Post lungo, ma che vi prego di leggere. Vi consiglio di salvare la pagina, leggere con calma e intervenire successivamente… se ne avrete voglia (N.d.A.)
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Il 10 gennaio del 1987 è una data da ricordare per la carta stampata italiana. Sulle pagine del Corriere della Sera (in terza pagina) apparve un articolo di Leonardo Sciascia dal titolo I professionisti dell’antimafia. Quell’articolo scatenò il putiferio. Spezzò l’Italia in due. Fiumi di parole si riversarono sulle pagine di quotidiani e riviste. E fa impressione constatare che, trascorsi vent’anni, la ferita è rimasta aperta; che la forza prorompente di quel j’accuse ritorna oggi con la stessa intensità di allora, rimbalzando – ancora una volta – da un quotidiano all’altro.
Allora, vent’anni fa, non c’era Internet, non c’erano i portali web, non c’erano i blog. Per fortuna!, potrebbe commentare qualcuno.
Voglio provare a ricostruire la vicenda qui, su questo luogo virtuale, partendo da allora per arrivare ai nostri giorni.
Leonardo Sciascia
Ciò che spinse Sciascia a scrivere quell’articolo (o che comunque gli fornì l’input per affrontare una questione che evidentemente gli stava molto a cuore) fu una nota pubblicata sul "Notiziario straordinario" n. 17 del 10 settembre 1986 del Consiglio superiore della magistratura. In quella nota si commentava l’assegnazione del posto di procuratore della repubblica a Marsala a Paolo Borsellino; assegnazione avvenuta prescindendo dall’ordine di graduatoria dei candidati. Ecco il testo: «Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante.»
Quel ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante fornì, ripeto, a Sciascia il pretesto per contestare coloro che poi ebbe modo di definire sull’articolo con l’epiteto di professionisti dell’antimafia. Il citato articolo è disponibile on-line e potete leggerlo integralmente cliccando qui.
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Sciascia comincia il suo articolo autocitandosi due volte. Lo fa riportando stralci di brani estrapolati da Il giorno della civetta e da A ciascuno il suo. E fa precedere le citazioni da questa frase: «Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denominarono "eroi della sesta"».
Poi cita un saggio pubblicato dall’editore Rubettino. Il titolo è: La mafia durante il fascismo. L’autore è Christopher Duggan. Sciascia sottolinea che: «l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla "mafia in sé" quanto a quel che "si pensava la mafia fosse e perché": punto focale, ancor oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica.»
Di seguito Sciascia chiama in causa don Luigi Sturzo. Nel 1900 Sturzo scrisse un dramma intitolato: La mafia. Quel dramma, evidenzia Sciascia: «andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. (…) E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà.»
Torna sul libro di Duggan e chiama in causa Mori: «(…) non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. (…) l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. (…) Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia».
A questo punto Sciascia lancia una stilettata all’allora sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. E lo fa partendo, appunto, dal concetto di antimafia come strumento di potere. Non cita esplicitamente Orlando, ma il riferimento è chiaro. Inequivocabile. Scrive Sciascia: «Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico».
Di seguito cita la nota del "Notiziario straordinario" n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura (di cui abbiamo già inserito il testo) coinvolgendo Paolo Borsellino.
Infine chiude l’articolo con una frase bruciante: «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso.»
Si scatena l’inferno.
Come ricorda Attilio Bolzoni in un articolo pubblicato su Repubblica del 28 dicembre 2006 (dal titolo Quel J’accuse di Sciascia): «Fu una guerra di parole. Violentissima. Si riempirono pagine e pagine di giornali, tutti avevano qualcosa da dire. Ministri. Preti. Sindacalisti. Magistrati. (…) Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale prefetto ucciso a Palermo nel settembre dell’82, gli chiese sull’Espresso: “Non ti viene mai in mente una bella terza pagina sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano? Su Repubblica, Giampaolo Pansa (…) confessò: “Non riconosco il mio Sciascia, il nostro Sciascia. Dov’è lo scrittore civile, l’analista tagliente?” Giorgio Bocca difese il procuratore Borsellino ma avvertì: “Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’Antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o volevamo vedere.»
Molto interessanti, in questo articolo di Bolzoni, le dichiarazioni di Maria Andronico e Agnese Borsellino. Maria Andronico, vedova dello scrittore, ricorda: « (…) Era addolorato, una sofferenza che quella volta non era riuscito a nascondere. “Mio marito parlava poco, lui che non mostrava mai le sue debolezze rimase profondamente colpito, turbato. (…) A un certo punto però si avvicinò a me e alle mie figlie per assicurarci: non perdete tempo a difendere la mia memoria, non perdete tempo perché il tempo mi darà ragione”.»
Il tempo è passato, scrive sull’articolo Attilio Bolzoni chiamando in causa la vedova Borsellino: «“Aveva ragione, Sciascia aveva ragione”, ripete Agnese Borsellino, un’altra vedova di Palermo che allora non riuscì nemmeno lei a nascondere la sua sofferenza. “Anche Paolo era sconvolto, ma lo sapeva bene di non essere lui il bersaglio di quella riflessione provocatoria”.»
Il 31 dicembre 2006, Sandra Amurri, sulle pagine de L’Unità richiama in causa Leoluca Orlando. Bisogna valutare con attenzione le dichiarazioni di Orlando il quale da un lato giustifica Sciascia spiegando (e contestualizzando) i motivi di quella provocazione, dall’altro però ne stigmatizza l’imprudenza, partendo dalla considerazione che tale provocazione si prestava benissimo, così come poi – a suo giudizio – avvenne, a essere strumentalizzata dai veri nemici dell’Antimafia.
Orlando dichiara: « L’indomani, ero in aereo con Giovanni Falcone diretti a Mosca e mi chiese: Che ne pensi dell’articolo di Sciascia? Risposi in siciliano: “Quannu chiovi nesciunu fora i corna ddi babbaluci” (Quando piove escono fuori le corna dalle lumache). La pioggia, infatti, cominciò a far uscire allo scoperto le corna di mille lumache, sino ad allora confuse nell’antimafia di facciata.” (…) Una provocazione che accolsi con un sospiro di sollievo proprio perché rappresentava la fine dell’ipocrisia dell’antimafia intesa come luogo comune. (…) Ma una provocazione che accolsi con la preoccupazione che potesse essere utilizzata strumentalmente dagli “sciasciani di borgata” che avrebbero potuto sfruttare il prestigio dell’intellettuale per blandire le sue parole come clava per colpire chiunque facesse antimafia. (…) Le sue parole divennero uno strumento utilissimo per criticare quelli che la mafia la combattevano. E il suo invito alla riflessione, la sua esortazione a non lasciarsi travolgere dall’ottimismo della volontà, finì per diventare, in fondo, un’arma consegnata nelle mani dei mafiosi e dei loro amici.” (…) “Il 12 novembre dell’89 (morì dopo 8 giorni) andai a trovarlo. (…) Si sedette con le spalle rivolte alla grande finestra a vetri (…) e quasi singhiozzando mi disse: “Sono finito”. Gli risposi: “Professore, esiste la cronaca, ed esiste la storia. Nella cronaca siamo stati separati, ci siamo trovati su posizioni opposte e inconciliabili. Ma lei è nella storia ed io, per questo, le porto il mio affetto e la stima della città”. “Sono finito. Ma anche lei, sindaco, è finito…”. “Professore, stia tranquillo: anche se finirò, apparirà chiaro che sono stato sconfitto”. “È proprio questo che vogliono evitare i suoi nemici. Vogliono che lei finisca senza essere sconfitto. Faranno di tutto affinché lei esca di scena senza che appaia la sua sconfitta”, concluse. Mi stava mettendo in guardia, come, pur se sbagliando nei toni e non valutando le strumentalizzazioni, aveva voluto fare, due anni prima, con quell’articolo illustrandomi il rischio di finire prigioniero delle parate e delle parole. »
Il 2 gennaio 2007 Pierluigi Battista sul Corriere della Sera pubblica un articolo che riaccende gli animi. Lo intitola: Le scuse dovute a Sciascia. L’intento è chiaro. Nell’articolo Battista ri-racconta la “storia” ed arriva alla conclusione che Sciascia meritava e merita delle scuse e che tali scuse sono, appunto, dovute. Scrive: «Vent’anni fa a Leonardo Sciascia fu bruscamente intimato di rinchiudersi “ai margini della società civile”. (…) E diedero a Sciascia anche del “quaquaraquà”, il più spregevole degli individui secondo la gerarchia di valori del don Mariano Arena del Giorno della civetta.»
L’articolo di Battista riaccende gli animi, dicevo. E infatti, il 4 gennaio 2007 Nando Dalla Chiesa interviene con un articolo sull’Unità intitolato: Sciascia, perché non mi pento. Dalla Chiesa cita un episodio che coinvolge Paolo Borsellino e che adduce come motivazione principale del suo non-pentimento. Scrive Dalla Chiesa: «Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre articolo contro i professionisti dell’antimafia di vent’anni fa? Recitare il mea culpa come chiede Pierluigi Battista sul “Corriere” dell’altro ieri? In questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i dati di realtà conosciuti. E poi pensarci. E poi pensarci ancora. Per evitare di reiterare un gioco delle parti. L’ho fatto. E sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricordo che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. (…) Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del ’92. Biblioteca comunale di Palermo. Dibattito organizzato dalla rivista “Micromega” sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. (…) Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei tempi veloci che egli stesso doveva darsi. (…) A un certo punto fece una pausa e disse: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato, esistono le registrazioni di quella serata. Fu l’ultimo intervento pubblico di Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con un lucido istinto dell’animale braccato, sentiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell’amico e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. (…) Ripartiamo da lì: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Un articolo spartiacque, dunque. (…) Tanto più se l’attacco veniva da uno scrittore che con i suoi romanzi aveva insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia. Il che puntualmente accadde.»
Dice la sua anche Riccardo Chiaberge scrivendo sulla rubrica Contrappunto del Domenicale del Sole-24Ore del 7 gennaio 2007 (Chiaberge è caporedattore del Domenicale) un pezzo dal titolo: Lo “scusismo” piacerebbe a Sciascia?. Chiaberge parla di “scusismo” inteso come moda o propensione a “chiedere scusa” anche laddove non se ne vedono i presupposti e le necessità. Nell’articolo – in relazione allo "scusismo" – cita gli scrittori Morselli, Berto, Cassola, Solzenicyn. «Chiedere scusa a Sciascia? Francamente non ne sentiamo il bisogno. Intanto ogni polemica va contestualizzata, e nell’epoca dell’assalto mafioso allo Stato è comprensibile che non si dosassero troppo le parole. E poi, conoscendo la vena volterriana di Sciascia, siamo certi che avesse messo nel conto le reazioni e pure gli insulti. Anzi, sarebbe rimasto deluso se la sua provocazione fosse caduta nel vuoto.” (…) Se vogliamo chiedere scusa a qualche scrittore, ricordiamo semmai Guido Morselli, boicottato dalle camarille politico-editoriali e morto suicida senza veder pubblicato uno solo dei suoi romanzi, o Giuseppe Berto, trattato come un appestato perché di destra, o il Cassola ribattezzato “Liala” dalle neoavanguardie, o il Solzenicyn dell’Arcipelago Gulag. Ma a forza di scuse e complessi di colpa, si rischia di trasformare questi autori in martiri intoccabili e di spuntare le armi della critica.»
E sempre il 7 gennaio 2007 esce su Repubblica.it un altro articolo di Attilio Bolzoni dal titolo: Sono stato io a chiamare Sciascia un quaquaraquà. Si parla di Francesco Petruzzella: uno dei fondatori del Coordinamento antimafia. Nel 1987 aveva ventiquattro anni, era iscritto a Giurisprudenza e faceva pratica con le parti civili al maxi processo. Petruzzella dichiara: «Sono stato io a scrivere quel comunicato su Sciascia e non lo rinnego, quella vicenda non si può capire se non la trasportiamo nella terribile Palermo di quel tempo. (…) Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l‘articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini – Orlando il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino un magistrato integerrimo – come esempi dell’antimafia che fa carriera?" (…)La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare ‘Palermo è nostra e non di Cosa Nostra’, gli intellettuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravamo, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. (…) Sì è vero, certuni hanno fatto carriera con l’antimafia. Ma allora – insisto sulla Palermo di allora – di quella riflessione non ne avevamo bisogno. (…) "Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia. (…) Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla».
L’ 8 gennaio 2007, dalle pagine de Il Giornale, Lino Jannuzzi lancia degli strali per mezzo di un articolo intitolato: Quando Sciascia mi rivelò i dubbi su Orlando.
Jannuzzi pone una serie di domande provocatorie: «Che cosa è successo in questi venti anni che sono passati da quell’articolo di Sciascia? Che cosa ne è stato, in questi vent’anni, della mafia e dell’antimafia? Chi ha vinto e chi ha perso? E sono state maggiormente rispettate le regole, come invocava Sciascia? Sono state abolite le leggi speciali, è prevalsa la bilancia, il simbolo della giustizia, oppure sono prevalse le manette invocate dai fanatici dell’antimafia? Che cosa avrebbe detto Sciascia della legge sui "pentiti" e della gestione “dinamica” dei pentiti? Che cosa avrebbe detto Sciascia dell’invenzione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa? E dell’articolo 41 bis, l’elogio alla tortura? E del processo a Giulio Andreotti? E del processo al più illustre dei magistrati italiani, Corrado Carnevale? E a decine e decine di uomini politici sulla base delle accuse di assassini liberati in cambio delle carceri e pagati dallo Stato? Ci fu la carneficina della mafia, come ricorda Nando Dalla Chiesa, e durò un paio d’anni, e poi ci fu la carneficina dell’antimafia, che dura da 15 anni e non è finita. Quale ha fatto più danno?». Poi Jannuzzi torna indietro nel tempo e ci racconta la sua versione del già menzionato incontro tra Sciascia e Orlando: «(…) Ero a Palermo, a casa di Sciascia, due anni dopo quell’articolo, una settimana prima che morisse. Sciascia era pallido, magrissimo, sofferente, girava per lo studio in pigiama, non si vestiva più, non usciva nemmeno più per andare a farsi la dialisi. Mi allontanai per qualche ora perché Sciascia doveva ricevere Leoluca Orlando, che insisteva da tempo per parlargli. Quando tornai, lo trovai seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Restò a lungo in silenzio, poi mi disse, prima che glielo chiedessi: “Ha parlato solo lui. Non ho capito perché ha voluto vedermi. Ha parlato contro i magistrati e la Procura di Palermo, forse per scusarsi della polemica di due anni fa. Ha detto che io resterò nella storia e che mi portava la stima della città. Ho capito che sono finito. Siamo finiti…»
Ecco. Ho provato a ricostruire i passaggi salienti di questa vicenda che iniziò vent’anni fa e che, come ho già scritto, ritorna oggi con immutata forza. Lo faccio – da siciliano – per contribuire a lasciar traccia anche qui, negli algidi luoghi del web, nel regno della velocità, della brevità e dei refusi, a beneficio dei navigatori che magari non hanno tempo o voglia di leggere la carta stampata; a beneficio, soprattutto, dei miei giovani conterranei frequentatori della blogosfera, perché sappiano; perché prendano coscienza di un’importante fatto siciliano che di coscienze ne ha scosse e ne continua a scuotere tante; e perché, anche, prendano coscienza della forza della parola scritta. La parola scritta può creare ferite; a volte profonde, insanabili. E a volte è inevitabile che ciò accada. La parola scritta può essere causa di divisioni, così come può essere occasione di “ricucite”. La parola scritta ha un peso che prescinde da quello dell’inchiostro utilizzato per imprimerla sulla pagina o da quello delle dita che picchiano sui caratteri di una tastiera. La parola scritta può essere un’arma che si innesca, e in maniera irrevocabile, nel momento in cui viene letta. E la sua potenza dipende dalla forza di colui che impugna l’arma (o la penna). Ricordiamocelo, amici miei. Ricordiamocelo. Anche quando fissiamo i nostri pensieri nei luoghi promiscui della rete. Non sprechiamo le nostre parole. Dosiamole. Misuriamole con il metro dell’onestà intellettuale. Gestiamole bene. O quantomeno, proviamo a farlo. (Lo dico anche a voi, ma in realtà lo dico a me).
Ciò detto, dichiaro il dibattito aperto. Per chi avrà voglia di cimentarvisi.
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Massimo Maugeri
Caro Maugeri, così come altre volte mi sono permesso di criticarla, seppur affettuosamente, ora mi consenta di farle i più sinceri complimenti. Ha svolto un lavoro egregio sia in termini di impostazione del pezzo che in termini di ricostruzione degli accadimenti.
Mi sono sempre chiesto: se Sciascia avesse immaginato le reazioni virulente che avrebbe scatenato quell’articolo l’avrebbe scritto comunque? E se avesse immaginato la fine di Paolo Borsellino?
Caro Massimo, meglio di così non si poteva fare, più corretti di così non si poteva essere. Bravo, bravissimo.
Ma detto questo (che era doveroso) vengo al dunque. All’epoca, quell’articolo di Sciascia mi lasciò profondamente amareggiato: non ne capivo il senso, non riuscivo a comprendere come e perchè uno come Sciascia potesse scrivere quelle cose. Cose che (ancor più col senno del poi…le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, le altre morti per mafia) acquistano un significato ancor più assurdo e sbagliato. Quando sarò nell’aldilà, assieme a Sciascia, vorrei parlarne con lui per capire meglio uno scrittore che ho sempre ammirato e che ancor oggi leggo e rileggo. Malgrado quel pessimo articolo.
Chi invece mi fa letteralmente schifo è uno come Jannuzzi, le volgarità e le bugie che scrive. Rileggiamo le sue parole (non le chiamo “farneticazioni” perchè Jannuzzi non è un povero demente o un ignorante ma uno che scrive in vergognosa malafede). “Sono state abolite le leggi speciali, è prevalsa la bilancia, il simbolo della giustizia, oppure sono prevalse le manette invocate dai fanatici dell’antimafia?” Come se arrestare i nmafiosi fosse qualcosa di ingiusto. E già basterebbe questa stronzata (perdonami il termine ma Jannuzzi mi dà il voltastomaco da anni). Ma poi Jannuzzi riprende la fiaba dell’Andreotti sventurato innocente perseguitato dalle cattive toghe rosse. Ma se la sentenza di Palermo ha accertato che fino al 1980 Andreotti aveva rapporti con la mafia! Però il reato è andato in prescrizione. Altro che assoluzione.
Ma da persone come Jannuzzi sarebbe meglio girare alla larga. Bisogna solo rintuzzare e smentire le loro menzogne, la loro impudenza, le loro torbide manovre di mestatori dell’informazione.
Caro Massimo, desideravo ringraziarti. Avevo sentito parlare di questo famoso articolo, ma non avevo ancora avuto modo di leggerlo integralmente. Grazie.
Caro Massimo e cara Elektra, se sapeste quanto mi ha fatto ridere (lo dico sul serio) una cosa. Questa: dopo il lungo e ottimo pezzo di Massimo, io ho scritto un lungo commento di una cinquantina di righe, ma Elektra non dice nulla ma proprio nulla del secondo.
Forse da ragazzino me la sarei presa, come se fosse uno sgarbo personale, invece adesso (a 52 anni) scoppio a ridere. Come tutte le volte che la presunzione di chi scrive (in questo caso io) viene giustamente ridimensionata dai lettori (o dalle lettrici)
Sempre più mi convinco: che bello ridere. Ma soprattutto che bello ridere (e far ridere) di se stessi
Caro Luciano Comida,
le chiedo scusa. Non ho commentato il suo commento perchè, le dico la verità, di questa vicenda ho le idee un po’ confuse. Anzi a dirla tutta sto cercando di farmi un’idea proprio leggendo questo post. Comunque accetto col sorriso il suo simpatico rimprovero. E proverò a rimediare dicendo che trovo il suo Michele Crismani davvero stupendo.
Un favore: quando saremo tutti nell’aldilà mi ci accompagna da Sciascia? Mi piacerebbe tanto conoscerlo. 😀
Sciascia è (non è stato, perchè la grandezza rende immortali) un grande, ma, come tutti gli esseri umani, non era infallibile. Ebbene anche lui ha “toppato”: Giovanni Falcone, uno dei presunti professionisti dell’antimafia, fu messo da parte nella successione a Caponnetto e il CSM gli preferì Meli, per motivi di anzianità e non di competenza, così Falcone poteva toccare con mano che “essere protagonisti dell’antimafia” non paga (semmai ti ammazza). Il buon Sciascia ha toppato e la mafia ne ha gongolato! Quanto a Jannuzzi e quello che di lui dice Luciano, è l’esempio perfetto di cosa si è fatto dalla morte di Falcone e Borsellino in poi grazie a certa gente, che, brandendo come una scimitarra, la bandiera del garantismo ha ridotto all’impotenza la legalità.
Sciascia – non solo lui, naturalmente – ha rappresentato un tipo di intellettuale che faceva davvero a pugni con ciò che riteneve socialmente sbagliato. (Chissà cosa ne penserebbe dei girotondi).
Penso anche alla polemica di Tom Wolfe nei confronti degli scrittori americani contemporanei, per lo più incapaci, secondo lui, di fondare le loro opere nella società così come è. E non è granché bella.
Edoardo Sanguineti, da parte sua, ha fatto un discorso come candidato sindaco di Genova dicendo papale papale che si deve tornare alla lotta di classe dura e pura.
C’è di che discutere.
C’è anche di certo che il ruolo degli intellettuali non penso sia solo quello di andare a fare finte litigate in TV per vendere più copie.
Sciascia non ha toppato, io credo. Non perché lo ritenga infallibile, per quanto dal basso della mia giovinezza ed inesperienza non sono ancora riuscito a intravedere alcunché di sbagliato nel suo modo di scrivere e di ragionare, ma perché i fatti gli hanno dato ragione. Per come la vedo io, a parte le allusioni -esplicite o inferibili- ai personaggi, la sua fu una critica di concetto. Leggendo l’articolo dalla prospettiva del giorno in cui fu scritto, non importava che il magistrato fosse Tizio piuttosto che Caio e lo stesso dicasi per il sindaco. La provocazione di Sciascia – e il putiferio giornalistico conseguente e tuttora, a quanto pare, in atto non fa che dimostrare quanto abbia colto nel segno – non mira la persona, ma l’atteggiamento, i comportamenti, la prassi di quella mafia “in lingua” che si distingue sempre meno dallo stato e si contrappone a quella “vernacolare” da dietro il paravento di quel parolone: antimafia. Sciascia non credo si indignasse per la nomina di Borsellino, ma piuttosto che volesse dimostrare attraverso l’eccezione quale fosse la regola nell’Italia di quegli (e magari pure di questi) anni: uno scavalcamento che questa volta è stato giustificato e forse anche giusto, ma che altre nove non lo è. E i varii signori Andreotti (ma come ci insegna Sciascia i nomi che nessuno sa sono forse più importanti di questi) sono ancora là.
È davvero improbo riuscire a star dietro a tutti i giornali che hanno trattato la vicenda che qui dibattiamo. Ci tengo però a segnalare altri due articoli.
Il primo è stato pubblicato sul “Corriere della Sera” del 7 gennaio 2007, dal titolo: “Io, professionista dell’antimafia dico che Sciascia aveva ragione”. Chi interviene è Tano Grasso (di cui vi riporto alcune dichiarazioni): “Io che sono un professionista dell’antimafia, e non me ne vergogno, vi dico che vent’anni fa Leonardo Sciascia aveva ragione. Ma come non bisognava strumentalizzarlo allora, bisogna evitare di farlo oggi.” L’intervistatore domanda a Grasso: “Perché lo scrittore aveva ragiona, allora?”. Grasso risponde: “Perché segnalava dei rischi reali. E se nel 1987 ci si fosse confrontati seriamente con i suoi ragionamenti, anche per criticarne alcuni aspetti, anziché demonizzarli si sarebbero potuti evitare alcuni errori che a metà degli anni Novanta hanno messo in crisi gli stessi movimenti antimafia.” In merito alla polemica sulla nomina di Borsellino Grasso sostiene che: “Prendere a esempio quel caso, come quello del sindaco Orlando, fu un errore. Col quale però bisognava confrontarsi e al limite scontrarsi, senza lanciare le assurde accuse di cui Sciascia fu vittima; si combatte la mafia per essere più liberi, e nel combatterla non si può certo conculcare la libertà del confronto ideale e culturale”.
L’altro articolo che mi pare il caso di segnalare è stato pubblicato da “Repubblica” l’8 gennaio 2007 (articolo di Salvo Palazzolo e Alessandra Ziniti) dal titolo: “Basta aggressioni a Sciascia, mio padre”. Qui interviene Anna Maria Sciascia (figlia dello scrittore): “Basta aggressioni a Leonardo Sciascia. Basta offese gratuite al suo nome. Non è la divergenza di opinioni che ci ferisce, per carità siamo in democrazia, ma il modo in cui si continua a esprimerle. Purtroppo ci sono i vandali che deturpano i monumenti, e quelli che deturpano la memoria.” (…) “Ho letto che quel giovane (Francesco Petruzzella, N.d.A.) non si è pentito di aver messo Leonardo Sciascia ai margini della società civile. Resto senza parole. Quasi non vorrei commentare, per non continuare a dare importanza a chi offende in maniera gratuita. Non siamo più sui toni del dibattito. Già allora era un’aggressione, e continua ad essere tale. Ma oggi che senso ha?”
Infine, navigando sul web, mi sono imbattuto sul sito di Radio Radicale dove – devo dire – hanno fatto un ottimo lavoro di rassegna stampa on-line. Vi segnalo il link. Troverete gli articoli che ho citato (tranne quello di Chiaberge sul Domenicale del “Sole-24Ore”) più molti altri. E avrete anche la possibilità di scaricarli (sono in formato jpg). Ecco il link, dunque: http://www.radioradicale.it/le-scuse-dovute-a-leonardo-sciascia-0
Vi ringrazio tutti per i vostri contributi.
Elektra: il mio non era un rimprovero a lei ma uno sfottò a me stesso.
Quando saremo nell’aldilà, organizzeremo (se si potrà) un incontro con Sciascia (autore che ammiro tanto malgrado quel suo articolo)
Ma organizzeremo anche un incontro con Lino Jannuzzi.
Intervengo solo per segnalare che in occasione della manifestazione organizzata a Catania per commemorare Giuseppe Fava, Marco Travaglio è intervenuto sulla vicenda delle richiesta di “scuse” a Sciascia.
Concordo pienamente sull’amara considerazione di Travaglio che ritiene assurdo che si debba chiedere scusa a Sciascia per l'”unica stupidaggine” detta dal grande scrittore nel corso della sua vita e della quale probabilmente anche lui, oggi, si pentirebbe alla luce di quanto accaduto!
Leonardo Sciascia ha denunciato nelle sue opere le piaghe più TENACEMENTE
IMMUTABILI (purtroppo) della società siciliana, viste anche come rivelatrici
di più profondi mali che colpiscono l’intera struttura sociale italiana.
L’organizzazione mafiosa composta di collegate fra loro,
controlla l’opinione pubblica; è capace di assicurare il successo di un
partito anche se ciò viene sempre negato. La mafia era ed è ancora un
sistema che contiene e muove gli interessi economici e di potere, sorge e
si sviluppa, come scriveva Sciascia, non quando lo Stato con le sue leggi e
le sue funzioni è debole, ma dentro lo Stato sostenuta da una classe
parassitaria che non imprende ma sfrutta.
Auspico che coloro che sono impegnati in questa lotta non facciano, per
altri vent’anni, della speranza l’unica iniziativa.
Caro Luciano Comida, la ringrazio molto per la precisazione. Mi faccia capire una cosa, però. Visto che nell’aldilà incontreremo oltre che Sciascia anche Jannuzzi, di cui ho ben capito cosa ne pensa, mi dica, dov’è che ci ritroveremo? In Paradiso o all’Inferno?
Con stima e simpatia.
Forse Sciascia, in quell’articolo, avrebbe dovuto precisare che “pur stimando il giudice Paolo Borsellino… e pur considerando la buonafede di QUEL sindaco…”
Però mi domando, che senso ha riparlarne ancora oggi, dopo vent’anni, e con questi toni? A cosa serve se non a fare un po’ di pubblicità a certi figuri di terzo e quarto piano?
Mi sento vicina al pensiero di Anna Maria Sciascia.
Gentile Rosa, non credo che annacquando i toni di quell’articolo sarebbe cambiato qualcosa. Se Sciascia pensava, o pensò in quel modo fece bene a scrivere quell’articolo e con quei toni, assumendone, si capisce, la responsabilità. Ciò che poi accadde e che accade oggi dopo vent’anni è dovuto al fatto che chi firmò quell’articolo fu proprio Sciascia e non un intellettualucolo di quartiere. Se poi qualcuno, quell’articolo, tentò e tenta di strumentalizzarlo… be’, questo è un altro discorso. Ma in un’epoca di continue strumentalizzazioni e mistificazioni non bisogna sorprendersi più di tanto, né scandalizzarsi. Sta a noi, a ciascuno di noi, filtrare notizie e commenti per costruirci un nostro punto di vista il più possibile onesto ed equilibrato.
Elektra: bella domanda, la sua delle 00.16 di oggi. Azzardo una risposta. Io sono valdese e penso che l’Inferno esista ma sia vuoto. Nel senso che Dio ci perdonerà tutti e tutte, ma al momento del suo perdono il suo sguardo sarà tale che noi sentiremo fino in fondo alla nostra anima e alle nostre viscere il male che abbiamo commesso direttamente e quello che non abbiamo saputo o voluto impedire. E da questo giudizio usciremo trasfigurati.
Tra le varie posizioni assunte, la più equilibrata mi pare proprio quella di Grasso: un professionista dell’antimafia!
mi permetto di segnalare il mio romanzo ‘Basta che ci sia posto’ (Traccediverse) un romanzo che fa pensare.
http://valentinademelas.ilcannocchiale.it
Ho letto Sciascia a scuola, al liceo, e non mi sono mai posta altri problemi che non fossero le parole. Le sue parole. Erano, sono, parole incisive, oculate, a volte quasi chirurgiche. Ci ha suggerito Sciascia l’insegnante di lettere, anarchica e radicale (diceva lei, non so se le due cose possano stare insieme), che non ci fece mai leggere Salinger. Ora io mi sono fissata che Sciascia sia anarchico e radicale, ma non credo sia vero. Una cosa (Massimo lo sa) lo sogno che dice “A chi giova?”. Una domanda da Sciascia, questa. Che mi pongo spesso anch’io.
buona giornata
elisabetta
ps: I romanzi di Sciascia, quelli fanno davvero pensare. Sì.
Sciascia è nato e vissuto nel cuore della sicilia…
Qualcuno crede davvero che abbia toppato?
Qualcuno può davvero credere che un veggente, perchè tale in fin dei conti è stato (nell’accezione di colui che vede per primo) si sia squalificato a combatter guerriglie di ipocriti protagonismi e fittizi cambiamenti.
Semplicemente ha visto prima, ancora una volta, prima di molti, e meglio di chi non ha voluto vedere…
“a futura memoria…”
“I professionisti dell’antimafia”
fu il titolo che Piero Ostellino mise a cappello dell’intervista al grandissimo Leonardo Sciascia.
Sciascia non lo usò di certo.
Era troppo signore e troppo corretto per offendere chicchessia, limitandosi a scrivere “Nero su nero”, vale a dire, argomentando da fatti e atti.
Non da chiacchiere di comari.
Filippo Grillo
Ho appreso di questa interessante discussione dal recente articolo pubblicato da Tuttolibri della Stampa. La trovo esaustiva e interessante. La polemica mi è particolarmente cara essendo l’autore del libro “Toghe rosso sangue” edizioni Newton Compton che ricostruisce la storia di tutti i magistrati uccisi in Italia. Nel capitolo su Borsellino ho posto in evidenza la polemica sui professionisti dell’antimafia. Un tema attuale e che in un contesto sciasciano ancora oggi confonde bene e male sul tema della mafia.
Paride Leporace
@ Paride Leporace
Le auguro i migliori “in bocca al lupo” per il suo Toghe rosso sangue.
Ne approfitto anche per ringraziare Filippo Grillo (il cui intervento mi era sfuggito).