Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Senza musica”, di Bruno Canino (Passigli, 2015).
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Bruno Canino – “Senza musica” (Passigli, 2015)
Recensione di Claudio Morandini
La lettura del libro di Bruno Canino, dal titolo paradossale “Senza musica” (Passigli, 2015), mi ha fatto ragionare su quello che potremmo definire umorismo da musicisti, anzi proprio da pianisti: è un umorismo fatto di osservazione scrupolosa di tic di colleghi strumentisti, coltiva idiosincrasie e le perfeziona nel corso degli anni come fossero una sorta di repertorio parallelo a quello concertistico. Lo si può ritrovare anche nelle note di Alfred Brendel (“Abbecedario di un pianista”, Adelphi, 2014), così come nel precedente libro di Canino, “Vademecum del pianista da camera”, in fase di ristampa, di cui quest’ultimo si presenta con modestia come una sorta di appendice, di aggiornamento. È un umorismo che predilige la catalogazione alfabetica, non rinuncia a un intento didattico o pedagogico, o almeno morale, e sembra fare della musica (e della musica pianistica in particolare) un paradigma della condizione umana: ma lo fa senza darlo a vedere, senza calcare la mano, e probabilmente negherebbe di farlo, se glielo si chiedesse.
Meno sistematico, più bizzoso di Brendel, a tratti più “cattivo” nell’evidenziare vizi e miserie del mondo musicale (di quello italiano in particolare), anche più concreto nel calare la musica, il “mestiere” della musica nella realtà quotidiana e nell’indifferenza della società di oggi, Canino non disdegna di parlare di soldi, cioè di costi della musica, dei micidiali meccanismi tritatutto che sono i concorsi (moltissimi in Italia), della ragnatela di connivenze che lega musicisti a critici e a committenti; si sofferma sulle “patologie” dell’esecutore, soprattutto del pianista, e sulle deformazioni che l’industria discografica ha prodotto sulla resa e sulla percezione della musica classica; colto da quel misto di repulsione e di attrazione per l’orrido che ben conosciamo e in un certo senso condividiamo, si attarda a descrivere l’uso umiliante che si fa della musica nei ristoranti, nelle pizzerie, nelle suonerie dei cellulari; dei virtuosi di qualche strumento descrive i “peccati capitali”, e alcune cose ci sono già note, le abbiamo osservate anche noi, perché basta assistere a qualche concerto per trovarsi dinanzi a una serie di comportamenti, di vezzi, di automatismi iperbolici, di espressioni e gesti innaturali: ma è la classificazione puntigliosa a farceli sembrare (ora lo dico) “mostruosi”, patologici appunto. Canino ha suonato per un’intera vita, da solo, in duo e in gruppo, e ha potuto osservare con agio, negli altri esecutori e in sé, quei comportamenti anomali, effetti di quella tensione con cui il musicista deve imparare a convivere se non vuole sciogliersi in pianto su palco. In questo, sa essere molto convincente: in “Trac”, per esempio, la sua disamina della paura che coglie ogni musicista che si esibisca in pubblico (o anche che entri in sala di registrazione) è così persuasiva che fa sentire inquieti anche noi semplici lettori, e forse ci farà sentire più inquieti del solito quando assisteremo a un concerto e non riusciremo ad abbandonarci al godimento della musica perché temeremo il vuoto di memoria, l’ingripparsi delle dita, l’attacco fuori tempo, l’accordatura in calo. E dopo aver letto “Registrazioni” non potremo che ascoltare con sospetto ogni incisione, perché ci verrà il dubbio che quei crescendo, quei diminuendo siano frutto non dell’ispirazione dell’interprete ma dello smanettare del tecnico preposto alla registrazione, e che quei viluppi virtuosistici di accordi risultino il prodotto di un montaggio nota per nota in fase di postproduzione. Potremmo continuare a citare gelosie, rivalità, divieti, ossequi a mode, superstizioni e meschinerie varie, se non temessimo di dare un’immagine troppo negativa del musicista, che per noi – come per Canino – resta un eroico difensore del bello in un’epoca di approssimazioni, accelerazioni insensate e crollo del senso estetico. L’intento di Canino, in effetti, non è metter su un circo Barnum di mostruosità musicali su cui sghignazzare, quanto segnalare i rischi a cui una professione così delicata e vitale può andare incontro.
Chiude il libretto una fantasticheria, “Senza musica” appunto, in cui l’autore abbozza il racconto di una distopia particolare, un mondo di troppa musica, rissoso e capriccioso, in cui, l’autocrate di turno decreterà di poter godere lui stesso soltanto della musica, mentre il resto del mondo dovrà restare in silenzio. Qui Canino, ne creare il quadro preliminare di un racconto (il plot arriva alla fine, quasi di malavoglia), dà sfogo più che altrove a un suo risentimento, si fa “un po’ borbottone” (sono parole sue), si toglie qualche sassetto dalla scarpa.
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