Per “GIOVANISSIMA LETTERATURA“, lo spazio di Letteratitudine dedicato alla cosiddetta “letteratura per ragazzi“, ci occupiamo del nuovo romanzo di Tea Ranno intitolato “Saura. Le stanze del cuore” (Risfoglia Editore). Una bellissima storia incentrata sul personaggio di Saura: una ragazzina di dodici anni, figlia di una chirurga pediatrica e di un giudice, che soffre a causa dell’assenza dei genitori, troppo presi dal lavoro. Ma Saura ha anche problemi a gestire il rapporto con i compagni di classe (che la prendono in giro per via del nome) e non sopporta le varie tate che arrivano a casa con l’obiettivo di occuparsi di lei…
Abbiamo chiesto a Tea Ranno di parlarci di questo suo libro e di raccontarci qualcosa sulla sua genesi…
* * *
Come fu che Saura venne al mondo
di Tea Ranno
Non tutte le storie nascono allo stesso modo. Ci sono quelle che ti chiamano mentre mescoli il sugo e si posano sul quaderno insieme a qualche schizzo rosso, quelle che irrompono nel sogno e pretendono ascolto anche se è notte, quelle sulle quali inciampi mentre sei per strada, quelle che trovi nella fessura tra carta da parati e muro, quelle che – molto più semplicemente – qualcuno ti chiede. Così è successo per Saura.
Lui si chiama Mauro, è il direttore creativo di una casa editrice, un giovanotto che, dopo aver lavorato con me alla storia della contentezza, è diventato un caro amico. «Mi scrivi una storia per ragazzini di dieci/dodici anni?» mi chiede un giorno.
«Mai scritto per ragazzi.»
«Provaci.»
Dire di sì, talvolta, non costa niente, e aiuta a non sembrare scortese.
«Mandamela al più presto» incalza però lui.
Una storia per ragazzini? E come si scrive? Io scrivo per i bambini da quand’ero bambina, per i grandi da trent’anni, per i ragazzini mai. Come si fa? Che lingua si usa? Che storie vogliono ’sti decenni/dodicenni supertecnologici, che s’invetrano davanti a un tablet e s’intruppano in giochi che magnetizzano la mente e li portano a pensare acceleratissimo, a sbuffare quando la connessione è lenta, a scartare tutto quello che non è, in un qualche modo, game?
Non lo so.
Game, tablet, mondi virtuali che incastrano, s’avviluppano e imprigionano in una solitudine che rende più complicati i rapporti umani, che spesso portano a un disorientamento, un senso di inadeguatezza e d’infelicità di cui gli adulti parlano fino alla nausea in tavole rotonde alla tv.
Il punto di vista degli adulti non mi interessa. Che storia mi racconterei se fossi una dodicenne supertecnologica che ha tutto ma non è felice?
«Lui è il bimbo delle dodici tate», mi disse un giorno Laura tornando da scuola. «Sua mamma e suo papà sono dottori. Lui odia le tate».
«Mia mamma lavora con Facebook» mi disse una bambina di una classe in cui ero andata a raccontare la contentezza, «non ha il tempo di farmi le coccole». Poi, dopo due ore di chiacchiere e abbracci: «Vorrei che fossi tu la mia mamma!».
Ahi!
Una bimba con le mani devastate da croste e lesioni: «Sono state le zanzare» rispose alla domanda di cosa le fosse capitato. Ma la maestra, in un sussurro: «Non è vero. È lei che si provoca le ferite… Per attirare le attenzioni dei genitori».
Ragazzini infelici. Che hanno troppo ma non quello che desiderano.
Ma cosa desiderano per davvero?
Sarebbe bello fare un viaggio con loro, in loro: un viaggio interiore, di formazione, come dicono gli adulti. L’idea mi sembra banale, sfruttata, e però…
È mattina, piove, sono sola. Penna, quaderno e tempo a volontà. Penso a un nome, che però non viene. I nomi, quando si scrive, sono tra gli elementi più difficili da trovare: connotano i personaggi prima ancora che tu li metta in scena. Mi vengono in mente, giusto per scartarli, quelli delle mie figlie: Sara e Laura. Mi torna in mente quello che succede quando le chiamo in fretta: Saralaura Saralaura Saralaura… Saura!
“Saura” scrivo. E subito: “Ma puoi chiamare una bambina Saura?”.
Guardo la pioggia, penso a una giornata di pioggia, penso ad amici chirurghi ai quali devo molto, penso a quanto sia indispensabile il loro lavoro che restituisce alla vita bimbi destinati alla morte. È naturale che la mamma di Saura sia un chirurgo pediatrico. E il papà? Dev’essere uno che spesso pontifica… Facciamolo giudice!
E la mano parte, la penna scivola velocissima sul foglio. Anche nel mondo di Saura sta piovendo, la sua mamma ha un giorno di riposo: «Oggi niente scuola, Micia. Facciamo i biscotti».
Saura esulta: niente scuola, la mamma tutta per sé e perdipiù i biscotti! Ride, si prepara a una mattina avventurosa: sua madre – chirurgo eccezionale – in cucina è una frana.
«Pesa la farina» dice Susanna.
«Già fatto.»
«Il cacao.»
«Già fatto.»
«Caspita, Micia, sei un portento!»
Poi suona il cellulare.
«Non rispondere» implora la bimba.
«Devo, Micia», e già sta dando istruzioni perché si prepari la sala operatoria, perché si organizzi l’equipe con cui di solito lavora: un bambino ha avuto un incidente, deve correre a salvarlo.
«Ci sono altri dottori…» tenta Saura.
La mamma però è già fuori. Lei s’affaccia alla finestra sperando che si volti, che le regali un sorriso. Niente. Un dolore fortissimo allora le scava il petto. Si porta la mano all’altezza del cuore e sente un buco. Abbassa lo sguardo: dal buco esce una mano, l’acchiappa e la porta dentro di sé.
Caspita!
La penna si ferma.
Poi una telefonata, poi è tardissimo, poi incontri, riunioni, presentazioni, altre incombenze. L’incipit di Saura rimane sul quaderno.
A Bologna, alla fiera internazionale del libro, Mauro dice: «Hai pensato alla storia che ti avevo chiesto?»
«Ho buttato giù un inizio. Un viaggio per le stanze del cuore» e gli racconto di Saura, del buco, della mano che esce dal buco.
«La devi finire» dice lui. «Al più presto.»
Annuisco.
E invece mille impegni: sono stati appena pubblicati “Sentimi” e “Le ore della contentezza” che mi portano in giro per l’Italia: scuole, centri antiviolenza, i femminicidi, la galgatta che si è stufata di essere presa in giro e va in cerca della felicità. A Saura penso ogni tanto, ma senza nessuna intenzione seria, convinta che diventerà una delle innumerevoli figure abbozzate sul taccuino e mai portate a termine.
«Hai finito quella storia?» chiede Mauro.
«Non ho avuto il tempo.»
«Scrivila, dai…»
«Sì.»
E invece parto. Milano, Sicilia, Roma, Parma, Sicilia, su e giù per treni che mi regalano il viaggio lento, pieno dei Sentimi, signora delle donne che mi chiedono ascolto.
Ogni tanto arriva un messaggio: «Hai finito la storia?».
«Non ho avuto tempo.»
«Scrivila, ti prego.»
«Sì.» Ma è solo un modo gentile per non chiudere l’argomento con un drastico: «Proprio non posso».
Poi mi invitano a Sciacca. «Il mezzo più semplice per arrivare da noi è l’autobus».
Bene, andiamo in Sicilia in autobus. Partenza da Roma Tiburtina alle 20.00, arrivo a Sciacca alle 10.15 del mattino dopo.
Comincia un viaggio notturno silenzioso, fascinoso: le montagne punteggiate di luci, l’orlo del mare spumantino, alberi come fantasmi che agitano al vento rami fasciati di foschia. È l’inizio del mese di giugno e piove.
Alle quattro del mattino il bus arriva a Villa San Giovanni. Sullo Stretto imperversa una tempesta di fulmini: sciabolate di luce da una sponda all’altra, guizzi, saette, lampi azzurri, lampi a giorno come scatti di un flash. Sembra che Scilla e Cariddi si sfidino a botte di lampiate, una gara a chi fa meglio, a chi si mostra più estroso, meno banale. Ci fosse Sarino Motta qui con me: “Minchia, signora…” direbbe, e basta, ché lui rustico è, e poco amante delle parole. In realtà lui è qui con me, insieme ad Agata la Tabbacchera, Toni Scianna e compagnia bella: tempo per scrivere Saura non ne ho avuto anche perché, viaggiando viaggiando, parlando parlando, stavo finendo di rivedere le bozze de “L’amurusanza”.
Si trapassa, si riprende la strada, si arriva a Sciacca. Accoglienza bellissima: Betty, Giuseppe e Donatella sono padroni di casa magnifici, raccontano la città, la sua epopea, il barocchetto, le porte, la via del grano, le barche, il mare… Poi c’è la presentazione di Sentimi. Poi si dorme. Il giorno dopo nuovi giri per la città, assaggi di cannoli e gelati, magnificenza sicula che cementa nel giro di poche ore amicizie destinate a durare. Poi si riparte. Previsione di viaggio: dalle 15.30 di oggi alle 6.00 di domani.
Appena partita da Sciacca, la telefonata di Mauro: «Hai scritto Saura?».
Devo trovare il coraggio della sincerità. Lo trovo: «No, Mauro. Non posso. Sono sempre in giro, davvero non ho tempo».
«Devi scriverla. Dai, non mi deludere…»
Ecco, ci sono parole e parole. Frasi e frasi. Alcune scivolano come acqua su pietra, altre possono far male. Non mi deludere…
Apro la borsa. Il quaderno c’è, le penne pure, ma soprattutto ho un’enorme quantità di tempo da passare inchiodata a questo sedile. Certo, avrei voluto riposare, ascoltare musica, viaggiare con la mente. Ma puoi deludere un amico?
Respiro profondo, pagina bianca, penna. Signori, si comincia.
Scrivo.
E scrivo.
Compare Franz il meraviglioso, Luisa la traditrice, le tate. L’autobus fila, si ferma, raccoglie altri passeggeri. Non me ne accorgo. Scrivo. Ma quante sono queste tate?
“Dodici” disse Laura.
Troppe. E però devo dare l’idea dell’eccesso doloroso. Cinque? Troppo poche. Sette? Ancora poche. Nove? Sì, nove tate.
“I nomi, Tea, i nomi: come le chiamiamo queste tate?” mi dico.
E poi c’è l’abbinata nome-colore, prerogativa della mia Sara: “Sai, mamma, ogni volta che qualcuno dice un nome, nella mia testa compare un colore”.
E siamo già nei pressi di Catania. Inciampo in un macigno che m’impedisce il passo: quali sono i nomi delle tate? Per indicarle Saura usa dei nomignoli, ma non è giusto: delle persone che dici di amare (perché nel frattempo la ruggine tra loro si è dissolta), devi conoscere i nomi. Dunque?
All’ingresso di Catania, in prossimità del porto, ci sono dei grandi silos variamente dipinti. Mi colpisce la figura di una donna arlecchina. Svelta la fotografo. Penso alla mamma di Saura (Susanna: nome madreperla). Se all’improvviso diventasse multicolor come questa donna dipinta? Se i vari colori fossero i nomi delle tate? Se le tate fossero emanazione di lei e non sostitute d’amore, come le intende Saura?
Scrivo. Ragiono e scrivo. E sono felice. Così felice che non mi accorgo di essere già a Messina, di essere sul traghetto che ha già preso il mare. Me ne rendo conto solo quando comincio ad avere la nausea: guardo fuori e vedo l’acqua scura, vedo le luci della costa che abbiamo lasciato, quelle della Calabria che abbiamo di fronte. Saura mi tira per il braccio: “Scrivi, signora, scrivi”. E io scrivo. Sbarchiamo. L’autobus fila nella sera, la strada è trafficata, io sono dentro la scena di un western: cactus e un gran polverone, tu-tum tu-tum: «Spostati, Saura, spostati!» urla il suo cervello. Lei, immobile, sta. Un’immensa mandria di sauri sta per travolgerla: «Spostati, Saura, scappa!». Lei, fermissima, sta.
Il branco la investe ma non la travolge: all’improvviso si trova in groppa al capobranco, all’improvviso lei è il capobranco che galoppa e nitrisce, e il branco risponde, la riconosce come sua Regina: lei, sì, proprio lei con quel brutto nome che sempre l’è valso lo sfottò dei compagni. Nitrisce, la Regina dei Sauri, e gode di una incredibile, pazzesca libertà.
Scrivo, galoppo con lei. Ho il cuore a mille. È notte, l’autobus corre per la Calabria, poi per la Basilicata e la Campania. Mi scordo di dormire, mi scordo di mangiare. Scrivo e vivo con Saura le mille avventure di Saura.
Poi compare Durlindana Spark. Armata di taccuino. Capisco che è lei la signora col taccuino che s’è intrufolata in questa storia. E rido e sono felice.
Giunta a Tiburtina, manca soltanto il finale. Saura è ancora dentro di sé, ben decisa a rimanerci. Invece deve tornare fuori. Ma come?
Due giorni dopo, sono attesa a Firenze, sempre per “Sentimi”. Di nuovo in viaggio, treno stavolta. Rileggo qualcosa, correggo qualcosa, ma niente di che. Saura s’è blindata nel suo cuore e di uscire manco a parlarne.
Palazzo bellissimo, incontro bellissimo. Pranzo. Amici. Saluti. In giro per la città.
A piazza della Signoria suona la banda.
«Minchia…» mormora Sarino dentro il mio orecchio «signora, ma non è magnifica?».
Magnifica è, precisamente. Col cuore a mille mi siedo sotto la loggia: io, il quaderno, la penna e Saura. Signorina, che vogliamo fare?
È al suono della banda che la costringo ad accomiatarsi da Franz, zia Luisa, le tate e, soprattutto, Saurina, la parte bambina di lei che aveva a lungo tentato di uccidere. È al suono della banda che la faccio espellere dalle stanze ormai ariose del suo cuore.
Un tuffo, un volo, una caduta sul morbido del tappeto: Saura si ritrova nella sua camera, la banda sta suonando Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro…, di tata Cocca manco l’ombra. E la mamma? E papà?
Al ritmo di quella musica magnifica, la Regina dei Sauri deve fare i conti con ciò che di sua vita ancora le va storto. E non è poco, signora mia, altroché. Riconciliarsi… Perdonarsi… ma di che stiamo parlando? E poi, però, arriva Naso, e poi…
… e poi…
Ma voi lo sapete, vero, che il finale delle storie non si svela mai?
(Riproduzione riservata)
© Tea Ranno
* * *
La scheda del libro: “Saura. Le stanze del cuore” di Tea Ranno (Risfoglia / Armando Curcio Editore)
Saura, dodicenne, figlia di una chirurga pediatrica e di un giudice, soffre dell’assenza dei genitori, troppo presi dal lavoro, odia i suoi compagni di classe, che la deridono per via del nome così ingombrante, e odia le innumerevoli tate che vengono a occuparsi di lei. Una mattina che piove, la mamma decide di non mandarla a scuola: ha il giorno libero e potranno trascorrere un bel po’ di tempo insieme. All’improvviso, però, squilla il cellulare. C’è un bambino in fin di vita e la dottoressa deve correre a salvarlo. Fine del divertimento, fine della mamma “tutta per sé”. Saura s’arrabbia, si chiude in camera e caccia la tata appena giunta. Si sente tristissima, e il suo petto pare bucarsi per il dolore. Lo sfiora con un dito: davvero c’è un buco. Abbassa la testa per controllare ma in quel momento dal buco esce una mano che l’acchiappa e la porta dentro di sé. Comincerà, così, un viaggio per le stanze del suo cuore. Incontrerà persone amatissime, si riconcilierà con le tate, con i suoi compagni, diventerà la Regina dei sauri, affronterà le iene trasformandosi in istrice e verrà a un confronto con Saurina, la sua parte bambina. Insomma, vivrà avventure straordinarie che la porteranno a superare le rabbie, i dolori, le mancanze e tutto ciò che la ferisce. Età di lettura: da 11 anni.
* * *
Tea Ranno è nata a Melilli, in provincia di Siracusa. Dal 1995 vive a Roma. È laureata in giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha pubblicato per e/o i romanzi Cenere (2006, finalista ai Premi Calvino e Berto, vincitore del Premio Chianti) e In una lingua che non so più dire (2007). Nel 2012 per Mondadori è uscita La sposa vermiglia, romanzo vincitore del Premio Rea, e nel 2014, sempre per Mondadori, Viola Fòscari. Nel 2018 ha pubblicato Sentimi (Frassinelli) e, per Curcio editore, i libri per bambini e ragazzi: Le ore della contentezza, I vestiti di Babbo Natale, La befana e il colpo della strega.
Nel 2019 sono usciti i romanzi L’amurusanza (Mondadori) e Saura. Le stanze del cuore (Risfoglia Editore).
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it