di ricomporre l’ultimo puzzle: il suo proposito è incrinato dall’irruzione della realtà, sotto forma di mille imprevisti che impediscono il compimento del suo programma. Il disegno astratto della regola viene corrotto dal contatto con le dinamiche del reale, evidenziando l’inconciliabilità, conclude Perec, “tra la vita e le istruzioni per l’uso, tra la regola del gioco che ci fissiamo e il parossismo della vita reale che sommerge, che distrugge continuamente questo lavoro di riordinamento”.
La capacità manageriale per eccellenza oggi consiste allora nel sapere descrivere, ridefinire, reinventare in maniera costante il proprio mercato, il proprio business, il proprio modello organizzativo, tenendo sempre aperti gli occhi sulle imperfezioni della realtà, mai completamente afferrabile ed esprimibile, come già aveva visto ancora una volta Platone (Settima Lettera). Una competenza letteralmente “poetica”, se si considera che, etimologicamente, “poesia” deriva dal verbo greco poiein, che ha il significato di ‘fare’, ‘creare’. Ne deriva che la poesia ha insito un carattere operativo; l’atto poetico è innanzitutto un atto creativo, inconciliabile però con ogni fordismo. Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine, dice Szymborska in Possibilità. Ed è naturale, poiché il discorso di Giosuè, spiega Bauman, è antitetico al “discorso della Genesi”, il discorso della creazione e della creatività: “laddove nel discorso di Giosuè l’ordine è la regola e il disordine un’eccezione, nel discorso della Genesi il disordine è la regola e l’ordine è un’eccezione”. “Sul poeta”, aggiunge la poetessa polacca, “l’interpretazione scientifica del mondo non esercita alcuna influenza. E’ un animista, un feticista che crede nelle forze segrete che sonnecchiano in ogni cosa, ed è convinto che con l’aiuto di parole opportunamente scelte riuscirà a risvegliarle. Il poeta può anche aver conseguito sette lauree, ma nel momento in cui si mette a scrivere versi l’uniforme del razionalismo comincia a stargli stretta. Ecco che allora si agita, sbuffa, slaccia un bottone dopo l’altro, finché alla fine non salta fuori dal suo vestitino, mostrandosi a tutti come un selvaggio ignudo e con l’anello al naso. Sì, proprio un selvaggio, come chiamare altrimenti una persona che chiacchiera in versi con i morti e i non nati, con gli alberi, gli uccelli e perfino con una lampada o la gamba del tavolo, senza ritenere tutto ciò un’idiozia?”
Vinse il Nobel con la grazia e l’ironia
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Wislawa Szymborska usava il verso libero e sapeva cogliere nelle piccole cose il miracolo dell’esistenza. La grande scrittrice polacca aveva vinto il celebre premio nel 1996
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di FRANCO MARCOALDI
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Il premio Nobel per la letteratura Wislawa Szymborska – nata nel 1923 a Kornik (Polonia) e morta ieri a Cracovia all’età di 88 anni – aveva pensato per tempo al suo epitaffio, scritto naturalmente in versi: “Qui giace come virgola antiquata/l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata/dell’eterno riposo, sebbene la defunta/dai gruppi letterari stesse ben distante./E anche sulla tomba di meglio non c’è niente/di queste poche rime, d’un gufo e la bardana./Estrai dalla borsa il tuo personal, passante,/e sulla sorte di Szymborska medita un istante”.
La poesia Epitaffio compare nella raccolta Sale, che è del lontano 1962. Ma i tratti più tipici della sua poetica ci sono già tutti: grande sense of humour, diffidenza verso l’appartenenza a scuole e gruppi letterari, frequente ricorso a tonalità basse, in sordina. Il tutto al servizio di una scrittura che sarà sempre tesa a risvegliarci dal torpore in cui cadiamo di continuo, mentre basterebbe tenere gli occhi aperti per cogliere i mille miracoli dell’esistenza: una nube che passa, un cane che chiede una carezza, l’incontro con un vecchio professore.
Quanto a lei, Wislawa, riusciva a compiere il proprio miracolo grazie all’improvvisa accelerazione di immagini e domande che affollano ogni sua lirica, sì che nello spazio di pochi versi un evento qualsiasi spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita. Affrontate sempre con semplicità, nitore e una paradossale congiunzione di “incanto e disperazione”.
Ecco spiegata così la grande popolarità della signora di Cracovia, il fatto che le sue letture in giro per il mondo fossero affollate, lo hanno detto in tanti, come ‘i concerti delle rockstar’. Ed ecco spiegato perché le edizioni dei suoi versi si siano moltiplicate anno dopo anno. Anche qui da noi, in Italia, per merito del suo massimo esegeta e traduttore, Pietro Marchesani (anche lui, ahimé, recentemente scomparso) che le ha curate tanto per Adelphi quanto per Scheiwiller.
Né meno originale è la sua opera in prosa: cinque volumi di Letture facolative, recensioni sui generis attorno a libri sui generis (di giardinaggio, memorialistica, economia domestica); oltre a un libro di Posta letteraria, titolo della rubrica in cui per lunghe stagioni ha distribuito spassosi e puntualissimi consigli a poeti e scrittori in erba. Spesso e volentieri invitati a soprassedere su una malposta vocazione letteraria. E a dedicarsi piuttosto a un’altra attività non meno gratificante: la lettura.
Ancora, di Szymborska si sapeva che venerava il riserbo, che giocava con le parole (era abilissima nei non sense e nei limerick), che adorava il collezionismo e gli animali. Infine amava Mark Twain, Fellini, Thomas Mann e Vermeer, al quale aveva dedicato nell’ultima raccolta una piccola, straordinaria poesia dalla quale traspariva il medesimo senso di sospeso raccoglimento, di quieto e abbacinante silenzio, intriso di quotidiana metafisica.
Col passare del tempo, il tratto congetturale e ipotetico dei suoi versi si era andato accentuando, mentre tornavano e ritornavano quelle due parolette “non so”, attorno a cui già ruotava l’indimenticabile discorso di investitura al Nobel. Più si procede nella vita, sosteneva la signora di Cracovia, più crescono le domande e si offuscano le risposte: realtà e sogno si intrecciano in modo inestricabile, mentre il tempo si dilata e si rapprende a suo piacimento. I titoli delle ultime raccolte, in tal senso, non sono casuali: Attimo, Due punti, Qui. Titoli sempre più brevi, sempre più semplici, sempre più icastici, legati tra loro giust’appunto dal problema del tempo; nella duplice ossessione dell’eterno ritorno e dell’intrinseca caducità di un’esperienza unica e irredimibile: “Non c’è giorno che ritorni, non due notti uguali uguali/, né due baci somiglianti/, né due sguardi tali e quali”.
L’uomo è ‘un essere temporale’, che legge la sua vita e quella del mondo attraverso la successione dei momenti, ma proprio perciò è impossibilitato a sprofondare nel momento, a vivere interamente ogni singolo istante, stretto com’è tra il ricordo del passato e l’attesa del futuro: “Perché tu, malvagia ora/dai paura e incertezza?/ Ci sei – perciò devi passare/. Passerai – e qui sta la bellezza”.
Ecco, credo che il grande amore di Szymborska per gli animali nascesse proprio da qui. Da un sentimento di ammirazione, anzi di invidia, verso quelle creature che non vivono, come noi, attraverso il momento, ma nel momento. E solo in quello. E perciò non conoscono ambivalenza, calcolo, trucchi, trappole. E hanno di conseguenza “la coscienza pulita”.
A ben pensarci i poeti sono – tra gli umani – coloro che più si avvicinano agli animali. Non perché abbiano la coscienza pulita. Ma perché regolano i loro atti e la loro scrittura sulla base di una forma di intelligenza sensibile, piuttosto che analitica e razionale, e perché il loro cruccio è proprio quello di inseguire l’attimo fuggevole, il qui e ora dello stato presente, l’apertura impregiudicata legata al segno dei due punti.
Far propria questa postura significa privilegiare l’atto gratuito rispetto a ogni strategia utilitaristica, l’incessante metamorfosi alla fissa identità, l’incertezza a ogni tentativo di rigida (quanto vacua) tassonomia del reale, la singolarità dell’esperienza rispetto alla logica dei grandi numeri. Significa, almeno nel caso della signora di Cracovia, abbandonarsi a un modo di vedere le cose che induce “a immaginare l’inimmaginabile”.
E difatti le strade intraprese nelle sue liriche sono immancabilmente sghembe, labirintiche, imprevedibili. Così Wislawa si stupisce di essere “in una casa e non nel nido”, di essere ricoperta “di pelle e non di squame”. Se deve raccontare la morte del proprio compagno, lo farà assumendo il punto di vista del gatto di casa. Volendo descrivere una cipolla, vestirà i panni di quel bulbo precipitando fino alla “cipollità”. E altrettanto farà per descrivere le virtù di un farmaco tranquillante: “So come trattare l’infelicità/come sopportare una cattiva notizia/ridurre l’ingiustizia/, rischiarare l’assenza di Dio/scegliere un bel cappellino da lutto/. Che cosa aspetti -/ fidati della pietà chimica!”.
Il costante ‘senso di stupore’ (che ci fa sentire vivi) e ‘l’inclinazione a confrontarè (la caratteristica migliore dell’essere umano) si possono applicare – ci ha insegnato la grandissima polacca – anche a questioni apparentemente marginali. Perché qualunque argomento, dal più ordinario al più tragico, può essere condensato in una successione di versi. L’importante è come lo si fa, e nel come la Nostra era un’inarrivabile maestra: scetticismo, sobrietà e precisione si fondevano in una lingua colloquiale capace però di rovesciare costantemente i luoghi comuni. Un gusto sopraffino per il gioco linguistico, un sorvegliatissimo controllo delle metafore, l’innata predisposizione al ritmo e un’ironia compassionevole che teneva costantemente a bada il rischio del pathos, facevano il resto. Sicché tutta la sua poesia, da ultimo, può essere letta sotto il marchio della “naturalezza”.
Quanto lavoro però, per raggiungere quel mirabile distillato di immagini e pensieri in forma poetica. Per questo Szymborska avrebbe potuto far sue le parole dell’amato Thomas Mann, tanto più vere nei nostri magri giorni: “Gli unici a fare fatica nello scrivere i libri sono gli scrittori”.
(02 febbraio 2012)
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/02/02/news/vinse_il_nobel_con_la_grazia_e_l_ironia-29193726/
LA STAMPA
02/02/2012 –
Addio alla Wislawa Szymborska poetessa testimone del presente
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di MARIO BAUDINO
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Nel discorso di accettazione per il premio Nobel, Wislawa Szymborska spiegò che cosa intendeva lei per «poeta»; un essere semiclandestino, inafferrabile, e proprio per questo, forse, insostituibile. Il poeta odierno, diceva, «è scettico e diffidente… nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta, quasi se ne vergognasse un po’»: perché non ci sono «professori di poesia», perché «il loro lavoro non è per nulla fotogenico», ma soprattutto perché i poeti posseggono due parolette: «non so». E’ morta ieri a Cracovia, a 88 anni. Era nata nel 1923 a Kornik, cittadina vicino a Poznan, e ha trascorso una lunga vita lontano dai riflettori. Sostanzialmente, scrivendo poesie. Minuta, i capelli candidi, il volto aguzzo e sorridente, l’abbiamo vista qualche volta in Italia, per esempio alla Fiera del libro di Torino. Non amava particolarmente i discorsi in pubblico
La sua vita è stata forgiata dalle iniziali speranze per il comunismo alle precoci disillusioni, vivendo di nulla, per esempio di rubriche su un giornale che l’aveva licenziata quando lei stracciò la tessera del partito, standosene il più possibile appartata e riuscendo tuttavia a pubblicare le sue raccolte di versi. La sua non è una battaglia politica in senso stretto, nell’Europa dell’Est prima dell’89. E’ semmai una testimonianza. Appartiene alla generazione dell’esilio interno, come il praghese Holan o l’ungherese Kertész, Quando nel ‘96 ha ricevuto il Nobel, ha distribuito in aiuti e beneficenza il premio in denaro e da Cracovia si è trasferita a Zakopane, per difendersi dalla notorietà. In quel momento era già tradotta nelle principali lingue, anche in Italia da Scheiwiller, ma non era affatto nota. La prima volta in cui il suo nome era risuonato in Italia risale però al 1988, quando, ancora a Torino, un altro Nobel, il poeta russo esiliato in America Josif Brodskij, parlò di lei come di una delle grandi voci poetiche del Novecento non soltanto polacco (in Russia l’aveva tradotta l’Achmatova nel 1966). Poi la pubblicazione della raccolta Vista con granello di sabbia per Adelphi l’ha fatta diventare anche da noi un autore molto amato.
La sua poesia, in apparenza semplicissima, è in realtà insidiosa, niente affatto tranquillizzante. Antiplatonica, non crede in un mondo immutabile delle idee, anzi ad ogni verso ne svela l’inganno. La nostra esistenza, scrive, «è benvenuto e addio in un solo sguardo»: ci salva la meraviglia davanti alla realtà, il poter dire «tutto è mio, niente mi appartiene». Nel passaggio stretto della vita c’è una possibilità: la bellezza che va oltre il male, oltre la fine – ingiusta – della vita stessa. Sempre nel discorso del Nobel, aveva evocato l’intero universo, con le sue distanze abissali, le stelle infinitamente lontane, i pianeti «già morti o ancora morti», per ricordare che «il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da alcun paragone con alcunché, e poi perché il mondo, qualunque cosa ne pensiamo, questo smisurato mondo è stupefacente».
Si è parlato per lei di una sorta di «addomesticamento della morte». Una delle sue metafore preferite è quella delle nuvole, eternamente mutevoli e imprevedibili. «Non c’è vita/ che possa essere immortale/ se non per un momento». Parla del presente, tutto il resto è ipotesi, ricostruita dal passato o proiettata sul futuro. E lo fa con una dolcezza ironica.
La sua poesia «post-ideologica» ci parla dello stupore: il mondo non è affatto ovvio, si tratta di vedere i «miracoli», soprattutto quelli «alla buona», in base ai quali, per esempio, «le mucche sono mucche» e la frutta matura nel frutteto. Tra i suoi ammiratori il regista turco (e italiano) Ferzan Ozpetek ha raccontato una volta come il primo incontro con i suoi versi corrispose anche, magicamente, all’anteprima del suo film d’esordio, Il bagno turco «Quello che la Szymborska vuole salvare dal diluvio – dice il suo traduttore Piero Marchesani – non sono le grandi cose o i paroloni, ma «chiaroscuri e semitoni/ capricci, ornamenti e dettagli/ stupide eccezioni/ segni dimenticati innumerevoli varianti del grigio/ gioco per il gioco/ e lacrima del riso». La sua tranquilla e sorridente sapienza stoica può stare in un solo verso: «Tutto è mio, niente mi appartiene».
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/440866/
Sciltian Gastaldi su Il Fatto Quotidiano
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Szymborska, la poetica dell’ironia e della realtà “Morire – questo a un gatto non si fa. / Perché cosa può fare il gatto / in un appartamento vuoto? / Arrampicarsi sulle pareti. / Strofinarsi tra i mobili. / Qui niente sembra cambiato, / eppure tutto è mutato. / Niente sembra spostato, / eppure tutto è fuori posto. / E la sera la lampada non brilla più.”
I poeti non dovrebbero morire. Non solo per rispetto dei loro gatti, come suggeriva beffarda Wisława Szymborska, ma per rispetto dei loro lettori, occhiuti e nasuti amanti di versi sempre troppo personali. La gran dama della poesia contemporanea è morta nel sonno, a 88 anni, nella sua bella casa di Cracovia odorosa di migliaia di buoni libri. Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996, se n’è andata così “tranquillamente” come ha annunciato il suo assistente Michal Rusinek all’agenzia stampa polacca.
E’ morta nel modo che tutti immaginiamo migliore: quasi novantenne, nel sonno, senza soffrire. In questo sembra quasi che la morte, offesa da quei versi ironici di quel suo altro capolavoro “Sulla morte, senza esagerare“, in cui Szymborska alzava scettica il suo sopracciglio sulle capacità della commare secca e le stigmatizzava con queste parole: “Occupata a uccidere / lo fa in modo maldestro / senza metodo né abilità. / Come se con ognuno di noi stesse imparando” abbia voluto offrire alla più grande poetessa contemporanea una partita a scacchi da finire pari e patta, regalandole appunto l’uscita di scena migliore possibile: soffice, silenziosa, priva di dolore, rapida, in tarda età e dopo un Nobel. Una meraviglia. Una meraviglia?
Il comitato che assegnò a Szymborska il più importante riconoscimento culturale del mondo scrisse nella motivazione che il Premio Nobel le veniva assegnato “per aver creato della poesia che tramite ironica precisione permette di mettere in luce il contesto storico e biologico in frammenti di realtà umana.” E penso che i due frammenti adoperati per questo articolo rispecchino fedelmente le motivazioni del Comitato per il Nobel.
Nata a Prowent (oggi Kórnik, nella Polonia occidentale) il 2 luglio 1923, Szymborska si trasferisce nel 1931 a Cracovia, dove ha affrontato l’occupazione tedesca e poi la sovietizzazione. Sotto Hitler ha frequentato clandestinamente le scuole; sotto Stalin ha provato a pubblicare la sua prima raccolta di poesie, del 1948, che le fu però censurata in quanto non in linea con lo zdanovismo e il realismo socialista. Nonostante questo rifiuto, nel 1952 si iscrive al Partito comunista e aderisce ai canoni estetici imposti dal regime. Sono anni in cui la sua produzione cerca di legarsi maggiormente alle tematiche socio-politiche dell’epoca, con poesie come “A chi entra nel partito” e “Quel giorno” in occasione della morte di Stalin. I fatti di Praga segnano la rottura fra l’intellettuale e il Partito comunista, in solidarietà con l’amico Leszek Kołakowski, filosofo e storico delle idee polacco ostracizzato dalle autorità comuniste. Szymborska si schiera dalla parte del dissidente e perde tutti i privilegi acquisiti fino ad allora nella sua carriera, a cominciare dalla direzione della rivista Zycie Literackie “Vita Letteraria”, che ricopriva dal 1953. Dopo un primo matrimonio con il critico Adam Włodek, durato appena sei anni (1948-54), nel 1967 si risposa con lo scrittore Kornel Filipowicz, con cui rimane fino alla sua morte, nel 1990.
La poetica di Szymborska, almeno a partire dal 1957, vira per una visionarietà onirica che pare sempre voler giocare e mai prendersi troppo sul serio (“Le due scimmie di Bruegel”). E l’ironia rimane la cifra della sua produzione, un’ironia a volte esplicita, altre nascosta, ma sempre in grado di invertire l’ordine delle riflessioni comuni (“Lode alla cattiva coscienza di sé”, “Uno spasso”) e di alleggerire, beffarsi delle situazioni più penose (appunto “Sulla morte, senza esagerare”). L’ironia di Szymborska si prende gioco di tutto, soprattutto dei sentimenti e delle emozioni forti, ma tenendo sempre a bada il facile cinismo (“Un amore felice“). L’osservazione minuta della dura realtà in grado di ribellarsi e diventare prospettiva universale delle cose (“Scrivere il curriculum”, “Vista con granello di sabbia”, “La realtà esige”).
Szymborska era una di quelle penne inesauribili, troppo colme di talento per consentirsi una produzione stitica. Dodici raccolte di poesie pubblicate, centinaia di articoli sulla stampa di mezzo mondo, tradotti in decine di lingue sugli argomenti più disparati che possiate immaginare, traduzioni di poeti francesi, migliaia di aforismi. Non aveva certo timore di essere se stessa, davanti al foglio bianco, e ha lavorato fino all’ultimo giorno di vita, come testimoniato dalla sua ultima raccolta di poesie, che uscirà postuma alla fine del 2012, secondo quanto dichiarato sempre dall’assistente Resnik alla televisione polacca secondo la Associated Press.
Come affermò lei stessa, nel discorso di accettazione del premio Nobel: “Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse soprattutto – nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta – quasi se ne vergognasse un po’. Ma nella nostra società chiassosa è molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, ed è molto più difficile ammettere le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo. In questionari o conversazioni occasionali, quando il poeta deve proprio definire la sua occupazione, egli indica un generico “letterato” o nomina l’altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che fare con un ‘poeta’ viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri sull’autobus con una leggera incredulità e inquietudine“.
Da stasera la lampada di Wisława Szymborska non brilla più. A noi gatti – e a noi lettori – non rimane che arrampicarci sulle pareti della sua poesia e ricominciare a leggerla, in modo che quella sua luce brilli fino all’esaurirsi della nostra luce.
(02/2/2012)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/02/szymborska-ironia-frammenti-realta/188414/
L’Unità
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Addio alla Szymborska, poetessa dell’ironia: «Poeti? Non da film»
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La poetessa polacca Wisława Szymborska, vincitrice a sorpresa del premio Nobel nel 1996, è morta ieri nella sua Cracovia a 91 anni. Autrice di una poesia apparentemente rivolta tutta al quotidiano ma con scarti e immagini in grado di sorprendere e in liriche dal ritmo impeccabile, aveva tra le sue cifre l’ironia verso il mondo, se stessa, i poeti stessi. Un passaggio del suo discorso di ringraziamento per il Nobel sintetizza con efficacia il suo humour: fare film sui poeti è difficile, il loro lavoro non è “fotogenico. Qualcuno sta al tavolo o su un sofa mentre guarda un muro o il soffitto. Ogni tanto butta giù sette righe per cancellarne una 15 minuti dopo e poi passa un’altra ora dove non succede niente. Chi reggerebbe a guardare questa cosa?”. Chiosando su di sé: «Il poeta di oggi è scettico e non si fida: quando scrivo ho sempre la sensazione che dietro di me ci sia qualcuno che legge e mi prende in giro, per questo evito più che posso le parole troppo altisonanti».
L’humor tra l’altro non le è mai venuto meno. E il riconoscimento non ha affatto affievolito la sua vena poetica, come talvolta accade ai premiati. Piuttosto l’ha fatta conoscere fuori dal mondo slavo, anche ai non addetti ai lavori, ha rivelato a chi non la conosceva una donna capacissima di tenere l’attenzione del pubblico durante le letture e una letterata che non temeva di cimentarsi con ogni genere d’argomento se lo riteneva illuminante per la sua poesia. Coglieva dettagli nel quotidiano e non a caso biografi e critici citano le sue esperienze in apparenza eterodosse come l’aver curato a lungo, con la massima precisione e passione, rubriche di vario tipo, anche sul giardinaggio.
Nata a Kórnik il 2 luglio 1923, in grado di vendere molte copie tanto da farla scrivere ironizzando nella lirica “Ad alcuni piace la poesia” scrivendo “che la poesia piace a non più di due persone su mille”. Maestra del paradosso, di una poesia breve ed efficace, umanamente e filosoficamente profonda, Szymborska, ha attraversato il ‘900 con la Seconda guerra mondiale, la dittatura, i tormenti della Storia, con la capacità di non venirne travolta.
Nel dopoguerra, dopo un primo libro bocciato dalla censura perché non rispondeva ai principi socialisti, nel 1949, aderì al Partito operaio unito polacco fino al 1960, definendo successivamente un «peccato di gioventù» le prime raccolte del 1952 e del 1954. Redattrice dal 1953 al 1966 del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al 1981, nel 1957 la raccolta “Appello allo Yeti” le dette il successo letterario. E si distanziò nettamente dall’ideologia ufficiale. Per l’Italia il suo traduttore principale è il da poco scomparso Pietro Marchesani.
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02/2/2012
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http://www.unita.it/culture/addio-alla-szymborska-poetessa-br-dell-ironia-e-della-profondita-1.377968
Morta la poetessa Szymborska, lucidissima ed ironica interprete della realtà
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Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
(da Nulla è in regalo! 1998)
Ha pagato il suo debito con l’esistenza, mercoledì scorso, Wisława Szymborska, poetessa. Aveva 88 anni, si è spenta nella sua Cracovia (vi si era trasferita con la sua famiglia a soli 8 anni e non l’ha mai lasciata).
Poetessa semi sconosciuta in Italia (anche se bisogna sottolineare la prestigiosa e appassionata traduzione di Pietro Marchesani) Wisława Szymborska era in Polonia una scrittrice di culto, quasi pop se si pensa alla diffusione che hanno avuto, ed hanno, le sue liriche che raggiungono in maniera assolutamente trasversale lettori di ogni formazione e condizione sociale; è questo uno dei punti di forza e maggiore brillantezza dei suoi versi, un linguaggio semplice (a volte semplicissimo), carico di ironia, che non esprime sentenze, non giudica, ma suggerisce interpretazioni e sguardi “di sbiego” sulla realtà.
Una realtà che è sempre pretesto per evasioni metaforiche, che è contemporaneamente cornice e oggetto della poesia: Wisława Szymborska ai capziosi ermetismi preferiva la leggerezza mimetica di parole “semplici” sapientemente scelte e giustapposte (più Saba che Montale, se si vuol fare un paragone nostrano):
Dopo ogni guerra
c’e’ chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’e’ chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
(da La fine e l’inizio)
Wisława Szymborska era una donna riservata, sobria, queste le sue parole in occasione del Nobel per la letteratura nel 1996:
Ai poeti piaceva stupire con un abbigliamento bizzarro e un comportamento eccentrico. Si trattava però sempre di uno spettacolo destinato al pubblico. Arrivava il momento in cui il poeta si chiudeva la porta alle spalle, si liberava di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimaneva in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perché, a dire il vero, solo questo conta.
Scrittrice “di mestiere” si dedicava con metodo e costanza alla pratica poetica:
Il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente. Perciò prova ancora una volta e un’altra ancora, finché gli storici della letteratura non legheranno insieme prove della sua insoddisfazione di sé, chiamandole “patrimonio artistico”.
Persona ironica e comprensiva, ma anche critico spietato se si tratta di letteratura, ad un suo lettore che le aveva inviato un manoscritto così rispose la poetessa di Cracovia: “Nei suoi racconti si sta stretti, si soffoca, non ci sono problemi. Non c’è una finestra sul mondo e quindi nessuna prospettiva potrà aprirsi allo sguardo. Non va affatto bene, in questo caso lo stile elegante non serve a niente”.
Sempre sincera, sempre diretta, sempre conscia del fatto che non esiste una verità, ma una pluralità di sguardi sul mondo, la Szymborska ha passato tutta la sua vita ad insegnarci che la poesia è un’interrogativo sull’esistenza, ma anche antidoto alla morte, ed in tale paradosso risiede il senso dell’immensa ricchezza che ci lascia:
La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi.
Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro,
e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male
ne sapevano poco, ma tutto:
quando il male trionfa, il bene si cela;
quando il bene si mostra, il male attende nascosto.
Nessuno dei due si può vincere
o allontanare a una distanza definitiva.
Ecco il perché d’una gioia sempre tinta di terrore,
d’una disperazione mai disgiunta da tacita speranza.
La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve.
Troppo breve per aggiungere qualcosa.
(da La breve vita dei nostri antenati)
http://www.agoravox.it/Morta-la-poetessa-Szymborska.html
Daniele Piccini su Famiglia Cristiana
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Szymborska, piccole cose grandi versi
Omaggio a Wisława Szymborska, l’autrice polacca vincitrice del Nobel per la letteratura nel 1996, scomparsa ieri all’età di 88 anni.
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Un universo comico e lieve. Versi occasionali sulla porta dell’invisibile
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02/02/2012
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Wisława Szymborska è scomparsa a 88 anni.
Wisława Szymborska ha fatto di tutto nella sua vita di scrittrice per incantare e alleggerire, per eludere i luoghi comuni e le ovvietà. La morte che l’ha colta a ottantotto anni era stata varie volte lambita, toccata, manomessa nei suoi versi: con leggerezza, con ironia e con la capacità di sorprendersi e sorprendere. Questo era il grande, raro dono (specie per una tradizione come quella italiana) della poetessa polacca (era nata vicino a Poznań nel 1923): usare del quotidiano, del comune, del noto come un grimaldello, come una quinta o un fondale all’improvviso spalancato su un brusio di voci, ipotesi, possibilità metafisiche; occuparsi della superficie e insieme della sostanza profonda, quasi senza parere, senza sforzo.
Chi ha letto anche solo qualche testo di questa raffinata e calibratissima autrice (la sua produzione non è stata particolarmente ricca, ma estremamente decantata) non può non aver tratto dai suoi versi un senso di delizia. Le cose del mondo, le cose usuali, i luoghi, i gesti, le specie animali, le situazioni diventano sulla sua pagina una sorta di universo comico e lieve, rivelatore e paradossale. Come un altro mondo, in cui il discorso sulla verità, mentre sembra negarsi, si avvera in un tono e con un andamento dimesso e piano. Molti dei suoi testi procedono non a caso secondo lo schema dell’elencazione, usando formule di ripetizione quasi litaniche, così radicate nel Dna della forma poetica.
La sua opera, dopo un paio di raccolte ancora in odore di ideologia comunista, aveva preso il volo a partire da Appello allo Yeti (1957), seguito da una serie di libri privi di sbavature, quasi perfetti nella loro esibita imperfezione: si tratta infatti di una poesia non altisonante, apparentemente semplice, anche se sostanziata di abilità tecnica e di mestiere. E di come scrivere (o non scrivere) si era occupata a lungo l’autrice, impegnata a redigere la rubrica per aspiranti scrittori di una rivista letteraria polacca. Fu il ruolo, quello di redattrice, più stabile e duraturo del suo curriculum, segnato per il resto, fin dal periodo degli studi, da irregolarità e precarietà. Anche quel posto, del resto, dovette infine lasciare nel 1966 per essersi allontanata dal Partito comunista polacco. A ripagarla di tutto giunse nel 1996 il premio Nobel per la letteratura, che la segnalò ai lettori di tutto il mondo. Da allora (ma già qualche mese prima una sua raccolta era stata pubblicata da Scheiwiller, a cura del benemerito Pietro Marchesani) è diventata una poetessa di culto anche in Italia: Paese che amava, ricambiata.
Daniele Piccini
http://www.famigliacristiana.it/costume-e-societa/cultura/letto/dossier/omaggio-alla-szymborska-potessa-delle-picole_020212124236.aspx
02/02/2012
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Spentasi a 88 anni Wisława Szymborska, celebre poetessa polacca, Nobel per la letteratura nel 1996
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Le biografie che la riguardano mettono tutte indistintamente in rilievo un tratto comune alla sua persona e alla sua arte: l’ironia. “La poesia non piace a più di due persone su mille” aveva osservato una volta proprio in uno dei suoi versi. Eppure Wisława Szymborska, premio Nobel per la Letteratura nel 1996, ha fatto della poesia una ragione di una lunga vita, spentasi ieri all’età di 88 anni, nella città da lei più amata e più vissuta, Cracovia. Il Nobel di 25 anni fa svelò al mondo il talento di una compositrice precoce, passata per la guerra, scampata alla deportazione, e poi inizialmente censurata dal regime socialista perché i suoi versi non erano intonati al sentire del potere. Più tardi, quel sentire diverrà materia di riflessione, e in qualche caso un tentativo di apologia, rigettato tuttavia come “peccato di gioventù” a metà del Novecento. Innumerevoli sono gli articoli, le recensioni, i saggi firmati su quotidiani e riviste letterarie dalla Szymborska, che conosce il primo, ampio successo nel 1957 quando pubblica la raccolta intitolata “Appello allo Yeti”. Attorno ai suoi versi si coagula negli anni una schiera di cultori e traduttori di varie nazionalità. A restituire in italiano la metrica e le sonorità dei versi della Szymborska sarà per molti anni Pietro Marchesani, ordinario di Letteratura e cultura polacca alla facoltà di Lingue dell’Università di Genova, scomparso nel novembre del 2011. Ma anche il Nobel Czesław Milosz ha dato un notevole contributo, non il solo, alla conoscenza delle opere della poetessa polacca in lingua inglese. “Per me – aveva osservato una volta la Szymborska – la poesia nasce dal silenzio”. E nel silenzio del sonno si è spento uno degli ingegni poetici del Novecento. Un’epoca della quale la poetessa scrisse un giorno: “Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo”.
(A cura di Alessandro De Carolis)
http://www.oecumene.radiovaticana.org/it1/articolo.asp?c=559810
L’ironia e la meraviglia attenta
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03-02-2012 di Stefano Redaelli
Fonte: Città Nuova
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È scomparsa ad ottantotto anni la poetessa Wislawa Szymborska premio Nobel per la letteratura nel 1996
L’aveva capito Josif Aleksandrovič Brodskij: la migliore poesia polacca del Novecento arriva dalla Polonia (non solo, evidentemente). Pensiamo a Czesław Miłosz, a Wisława Szymborska, premi Nobel per la Letteratura, rispettivamente nel 1980 e nel 1996 (come Brodskij nel 1987), ma anche a Zbigniew Herbert, a Jan Twardowski. Arriva e se ne va con la Szymborska, che si spegne a Cracovia all’età di ottantotto anni. Se ne va e resta con le sue opere tradotte e curate da Pietro Marchesani, illustre polonista, scomparso – anche lui – alcuni mesi fa.
L’aveva capito Vanni Scheiwiller, illuminato editore, pubblicando la prima raccolta della Szymborska in italiano nel 1993, La Fiera dei Miracoli (fuori commercio), e successivamente Gente sul ponte, nel 1996, pochi mesi prima che la poetessa ricevesse il Nobel. Scrittori, traduttori, editori «aprono una strada sulla neve vergine», diceva Varlam Šalamov, mentre i lettori possono usare “trattori e cavalli”. Così, il lettore italiano può percorrere i versi della Szymborska, soffermandosi sulla complessità della vita umana, poeticamente declinata con ironia, esattezza e semplicità. Come nella famosa poesia Scrivere il curriculum: “A prescindere da quanto si è vissuto/ è bene che il curriculum sia breve./ È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. /Cambiare paesaggi in indirizzi/ e malcerti ricordi in date fisse./ Di tutti gli amori basta quello coniugale, / e dei bambini solo quelli nati. / Conta di più chi ti conosce/ di chi conosci tu./ I viaggi solo se all’estero./ L’appartenenza a un che, ma senza perché./ Onorificenze senza motivazione./ Scrivi come se non parlassi mai con te stesso/ e ti evitassi.”
Ma più che l’ironia, con cui la Szymborska sottraeva peso al pathos, è lo stupore la sua principale cifra poetica, stupore che disarma e illumina lo sguardo sulle quotidiane meraviglie umane; una poesia tra tante, la bellissima Amore a prima vista: “Li stupirebbe molto sapere/ che già da parecchio/ il caso stava giocando con loro./ Non ancora del tutto pronto/ a mutarsi per loro in destino,/ li avvicinava, li allontanava,/ gli tagliava la strada/ e soffocando un risolino/ si scansava con un salto./ Vi furono segni, segnali,/ che importa se indecifrabili./ Forse tre anni fa/ o il martedì scorso/ una fogliolina volò via/ da una spalla all’altra?/ Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.”
È lecito chiedersi – con fiduciose aspettative – cosa fiorirà da un terreno così fecondo, nel nuovo secolo poetico polacco.
http://www.cittanuova.it/contenuto.php?TipoContenuto=web&idContenuto=333418
SZYMBORSKA/ Nel labirinto della vita non siamo noi a cercare l’uscita (Andrea Ceccherelli venerdì 3 febbraio 2012)
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Nel labirinto della vita non siamo noi a cercare l’uscita. È l’uscita che cerca noi. E questo labirinto “altro non è se non la tua, finché è possibile, la tua, finché è tua, fuga, fuga-”, scriveva in Labirinto Wislawa Szymborska, poetessa polacca, Nobel 1996, spentasi l’altroieri a Cracovia all’età di 88 anni.
Nel 1996 la Szymborska era da noi un’illustre sconosciuta. Oggi è un sorprendente fenomeno editoriale. Di recente il Corriere della Sera ha aperto la sua collana di poesia proprio con una sua raccolta; e il 27 marzo del 2009, nell’Aula Magna dell’Università di Bologna, c’erano 1500 persone a sentirla leggere le sue poesie. Chi non c’era guardi le immagini dell’evento in rete, su Tv book. Mai, neppure in Polonia, una sua lettura poetica si era svolta dinanzi a un pubblico così numeroso.
Il Nobel è stato la leva iniziale, ma, si sa, il suo effetto spesso dura poco e ne resta traccia solo nelle enciclopedie. Per spiegare le ragioni della sua popolarità potremmo far ricorso alle Lezioni americane di Calvino, e dire che la sua opera incarna idealmente le qualità che lo scrittore italiano preveggeva per la letteratura del nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Ma lo si può dire anche in maniera diversa. Czeslaw Milosz, anche lui polacco, anche lui premio Nobel nel 1980, nelle sue “lezioni americane” affermava che, da un certo momento in poi, si era creato un abisso tra il poeta e la “grande famiglia umana”, e la poesia del Novecento, elitaria, alienata dalla società, scontava le conseguenze di quella frattura. La poesia della Szymborska è una poesia che riesce a parlare al pubblico: si diffonde con il passaparola, con il libro regalato per il compleanno, con la citazione illuminante. Parla di cose che interessano, o meglio, riguardano da vicino un’ampia fascia di persone, potenzialmente tutti – una poesia cioè a carattere universale. Ma non basta. Non basta parlare della morte – argomento che più universale non ve n’è, giacché il nascere e il morire sono le uniche cose che tutti, polacchi e italiani, poeti e ingegneri, abbiamo in comune – perché ciò che si dice venga capito. Una poesia a carattere universale non sempre è universalmente comprensibile. Ebbene, il segreto della poesia della Szymborska potrebbe essere proprio questo: parla di cose universali in modo universalmente comprensibile. Una poesia semplice? Non necessariamente. Può essere letta a più livelli, come ogni grande poesia.
Ogni poesia dovrebbe contenere molti punti interrogativi e chiudersi sulla soglia della risposta, coi due punti, scrive la Szymborska nella poesia che dà il nome alla sua penultima raccolta del 2005. Non un punto fermo, non una risposta netta e definitiva, ma due punti: una risposta aperta, che ciascuno può dare. Non è mai didascalica, la Szymborska; non dice come vivere, ma mostra piuttosto com’è la vita, con incanto e stupore. Una vita, la sua come quella di ciascuno di noi, che è “un caso inconcepibile”, una “pausa nell’infinito”, preceduta e seguita da ere ed ere di assenza. Quanto nulla prima del nostro nascere, quanto nulla dopo il nostro morire. La vita, ogni singola vita, ogni singolo istante di questa vita, acquista così un valore inestimabile. Sotto la penna della Szymborska il vecchio topos del theatrum mundi assume i tratti di una recita a soggetto: l’esistenza è uno spettacolo senza prove, un’incessante improvvisazione, “una vita all’istante”:
poter provare prima almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco.
Ogni giorno che viviamo su questa terra è una prima, senza prove e senza repliche, e
qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
Come vivere la vita allora? La Szymborska non dà ricette: “Come vivere? Mi ha scritto qualcuno a cui io intendevo fare la stessa domanda”. Non dà risposte, ma insegna a porsi domande. Le sue poesie sono spesso piccoli trattati in versi; discorso, più che effusione lirica. Chiarezza, esercizio del pensiero, ironia sono le costanti della sua opera. “Non avermene lingua se prendo in prestito parole patetiche e poi fatico per farle sembrare leggere” scrive: due versi che potrebbero essere posti a epigrafe di tutta la sua opera.
Nulla è in regalo
Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L’inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
Ed è l’unica voce
che manca nell’inventario.
(traduzione di Pietro Marchesani)
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2012/2/3/SZYMBORSKA-Nel-labirinto-della-vita-non-siamo-noi-a-cercare-l-uscita/238550/
Morta Wislawa Szymborska, la poetessa più amata
Il premio Nobel per la letteratura 1996 aveva 88 anni
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E’ morta all’età di 88 anni Wislawa Szymborska. L’ha annunciato Michal Rusinek – il suo segretario personale – poche ore fa, aggiungendo che la poetessa se n’è andata tranquilla nel sonno nella sua casa di Cracovia. E per quanto sia grande il rammarico per la perdita di una voce così limpida e efficace allo stesso tempo, non si poteva augurare un congedo migliore a questa Signora della letteratura mondiale. Wislawa Szymborska ha avuto il grande merito di avvicinare moltissimi lettori alla poesia, soprattutto nel nostro Paese, dove la poesia – si sa – non è un buon affare: eppure i suoi libri hanno venduto decine di migliaia di copie, appassionando almeno due generazioni di lettori, merito anche del lavoro del suo traduttore principale, Pietro Marchesani, fin da quell’anno 1996 in cui vinse il Premio Nobel (allora, per l’Italia era quasi ancora un’illustre sconosciuta). Nel 1984 però, durante una gloriosa edizione del Salone del libro di Torino, già Iosif Brodskij nel suo discorso di apertura la citava come uno dei più grandi poeti viventi – dopo aver fatto l’elenco dei maggiori poeti di lingua inglese, tedesca e spagnola, Brodskij suggerì i nomi di alcuni poeti greci e polacchi: «Se conoscete il polacco – disse – e sarebbe un grande vantaggio, perché la più straordinaria poesia di questo secolo è scritta in polacco, vorrei segnalarvi i nomi di Leopold Staff, Czeslaw Milosz, Zbigniew Herbert e Wislawa Szymborska» -; inoltre alcuni suoi versi, la raccolta Gente sul ponte, erano già stati tradotti nel 1994 dall’illuminato editore Vanni Scheiwiller (e anni dopo, nonostante l’opera della poetessa sia quasi tutta tradotta da Adelphi, la Scheiwiller ha proposto la raccolta completa di poesie Uno spasso, mai apparse prima integralmente in italiano). L’Accademia di Svezia ha definito Wislawa Szymborska “Mozart della poesia” e l’ha premiata «per l’ironica precisione, che permette al contesto storico e biologico di manifestarsi in frammenti di verità umana». Nei suoi versi si ritrovano infatti tutti i grandi temi delle umane cose: l’amore, la morte, il senso dell’esistere, ma filtrati attraverso un’ironia affilata eppure mai crudele, bensì semplicemente spietata nell’esigenza di sincerità e verità. Le sue parole tendono a svelare le menzogne e gli auto-inganni, i falsi moralismi, i dogmi, le illusioni per esaltare invece la realtà, nuda e cruda, pur con un lirismo sovente pacato e lieve. Il bisogno di realtà non impedisce però all’autrice di provare una profondo curiosità verso la vita, un senso quasi gioioso di scoperta e un’attitudine alla meraviglia che non possono non incantare anche il lettore più freddo: «un miracolo, basta guardarsi intorno: / il mondo onnipresente» (da “La fiera dei miracoli”). Wyslawa Szymborska ha condotto una vita ritirata, pur non cercando l’isolamento – ha collaborato negli anni con decine di giornali e riviste per cui ha scritto di botanica, turismo, economia domestica, arte, ornitologia, letteratura classica e poliziesca – e ha preferito far parlare le sue dieci raccolte di liriche, continuando a vivere lontana dai riflettori, forse per non dover sempre combattere con quell’inquietudine di cui ha parlato in Svezia nel discorso del conferimento del premio Nobel: «Il poeta odierno è scettico e diffidente anche – e forse soprattutto – nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta – quasi se ne vergognasse un po’. Ma nella nostra società chiassosa è molto più facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto più difficile le proprie qualità, perché sono più nascoste, e noi stessi non ne siamo convinti fino in fondo. In questionari o conversazioni occasionali, quando il poeta deve necessariamente definire la sua occupazione, egli indica un generico “letterato” o nomina l’altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che fare con un poeta viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri sull’autobus con una leggera incredulità e inquietudine». Sferzatamente ironica ma leggiadra. Ci piace salutarla con le sue stesse parole sulla morte, tratte da “Sulla morte, senza esagerare” (1998): «Non c’è vita / che almeno per un attimo / non sia immortale. / La morte / è sempre in ritardo di quell’attimo». Con Wislawa Szymborska, la morte è stata in ritardo di molti attimi perché ella, grazie alla sua poesia, vivrà per sempre.
http://www.corrierenazionale.it/component/content/article/74-culture-new/47232-morta-wislawa-szymborska-la-poetessa-pi-u-amata-r-n-r-n
Solo per dire che questo post vale quanto un saggio sulla Szymborska. Una sola parola da aggiungere da parte di chi, come me, non conosceva la Szymborska: grazie! Grazie a Maugeri ed a tutti quelli che hanno riempito la “pagina bianca”.
Questo post fa capire come la Szymborska sia amata e letta. Sono state dette e scritte tante cose, rilasciate tante citazioni. Non saprei cos’altro aggiungere…
Lascio il link del Premio Nobel.
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1996/szymborska-bio.html
Lo chiamiamo granello di sabbia. | Ma lui non chiama se stesso né granello, né sabbia | Fa a meno di nome | generale, individuale, | instabile, stabile, | scorretto o corretto.
(da Vista con granello di sabbia; 1998)
Ti togli, ci togliamo, vi togliete | cappotti, giacche, gilè, camicette | di lana, di cotone, di terital, | gonne, calzoni, calze, biancheria, | posando, appendendo, gettando su | schienali di sedie, ante di paraventi.
(da Vestiario; 1998)
Non si intende di scherzi, | stelle, ponti, | tessitura, miniere, lavoro dei campi, | costruzione di navi e cottura di dolci.
(da Sulla morte senza esagerare; 1998)
Hanno scritto nel marmo a lettere d’oro: | Qui abitò lavorò e morì un grande uomo. | Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui. | Questa panchina – non toccare – l’ha scolpita lui. | E – attenzione, tre gradini – entriamo dentro.
(da La casa d’un grande uomo; 1998)
In una pensione di montagna andrebbe, | nella sala da pranzo scenderebbe, | i quattro abeti di ramo in ramo, | senza scuoterne la neve fresca, | dal tavolino accanto alla finestra guarderebbe.
(da In pieno giorno; 1998)
Non arrivavano in molti fino a trent’anni. | La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre. | L’infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo. | Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere | prima che tramontasse il sole, | prima che cadesse la neve.
(da La breve vita dei nostri antenati; 1998)
E chi è questo pupo in vestina? | Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler! | Diventerà forse un dottore in legge | o un tenore dell’opera di Vienna? | Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino? | Di chi il pancino pieno di latte, ancora non si sa: | d’un tipografo, d’un mercante, d’un prete? | Dove andranno queste buffe gambette, dove? | Al giardinetto, a scuola, in ufficio, alle nozze | magari con la figlia del sindaco?
(da La prima fotografia di Hitler; 1998)
Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo. | Non farà più in tempo a dimostrano, | ha gli anni contati, | il passo malfermo, | il fiato corto.
(da Scorcio di secolo; 1998)
Siamo figli dell’epoca, | l’epoca è politica. | Tutte le tue, nostre, vostre | faccende diurne, notturne | sono faccende politiche.
(da Figli dell’epoca; 1998)
Cos’è necessario? | E necessario scrivere una domanda, | e alla domanda allegare il curriculum. | A prescindere da quanto si è vissuto | il curriculum dovrebbe essere breve.
(da Scrivere il curriculum; 1998)
Non c’è dissolutezza peggiore del pensare. | Questa licenza si moltiplica come gramigna | su un’aiuola per le margheritine.
(da Un parere in merito alla pornografia; 1998)
Alla nascita d’un bimbo | il mondo non è mai pronto.
(da Un racconto iniziato; 1998)
Preferisco il cinema. | Preferisco i gatti. | Preferisco le querce sul fiume Warta. | Preferisco Dickens a Dostoevskij.
(da Possibilità; 1998)
Strano pianeta e strana la gente che lo abita. | Sottostanno al tempo, ma non vogliono accettano. | Hanno modi per esprimere la loro protesta. | Fanno quadretti, ad esempio questo.
(da Gente sul ponte; 1998)
Si è arrivati a questo: siedo sotto un albero, | sulla sponda d’un fiume | in un mattino assolato. | È un evento futile | e non passerà alla storia. | Non si tratta di battaglie e patti | di cui si studiano le cause, | né di tirannicidi degni di memoria.
(da Non occorre titolo; 1998)
Ad alcuni – | cioè non a tutti. | E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. | Senza contare le scuole, dove è un obbligo, | e i poeti stessi, ce ne saranno forse due su mille.
(da Ad alcuni piace la poesia; 1998)
Dopo ogni guerra | c’è chi deve ripulire. | In fondo un po’ d’ordine | da solo non si fa.
(da La fine e l’inizio; 1998)
Guardate com’è sempre efficiente, | come si mantiene in forma | nel nostro secolo l’odio. | Con quanta facilità supera gli ostacoli. | Come gli è facile avventarsi, agguantare.
(da L’odio; 1998)
La veglia non svanisce | come svaniscono i sogni. | Nessun brusio, nessun campanello | la scaccia, | nessun grido né fracasso | può strapparci da essa.
(da La veglia; 1998)
Morire – questo a un gatto non si fa. | Perché cosa può fare il gatto | in un appartamento vuoto? | Arrampicarsi sulle pareti. | Strofinarsi contro i mobili. | Qui niente sembra cambiato, | eppure tutto è mutato. | Niente sembra spostato, | eppure tutto è fuori posto. | E la sera la lampada non brilla più.
(da Il gatto di un appartamento vuoto; 1998)
Non ce l’ho con la primavera | perché è tornata. | Non la incolpo | perché adempie come ogni anno | ai suoi doveri.
(da Addio a una vista; 1998)
Sono entrambi convinti | che un sentimento improvviso li unì. | È bella una tale certezza | ma l’incertezza è più bella.
(da Amore a prima vista; 1998)
Forse tutto questo | avviene in un laboratorio? | Sotto una sola lampada di giorno | e miliardi di lampade la notte?
(da Forse tutto questo; 1998)
Nulla è in regalo, tutto è in prestito. | Sono indebitata fino al collo. | Sarò costretta a pagare per me | con me stessa, | a rendere la vita in cambio della vita.
(da Nulla è in regalo!; 1998)
Ciao. Qui sopra ho riportato alcune citazioni di Wisława Szymborska tratte da “25 poesie”, traduzione di Pietro Marchesani, Mondadori, 1998.
Mi scuso nel caso in cui qualcuna di queste citazioni fosse già stata riportata da altri.
Buona domenica.
@ Roberta Gregorio
Grazie mille per i tuoi contributi.
Un caro saluto a Leo e ad Amelia Corsi… e a tutti coloro che sono intervenuti.
Spero possano esserci ulteriori interventi.
Ne approfitto, intanto, per augurare buon inizio settimana a tutti.
Grazie a te.
buongiorno. dovrò leggermi tutti i commenti del post dedicato alla grande poetessa per recuperare. e sara’ molto piacevole.
Certe volte penso che sia un po’ triste aspettare che una persona vada via per far conoscere la sua opera, tuttavia la grandezza della poesia sta anche nella sua immortalità e nel suo sopravvivere al tempo, alla vita, alle nostre mancanze. Mia figlia- sedici anni- nonostante sia una lettrice abbastanza appassionata di narrativa, ieri spinta dalla curiosità ha letto per la prima volta le poesie della Szymborska e ne è rimasta affascinata. Tanto affascinata da dirmi “Mamma vorrei leggere un po’ di poesia…”.
E questa è senz’altro un’ottima notizia, ecco anche a cosa serve la poesia.
Grazie a questi grandi che ci incatenano nelle medesime passioni.
da: Domenica Il Sole 24 ore del 5 febbraio 2012
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Wislawa Szymborska (1923-2012)
Una poetessa cartesiana
L’autrice polacca aveva fatto dell’ironia e della precisione nella ricerca delle parole i segni più forti della sua lirica filosofica. Il Nobel la rese, suo malgrado, celebre
di Francesco M. Cataluccio
«La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve./ Troppo breve per aggiungere qualcosa», ha scritto Wistawa Szymborska a conclusione di una delle sue poesie più belle e profonde (La vita breve dei nostri antenati, 1986). Si è spenta in settimana, a 88 anni, nella sua Cracovia, anche perché, raccontano il segretario Mardn Rusinek e gli amici, dopo il ritorno dall’ospedale non aveva davvero più voglia divivere: si sforzava, dandosi lo smalto per le unghie, ma poi si guardava le mani ossute e gialle per decenni di nicotina e scuoteva il capo. La seppelliranno il giovedì 9 nel bel Cimitero Rakowiecki di Cracovia, nella tomba di famiglia, accanto alla sorella, con un funerale laico, al quale presenzierà il Presidente della Repubblica Bronislaw Komorowski (perché in Polonia i poeti sono considerati eroi nazionali). Nel testamento ha dato disposizioni perché venga creata una Fondazione Szymborska che si occupi delle sue opere. Non so che fine abbia fatto la sua idea, che mi espresse nel maggio scorso durante il Festival Milosz, di finanziare un Premio per il miglior secondo libro («Perché un buon libro son capaci tutti, con il successivo viene il difficile!»).
http://www.ilsole24ore.com/cultura.shtml
Szymborska era così: ironica e paradossale, tagliente e schiva. Il suo sorrisetto, che ricordava quello delle protagoniste di Arsenico e vecchi merletti, era in realtà dolcemente amarognolo e le serviva come difesa dal mondo. Non le piaceva parlare di sé e le interviste le facevano venire l’orticaria. Ha sempre creduto che tutto quello che aveva da dire fosse nei suoi versi. Non dava molte informazioni su di sé, nemmeno nelle conversazioni attorno a un tavolo: le sue biografe (Anna Bikon e Joanna Szczesna) si sono lamentate per il fatto che dava pochi fatti, diceva di non ricordare le date, confondeva le persone. Mi ha sempre fatto pensare che la sua memoria non fosse lineare: pescava dal passato immagini e sensazioni senza un preciso ordine. Ma era così davvero o si trattava di un atteggiamento di autodifesa?
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Sin dalle poesie della fine degli anni Cinquanta (di quelle precedenti, tra le quali anche una dedicata alla morte di Stalin, non ha mai voluto, comprensibilmente, parlare e ne ha vietato la ripubblicazione), in particolare quelle nella raccolta Sale (1962), Szymborska mostra di possedere una tecnica di inganno raffinata e la capacità di trasformare la microfisica della nostra esistenza in alta poesia. I suoi versi di allora sono scanditi da una strana e innaturale melodia che le fa suonare come filastrocche. Niente di più ingannevole: dietro la giostrina delle rime baciate, danzava una spietata visione della nostra vita, il dolore non compiaciuto per la condizione della donna, il senso di soffocamento derivante da un regime politico non più così violento da fornire almeno la dignità del tragico, ma che si reggeva su piccole meschinerie, complicità per far carriera, vigliaccherie gratuite. Quell’apparentemente stucchevole melodia diventava un inno e una condanna della miseria dell’esistenza e le parole scarne e acuminate riscattano le rime in un canto agrodolce.
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Szymborska ha sempre amato giocare e divertirsi con le parole e praticare con passione il bricolage, anche quello linguistico. Ha inventato per tutta la vita limerick, epitaffi, calembour e distici e ha saputo «giocare con le rime» con molta lucidità: «Da un certo punto di vista è tutto molto semplice: alcune parole fra loro rimano, altre no. E quante volte si può ripetere una rima, o un gruppo di rime? Per funzionare, una rima deve sempre suonare fresca, “di giornata”. Ma purtroppo non esistono o quasi rime che non siano già state usate, riusate e consunte. Quindi l’allontanamento dalla rima è un fenomeno inevitabile, poiché non è possibile ripetersi all’infinito. Ecco perché la rima si recupera quasi solo nel momento in cui si desidera trasmettere al lettore un messaggio come “divertiamoci”, o “si tratta di un gioco”. Allora si rispolverano senza pudore rime anche logore, ma utilissime per dare un effetto collaterale, secondario, un timbro ironico e scherzoso».
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La poesia della Szymborska ha perso lo slancio amoroso iniziale di versi come quelli all’inizio di Notorietà (1957): «Eccoci qui distesi, nudi amanti,/ belli per noi – ed è quanto basta – /solo di foglie di palpebre coperti,/ sprofondati nella notte vasta». Ma, col tempo, ha acquisito una grande forza filosofica e, dietro le consuete espressioni apparentemente semplici o quotidiane, e le piccole e sottili ironie, ha mostrato l’ostinato orgoglio del pensiero e il senso di una grande responsabilità della parola poetica («ogni parola ha un peso»). Una poesia che, con l’ironia, ha maturato una visione critica e autocritica, mai moralistica ma ferma nell’affermazione dei propri dubbi. Il dubbio ostinato, e la convinzione che le domande siano più importanti delle risposte, è diventata la caratteristica più evidente del suo discorso poetico. Si veda, ad esempio, Un parere in merito alla pornografia (1983), da lei letta durante una riunione semiclandestina di scrittori ridotti al silenzio, nel 1982, un anno dopo il colpo di stato militare: «Non c’è dissolutezza peggiore del pensare./ Questa dissolutezza si moltiplica come gramigna/ su un’aiuola per le margheritine// Nulla è sacro per quelli che pensano./ Chiamare audacemente le cose per nome, /analisi spinte, sintesi impudiche,/ caccia selvaggia e sregolata al fatto nudo,/ palpeggiamento lascivo di temi scabrosi, /fregola di opinioni – ecco quel che gli piace».
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La Szymborska restituisce una realtà scarnificata, priva di orpelli e sovrastrutture, illuminata da una luce chiara e distinta, comprensibile a tutti (e dove tutti possono riconoscersi). Il risultato di questa poesia pura, quasi cartesiana, si trova riassunta in Tutto (2002): «Tutto è una parola sfrontata e gonfia di boria./ Andrebbe scritta tra virgolette. /Finge di non tralasciare nulla,/di concentrare, includere, contenere e avere./ E invece è soltanto/ un brandello di bufera».
E anche le sue prose (recensioni, posta dei lettori, feuilleton) – che si possono leggere tradotte in fondo al volume che raccoglie le sue poesie (Wistawa Szymborska, Opere, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2008) possono sembrare inferiori ai suoi versi, ma sempre una festa dell’intelligenza e dell’ironia.
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Il Premio Nobel per la Letteratura (1996) per lei fu un vero terremoto (il terzo : dopo la guerra e la prematura scomparsa del suo amato compagno, il poeta Kornel Filipowicz), perché si sentiva soffocare dall’inattesa popolarità. Nel discorso per il conferimento del Premio (Il poeta e il mondo) si capisce che avrebbe voluto essere altrove. Fece un elogio di «due piccole paroline: non so», e attorno a esse spiegò la sua “modesta” filosofia della vita e dell’arte, trovando il modo di raccontare di sognare situazioni irrealizzabili, come «di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiate, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perché si tratta – almeno per me – di uno dei massimi poeti».
Era una maestra nell’acchiappare la parola giusta: proprio quella che racchiude perfettamente un concetto e non lascia sbavature imprecise dietro di sé. Szymborska si è sempre imposta e ha raccomandato di osservare bene le parole: «In fin dei conti si tratta delle stesse parole che giacciono morte nei dizionari o vivono una vita incolore nella lingua comune. Com’è che nella poesia brillano a festa come se fossero completamente nuove e appena inventate dal poeta?».
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Dopo quel prestigioso premio e il bagno di popolarità, tornò alla sua vita normale: un’esistenza lenta, nella quale c’era molto spazio per il silenzio e lo star sola con se stessa. Qualche serata con i vecchi amici, sbevazzando vodka; i soliti piccoli viaggetti (l’inverno a Zakopane, sui Monti Tatra, l’estate a Lubomierz); le lotterie di cianfrusaglie; la scrittura di poesie: «qualcuna all’anno» (in poco più di mezzo secolo ha pubblicato circa 300 poesie). Per quattro anni non pubblicò niente. Poi, con un po’ di intervallo tra loro, tre volumetti di poesie: Attimo (2003), Due punti (2005), Qui (2009). Uno più bello dell’altro.
Ma i temi trattati son sempre gli stessi: domande e dubbi attorno ai quali si è rigirata per tutta la vita (a parte uno struggente epitaffio per Ella Fitzgerald, la sua cantante preferita che «mi riconcilia con la vita e mi rasserena»: Ella in cielo). «A prescindere da quanto si è vissuto/ il curriculum dovrebbe essere breve», raccomandava Szymborska (in Scrivere il curriculum, 1986). Non ci resta che esaudirla.
http://www.ilsole24ore.com/cultura.shtml
Grazie mille, carissima Francesca Giulia.
E ancora grazie a tutti per i contributi pervenuti.
La prossima puntata di “Letteratitudine in Fm” sarà dedicata alla poesia. Avrò in trasmissione Daniela Marcheschi, con la quale discuteremo anche di Wislawa Szymborska (la Marcheschi ha avuto modo di conoscerla personalmente).
La pagina di Radio3 dedicata a Wislawa Szymborska
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/ContentItem-6c409da0-bbdd-470f-aae6-758b10b3cea6.html?refresh_ce
la sua poesia fa sentire battere il suo grande cuore con il tuo
Credo sia una Notizia! (con la “N” maiuscola).
Grazie alla Rai e al duo Fazio-Saviano, Wislawa Szymborska è al primo posto nella classifica dei libri più venduti in Italia.
Riporto il commento di Luciano Genta su “Tuttolibri” (La Stampa) del 25 gennaio.
–
(“Ai punti” – di Luciano Genta)
Eccolo, più slow della Rete ma reboante, l’effetto Saviano in libreria, esclusivo territorio della nostra classifica, dove primeggia la Szymborska, innalzando il valore dei 100 punti sopra quota 8500 copie. Sorriderà divertita la disincantata Wislawa, un tale traguardo qui non l’aveva ottenuto in vita, nemmeno con il Nobel. L’evento sarà pure eccezionale, per felice combinazione, ma induce a riflettere su quanto potrebbe fare la tv per la divulgazione della lettura. Cose per altro normali fino a mezzo secolo fa, come mostrano archeologici frammenti su Rai Storia. Avessero trovato un testimonial, magari nelle settimane scorse si sarebbero affacciati qui anche Caproni o Antonia Pozzi, i cui centenari sono stati a malapena ricordati dalla carta stampata. O magari, se trovasse il suo Roberto, si potrebbe far scoprire un poeta come il bosniaco Sarajlic (1930-2002) ora proposto da Einaudi con la raccolta Chi ha fatto il turno di notte, presentato da Erri De Luca come «maestro di lealtà civile» nella sua martoriata patria e «maestro di fedeltà amorosa» che ha dato voce agli innamorati di due generazioni. Ecco, se Fazio provasse con Erri, magari…
Quando la gioia di leggere sta a quello di scrivere..:
…..
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si pieguerà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gooia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
Quando la gioia di leggere sta a quella di scrivere..:
…..
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gooia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
Testo in dialetto irpino dell’Ottocento
LA CIPÓDDRA
La cipóddra jà n’ata cósa.
Vudèddre nunni téne.
Assulutamènt cipóddra
fin’a la cipoddrità.
Cipuddrùta da fóre,
cipuddrósa fin’a lu córe,
si putéss uardà dintu
senza nisciùnu timore.
Dintu di nuji scurda e bòschi
di pèddra appena cummigliàti,
com’a sta dint’a lu ‘nfiérnu,
brutte fattézz,
ma ‘nd’à la cipóddra – cipóddra,
no vìsciri accravugliàti.
Éddra dòppu ogni véle nuda,
fin’a ddintu dintu.
Nun si pente la cipóddra,
ha riusciùta la cipóddra.
Una dint’a l’ata,
‘nd’à la ròssa la chjù pìccula,
una di sèguit’a l’ata,
dòppu la terza la quarta.
Com’a nu giracavàllu.
Nu lèccu com’a nu cantu anziému.
La cipóddra, d’accòrdu:
la trippa chjù bella di lu munnu.
Tutta prijàta di vili
da pri éddra s’accravòglia.
Dintu di nuji – rassu, niérivi, vene,
ciànculu e ràshchi.
E a nuji véne nijàta
la paccìja d’èss li mègliu.
Traduzione in dialetto irpino dell’Ottocento
Zell, 31 marzo 2017 – Angelo Siciliano
Nota
Non conoscendo la lingua polacca, mi sono dovuto attenere solo alla traduzione in italiano dal polacco di Pietro Marchesani. Per una questione di somiglianza armonica di suoni, in corrispondenza dei termini inusuali cipolluta e cipollosa, ho inventato “cipuddrùta e cipuddrósa”, il resto è vernacolo autentico.