Aggiorno questo post giusto per congratularmi con Viola Di Grado. In questi mesi “Settanta acrilico, trenta lana” ha fatto incetta di premi importanti. Su tutti (notizia di ieri), la vincita del Premio Campiello opera prima 2011.
Brava, Viola! Complimenti a te e al tuo talento.
Massimo Maugeri
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Post del 7 febbraio 2011
L’ho capito sin dalle prime pagine che questo romanzo d’esordio di Viola Di Grado (Settanta acrilico, trenta lana – edizioni E/O – 2011) aveva le carte in regola per lasciare il segno. Se n’è accorto anche Giovanni Pacchiano che, sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 Ore del 6 febbraio, scrive: “È un libro fatto di segni del destino il notevolissimo romanzo d’esordio di Viola Di Grado, Settanta acrilico trenta lana. In quest’inizio d’anno, mentre gli editori puntano molto sugli esordienti, ingolositi dai grandi slam di Giordano e della Avallone, lei, i romanzi dei suoi concorrenti, li eclissa. Se c’è giustizia al mondo, farà piazza pulita ai premi“.
Nella scheda del libro, Viola (che ho il piacere di conoscere personalmente già da prima della pubblicazione di questo libro) è definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante“. Io dico, molto più semplicemente, sebbene questo sia il suo primo libro, che Viola Di Grado è Viola Di Grado. E il segno che questo romanzo lascia (perché lo lascia: leggere per credere!) discende direttamente dalla sua scrittura: originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere. Insomma, sin da questo primo libro Viola Di Grado dimostra di possedere una cifra letteraria del tutto personale che le fornisce un’identità autoriale ben precisa… al di là dell’esordio.
E a proposito della scrittura di Viola, mi piace evidenziare l’opinione della brava Sandra Bardotti di Wuz (la riporto di seguito):
“Laureata in lingue orientali a Torino, Viola Di Grado (nella foto) ha fatto l’Erasmus a Leeds, poi ha viaggiato in Giappone e in Cina, e ora si sta specializzando in filosofia cinese a Londra. Questo romanzo lo ha finito di scrivere due anni fa, quando di anni ne aveva ventuno. Eppure Settanta acrilico trenta lana dimostra una originalità e maturità di lingua e contenuti davvero rara per una scrittrice della sua età. Definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante”, Viola Di Grado costruisce il suo romanzo sulla lingua, attraverso iperboli, sinestesie, allitterazioni, parole che dipingono una natura al neon, di plastica, – acrilica, appunto -, sezionando lo spazio ovattato di questa Leeds letteraria come un bisturi. Una lingua che taglia e squarcia la pagina, come se fosse un fiore o vestito. Parole che coniugano esperienza corporea ed estetica, che si collocano esattamente sulla pagina come ideogrammi inscritti nel loro quadrato ideale. Parole che contraddicono la sterilità dell’esperienza depressiva, debordano fuori dal tracciato, si scompongono, si mescolano, si uniscono: chiavi di volta, parole che si fanno carne e riempono lo spazio, parole che significano sempre qualcosa di più della loro forma. Una lingua cesellata come una porcellana orientale eppure sfrontata e insolente come quella che solo a vent’anni si può avere.
Settanta acrilico trenta lana è il romanzo di una bellezza straziata, di una vita persa, ritrovata, persa di nuovo – ciclica, come un buco -, di una vita che muore ogni giorno e ogni giorno risorge, per lanciare una provocazione alle nostre candide esistenze“.
Ecco, mi sembra che le parole di Sandra rendano giustizia alla bella scrittura di Viola.
Addentriamoci nel libro, che ha per protagonista la giovane Camelia (figlia di padre italiano e di madre inglese).
Ecco la scheda che ne riassume la trama: Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui «l’inverno è cominciato da tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima», in una casa assediata dalla muffa accanto al cimitero. Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Un giorno però Camelia incontra Wen, un ragazzo cinese che lavora in un negozio di vestiti e che le insegna la sua lingua. Saranno proprio gli ideogrammi ad aprire un varco di bellezza e mistero nella vita di Camelia, attribuendo nuovi significati alle cose. Camelia si innamora di Wen, ma lui la respinge nascondendogliene il motivo. E c’è anche il bizzarro fratello di lui, ossessionato dall’oscura morte di Lily, un’altra studentessa di Wen…
Sono tanti i temi affrontati da questo romanzo. Ne evidenzio alcuni:
– il rapporto con la città (e con i luoghi) in cui si vive
– il rapporto con il “diverso”, con l’altro da sé, simboleggiato anche dal desiderio di studiare una lingua straniera
– il linguaggio degli sguardi come alternativa a quello delle parole
– il rapporto con se stessi e la crisi esistenziale (simboleggiata dal “buco”, metafora di una mancanza e di qualcosa che “inghiotte”: il fosso che causa la morte del padre di Camelia, l’oblò delle lavatrici, i buchi fotografati ossessivamente dalla madre della ragazza).
Faccio sin da subito i complimenti a Viola, per questo folgorante romanzo d’esordio. Avremo modo di approfondire la conoscenza di Settanta acrilico, trenta lana approfittando della sua presenza. Contestualmente, come sempre, vi invito a discutere delle tematiche “collaterali” che – in un modo o nell’altro – sono trattate nel libro. Seguono alcune domande volte a favorire la discussione…
1. Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?
2. Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?
3. Il linguaggio degli sguardi, può essere alternativo a quello delle parole?
4. Quali rimedi proporreste contro i buchi neri dell’esistenza?
Vi ringrazio anticipatamente per la partecipazione.
Massimo Maugeri
Per prima cosa, ne approfitto per fare i complimenti anche in questa sede a Viola Di Grado per questo suo ottimo romanzo.
Sono davvero felice del riscontro più che positivo da parte della critica.
Davvero “forti” le parole che Giovanni Pacchiano, sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 Ore del 6 febbraio, ha speso per questo romanzo: “È un libro fatto di segni del destino il notevolissimo romanzo d’esordio di Viola Di Grado, “Settanta acrilico trenta lana”. In quest’inizio d’anno, mentre gli editori puntano molto sugli esordienti, ingolositi dai grandi slam di Giordano e della Avallone, lei, i romanzi dei suoi concorrenti, li eclissa. Se c’è giustizia al mondo, farà piazza pulita ai premi“.
Per quanto mi riguarda non ho alcuna difficoltà a evidenziare che questo romanzo è tra i migliori che mi è capitato di leggere da un bel po’ di tempo a questa parte.
Scrissi più o meno le stesse cose in merito ad “Accabadora”, il romanzo d’esordio di Michela Murgia (che poi vinse il Super Mondello e il Super Campiello): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/11/30/accabadora-di-michela-murgia/
😉
Incrocio le dita per Viola e per “Settanta acrilico, trenta lana”.
Sono rimasto particolarmente colpito dalla scrittura di Viola Di Grado: originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere.
Ho messo in evidenza le parole di Sandra Bardotti di Wuz, in riferimento alla scrittura di Viola Di Grado.
Di seguito, il resto della recensione di Sandra.
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Camelia vive con la madre a Leeds, una città “dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima”. Abitano in Christopher Road, “una via talmente brutta da essere una prova che Dio non esiste”. C’è la neve, fa freddo ed è buio, a Christopher Road, dove “i fiori muoiono prima di sbocciare perché non c’è sole, e i feti hanno il vizio di strozzarsi con la placenta”. A Christopher Road “non comincia mai niente. Semmai finisce. Finisce tutto, anche le cose che non sono mai cominciate”.
Camelia ha un nome appariscente, il nome di un fiore orientale. Ma i fiori Camelia li recide, come fa con i vestiti che recupera nel cassonetto. Getta quelli nuovi, troppo puliti, fiammeggianti, luminosi per lei, e porta a casa gli scempi che un sarto incapace butta nel cassonetto vicino a casa sua. Abiti cuciti di sbieco, troppo stretti, con i bottoni sotto le ascelle, maniche sul sedere, pantaloni con tre gambe, scollature fino all’ombelico. Sbagli che nessun sarto avrebbe mai potuto fare, e per questo divini, di una bruttezza folgorante e perfetta, che Camelia sottopone a una ulteriore “chirurgia antiestetica”, come forma di ribellione alla compattezza del mondo degli altri, come lo si percepisce quando si soffre. Una ribellione masochistica nei confronti di un mondo che l’ha pugnalata e da cui si sente esclusa, di cui la moda rappresenta il più immediato oggetto di condivisione dell’identità.
Camelia ha poco più di venti anni, ma per lei e sua madre il mondo si è inceppato tre anni fa, nel dicembre 2004, quando il padre è morto finendo con l’automobile in un fosso mentre era in compagnia dell’amante. Da allora sua madre si è chiusa in un mutismo assoluto, parla con la figlia nella lingua degli sguardi, si aggira per casa sporca e puzzolente come un animale, scattando ossessivamente fotografie ai buchi dei tavoli, delle tende, del formaggio, del soffitto.
Camelia ha lasciato l’università e i suoi studi di cinese e traduce manuali di istruzioni per lavatrici. È ossessionata dagli oblò, un buco come quelli che sua madre fotografa, un buco come quello in cui è morto suo padre. “Buco” in cinese ha la stessa chiave di “bambino”.
Un giorno smette di parlare anche lei, si chiude in un rapporto morboso e fetale con la madre, fino a quando incontrerà Wen, il suo insegnante di cinese, che la farà ricominciare a parlare. Passando dall’anoressia alla bulimia verbale, le parole di Camelia sono suoni vomitati come cibo, che gli altri non capiscono ugualmente, perché le parole distruggono, non condividono, fraintendono, sono contrarie alla vita. E allora l’ideogramma, espressione visiva inequivocabile della lingua, è l’unica strada per ritrovare il senso perduto nel segno e far coincidere nuovamente significato e significante.
Camelia ama Wen, ma lui la respinge, angosciato da segreti inconfessabili, un fratello strano, una ex-fidanzata che non si sa che fine abbia fatto.
Per ognuno c’è un momento in cui uno sfrenato istinto di sopravvivenza si risveglia e si fa spazio nel mondo immobile della depressione. Anche la madre di Camelia conosce un uomo, ma quella casa cadente di Christopher Road proprio non sopporta la felicità e l’inverno torna senza via di scampo.
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di Sandra Bardotti
http://www.wuz.it/recensione-libro/5506/settanta-acrilico-trenta-lana-viola-grado.html
La citata recensione di Giovanni Pacchiano è disponibile per intero da qui: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-02-06/rossi-simboli-vite-inquiete-081959.shtml?uuid=AaFVs65C
Nei prossimi giorni vi linkerò altre recensioni…
La protagonista del romanzo è Camelia, insieme a Leeds la città in cui vive.
Il rapporto tra la ragazza e la città è fondamentale, nella storia. Così come quello tra la ragazza e la madre.
Senza dimenticare il rapporto con Wen: un ragazzo cinese che lavora in un negozio di vestiti e che insegna a Camelia la sua lingua.
Ma Camelia intrattiene un rapporto “diretto” anche con ciascun lettore di questa storia:
“Che tu mi veda o no io sono quella lì coi capelli neri e il naso prendi tre paghi uno. Quella lì che è già notte, ed è già fine, anche se tu volevi una storia in cui tutto è del suono giusto e del colore giusto, e le farfalle volano, e le persone parlano e amano e parlano e amano.
Tu te la puoi permettere una storia di quel tipo. […] Sai che ti dico? Usala come straccio del bagno, quella storia, o che ne so, foderaci la gabbia del criceto. Insomma, basta che te la levi davanti, qui a Leeds non ti serve, e i ragazzini di Christopher Road te la ucciderebbero per strada”.
Come ho scritto sul post, sono tanti i temi affrontati in questo romanzo.
Ne ho evidenziati alcuni…
– il rapporto con la città (e con i luoghi) in cui si vive
Ecco l’incipit del libro:
“Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima.
– il rapporto con il “diverso”, con l’altro da sé, simboleggiato anche dal desiderio di studiare una lingua straniera
Arrivata al negozio il cinese mi disse di chiamarsi Wen e cominciò a disegnare sul notes. (…)
Mi porse il quaderno con una misteriosa T sbilenca al centro del foglio.
Una lambda?
Un crocefisso decapitato?
“Che cos’è?”
“È la chiave o radicale di “persona”. Ogni ideogramma che ce l’ha ha a che fare con le persone…
(da pag. 57)
– il linguaggio degli sguardi come alternativa a quello delle parole
(sul rapporto tra madre e figlia: la madre di Camelia parla a sguardi)
–
“Le dissi lo sguardo Ti prego reagisci andiamo a vedere l’ultimo film di Woody Allen o ti porto al circo russo di Woodhouse Lane ti piacciono i funamboli?
Lei rispose con lo sguardo Ancora con questa storia di uscire“.
(da pag. 60)
– il rapporto con se stessi e la crisi esistenziale (simboleggiata dal “buco”, metafora di una mancanza e di qualcosa che “inghiotte”: il fosso che causa la morte del padre di Camelia, l’oblò delle lavatrici, i buchi fotografati ossessivamente dalla madre della ragazza).
Come dicevo, avremo modo di approfondire la conoscenza di “Settanta acrilico, trenta lana” approfittando della presenza dell’autrice. Contestualmente, come sempre, vi invito a discutere delle tematiche “collaterali” che – in un modo o nell’altro – sono trattate nel libro.
Seguono alcune domande volte a favorire la discussione…
1. Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?
2. Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?
3. Il linguaggio degli sguardi, può essere alternativo a quello delle parole?
4. Quali rimedi proporreste contro i buchi neri dell’esistenza?
@ Viola Di Grado
Per prima cosa vorrei chiederti (domanda tipica): come nasce questo libro?
Per il momento chiudo qui.
A dopo…
Eccomi di nuovo qui… giusto per dirvi che la discussione si svilupperà – con calma – nel corso della settimana.
A tutti, una serena notte.
Tanti auguri a Viola Di Grado per questo suo primo romanzo. Da quel che ho letto sul post e sulle recensioni proposte mi sembra un libro molto interessante.
Anche gli assaggi ( i pezzi di testo inseriti ) mi sono piaciuti.
Sugli argomenti proposti da Max.
Punto 1) – Il rapporto con le città.
Credo sia un rapporto molto stretto e che influenza parecchio le vite. Basta guardare il nostro paese. In genere chi è abituato al clima del centro-sud ha difficoltà ad ambientarsi nei gelidi inverni del Nord. E viceversa, ovviamente.
Ma ci sarebbe tanto altro da dire.
Punto 2) Lingua straniera e rapporto con il diverso
Io ho sempre pensato che imparare una lingua straniera è come impadronirsi di nuove identità. Credo sia una cosa bellissima. Anche in questo senso mi piacerebbe molto conoscere l’esperienza dell’autrice.
Io parlo inglese, francese, un po’ di spagnolo e sto iniziando a studiare il tedesco.
Chissà perché qui da noi, in Italia, lo studio delle lingue straniere anche tra la gente comune non è mai stato preso adeguatamente in considerazione?
Punto 3) Il linguaggio degli sguardi
Tutti noi, in un certo senso, parliamo con il linguaggio degli sguardi.
A volte si dice più con uno sguardo che con le parole.
Il problema è che non tutti hanno la sensibilità di coglierli, gli sguardi.
Nel romanzo se ho ben capito la protagonista riesce a farlo per comunicare con la madre.
Punto 4) I buchi neri dell’esistenza
Non credo esista un toccasana. In genere aiuta aprirsi agli altri : accogliere il dolore degli altri, per alleviarlo.
Nella mia esperienza ho visto che la sofferenza è sempre amplificata dalla solitudine e dalla propensione a chiudersi in se stessi.
ciao. il libro lo sto leggendo ed è davvero bello. spero di poter dire qualcosa in più nei prossimi giorni, quando andrò più avanti nella lettura.
un saluto all’autrice ed a tutti.
grande qualità di scrittura. lo sto finendo di leggere.
concordo con le parole di massimo mauceri ” originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere. “
la città , Leeds , sembra viva, sembra quasi cospirare su Camelia come fosse una compagna scomoda di cui non ci si riesce a liberare
i dialoghi con la madre sono geniali : dialoghi senza parole ma che dicono molto di più delle parole. non facile
il finale è tutt’altro che scontato e rimane aperto , anche se non è difficile immaginare cosa accadrà.
chiuso il libro, rimane il dispiacere per questa ragazza, Camelia, con cui hai convissuto per qualche giorno leggendo il libro e dividendone il dolore
un esordio con i controfiocchi. complimenti.
Buona giornata. Non avendo ancora letto il libro di Viola Di Grado posso solo limitarmi ai complimenti, almeno per il momento.
Provo a dire la mia, invece, sui temi sollevati.
1. Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?
Penso che le città siano fortemente condizionanti. Una città, che piaccia o no, detta i tempi della tua vita. Se abiti in una metropoli frenetica e probabile che prima o poi ti ritroverai a correre come tutti gli altri, a sfilare tra i marciapiedi, a infilarti nelle metropolitane.
Se vivi in una piccola cittadina, più a misura d’uomo, imparerai ad agire con più lentezza.
Anche i colori della città e il clima possono influire sull’umore. Sono d’accordo.
2. Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?
Ho qualche dubbio. Non credo che ci sia un’attinenza diretta tra una lingua e il popolo che la parla. Imparare una lingua straniera ti consente di comunicare, certo, con gli appartenenti a quel popolo. Ed e allora che cominci a conoscere, a capire.
Studiare una lingua straniera, di per sé, non credo possa essere sufficiente in quel senso…
3. Il linguaggio degli sguardi, può essere alternativo a quello delle parole?
Certo, ma con le dovute cautele. A volte non riusciamo nemmeno a cogliere il senso delle parole che ascoltiamo, figuriamoci gli sguardi.
Però è innegabile che certe occhiate siano più pungenti di una rampogna.
4. Quali rimedi proporreste contro i buchi neri dell’esistenza?
C’è un solo modo. Cercare di colmarli lavorando dentro di sè, non fuori. Qualunque cosa accada, bisogna sempre guardarsi dentro. Anche perché molto spesso non possiamo modificare gli eventi esterni. Le sensazioni interne, le emozioni, sì.
A me aiuta molto fare yoga.
Ciao a tutti e buona prosecuzione.
Ancora auguri alla giovane Viola Di Grado.
sono molto contenta che questo esordio di successo provenga dalla e/o, una casa editrice che stimo molto ed a cui auguro di crescere ancora tanto.
complimenti ed auguri a viola di grado.
@ viola di grado
ti aspettavi questo grande successo a livello di critica?
ovviamente ti auguro altrettanto successo a livello di vendite.
(Massimo se questi so i temini deve essere bravissima la viola …PPPP un saluto a te e a tutti:)))
Gli auguri per la giovane autrice sono d’obbligo, ma da quel poco che ho letto la scrittura mi pare davvero fresca e originale. Qualcosa di nuovo, insomma.
Leggerò il libro.
Interessanti le domande poste. Risponderò più tardi o domani.
[SETTANTA ACRILICO, TRENTA LANA: Viola di Grado]
Ciao Massimo, è da qualche tempo che non ci si sente. Vedo che Letteratitudine prosegue sempre con nuovi post stimolanti. Il libro di Viola Di Grado l’ho comprato ieri a Catania, consigliatomi da una libraia molto professionale che lo aveva letto: ” E’ un libro, fresco, con una scrittura accattivante, adatto a un pubblico giovane” mi ha detto. E’ stata molto convincente. Compimenti e i migliori auguri all’ autrice.
Cara Viola Di Grado, tanti complimenti. M’incuriosisce il paragone con Amélie Nothomb, una delle mie scrittrici preferite.
A te come sembra, il paragone? Ti ci ritrovi?
Ovviamente sarò una tua lettrice.
Ciao.
ciao a tutti. Grazie Massimo per le tue parole e grazie anche agli altri. Come nasce questo libro? So dirti dove: In un buco.
Ho immaginato una storia sprofondata in un luogo soffocante che si trova al di là del tempo e dello spazio, e soprattutto del linguaggio. Dentro la mia storia è sempre dicembre, un disco incantato sul mese più freddo, in cui quattro anni prima è successa una cosa terribile. Dopo il trentuno dicembre, viene di nuovo l’uno. Il calendario è coperto di formaggio sciolto sotto il letto. I giorni della settimana non esistono più. Anche lo spazio è straniato: procede per buchi, che Livia fotografa ovunque in quella casa cadente e lugubre. Volevo che il lettore si sentisse continuamente in pericolo di cadere dentro un buco.
E soprattutto, volevo azzerare il linguaggio: prendere le parole da quel luogo infetto che è la vita di Camelia e Livia, da quel luogo svuotato di significati, prenderle insomma come se partissero da zero, e ri-significarle. In modo che i lettori percepissero uno slittamento di senso rispetto al loro significato comune. Così, è nata la storia: dal desiderio di distruggere il linguaggio e reinventarlo.
Il resto è venuto a poco a poco, idee e immagini calamitate prepotentemente alle cose già scritte. Camminavo, e mi arrivava in testa una scena, un ideogramma, o che so l’immagine di un vestito con tre maniche, la palpebra senza piega del ragazzo cinese, una riga dei manuali di istruzioni che Camelia traduce…Allora mi precipitavo in un internet point e mandavo una mail a me stessa (non mi trovo bene con il classico notes-dello-scrittore, per qualche oscuro motivo la mia grafia porta le mie parole in luoghi che amo di meno di quelli dove vanno spinte dalla tastiera…meglio del notes semmai covarle in mente. Si mescolano ad altro, a volte magari scompaiono, ma se vogliono proprio essere raccontate tornano sempre).
Cara Annamaria, anche a me piace molto Amélie. Sono contenta del paragone e credo che in alcune cose effettivamente ci somigliamo, ad esempio nell’approccio anarchico alla scrittura. In altre però siamo diverse.
Ah, proprio ieri ho ricevuto una sua affettuosa lettera 🙂
Grazie per la risposta, Viola.
Davvero ti ha scritto Amélie? Beata!!! 🙂
Corro a comprare il tuo libro.
Vabbè, mi sa che aspetterò domattina.
@ giacomo: se ti rispondessi di sì, passerei per presuntuosa. Se ti rispondessi di no, passerei per insicura. Comunque, da pessimista cosmica che sono, non mi aspettavo nient’altro che la fine del mondo.
@ annamaria, eh sì dovrai aspettare domani: i distributori automatici 24-ore-su-24 del mio libro sono temporaneamente non in funzione per problemi tecnici (l’acrilico ha intasato gli ingranaggi).
Buona serata a tutti. Grazie per i numerosi commenti e grazie a Viola per essere intervenuta.
Benvenuta a Letteratitudine!
Come sempre ci tengo a salutare tutti gli intervenuti…
Un caro saluto a: Leo, Anna, Andrea Beltrami, Terzapagina, Amelia Corsi, Marco Vinci, Annamaria, Zauberei, Giacomo Tessani, Laura…
Un saluto di benvenuto a chi, tra voi, interviene per la prima volta.
grazie Massimo, sono 70 % contenta 30 % contenta di essere qui.
@ Viola
Mi sono piaciute molto le tue risposte.
In particolare questo passaggio: “volevo azzerare il linguaggio: prendere le parole da quel luogo infetto che è la vita di Camelia e Livia, da quel luogo svuotato di significati, prenderle insomma come se partissero da zero, e ri-significarle. In modo che i lettori percepissero uno slittamento di senso rispetto al loro significato comune. Così, è nata la storia: dal desiderio di distruggere il linguaggio e reinventarlo”.
Viola scrive: sono 70 % contenta 30 % contenta di essere qui.
🙂
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Allora… “Settanta acrilico, trenta lana” è una storia forte, dura… ma vi garantisco che in alcuni punti vi farà sorridere…
E torno al linguaggio di questo libro.
Mi sembra davvero nuovo… reinventato, come scrive Viola…
Prima di porre altre domande a Viola desideravo complimentarmi con la E/O per aver scelto di pubblicare questa storia.
Le risposte della critica, cari amici della E/O, vi stanno dando ragione.
E tra le altre cose avete superato un pregiudizio diffuso: e cioè che uno scrittore (o una scrittrice) italiano/a deve scrivere necessariamente storie ambientate in Italia…
Necessariamente, in questo caso, è un avverbio di cui possiamo fare a meno. :-))
Bravi, dunque…
Be’… è anche vero che Viola in Inghilterra ci ha vissuto (e ci vive) davvero…
A proposito, Viola…
Leeds è davvero così tetra come Camelia la descrive nel libro?
L’idea dei distributori automatici 24-ore-su-24 non è male.
Mi sembra bellissima!!!
Potremmo pensare anche ad organizzare un pronto soccorso per lettori bisognosi. 🙂
@ Viola
E vengo alla prima domanda del post…
Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?
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Viola, secondo te il clima di Leeds (il freddo, il buio, il grigiore) fino a che punto influenzano il carattere e la personalità di Camelia?
Se a Leed non fosse stato sempre dicembre… per Camelia credi che sarebbe cambiato qualcosa?
Prima di chiudere vi propongo (nel commento a seguire) la recensione di Sergio Pent uscita su “Tuttolibri” (de “La Stampa”) di sabato 5 febbraio…
“Nella palude acrilico / lana”, di Sergio Pent
“La Stampa / Tuttolibri”
05 febbraio 2011
–
Camelia Mega ha vent’anni e vive con la madre a Leeds, un luogo in cui l’inverno sembra l’unica stagione possibile. Una cupa ossessione – la morte del padre Stefano e della sua amante in un incidente d’auto – grava sullo stallo di non-speranza che è diventata la vita delle due donne. Esiliate dal mondo, prigioniere di un trauma senza sbocchi risolutivi, si annullano a vicenda in un gioco di sguardi e silenzi assoluti. Camelia traduce manuali di istruzione per lavatrici, la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni genere. In questo dilaniarsi verso una prevedibile follia, la ragazza – emigrata da Torino anni prima con la famiglia – intravede una luce di passione per il giovane cinese Wen, il cui strano fratello deturpa vestiti che Camelia indossa dopo averli recuperati dalla spazzatura. Le lingue e le culture di questi solitari turisti della vita si incrociano,ma Camelia non riesce a spiegarsi la ritrosia affettiva di Wen nei suoi disponibili confronti. Sarà Jimmy, il fratello strambo, a possederla furiosamente in un ambiguo gioco al massacro, rivelandole al contempo il tragico segreto che attanaglia la mente di Wen. Un ritorno alle origini, senza più speranza, chiude la possibile primavera di Camelia nella palude di Leeds. Cupo, impietoso, claustrofobico, ma a tratti anche genuinamente poetico nella sua volontà di recupero memoriale e affettivo, Settanta acrilico trenta lana (e/o, pp. 189, e 16), esordio della ventitreenne catanese Viola Di Grado, si colloca in uno spazio di generosa ambiguità, su un terreno più prossimo agli esordi di Isabella Santacroce che non alla Nothomb o addirittura alla Elena Ferrante citate in copertina. Il percorso della protagonista nella sua discesa agli inferi con parentesi di gloria effimera, è delirante, amaro, compresso in una gestione autistica dei sentimenti, nell’annullarsi di ogni contatto umano«normale». In questa Leeds ostile, caratterizzata da un inamovibile egocentrismo meteorologico, la storia nera di Camelia e di sua madre attraversa con una convinzione esaltata – forse un po’ enfatica – le tappe di un percorso a senso unico verso un’impossibile resurrezione.
@ Viola
(prima di chiudere)
Una curiosità: cosa ti ha scritto Amélie Nothomb in quella mail?
(se si può dire, ovviamente)…
Auguro a Viola e a tutti voi una serena notte.
Allora. Leeds non è affatto una città lugubre e terribile come la vede Camelia. Anzi, a me- al contrario che a Camelia- piace moltissimo. E’ un palcoscenico di scene estreme, vomito e urla, nevicate violente, ma è elegante e vitale. Era un ingrediente perfetto da trasformare in uno scenario terribile. Era abbastanza ambigua da poterlo fare. Io la volevo rivoltare come un maglione, per rimanere nella metafora. Mostrarne il volto apocalittico, che viene direttamente dallo sguardo distorto di Camelia. E’ sempre dicembre perchè lei è rimasta a dicembre. Leeds ha seguito Camelia nella tomba. Se fosse stata una città soleggiata e ridente, sobria e accogliente, Camelia l’avrebbe odiata in un modo diverso. Ma l’avrebbe odiata comunque.
In breve, sì il clima e i colori di una città influenzano le nostre vite, ma secondo me è più forte l’influsso contrario: sono le nostre vite che influenzano la città, che sia Leeds o New York o un villaggio in Nepal.
Amélie mi ha scritto che ha letto il mio romanzo, che è caduta nel buco e che è lusingata di essere paragonata a me. Dolcissima !
comunque, no massimo non era una mail, era una lettera vera e propria.
@ viola di grado
grazie per la tua risposta alla mia domanda. ho letto anche le altre risposte. sei brava.
ti applaudo.
@ annamaria, il pronto soccorso per lettori bisognosi mi pare l’invenzione più necessaria dopo gli ombrelli che non si rompono e le lavastoviglie che sistemano e incastrano da sole le stoviglie. Ok, la seconda era sul genere fantascienza, ma insomma sono molto stanca, a domani!
viola
ti sorrido io al posto di annamaria, che presumo sarà nel mondo dei lettori che sognano un pronto soccorso di libri
🙂
prometto che è la prima ed ultima volta che lascio un emoticon ( si dice così ? ) qui e altrove.
Anzitutto complimenti per il blog! Anche io ho scritto una recensione sul libro di Viola Di Grado, ecco il link:
http://leacciughefannoilpallone.blogspot.com/2011/02/consigli-per-gli-acquisti.html
Riguardo ai temi lanciati vorrei rispondere in particolare al punto 2 e 3.
La lingua dice molto di un popolo. In Settanta acrilico trenta lana, chi, come me, sconosce il cinese sarà certamente rimasto stupito dallo “strano” quanto affascinante meccanismo delle chiavi, dei verbi resultativi.. dei toni. Non si tratta solo di comunicare, ma di categorie mentali. Di come un popolo è, come pensa.. Me ne rendevo conto quando studiavo quella lingua indomabile che il greco antico, al Liceo (nonostante le inutili categorizzazioni scolastiche delle grammatiche!) . E adesso che sto iniziando a studiare Francese, mi rendo conto di quanto una lingua non “rifletta” un popolo, ma è quel popolo. Per quanto, invece, riguarda il linguaggio degli sguardi, in Settanta acrilico si parla di “anoressia verbale”. E’ un’immagine molto forte, che mi è piaciuta molto. Nella nostra cultura che ha radici giudaico cristiane, il Verbo è Dio. Un linguaggio senza parole è animalesco. Un linguaggio solo di sguardi è un linguaggio malato.
Ritorno al blog dopo tempo, grazie probabilmente a una parentesi concessa da una notte insonne e al potere della letteratura, amica e amante delle notti insonni. Prima di tutto saluto gli amici, che ritrovo (senza mai essermi allontanato troppo) con affetto: Massimo in testa. Leggo in questi giorni il libro di Viola Di Grado ed è un piacere per uno come me, appassionato fino al delirio di scrittura e modi di scrivere al punto da “costringere” i malcapitati scrittori a parlare dei personali artifici, e non di trame se non marginalmente, durante i tanti reading alla Feltrinelli dei quali, immodestamente, mi fregio di essere un umilissimo organizzatore free-lance. Trovo, nel libro della Di Grado, innanzitutto la (pre)potente pulsione di originalità che, per ammirevole alchimia, deriva dal sapiente (e sorprendente) uso della lingua e dallo slancio (incosciente e/o inconsapevole) che è tipico dei voli senza paracadute. Si sa che l’ammirazione per il funambolo è maggiore se sotto non c’è la rete di protezione: il pubblico ama da sempre il rischio quando a rischiare è la pelle altrui. Così, con levità e onere, l’autrice ci offre un registro di qualità (dove tragedia, gnomica e ironia si dosano a dovere) e dove tanti detrattori reclamano diritti di paternità. Ma cos’è la scrittura se non confronto e scontro? Se non amore e delirante rimpasto di metafore? Se non abuso e riuso? Se non precario equilibrio fra i tanti registri ereditati e subiti? Se non masochistico piacere d’essere risucchiati da uno dei buchi scritti dall’autrice e bisogno viscerale di riscatto? Senza andare troppo in là con la memoria (rinverdita da recenti programmazioni) ho notato anch’io tra la Camelia della nostra Viola e una certa Amélie più di un segno di tangibile parentela. Mi riferisco alla Amélie Poulain scritta e diretta dal francese Jean-Pierre Jeunet che alla sua eroina ha consegnato un “favoloso mondo” o, conformemente al titolo francese, un “favoloso destino”. In fondo si tratta di elidere una C, e saltare indietro, oppure di tenerla ben salda questa C e restituire alla nostra protagonista il destino dei fiori (fatti di bellezza struggente ed effimera, tanto da essere “strappati”, “sverginati”, “mutilati”, “calpestati” come direbbe la Di Grado). Non cosa facile il destino della scrittura. Non lo è quando si pretende che una nuova forma di originalità sia generata da quella corrente (se ne esiste una). Eppure ammiro i coraggiosi. Non ci sarebbe stato Ariosto e il suo Orlando furioso senza Baiardo e il suo Orlando Innamorato. Dall’amore la furia, è sempre così. E dalla furia (passando per laghi incantati, castelli perduti, scontri sui destrieri e anelli ritrovati) di nuovo l’amore. Un affettuoso saluto a tutti e più di un augurio a Viola.
ciao Viola, sto leggendo il tuo bellissimo libro e mi sto appassionando alla storia. Il personaggio Camelia è riuscitissimo.
sto scoprendo anche tante cose sulla lingua cinese di cui non sapevo nulla. e mi sta pure venendo voglia di studiare il cinese. mi piacerebbe saperne di più su questa lingua.
ciao.
Mi unisco ai complimenti per il libro di questa giovane esordiente.
Credo che il pregio principale stia proprio nel linguaggio, come già in tanti hanno fatto rilevare. E non solo tra i critici.
Anche i lettori comuni lo notano.
Per esempio: facendo un salto su ibs, leggo queste opinioni :
(Adriana) : ‘ La lingua è molto innovativa. Non avevo mai letto un romanzo così bello’.
(Petrol) : ‘ Viola Di Grado distrugge il linguaggio come lo conosciamo noi e lo reinventa. Ogni oggetto, ogni sentimento, sembra diverso, come se con ogni sua parola il mondo venga trasformato. ‘
Ancora :
(Flame in the dark) : ‘ Una scrittura tagliente, incisiva come un bisturi, violenta di una violenza che scuote il lettore fino a essere quasi una catarsi. Forte di un’eccellente opera di costruzione/decostruzione della lingua ‘
(Silvia) : ‘ bellissimo. estremamente tagliente. difficile dopo leggere altro ‘
Quando la critica e i lettori confluiscono nei pareri postivi a favore di un romanzo incentrato soprattutto sull’innovazione del linguaggio, ecco, penso che la letteratura è ancora viva. E questo mi lascia ben sperare per il futuro.
I miei omaggi all’autrice ed ai partecipanti al forum.
Grazie Alessandro per le tue belle parole e grazie anche ad Anna !
La lingua, sì, dice sì tutto di un popolo, ma non dice nulla del mondo. Nella Cina antica, sia i confuciani che i moisti concepivano il linguaggio in modo strumentale: chi se ne appropria puo’ usarla a suo piacimento per modificare il mondo. Perchè la lingua è un oggetto, e Confucio parla di appropriatezza del nome rispetto all’oggetto a cui si riferisce. Nel mondo di Camelia la relazione oggetto-nome è sfasata: più che APPROPRIATA la relazione, è lei si APPROPRIA degli ideogrammi per fame di reinventarsi una vita, di decifrare il mondo da cui si sente esclusa, assegnando convulsamente significati a ogni cosa, significati che però parlano solo di lei, non del mondo, alla fine. Tornando ai filosofi cinesi, Zhuangzi sosteneva che le parole non dicono nulla del mondo: parlano solo di noi stessi, che pretendiamo di conoscerlo, che blocchiamo la realtà in segmenti autoreferenziali, le parole appunto. Camelia fa proprio questo, si impossessa delle parole (cinesi) per salvarsi la vita. Per riempire buchi profondi dove sono cadute le sue parole destinate a suo padre, alla madre, al resto del mondo. Sprofonda felice in una bulimia improvvisa di significati. Le “chiavi” (/radicali) cinesi hanno il potere splendido e terribile di descrivere e classificare le cose con l’immediatezza dell’immagine. Senza banali filtri alfabetici. I tentativi di Camelia di ritornare al mondo, provando che Zhuangzi aveva ragione, non possono che riportarla ciclicamente al suo delirio, ai giorni “sempre meno numerati”, al buco…
grazie a tutti e buona giornata
attenti al buco !
PS @giacomo: no, non sarà l’ultimo ma il primo di una serie immortale, vedrai…
ciao giorgio, ti ringrazio! non avevo ancora letto i commenti su ibs
Ancora sinceri e sentiti complimenti. Spero di leggere presto altri tuoi romanzi.
Carissima Viola, carissimo Massimo, carissimi amici del blog, un saluto a tutti. Mi ritaglio questo breve spazio, all’interno di una giornata supercaotica, per rendere omaggio a “Settanta acrilico trenta lana”, uno dei libri più intensi e più disperatamente creativi che abbia letto negli ultimi anni. Davvero brava, Viola Di Grado. Brava oltre ogni dire. Partiamo proprio dal primo grado: il grazo zero della lingua. L’autrice non si accontenta di un vocabolario preesistente, così come i grandi artisti non si accontentano mai della semplice materia del mondo ma sentono il bisogno costante di riplasmarla. Michelangelo non si accontentava del marmo che gli veniva fornito. Andava a sceglierselo di persona, a selezionarlo nelle cave, affrontando lunghi viaggi e pericolose avventure. Allo stesso modo Viola risolfeggia le possibilità cromatiche e psicologiche del linguaggio, come su una tastiera dalle sfumature infinite. Compie un’operazione prodigiosa. Questa lingua nuova – dura, risonante, poetica oltre ogni misura e insieme, a volte, terribilmente dolce e struggente, caustica e malinconica, in altri termini, bellissima – questa lingua nuova, musicale, evocativa dicevo, ci accoglie nel suo cosmo buio, simile a un buco ma pure a una voragine. Perché l’altra grande sensazione che ho avuto affidandomi alle pagine è stata quella di cadere dentro una voragine. Scivolavo già nel buco che accoglie il romanzo e le sue ombre. Viola non adopera alcun paracadute né reti protettive si stendono sotto i suoi piedi. Si lascia andare, lascia che i suoi personaggi, i loro pensieri, le loro emozioni sprofondino tutti nel fragoroso risucchio generale. E mentre cado, e cadono i personaggi insieme a me, precipitano le poche certezze borghesi intorni alle quali comunemente si costruisce il senso quotidiano di un vivere ristretto. Per questo la giovane protagonista del romanzo sceglie una strada differente, istintiva, la più assolutamente sensoriale. Sono i sensi a farla chinare su un cassonetto della spazzatura, i sensi a spingerla a schiacciare un fiore sotto la suola delle scarpe, o a orientarla all’interno di un mondo ostile ma altamente poetico. Sono i sensi a farla soccombere al fascino del ragazzo che ama e che non la ricambia – o che la ricambia come può. I sensi a farle percepire le ferite dello strappo, l’abbandono del padre, la sua oscura morte, il trauma indelebile nella madre e infine il suo tradimento. E’ un personaggio che commuove, che tocca, perché costantemente alla ricerca d’amore. Ma questa ricerca si muove secondo coordinate istintive che stanno al di sopra del pensiero e che fanno più i conti col ritmo incisivo della scrittura e delle sue immagini. Camelia non pensa e non valuta, agisce prima che qualcosa raffreddi i suoi istinti, o la sua furia nei confronti del mondo. In qualche pagina mi ha fatto piangere, lo ammetto. Per il bisogno di tenerezza, di calore, e la ricerca di un senso che la vita sembra costantemente nasconderle. O sottrarle. E’ un personaggio tenero e toccante, che si nasconde dietro le sue stesse ferite, che cerca un raggio di sole dentro un inverno sconfinato. Me ne occuperò presto, anche sul mio blog, e lo sto già consigliando ad amici e amici-di-amici e amici-di-amici-di-amici. “Settanta acrilico trenta lana” è davvero un romanzo magistrale, dal quale abbiamo tanto da apprendere. Ringrazio Viola Di Grado per questo dono di bellezza. La ringrazio con stupore, con commozione, e soprattutto con amicizia. Perché chi ci dona tanto non può non essere considerato il nostro più grande amico…
Era già mia intenzione leggere questo libro d’esordio tanto che da giorni campeggia sul mio comodino, in buona posizione.
Ma adesso, leggendo le parole di Massimo, le recensioni e gli interventi sul blog (fra tutti cito quelli dei miei amici Alessandro Savona e Luigi Larosa) , Settanta acrilico trenta lana è passato in pole position, scavalcando almeno due o tre volumi.
Voglio entrare in contatto con questa ragazza, Camelia che mi ricorda la mia bambina ormai cresciuta.
Le sue personali nebbie, quel suo modo speciale di proclamare l’unicità del suo cammino attraverso la manipolazione dei vestiti.
Grosse spille da balia a deturpare stoffe, mimare drappeggi, costruire festoni che avvolgessero gonne e magliette.
E poi l’incrociare gli sguardi, il parlare con gli occhi in un’intesa umorale profonda.
La lettura di un paio di brevi frammenti mi ha infilzato con la punta di freccia di un ricordo non ancora passato nel passato.
Ma ne riparlerò con più cognizione non appena l’avrò letto davvero, per il momento un augurio alla giovane Viola e un saluto a tutti gli amici
caro luigi grazie per quello che scrivi. Per l’acutezza, la profondita, e la vastità del mondo che evochi. E abiti. Per quanto ami, e come, la letteratura.
Ho avuto modo di conoscere Viola Di Grado in occasione di uno degli eventi letterari organizzati da Porsche Italia: fummo entrambe selezionate per la fase finale di un concorso e ci ritrovammo insieme da Catania a Milano.
Conservo ancora l’antologia che ne venne fuori.
Proprio da lì ho iniziato a conoscere la scrittura di Viola e dopo gli “assaggi” su Internet e le recensioni, sono curiosa di leggere questo romanzo dall’esordio così fulminante.
Qualche impressione: la camelia è un fiore che non ha odore, come i fiori della Mimì di Puccini… ed era il fiore preferito da Proust.
Il nome Mega mi fa pensare a Game, a gioco, al gioco letterario della letteratura che è quello della continua costruzione, decostruzione e ricostruzione del linguaggio e della trama. Come l’amico Alessandro Savona sono anch’io curiosa della forma letteraria, dei meccanismi linguistici… vorrei chiedere a Viola come ha scelto la lingua giusta per raccontare questa storia.
Già quando l’ho conosciuta mi attirava questa sua familiarità con le lingue orientali: denotazione e connotazione hanno un meccanismo diverso negli ideogrammi? Tutto questo trova riflesso nella “visività” prevalente in questo romanzo, dove i personaggi sembrano parlare pochissimo?
E poi una domanda “sociologica”: questa impossibile resurrezione dei tuoi personaggi rispecchia un tuo modo di sentire rispetto alla società in cui viviamo? Tu hai venticinque anni, quindi sei piena parte dell’universo “giovanile”. Quali tendenze noti?
Grazie e… in bocca al lupo.
Naturalmente un caro saluto a tutti gli amici, da Elvira a Mavie, ad Alessandro, Luigi, Massimo e tutti i frequentatori del blog…
Che bella questa nuova vita della parola che si slega dal suo significato convenzionale, che lo ricrea come un innamorato, che lo ripopola di fantasmi e di schegge dell’anima!
Che bella questa necessità di scomporla, la parola, reinventarla, trovarla dopo averla persa, fragile e segreta come un codice da decifrare!
E che bella questa giovinezza che non si rassegna, che svela i segnali lasciati dalla vita, che intuisce che prima del luogo (e il luogo stesso) è il linguaggio.
Che bella questa Viola che ha capelli lunghissimi e sguardi a trafiggerti, come se alla giovinezza unisse già una spina, lunga, acuminata, che al futuro sa opporre il passato, le due acrobazie e i suoi lutti, la maturità ferocissima dell’innocenza!
Brava, questa nuova e prorompente scrittrice, brava a dire e a capire che dire non basta. Che la parola è prigione o libertà a seconda dello sforzo di chi la argina, di chi la ama o la odia. Di chi ci si scontra come innanzi all’affioro più immediato di noi, del nostro precario passaggio.
Del senso, infine, che speriamo ci rimandi ogni segno cifrato.
Un augurio di grandissima felicità!
Simo
Caro Massi, per rispondere alle tue bellissime domande ti dirò che Sandor Marai (scrittore, come sai, da me amatissimo) diceva sempre che per lui -che non aveva più patria – l’unica patria era la lingua ungherese. La sua lingua.
E questo perchè solo nella parola si riconosceva uomo, superstite. Solo nella parola identificava se stesso, la storia che lo aveva preceduto, la traccia di sè nella vita degli altri.
Come se parlando lo stesso idioma, accarezzandolo e avviluppandolo a pelo di lingua, come se dicendolo e ancora dicendolo, potesse restituirgli anche il senso dell’umanità. Farlo sentire parte di essa.
Ecco. Credo che il primo modo per comprendere un altro popolo sia capire la sua lingua. Entrare nei suoi segreti, nell’indicibile che ogni segno lascia. La parola infatti non è solo il suo significato ma anche l’evocazione di esso, il viaggio che suscita e alimenta dentro, non fuori, alla scoperta di ciò che non è codificabile nè mai veramente esprimibile: il nostro mistero.
Sotto questo aspetto mi pare che il libro di Viola abbia colto un punto nodale dell’espressività: la sua impossibilità a espandersi proporzionalmente al sentire umano, l’essere suo sempre a metà, sempre viandante, e per questo sempre reinventabile, multiplo, senza numero.
Mi commuove questa appassionata ricerca dell’origine del parlato, come se ognuno di noi non avesse bagagli, ma dovesse allestirli ogni volta, e ancora.
Una verginità che corrisponde alla voglia di essere capiti, allo sforzo di essere interpretati e di farsi interpretare.
Come se la lotta alla sopravvivenza si giocasse tutta lì. Nel farsi percepire.
E – dunque – nel farsi amare.
ieri ho preso 70 acrilico. le aspettative, dopo aver letto questi post, sono molto alte. intanto auguri all’autrice e saluti a tutti.
Mi complimento ancora con Viola Di Grado e provo a rispondere alle interessanti domande.
(Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?)
–
Fino al punto da non farti uscire di casa, a volte. Parlo per me, ovviamente. Io sono un sole-dipendente. Non riuscirei mai a stare bene in una città troppo al Nord, anche se per lavoro spesso mi trovo a girare e a vivere per certi periodi (anche mesi) in Nord Europa.
Ma non c’è dubbio che freddo, buio e pioggia influiscono negativamente sul mio umore.
(Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?)
Ho sempre pensato che un popolo è anche la sua lingua. La lingua è talmente forte, che si può anche cambiare continente ma la si continua a parlare. La lingua tiene unita una nazione, nonostante tutto.
(Il linguaggio degli sguardi, può essere alternativo a quello delle parole?)
Con gli sguardi, così come con i gesti, si dice tanto. Anche uno sguardo di può fare parola. Credo che è quello che è successo tra Camelia e la madre, anche se non ho ancora letto il libro.
(Quali rimedi proporreste contro i buchi neri dell’esistenza?)
La meditazione. Aiuta tanto.
Grazie Luigi per il fascino e la profondità delle tue suggestioni. E grazie anche a tutti gli altri. Ciao Maria Lucia! Non ho 25 anni, ne ho 23, il romanzo però l’ho scritto a 21, ecco perché Camelia ne ha 21. Dunque: credo che Camelia, dopo essere stata risucchiata dal buco, abbia conservato poco delle caratteristiche dei suoi coetanei, lei li vede come animali di un’altra specie oscena che non capisce del tutto. Non m’interessava un ritratto generazionale, se non in un senso esterno a Camelia, quello sì: generazione come luogo esterno di cui le era sbarrato l’accesso e incomprensibile il senso. Ma i significati di un romanzo, una volta scritto, appartengono a chi legge…Io tra le pagine ho messo tante scatole, chi le vede le puo’ aprire e trovarci dentro quello che ho nascosto, o lasciarle lì tra le parole. Belle infatti le ipotesi che fate sul nome di Camelia Mega…
Ciao, visto che questo bel libro è ambientato a Leeds……. ecco qualche informazione sulla città…..
Leeds è una città di 761.500 abitanti del Regno Unito, capoluogo dell’omonimo distretto metropolitano con status di city dal 1893. Sorge nella regione dello Yorkshire e Humber, nell’Inghilterra settentrionale. La città comprende la città di Wetherby e Otley.
Leeds è situata nella fascia pedemontana orientale dei Pennini sul fiume Aire la cui valle, l’Aire Gap, fornisce un corridoio naturale per le vie di comunicazione verso le città situate ad ovest dei Pennini. Il punto più elevato della città, a 340 m sul livello del mare si trova nella sua estremità nord-occidentale, alle pendici orientali del Rombalds Moor, meglio conosciuto come Ilkley Moor, al confine con Bradford. I punti più bassi, a circa 10 m si trovano ad est della città: il punto in cui il fiume Wharfe attraversa il confine con il North Yorkshire a sud della zona del Thorp Arch Trading Estate e dove l’ Aire incontra il confine del North Yorkshire vicino all’area protetta di Fairburn Ings.
A nord e ad est Leeds confina con il North Yorkshire: distretto di Harrogate a nord e di Selby ad est. I rimanenti confini sono con distretti del West Yorkshire: Wakefield a sud, Kirklees a ovest e Bradford ad ovest.
La città, cerimonialmente appartenente alla contea dello West Yorkshire, fa parte dell’area metropolitana chiamata City of Leeds.
Il primo riferimento storico al nome Leeds si trova nel libro Historia ecclesiastica gentis Anglorum scritto nel 731 dallo storico e teologo Beda il Venerabile che scrive: “…regione quae vocatur Loidis” ovvero “regione chiamata Loidis”. Questa radice, riferita alla zona in cui sorge la città, sopravvive anche nei nomi delle vicine località di Ledston e Ledsham. L’insediamento viene menzionato con il nome di Ledes nel Domesday Book del 1086[2], successivamente il nome evolverà in Leedes ed infine Leeds.
Piccolo villaggio ai tempi di Guglielmo il Conquistatore, Leeds crebbe lentamente ma in modo costante, favorita dalla posizione geografica che la pone in facile e rapida comunicazione con le sponde orientale ed occidentale inglesi e dall’industria laniera sviluppatasi a partire dal secolo XIV ma, con sviluppo particolare nei secoli XVI e XVII. La sua prima università fu fondata nel 1904.
Verso la fine di agosto, ogni anno, nelle campagne immediatamente circostanti, si svolge l’omonimo “Leeds Festival”, uno dei maggiori eventi di carattere musicale del Regno Unito, che ospita anche artisti di spessore internazionale.
sono nati a Leeds:
– Malcolm Mcdowell, interprete principale del film Arancia Meccanica
– Melanie Brown, cantante delle Spice Girls
A Camelia piacciono le Spice Girls?
Ciaooooo 🙂
per saperne di più ecco il sito del Comune di Leeds http://www.leeds.gov.uk/
Ciao Viola… scusami per il lapsus sull’età, mi piaceva l’idea del quarto esatto di secolo!
Mi è tanto piaciuta la tua idea di romanzo come iper-scatola, iper-contenitore in cui ci sono tante scatole suscettibili di essere riempite dalla curiosità del lettore.
Vorrei tanto leggere anche le tue risposte sulla lingua: amo le stratificazioni linguistiche delle parole, il viaggio che è possibile compiere a partire anche dai fonemi, dalle modificazioni delle strutture… Tutto questo riflette la cultura di un popolo, visioni, profumi, sapori, che sedimentano nei vocaboli rendendo un codice qualcosa di vivo e vitale.
la lingua non è un codice asettico ma è forma e contenuto insieme, significante e significato che danno ai segni una peculiarità unica.
Interessante anche l’autismo di Camelia, se mi consenti la definizione: la sua afasia, la sua disperata anoressia verbale di fiore senza odore (se ci pensi un fiore senza odore è un fiore afasico) riflettono il suo non sentirsi parte della sua generazione, vista come una specie distante ed incomprensibile, mi par di capire.
Sto leggendo il libro. Un esordio piuttosto interessante direi. Mi piace questo discorso sulle scatole e sulla lingua. Che non è solo un gioco di costruzione/decostruzione, ma è una profonda riflessione sulla comunicazione muta, sulle lingue basate su ideogrammi (e quindi sulle immagini), e sulle diverse costruzioni delle frasi nelle diverse lingue. E quest’ultimo aspetto potrebbe rispondere di per se alla seconda delle domande suggerite da Massimo: se in cinese non ha senso dire “stasera non c’è la luna”, ma la frase corretta va costruita come “stasera io non ho la luna”, qualcosa, e di molto profondo, ci dice su un mondo e una cultura diversa dalla nostra. E senza andare fino in Cina alcune belle differenze di costruzione ci sono già tra le lingue europee.
Ed è interessante come intorno a questo Viola costruisca un libro, una storia. Dove l’appropriarsi della comunicazione è un modo per riempire il buco, o i tanti buchi delle nostre esistenze, quello in cui è precipitata la madre di Camelia, quello in cui sa di poter sprofondare anche Camelia stessa. Non so ancora se ci riuscirà. Mi mancano ancora una sessantina di pagine. Lasciatemelo finire.
Buona serata a tutti. Vi ringrazio per i nuovi commenti e per la partecipazione di Viola.
Avevo dimenticato di salutare Salvo Zappulla (lo faccio adesso).
E contestualmente ringrazio per gli interventi: Elena Caruso, Alessando Savona (bentornato!), Anna Valenti, Giorgio…
@ Luigi La Rosa
Bellissima la tua recensione al libro di Viola. Aspettiamo di ritrovarla sul tuo blog…
http://luigilarosa.blogspot.com/
… insieme a un’intervista inedita che immagino Viola ti rilascerà.
Ringrazio anche Mavie per il suo intervento.
E un saluto a Elvira…
A Maria Lucia faccio invece tanti in bocca al lupo per la recentissima pubblicazione di questo libro bello e importante:
http://perronelab.it/node/678
Avremo modo di riparlarne…
Cara Simo,
grazie per il tuo ottimo intervento. Mi è piaciuto in particolare questo passaggio: Credo che il primo modo per comprendere un altro popolo sia capire la sua lingua. Entrare nei suoi segreti, nell’indicibile che ogni segno lascia. La parola infatti non è solo il suo significato ma anche l’evocazione di esso, il viaggio che suscita e alimenta dentro, non fuori, alla scoperta di ciò che non è codificabile nè mai veramente esprimibile: il nostro mistero.
Davvero bello.:-)
Ringrazio anche Marco Vinci e Zack.
E Mary D., per averci fornito informazioni su Leeds.
Ringrazio naturalmente anche Carlo, che – tra le altre cose – scrive: se in cinese non ha senso dire “stasera non c’è la luna”, ma la frase corretta va costruita come “stasera io non ho la luna”, qualcosa, e di molto profondo, ci dice su un mondo e una cultura diversa dalla nostra.
–
Credo che, in effetti, l’introduzione della lingua cinese (e del concetto di ideogramma) in questo romanzo di Viola (anche perché apre scenari nuovi su come intendere il linguaggio), sia del tutto inedito nella letteratura italiana.
@ Viola
Credo che aver ricevuto una lettera (cartacea) dalla Nothomb (non una mail. come avevo pensato) rende il gesto ancora più bello ed emozionante.
Sarebbe bello poter approfondire, per quel che è possibile fare in un forum come questo, la conoscenza della lingua cinese e dell’ideogramma.
Intanto, cara Viola, ti chiedo (se è possibile) di inserire un barno a tua scelta tratto dal romanzo (giusto per farlo “assaggiare” un altro po’)…
Due appuntamenti con Viola Di Grado.
Il primo:
–
il 16 febbraio 2011, dalle ore 18 alle ore 19 circa, Viola Di Grado presenterà il suo romanzo d’esordio Settanta acrilico trenta lana alla Libreria Feltrinelli di Catania (via Etnea 285).
Interverranno Rosario Castelli e Rosa Maria Di Natale.
Il secondo:
–
Viola Di Grado presenta “Settanta acrilico trenta lana” a Roma – Giovedì 17 Febbraio ore 18 / Libreria Feltrinelli – Via V. E. Orlando 78/81
Interverrà insieme all’autrice Chiara Valerio.
Letture di Valentina Carnelutti.
Per oggi chiudo qui, augurandovi una serena notte.
se ho ben capito questo romanzo di Viola Di Grado tratta anche del rapporto tra madre e figlia, tema che mi sta a cuore…
Massimo, grazie per aver “svelato” il mio esordio che si intreccia con quello di Viola.
Strano come i destini, anche letterari, si annodino e si sleghino con coincidenze stranissime…
A Viola auguro tutta la felicità possibile, per la sua scrittura e soprattutto per la sua vita.
ho comunicato via mail questa discussione ad una mia mica che studia il cinese.
forse interviene domani
@Viola Di Grado
Hai tutte le carte per diventare una importante scrittrice (perdonami il tu), che colpisce dritto al cuore e allo stomaco dei lettori.
Sei giovanissima, qualcuno potrebbe dire troppo giovane. Senonché la letteratura è come un oceano dove vivono un’infinità di pesci, piccoli e grandi, anziani e neonati.
Ma una domanda vorrei porti: cos’è che ti spinge a scrivere? Ovvero qual è il fatto o l’emozione o altro ancora che ti hanno costretto (sbaglio verbo?) a scrivere? Ciascuno scrittore o poeta (lasciamo perdere gli scienziati, i filosofi e via dicendo) è sempre spinto, magari inconsapevolmente, da un qualche moto dell’animo.
Buona fortuna!
Buongiorno, sono Raffaella l’amica di Anna. Beh dire che studio il cinese non è proprio corretto. Diciamo che mi sto avvicinando alla lingua. Anche per questo mi interessa il libro di Viola di Grado.
Se può essere d’interesse metto qui qualche appunto che avevo conservato.
La prima cosa da dire è che la lingua cinese hanyu (汉语sempl./漢語trad., hànyǔpinyin – “lingua cinese parlata”) o zhongwen (中文sempl./中文trad., zhōngwénpinyin – “lingua cinese scritta”) è una lingua tonale e fa parte della famiglia delle lingue sino-tibetane.
Anche se il Mandarino è considerato spesso per motivi culturali come una sola lingua, la sua variazione regionale è paragonabile a quella delle lingue romanze. Nonostante ciò, tutti gli utenti delle varietà parlate di cinese hanno usato sempre una lingua scritta convenzionale comune che, fin dall’inizio del XX secolo, è stata chiamata “cinese vernacolare”, ed è basata su un insieme quasi identico di caratteri. È divisa in otto dialetti molto diversi tra loro ed il principale di questi è il mandarino standard, che è la lingua madre con il maggior numero di parlanti al mondo: più di un miliardo. Il governo della Repubblica Popolare Cinese preme per la diffusione di una lingua comune (cinese semplificato: 普通话; pinyin: pǔtōnghuà) basata sul mandarino.
Ciò premesso, il cinese è una lingua tonale, isolante, con un grande numero di parole omofone e di parole composte.
Circa un quinto della popolazione mondiale parla una forma di cinese come lingua madre. La lingua cinese, parlata sotto forma di mandarino standard, è la lingua ufficiale della Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica di Cina sotto Taiwan, nonché una delle quattro lingue ufficiali di Singapore ed una delle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite. Parlato sotto forma di cantonese standard, il cinese è una delle lingue ufficiali di Hong Kong (insieme all’inglese) e di Macao (insieme al portoghese). I termini ed i concetti usati da un cinese per pensare alla lingua sono differenti da quelli usati in Occidente, in parte a causa degli effetti di unificazione dei caratteri cinesi usati nella scrittura ed in parte a causa delle differenze nell’evoluzione politica e sociale della Cina in confronto all’Europa. Dopo la caduta dell’Impero Romano, infatti, l’Europa fu spezzettata in piccole nazioni, le cui identità sono state definite spesso dalla lingua; la Cina cercò invece di conservare l’unità culturale e politica ed ha introdotto una lingua scritta comune durante la sua intera storia, malgrado le diversità reali nella lingua parlata, paragonabili a quelle delle lingue europee. Di conseguenza, i cinesi fanno una distinzione netta fra scritto (文 wén) e parlato (语/語 yǔ). Il concetto di combinazione distinta ed unificata delle forme scritte e parlate della lingua è molto meno forte in Cina che in Occidente. Un linguaggio scritto uniforme continua ad essere usato (con poche eccezioni) al posto di versioni scritte di linguaggi parlati.
I sette gruppi principali di dialetti sono:
cinese mandarino (è il cinese tradizionale, comunemente conosciuto come “lingua cinese”);
wu 吳 (include lo shanghainese);
xiang 湘;
gan 贛;
hakka 客家;
cantonese standard 粵 (o yue);
min 閩 (che alcuni linguisti dividono ulteriormente in 5-7 suddivisioni, tutte reciprocamente incomprensibili).
I linguisti che distinguono dieci anziché sette gruppi importanti separano anche il jin dal mandarino, il pinghua dal cantonese e lo hui dal wu. Ci sono inoltre molti gruppi più piccoli che ancora non sono classificati, come: il dialetto di Danzhou, parlato a Danzhou, sull’isola di Hainan; lo xianghua 乡话 (da non confondere con lo xiang 湘, parlato a occidente nello Hunan; e lo shaozhou tuhua, parlato a nord nel Guangdong. (Vedi la lista dei dialetti cinesi per un elenco completo di diversi dialetti all’interno di questi grandi, vasti raggruppamenti). C’è inoltre il mandarino standard, ufficialmente usato dalla Repubblica popolare cinese, Repubblica di Cina (Taiwan), e Singapore. Il mandarino standard è basato sul dialetto di Pechino, ovvero il mandarino come è parlato a Pechino, e il governo cerca di imporlo a tutta la nazione come linguaggio nella comunicazione. Quindi è usato dal governo, dai mezzi di comunicazione e nell’istruzione nelle scuole, eppure non è la lingua parlata dalla gente.
C’è polemica intorno alla terminologia usata per descrivere le suddivisioni del cinese, tra chi preferisce denominare il cinese una lingua e le relative suddivisioni dialetti, ed altri che preferiscono denominare il cinese famiglia di lingue e le relative suddivisioni linguaggi. Ciò anima più di un dibattito. D’altra parte, anche se il dungano è collegato strettamente al mandarino, non molta gente lo considera “cinese”, perché è scritto in cirillico ed è parlato dal popolo dungano al di fuori dalla Cina, che non è considerato di etnia cinese.
È comune per chi parla cinese poter parlare parecchie varietà della lingua. Tipicamente, nella Cina meridionale, una persona potrà parlare col funzionario il mandarino standard, il dialetto locale ed occasionalmente un altro dialetto regionale, come il cantonese. Tali poliglotti giocano frequentemente fra il mandarino standard ed il dialetto locale, secondo la situazione, cosicché il bilinguismo è un tratto molto comune sia nella Cina continentale che a Taiwan. A volte, i vari dialetti sono mescolati ad altri, secondo l’influenza geografica. Una persona che vive a Taiwan, per esempio, mescolerà comunemente le pronunce, le frasi e le parole da mandarino standard a taiwanese e questa mescolanza è considerata socialmente appropriata in molte circostanze.
Il cinese parlato contiene molte varianti regionali spesso reciprocamente incomprensibili. In Occidente, molta gente è a conoscenza del fatto che le lingue romanze derivano dal latino e ciò offre aspetti comuni da un lato mentre sono reciprocamente incomprese dall’altro. Lo sviluppo linguistico del cinese è simile, mentre il contesto sociopolitico è abbastanza differente. In Europa, la frammentazione politica ha generato stati indipendenti di dimensioni approssimativamente simili a quelle delle province cinesi: ciò ha provocato un desiderio politico di generare modelli culturali e letterari separati fra le nazioni e di standardizzare la lingua all’interno di ogni nazione. In Cina, un campione culturale e letterario unico (il cinese classico e, successivamente, il cinese vernacolare) ha continuato ad esistere mentre, allo stesso tempo, la lingua parlata fra le città e le province ha continuato a divergere, un po’ come in Europa, come risultato delle dimensioni del paese, della mancanza di comunicazioni, delle montagne e della geografia.
Ad esempio, la Cina del sud montagnosa mostra diversità linguistica più accentuata della Cina pianeggiante del nord. C’è persino un detto in cinese: “le barche nel sud e i cavalli nel nord” (南船北馬 pinyin: nánchuán-běimǎ). Le pianure della Cina del nord permettono di essere attraversate con facilità usando un cavallo, ma la vegetazione densa e le montagne ed i fiumi numerosi del sud impediscono lunghi viaggi. Nella Cina meridionale, il mezzo di trasporto più efficiente era la barca. Per esempio, Wuzhou è una città sita a circa 120 miglia a nord da Guangzhou, capitale del Guangdong della provincia nel sud. D’altra parte, Taishan è soltanto 60 miglia a sud-ovest di Guangzhou, ma parecchi fiumi devono essere attraversati per arrivarci. A causa di questo, il dialetto parlato a Taishan, rispetto al dialetto parlato a Wuzhou, è molto diverso dal cantonese standard parlato nel Guangzhou (Ramsey, 1987).
Questa diversità delle forme parlate e la comunanza della forma scritta ha generato un contesto linguistico che è molto differente da quello europeo. In Europa, la lingua di ogni nazione è stata standardizzata solitamente per essere simile a quella della capitale, rendendo facile, per esempio, classificare una lingua come francese o spagnola. Ciò ha avuto l’effetto di accentuare le differenze linguistiche lungo le divisioni amministrative degli stati. Inoltre, la lingua scritta viene modellata su quella della capitale e l’uso del dialetto locale o di forme ibride viene percepito come socialmente inferiore quando non completamente errato. In Cina, questa normalizzazione non è accaduta. Più simile alla situazione della Cina è quella dell’India. Benché l’India non sia stata storicamente unificata come la Cina, molte delle lingue multiple, parlate da molto tempo, sono state unificate in vari stati e molte standardizzate solo da qualche decennio. Il sanscrito ha svolto un ruolo di lingua scritta comune per secoli. In India, tuttavia, la classificazione delle lingue discendenti del sanscrito come lingue separate non è in discussione; 18 sono le lingue ufficiali.
Pochi linguisti sostengono seriamente che cantonese e mandarino siano la stessa lingua nel senso letterale del termine, ma per la percezione popolare di una lingua o di un dialetto, le considerazioni linguistiche spesso non sono importanti tanto quanto quelle culturali o nazionalistiche. Nel descrivere la loro lingua, i cinesi considerano il cinese come una singola lingua, in parte a causa della lingua scritta comune. Per descrivere i dialetti, la gente cinese usa tipicamente l’espressione “il dialetto del posto”, per esempio “dialetto di Pechino” (北京話/北京话) per la parlata di Pechino o “dialetto di Shang-Hai” (上海話/上海话) per la parlata di Shang-Hai. Spesso non c’è neppure alcuna consapevolezza fra la gente che questi vari “dialetti” sono categorizzati in “lingue” basate su chiarezza reciproca, comunque nelle zone di grande diversità (quale il sud-est) si pensa ai dialetti come raggruppati nelle categorie wu e hakka. Così, anche se in molte zone della Cina del nord le lingue sono abbastanza omogenee, nelle zone della Cina del sud, le città importanti possono avere dialetti che sono soltanto marginalmente comprensibili persino ai più vicini. Ciononostante, c’è la tendenza a considerare tutti questi idiomi come variazioni di una unica lingua cinese.
Nel concetto di lingua cinese in sé, le divisioni fra i differenti “dialetti” sono principalmente geografiche piuttosto che basate sulla distanza linguistica. Per esempio, il dialetto del Sichuan è considerato tanto distinto dal dialetto di Pechino quanto il cantonese, malgrado il fatto che linguisticamente sia il dialetto di Sichuan che il dialetto di Pechino siano entrambi dialetti del mandarino per i linguisti ma non per i cantonesi. A causa di questa percezione di unicità della lingua cinese da parte della maggioranza di coloro che la parlano, alcuni linguisti rispettano questa terminologia ed usano la parola “lingua” per il cinese e “dialetto” per il cantonese, ma i più seguono il requisito di chiarezza e considerano il cinese essere un gruppo di lingue, poiché queste lingue appaiono reciprocamente incomprensibili e mostrano una variazione paragonabile alle lingue romanze. Poiché molte zone sono rimaste a lungo linguisticamente distinte, non è sempre chiaro se il parlato di una regione particolare della Cina dovrebbe essere considerato di diritto una lingua o un dialetto di un’altra lingua e molte delle lingue non hanno confini precisi fra loro. Ethnologue ne elenca quattordici, ma il numero varia fra sette e diciassette secondo quanto è rigoroso il criterio di chiarezza.
Qua c’è il sito di Ethnologue
http://www.ethnologue.com/show_family.asp?subid=1270
La distinzione fra una singola lingua e una famiglia di lingue ha tratti politici importanti, se non decisivi. Per qualcuno, descrivere il cinese come un insieme di lingue differenti implica che la Cina dovrebbe realmente essere considerata un insieme di nazioni e sfida la nozione dell’unica etnia cinese Han. Qualche cinese trova scomoda l’idea che il cinese non sia una sola lingua, poiché questa percezione potrebbe alimentare secessionismi. I sostenitori dell’indipendenza taiwanese si sono fatti promotori di una formazione con lingua hakka. Per altri descrivere il cinese come lingua multipla porta alla nozione che singola lingua cinese e implicitamente un solo stato cinese è antica, oppressiva, artificiale e fuor di realtà. Tuttavia, i collegamenti fra origine etnica, politica e lingua possono essere complessi. Per esempio, molti Wu, Min, Hakka e Cantonesi considerano le loro lingue come lingue parlate separate e la etnia cinese di Han come una singola entità, senza considerare queste due posizioni come contraddittorie; invece considerano la etnia di Han come un’entità caratterizzata da un’enorme diversità interna. Inoltre, il governo della Repubblica popolare cinese dichiara ufficialmente che la Cina è una nazione multietnica e che il termine stesso “cinese” si riferisce ad un più vasto concetto chiamato Zhonghua minzu comprendente gruppi che non parlano affatto cinese, come Tibetani, Uiguri e Mongoli (quelli che parlano cinese e sono considerati “cinesi” dal punto di vista dello straniero sono denominati “cinesi Han”, concetto inteso in senso etnico e culturale, non politico). Similmente, in Taiwan si possono trovare i sostenitori dell’unificazione cinese, interessati a promuovere la lingua locale, ed i sostenitori dell’indipendenza di Taiwan che hanno poco interesse per l’argomento. E, in analogia con l’idea cinese del Zhonghua minzu, l’identità taiwanese incorpora aborigeni di Taiwan, per niente considerati cinesi Han perché parlano lingue austronesiane, perché migrati prima dei Cinesi Han a Taiwan e perché geneticamente e culturalmente collegati agli Austronesiani della Polinesia.
Avrei altri appunti sul cinese scritto e sulla storia della lingua, manon vorrei esagerare.
Ancora auguri a Viola di Grado e tanti saluti ai lettori di questo sito.
Cara Viola,
ti premetto che sono ottima conoscitrice del libro “I CHING”: pochi segni grandi verità. Anche la grande pittura è fatta spesso di simboli, mi piace ricordare che un maestro astrattista come Tal Coat (astrattismo francese dell’immediato dopo guerra) ridusse le cose al loro segno essenziale per dominarle …
Tuttavia, sono sincera, non ho ancora letto il tuo libro, spero di acquistarlo al più presto ed in questo contesto posso solo rispondere alle domande dell’amico Massimo, partecipare allo scambio trovando che le domande poste nr. 1.2.3.4 si legano fra loro in direzione discendente, intrappolando all’interno il senso del tema (reale): la comunicazione. Gli individui tendono ad instaurare relazioni all’esterno ed all’interno di sè stessi, dunque con l’ambiente che li circonda, compreso il paesaggio, intendo con un cielo azzurro piuttosto che grigio perla o grigio fumo, la luce determina le concezioni di visioni (il raggio tagliente è ben diverso dalla dolce doratura sulle cose), per non addentrarsi nelle architetture e nelle differenze fra le curve di un palazzo di antica nobiltà europea e gli angoli acuti di un grattacielo. Sto parlando di musica figurata che entra nel cervello, importante come quella parlata, ovvero la lingua di un popolo come strumento di comunicazione: più note si conoscono, più lo spartito diventa interessante per chi lo ascolta, ovviamente intervengono altri fattori – le cosiddette p.r. – dove non dimentichiamoci che il denaro agevola moltissimo (soprattutto in territorio straniero) e che stabilisce il punto. Il punto di confine intendo.
Oltrettutto se non hai l’ANIMA gli occhi non comunicano, ma sapeste quante cose comunicano gli sguardi animali!
Per giungere infine al rapporto madre figlia, ourobotico buco nero, o comunque l’autismo verso l’esterno che gli individui si trascinano anche da adulti, spesso generato da un rapporto genitoriale non appropriato, scopo dell’ultima domanda forse era un approfondimento psiconalitico, va bene l’introspezione verso sè stessi prevede anche questo, è inevitabile, ma poi bisogna alzare la testa e guardare di nuovo il cielo, aprire la boccuccia e muovere la glossa in modo giusto, ho visto occhi che sembravano finestre sul mondo.
Adoro il cachemire. Ciao.
Rossella
@Ausilio: No, non c’è un fatto che mi ha spinto a scrivere. Forse è al contrario: la scrittura ha spinto i fatti a succedere. Ma no, a parte gli scherzi, io ho sempre scritto, da quando avevo 5 anni, è un mio bisogno fisico, immediato. Quando ho bisogno di scrivere e non lo faccio mi sento male. Il modo stesso in cui vivo la realtà è influenzato e filtrato dalla mia scrittura. Cioè non solo racconto la vita ma vivo raccontando (nella mia testa, cioè, quando sto facendo altro). A volte infatti penso di essere prima una scrittrice e poi una persona.
@ Rossella, dato che sei un’esperta dello yi jing il romanzo t’interesserà: il piano di lettura simbolico della storia attiene molto a una logica di esagrammi, liberamente deformata da Camelia nei suoi tentativi di ritornare alla vita…
Infine, vi saluto con un incipit: il mio. Massimo mi ha chiesto di mettere un passaggio del romanzo, e siccome mi confondo terribilmente a sceglierlo metterò direttamente l’inizio. Eccolo.
Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds,
dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che
nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era
prima. Nevicava tutto il giorno, a parte quella breve parentesi
di autunno che ad agosto aveva scosso un po’ di foglie e se n’era
tornata da dove era venuta, tipo la band di apertura prima della
star.
A Leeds tutto ciò che non è inverno è una band di apertura
che si sgola due minuti e poi muore. Subito dopo arrivano le
plateali tempeste di neve, si abbattono a terra come maledizioni,
congiurano contro il lirismo spericolato delle piccole fucsie
sbocciate nel parco. E fate un applauso. Bis.
Ogni inverno di Leeds è terribilmente egocentrico, vuole sempre
essere più freddo dell’inverno precedente, pretende sempre
di essere l’ultimo inverno. Scatena un vento letale con le vocali
strette degli inglesi del nord, ma ancora più dure, e comunque
nessuno dei due è con me che parla.
E dire che non è l’inverno che la gente teme, è l’inferno, con
quel calduccio di fiamme. Io li scambierei volentieri, scambierei
la V di inverno con la F, se la vita si potesse gestire come uno dei
miei esercizi di cinese.
Le poche volte che uscivo di casa una museruola di gelo mi
bloccava la mascella, e il vento mi capovolgeva l’ombrello, me lo
strappava dalle mani, lo trascinava per metri, poi lo abbandonava
storpio sull’orlo del marciapiede, le stecche per aria come zampe azzoppate. Eppure gli inglesi continuavano a uscire in pantaloni al ginocchio e giacche di cotone, coi piedi scoperti e pure le gengive, gli stessi sorrisi spalancati che avevano ad agosto,
e poi gli stessi passi lunghi, lo stesso modo rilassato di chiacchierare,
strascicando le sillabe in bocca, consegnandole senza
fretta all’aria gelida che le trasformava in fumo. E ovviamente i
loro ombrelli non si rompevano mai.
ed eccovi un altro assaggio.
*
*
Le mie cose le ho lasciate nella casa di Victoria Road perché
pensavo che non ne avrei avuto più bisogno. Avevo ragione. Sei
giorni dopo mi aveva telefonato la padrona di casa, «Che faccio
con le tue scatole?», io le avevo detto di buttarle e poi avevo
buttato anche il cellulare.
È stato in quei giorni che è cominciato il lutto delle corde vocali.
Mia madre ha smesso di parlare gradualmente, come se
fosse una fase naturale e necessaria del ciclo vitale.
La neve aveva cominciato da poco il suo lavoro di annientamento,
guardavo dalla finestra le case scomparire come ricordi. Era dicembre che diventava gennaio, cambiava la sua pelle
sporca di foglie secche e fango, diventava bianca come a nozze,
ma noi non eravamo invitate.
Un giorno, come se niente fosse, della tipica frase delle nostre
due del pomeriggio, «Sale il caffè», è rimasto solo «sale»,
come il sale sul petto dei cadaveri nei funerali scozzesi. Mia
madre dalla cucina disse «Sale» con la sua voce leggera, e io lo
sapevo che dovevo conservarlo nelle orecchie come il canto di
un uccello raro. Entrai in cucina, la moka borbottava, fuori
dalla finestra la neve ammazzava l’ultimo verde dell’aiuola, ma
tanto era già mezzo secco, c’era tutto quel grigio in mezzo,
come i capelli di un vecchio, e poi proprio lì accanto la gente
ci lasciava la spazzatura.
Si avvicinò anche mia madre alla finestra, gli occhi inespressivi,
la tazzina in una mano, l’altra mano che sul vetro non lasciava
impronte. Lo vuoi o non lo vuoi, no, non lo disse ma era
quella la domanda.
«No mamma, non lo voglio, ma tu da quant’è che non ti lavi
i capelli?».
Presto anche le altre frasi si ritrovarono mutilate, le frasi quotidiane,
quelle che pensi che restano sempre uguali, tipo “Buongiorno”
e “Ce l’hai messo il sale?”. Anche lì, in “Ce l’hai messo
il sale?”, restò solo il sale. Poi se ne andò anche lui.
Mia madre non parlava più, neanche una parola.
Sarà anche per questo che alla fine gennaio non è più arrivato.
che belle pagine, Viola!!! grazie….. sei bravissima.
…….
Ciao Raffaellaaaaaaa!
Non si può azzardare un commento su una idea che la scrittrice, Viola Di Grado, sviluppa nel romanzo in oggetto, ma si può rispondere alle domande che Massimo pone.
La prima domanda a cui rispondo, mi fa ricordare Leon Tolstoi che esprime la tristezza di certe ambientazioni attraverso lo stato d’animo dei suoi attori come se il mondo esterno costituisse una unica realtà con l’interiorità del personaggio.
Le due realtà,secondo me, restano sempre separate e si intersecano attraverso lo sguardo con cui un soggetto umano guarda le cose. Il pilota della vita è sempre la persona con il suo modo di sentire e di percepire.
Se non fosse così si verrebbe a ledere il nucleo della libertà, la sostanza di cui siamo fatti, in una parola, l’unicità. Qualcuno o qualcosa può orientare le nostre sensazioni,è possibile, ma non può orientare i nostri pensieri.
E’ vero che la nostra sta diventando una società interconnessa e, come dice
Jeremy Rifkin, la coscienza empatica si va estendendo alle plaghe più remote della biosfera ed a tutte le creature viventi. Siamo giunti ad empatizzare con gli orsi polari e i pinguini. Ma tutto questo se non è accompagnato dal risveglio del senso di sé e non innesca un processo di differenziazione,non possiamo far nulla per cambiare le cose, nè creare legami di aiuto e di cambiamento per noi e per gli altri, perchè solidarietà, condivisione non è piangere assieme ma complementarietà specialmente nel bisogno di rinascita della civiltà. In caso contrario significherebbe ricadere in una specie di legami di sangue , ossia di tribalismo magico.
In America ci si è accorti di questo nuovo modo di percepire e si è dato vita a laboratori di empatia attraverso cui la connessione emotiva si fa capacità di pensare in modo critico.
Ormai è noto che tutto ciò che facciamo, il modo con cui ci poniamo nei confronti della realtà influenza la vita degli altri esseri umani legati tra loro in ecosistemi condivisi. Siamo legati profondamente gli uni agli altri e mi dà tristezza vedere ed odorare la spazzatura buttata a tutte le ore nel contenitore sotto il mio balcone
Secondo me , anche se ancora non l’ho letto, il romanzo di Viola potrebbe dirci qualcosa sulla coscienza empatica ed entropica. Tutto questo stimola ad un ripensamento sui modelli relazionali.
Si dice che l’era della ragione sta per essere sostituita dall’era dell’empatia e forse la giovane scrittrice l’ha intuito e si è sentita nella città di Leeds dove studiava, partecipe di questo cambiamento biosferico della coscienza.
Ma forse….sono andata fuori tema……
Non sono anonimo sono mela mondi.Ci tengo a presentarmi per chi sono, una che di computer avrebbe molto da apprendere.
Cara Viola,
grazie per i brani del tuo libro che ci hai donato.
Un assaggio davvero succulento, direi…
–
Verrò a salutarti il 16 febbraio 2011, dalle ore 18 alle ore 19 circa, alla Libreria Feltrinelli di Catania (via Etnea 285), in occasione della presentaione del libro.
Un caro saluto a tutti gli altri amici che hanno lasciato nuovi contributi.
Grazie mille ad Ausilio Bertoli e a Rossella per i loro interventi.
Cara Raffaella,
grazie per i tuoi interessanti interventi sulla lingua cinese. Se hai altro da condividere, accomodati pure… :-))
Ti ringrazio in anticipo.
E grazie mille anche a Mela Mondì, per il suo intervento molto interessante.
Grazie a te Massimo. Le mie presentazioni sono il 16 a Catania e il 17 a Roma, entrambe alla Feltrinelli. I dettagli presenti e futuri sulla mia pagina-ufficiale-facebook:
http://www.facebook.com/violadigrado
Detto questo,
70 % Buonanotte e 30 % arrivederci
Cara Mela hai scritto una riflessione molto profonda. L’era dell’empatia, è vero, ha sostituito la ragione; il tuo pensiero appare come un punto dal quale partono diversi raggi, sembra un piccolo sole.
Sarebbe davvero interessante approfondire questo tema, magari di persona: aggiungo soltanto che se del pensiero collettivo si potesse tracciare un disegno (rimaniamo nel campo dei simboli) la croce appare rovesciata. Breve la verticale, lunga l’orizzontale.
Ciao Mela. Grazie.
Rossella
Cara Rossella,sono compiuciuta e ti ringrazio del tuo commento.
Se vuoi metterti in contatto con me non hai che da chiedere il mio recapito elettronico e domiciliare a Massimo, o acquistare il mio libro “ALLA CORTE DEL NONNO MASTICANDO LIQUIRIZIA” edizioni Agemina Fi,( già alla terza ristampa) nell’ultima pagina troverai indirizzo e numero di telefono.Nel libro non parlo specificatamente di empatia ,ma per certi versi costruisco sull’empatia.
A quello che ho scritto sopra posso aggiungerti che l’empatia è un elemento della conoscenza che spiega anche “l’evoluzione della cultura” di cui in questi ultimi tempi si è occupata anche la rivista internazionale LE SCIENZE. Infatti l’antropologia oggi rivolge ad essa il suo interesse.
L’empatia, a detta degli esperti, ci insegna a diventare più umani.
Ciao e buona ricerca
non vedo l’ora di leggerlo
e se il sangue non è acqua…
Viola Di Grado: 70% simpatica, 30% ironica, 100% brava.
Sto leggendo il tuo bel libro
complimenti alla nuova scrittrice catanese e al suo primo traguardo editoriale!
Già il solo sfogliare il libro e leggiucchiare quì e lì qualche pagina dànno l’impressione di un romanzo sincero e piacevole, esistenziale nel contenuto. Come non pensare a una presenza nascosta della vita nella città di appartenenza. Rimossa, ma per questo indicazione per difetto e lente convergente dei fatti e dei sentimenti.
Ancora grazie (oltre a Viola): a Rossella, Mela, Elio, Gabriella (ti aspetto in libreria, eh… 🙂 ), Giulio
Sulla pagina cultura de “La Sicilia” di oggi è uscito un ottimo articolo firmato da Rosario Castelli.
Lo inserisco di seguito…
Rosario Castelli, “Una discesa agl’inferi nello spazio liquido di Leeds”, La Sicilia, 14/02/2011
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È ancora presto per parlare di caso letterario? Forse, ma “Settanta acrilico trenta lana” (E/O), il romanzo con cui si affaccia alla ribalta editoriale la ventitreenne Viola Di Grado, non passa certamente inosservato, a giudicare dalle numerose e lusinghiere recensioni che ha già inanellato. Il suo folgorante incipit (“Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima”) catapulta il lettore nello spazio liquido di una città inglese che solo a pronunciarla ti senti l’acqua nelle ossa, in cui anche il sole ha la freddezza di un neon e gelide patine di solitudine avvolgono come cellophane i sentimenti e le vite delle persone che ci abitano.
La storia che il libro racconta è quella d’una discesa agl’inferi che precipita Camelia Mega e sua madre Livia nel gorgo di un’esistenza in cui i vuoti sono paradossalmente la realtà più concreta. Orfana di un padre adultero che le ha lasciato nell’anima un buco a sua immagine e somiglianza, la giovane protagonista si troverà a dover ricucire la propria esistenza lacerata come fa con i vestiti che trova nei cassonetti e che ricompone dopo averli tagliuzzati e ridotti a brandelli.
La madre, ormai ridotta all’afasia dopo un brillante passato da musicista, vegeta in una casa ammuffita comunicando solo con gli sguardi e fotografando ossessivamente buchi con la sua Polaroid.
L’immaginario che vivifica la creatività dell’autrice è intermediale e ricchissimo, leggendo il libro ci imbattiamo in immagini che non ci stupiremmo di trovare in un certo tipo di cinema visionario -da Tim Burton a David Lynch -, che potremmo veder descritte in romanzi di Irvine Welsh o Amélie Nothomb, a cui pure è stata paragonata, o che starebbero benissimo in un graffito di Jean-Michel Basquiat.
Ma su tutto spicca la personalità già armata e matura di una scrittrice convincente che, pur avendo metabolizzato tante influenze artistiche, riesce a somigliare solo a se stessa componendo un romanzo dallo stile anamorfico. L’anamorfosi è, letteralmente, una “forma ricostruita”, un’immagine che possiamo riconoscere solo collocandoci da un preciso punto di vista. Oggi sono gli artisti di strada – e ce ne sono di bravissimi in Inghilterra – i più abili realizzatori di opere anamorfiche che colpiscono i passanti che percepiscono cavità o profondità inesistenti. Anche Settanta acrilico trenta lana è disseminato di voragini, oblò, buchi, da cui i personaggi, che incedono in equilibrio come sull’orlo di un cratere, rischiano di essere costantemente risucchiati. Sono la metafora di un tempo perduto e irrecuperabile, slabbrato, pieno di effrazioni e diffrazioni, e in cui l’unica possibilità è data da un’insopprimibile coazione a ripetere che ammette solo l’eterno ricominciamento di ogni cosa.
Non sono pochi i pregi dell’opera, ma su tutti spicca la lingua che l’autrice usa con precisione e freddezza chirurgica, con una padronanza degli strumenti espressivi che raramente caratterizza le opere prime e con cui compone un patchwork di vite imperfette, illuminate qua e là da un’ironia british, ora sapida ora amara, con cui vaccinare la disperazione.
Più che di formazione, quello di Viola Di Grado è perciò un romanzo di de-formazione percorso da una vena straniante che rimescola le convenzioni sintattiche, animato da una lingua sorprendente, evocativa, mai scontata o asservita a scopi esclusivamente descrittivi o comunicativi. Tutte qualità che si riflettono nei personaggi, nella descrizione della natura e nella rappresentazione dello spazio interiore, e in cui sono sempre gli scarti dalla norma, le contaminazioni, i cortocircuiti fantastici a produrre guizzi mercuriali.
Giovedì 17 febbraio, nello spazio del Libro del giorno ospiteremo l’esordiente Viola Di Grado, autrice di Settanta acrilico trenta lana. Edizioni E/O
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/index.cfm
Avremo il piacere di ascoltare Viola a Fahrenheit, giovedì prossimo.
Faccio i migliori auguri a Viola Di Grado per la candidatura ufficiale del suo romanzo d’esordio “Settanta acrilico, trenta lana” (e/o) all’edizione 2011 del Premio Strega, proposto da due “amiche della domenica” (si chiamano così i giurati del Premio Strega): Serena Dandini e Maria Rosa Cutrufelli.
Letteratitudine,
per caso, qualcuno dice per serendipità ma è solo una questione di algoritmi, mi sono trovato a leggere uno strano post sul libro della Di Grado nel blog Letteratitudine in cui Massimo Maugeri, dopo una rassegna di link e una lista di temi reputati importanti, ha posto quattro domande ai suoi lettori per «favorire la discussione».
Dopo alcuni commenti la stessa Viola Di Grado risponde alle domande.
Mi sono incuriosito ed ho ripercorso a ritroso le risposte dell’autrice, rintracciando le domande degli avventori del blog, alla fine ho montato i commenti e ne è venuta fuori intervista involontaria a Viola Di Grado, spontanea, diretta, spesso ironica.
Un’intervista collettiva con i colori di chi ama perdersi in particolari, forse inconsistenti per il libro, ma importanti per la propria vita.
Ecco il link: http://lisoladegliasini.blogspot.com/2011/04/intervista-involontaria-viola-di-grado.html
Ho aggiornato questo post giusto per congratularmi con Viola Di Grado. In questi mesi “Settanta acrilico, trenta lana” ha fatto incetta di premi importanti. Su tutti (notizia di ieri), la vincita del Premio Campiello opera prima 2011.
Brava, Viola! Complimenti a te e al tuo talento.