Storie (in) Serie # 12
(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al tema della… imprevedibilità nelle serie TV (con riferimenti a Westworld, Stranger Things, The O.A.)
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L’imprevedibilità nelle serie TV
Westworld, Stranger Things, The O.A.
Le regole della narrazione non bastano a costruire storie coinvolgenti: in un contesto in cui lo storytelling è il paradigma di ogni comunicazione che tenti di essere efficace, concetti come la sospensione dell’incredulità, la struttura in tre atti e i trucchi della sceneggiatura sono noti e interiorizzati al punto da non essere più efficaci.
Nell’impossibilità di collocare in compartimenti stagni i romanzi e le serie TV (così come le mission aziendali, la pubblicità, i video su YouTube), occorre riflettere su come una comunicazione narrativamente costruita si collochi nel bagaglio di storie che danno forma alla percezione individuale del mondo. La familiarità del pubblico con le strutture delle storie cresce in maniera esponenziale e i narratori non possono ignorare l’allenamento costantemente esercitato dal loro pubblico potenziale attraverso la somma di letture, visioni, ascolti.
Come riuscirebbero i narratori a stupire e avvincere il pubblico se si limitassero a seguire pedissequamente regole codificate da Aristotele in poi?
Dalle serie TV provengono alcune soluzioni interessanti per spiazzare gli spettatori e invogliarli a proseguire la visione mettendo in pratica la cooperazione interpretativa di cui parla Umberto Eco in Lector in fabula, impegnandoli nello sforzo di comprendere. L’espressione inglese “to make sense” è cristallina nel descrivere il processo di comprensione di un messaggio (con l’ovvio corollario che un senso deve essere sotteso, ché da comunicazioni insensate siamo infestati).
La teoria dell’informazione di Shannon indica come lo svolgimento di una comunicazione possa essere misurato in termini di prevedibilità: il contenuto informativo è tanto maggiore quanto meno prevedibile, e questo è applicabile anche alle storie. Una comunicazione narrativa dovrebbe essere costruita in modo da accogliere il fruitore (lettore, spettatore o ascoltatore) nel «mondo scritto» (cfr. le Lezioni americane di Calvino) ma anche da evitare di fornirgli immediatamente le coordinate per una comprensione totale: a differenza di un messaggio informativo, la narrazione dovrebbe avvincere e imbrigliare in un tentativo di costruzione di senso che proceda per indizi, improvvise illuminazioni e una tensione costante.
La struttura aristotelica in tre atti e l’arco narrativo del protagonista, variamente esplorati da Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti), Christopher Vogler (Il viaggio dell’eroe), Gustav Freytag (Technique of the Drama) – ma anche dallo scrittore statunitense Kurt Vonnegut, che riporta gli alti e bassi dei personaggi su assi cartesiani –, se applicate alla lettera alle narrazioni contemporanee le depotenzierebbero perché le renderebbero prevedibili. Se bastasse collocare le storie nello schema “Boy Meets Girl” (situazione di partenza media, incontro, perdita, riconquista) o “Man in the Hole” (situazione di partenza sfortunata, conquista faticosa del benessere, minaccia, risoluzione), non ci sarebbero molte possibilità combinatorie da sfruttare per costruire prodotti narrativi coinvolgenti.
Nelle serie TV più recenti, la rottura delle regole sembra quasi un presupposto programmatico: non c’è arco di trasformazione del personaggio in BoJack Horseman (ne parlavamo qui) né in Vinyl (i loro protagonisti non fanno che cadere sempre più in basso, senza redenzione); non si va oltre il primo atto in Love, produzione originale Netflix che sfilaccia il modello della storia d’amore, annacquandolo e indugiando nelle pieghe della quotidianità. Se in questi casi è la struttura narrativa tradizionale a collassare, in altri viene meno la collocazione in un genere definito e codificato.
Westworld (2016, HBO, in Italia Sky Atlantic) è un western inserito in una cornice fantascientifica, e costantemente impegnato a confondere la mappa e il territorio.
Come in Jurassic Park, il parco di Westworld è un’esperienza immersiva: l’ambientazione da Vecchio West è realizzata grazie a un territorio vastissimo che può impegnare i visitatori per diversi giorni, e gli automi che lo popolano sono personaggi di linee narrative attentamente costruite in una cabina di regia. Il risvolto fantascientifico, che implica una riflessione sullo sviluppo della coscienza degli automi, sfocia nei modelli di Matrix e The Truman Show (e se ci fosse una realtà sovraordinata e fossimo tutti personaggi?). La tensione narrativa è nel mistero rappresentato da un labirinto e dall’identità di Arnold, deus ex machina; i colpi di scena comprendono la sovrapposizione di piani temporali differenti e la definizione identitaria dei personaggi, sempre in bilico fra libero arbitrio e predeterminazione. La costruzione per enigmi ricorda Lost (e J.J. Abrams è fra i produttori di Westworld), ma la tenuta narrativa della serie ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy è migliore rispetto a quella di Lost, caposaldo della serialità contemporanea multistrand (Lost era viziato da una struttura divergente che ha progressivamente lasciato cadere molti degli indizi proposti nelle stagioni iniziali). Mancano le unità di luogo (al punto che le ambientazioni sono agli antipodi: il polveroso West e laboratori asettici) e di tempo (le linee sono sovrapposte e, dato che gli automi non invecchiano, ricostruire la fabula non è semplicissimo, a vantaggio dei colpi di scena finali).
Stranger Things (2016, Netflix) mescola modelli cinematografici degli anni Ottanta, il realismo della periferia americana, la fantascienza e il fantasy.
Fra le regole della sceneggiatura indicate da Blake Snyder in Save the Cat! viene indicata la necessità di evitare il “doppio abracadabra”, cioè l’inserimento nella stessa storia di troppi elementi che mettano a dura prova la sospensione dell’incredulità: Stranger Things contravviene a questa regola combinando la presenza di un universo parallelo («The Upside Down») popolato da una creatura fantasy (il “Demogorgon”) ed esperimenti paranormali ascrivibili alla fantascienza. La densità narrativa che ne deriva ha pagato nella risposta del pubblico e della critica: la serie TV ha vinto numerosi premi, fra cui il Critics’ Choice Awards.
Il recentissimo The O.A. (2016, Netflix) è definito dalla sua indefinibilità.
Anche in questo caso, il “doppio abracadabra” è costitutivo, strutturale: la protagonista Prairie ricompare dopo una sparizione di più di sette anni, guarita dalla cecità, ma già dalla prima puntata – un lungo prologo al racconto intradiegetico – la storia si sposta in Russia per comprendere il racconto di un’educazione autoritaria ma rimpianta, scontri fra mafia e imprenditori, un viaggio sotto copertura, esperimenti di pre-morte condotti su cavie umane. La narrazione è condotta sempre in bilico fra lo strano e il meraviglioso (cfr. Todorov, La letteratura fantastica) e infatti Prairie chiede ai suoi interlocutori di sospendere il giudizio e immedesimarsi completamente nel racconto, finché non siano completamente avvinti dalla storia.
Lo sforzo di comprensione richiesto agli spettatori è notevole, e non tutti lo riterranno ricompensato dalla visione, ma senza dubbio The O.A. si colloca in un contesto in cui le serie TV operano al rialzo, addensando il materiale narrativo, operando per continui spiazzamenti, disegnando una delle tendenze della serialità contemporanea, quella all’accumulazione e sovrapposizione.
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