(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
La serie perpetua – Community e la consapevolezza di essere personaggi
a cura di Carlotta Susca
Cosa succede a un personaggio quando è consapevole di essere tale? Come si struttura una serie televisiva i cui protagonisti non siano gioiosamente inconsapevoli dell’esistenza di tutte le altre serie simili a quella di cui fanno parte?
In molti degli universi seriali di cui siamo fruitori, i protagonisti portano avanti il proprio ruolo ignorando i loro omologhi (il bello, la svampita, la secchiona…), ma se nella vita vera ci capita di sottolineare le similitudini con situazioni viste al cinema o lette nei romanzi, può capitare che anche i personaggi siano a conoscenza delle citazioni presenti nelle loro vicende, e che, consapevoli di essere parte di uno show, siano anche portati a renderlo interessante, a preoccuparsi della mancanza di trama di qualche puntata.
È ciò che accade nella meravigliosa Community, ideata da Dan Harmon e composta (per il momento) da sei stagioni dalle vicende travagliate: prima della quarta Harmon è stato licenziato dalla NBC, per tornare come showrunner della quinta e poi cercare una nuova piattaforma per la sesta, che è andata in onda su Yahoo Screen, on demand (nell’ultima puntata Harmon fa in modo che siano gli stessi personaggi a prendere le distanze da quella quarta stagione apocrifa).
I personaggi, quindi – un settetto scombinato, male assortito eppure affiatatissimo – sanno di essere parte di uno spettacolo? A dire il vero solamente Abed, il cinefilo onnivoro con probabile diagnosi da Asperger (un must delle comedy, a quanto pare, se si pensa a The Big Bang Theory e a Sheldon), che non solo riconduce ogni situazione a qualcosa di già visto, ma che favorisce il riprodursi di schemi narrativi collaudati, e che conia il mantra adatto alla prosecuzione di Community: «six seasons and a movie» (al punto che la sesta stagione si conclude con un invito alla battaglia, #andamovie: fan, unitevi e reclamate il seguito!).
Harmon non si limita a citare classici della rappresentazione dell’adolescenza (Breakfast Club), capolavori immortali (Il Padrino, Quei bravi ragazzi) e personaggi che conosce chiunque (Gollum): impasta la sua materia narrativa con topoi da cassetta (lo scambio di corpi di Tutto accadde un venerdì) e la plasma in forme sempre diverse. L’avvocato non laureato Jeff, l’attivista svampita Britta, l’ex promessa sportiva Troy, il tardone Pierce, la madre Shirley, la dolce Annie – e, ovviamente, Abed, il deus ex machina – sono trasposti in personaggi di plastilina, player di un videogioco alla Super Mario, marionette tipo Muppet, cartoni animati in una puntata di G.I. Joe.
Community gioca con le forme ma senza mai cedere sul piano della credibilità: la puntata in stop motion è ciò che vede Abed durante una crisi natalizia, e tutti i suoi amici si prestano al gioco facendo proseguire la storia a scopi terapeutici, recitando la parte di personaggi di plastilina, dando la loro voce alla creazione di Abed in quella che, di fatto, è la puntata che noi vediamo. (Non a caso il nickname di Abed nella puntata G.I. Joe è «quarta parete»: quella che non solo sfonda, ma riprende, facendone un documentario).
La giustificazione narrativa al cartone animato è il delirio comatoso di Jeff, che si rifugia nell’infanzia televisiva mentre è privo di sensi per aver ecceduto con alcol e farmaci nel tentativo di negare il suo quarantesimo compleanno, e riporta i suoi compagni di studio nella poco credibile ambientazione di G.I. Joe, dove nessuno muore – quindi, nessuno invecchia (ché Jeff teme più il decadimento della scomparsa).
Ma nel corso delle stagioni gli attori vanno via, e i personaggi devono uscire di scena: Pierce è portato via dal già riluttante attore Chavy Chase, a cui la quarta stagione non deve essere andata giù; Troy e Shirley seguono di poco, e se Pierce trova la conclusione in un funerale, Troy semplicemente scompare, mentre Shirley è funzionale a un parodico, volutamente orribile spin-off.
La consapevolezza di essere parte di uno show fa sì che i personaggi, alla chiusura della sesta stagione, sappiano quanto sia difficile che segua una settima («I mean, what show ever peaks after season six? Simpsons, Seinfeld, South Park, Friends. Those shows weren’t hemorrhaging characters every year»): ciascuno immagina una sua personale settima stagione, ma quello che rimaneva del settetto di partenza, trasformato alla fine come la nave di Teseo, non può continuare a trovare giustificazioni diegetiche all’immobilismo nel college statale di Greendale.
Eppure Community potrebbe continuare a trasformarsi: lo ha già fatto. Dalle dinamiche liceali delle prime stagioni alle vicende di un gruppo di adulti responsabili (?), da Breakfast Club a The Office.
Purché ci sia Dan Harmon, purché ci sia Abed «quarta parete» Nadir.