(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)
Il quarto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla seconda stagione di “True Detective“
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True Detective: da Carcosa a Vinci.
Il groviglio investigativo della seconda stagione
Storie (in) Serie #4
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a cura di Carlotta Susca
Era un’impresa difficile reggere il confronto con la prima stagione di True Detective: la coppia composta da Rust Cohle (uno strepitoso Mattew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) è diventata oggetto di parodia come qualsiasi contenuto abbastanza popolare da essere inglobato e risputato in numerose varianti; i paesaggi desolati e bruciati della Lousiana erano un marchio visivo riconoscibilissimo, peculiare; il piano sequenza di più di 6 minuti aveva confermato l’alto livello registico; la sigla valeva da sola la visione della stagione, sia per la parte audio (Far From Any Road, The Handsome Family) che – e, forse, soprattutto? – per la parte visiva, una sovrapposizione di immagini che creavano corrispondenze fra i protagonisti e il paesaggio, a indicare l’importanza dei luoghi, a suggerire che un’indagine, per dei veri detective, non possa prescindere dal tessuto sociale nel quale è calata.
Eppure la prima, osannata, stagione, peccava dal punto di vista narrativo per una accelerazione fastidiosa nella conclusione, che, chiudendosi sulle vicissitudini dei due protagonisti – mirando a raccontare le loro storie più che l’indagine – risultava superficiale e sbrigativa nella definizione del tessuto sociale corrotto solo intravisto nel corso del peregrinare investigativo di Rust e Marty.
È forse di qui che ha origine il netto cambiamento avvenuto nella seconda stagione, da poco conclusasi: dalla necessità di delineare con più particolari il groviglio di concause (direbbe Gadda) legato a un delitto e dall’ovvio confronto con la stagione precedente, che imponeva di evitare una duplicazione di vicende e relazioni. Ecco dunque che la coppia diventa un quartetto di protagonisti, e le dinamiche fra loro si fanno meno nette. Ray Velcoro (un Colin Farrell il cui sguardo buono annulla ogni dubbio sulla reale natura del suo personaggio), Ani Bezzerides (Rachel McAdams), Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) e un sorprendente Vince Vaughn nei panni di Frank Semyon sono solo i veicoli attraverso cui entrare nel ventre corrotto di Vinci, la città californiana scenario delle vicende.
Dove, quindi, nella Louisiana accecata da un sole senza scampo il paesaggio dominava incontrastato e la rete dietro ai delitti era a maglie larghe, adattata alla bassa densità abitativa dei luoghi, la California brulica letteralmente di vita: le frequentissime inquadrature dall’altro, soprattutto notturne, abbondano nella seconda stagione di True Detective, e la storia che viene seguita è una zoomata all’interno di club, residenze private e ville teatro di scambi sessuali e ricatti. Se nella prima stagione si raccontava la storia dei detective e si intravedeva solamente la sovrastruttura criminale i cui omicidi erano solo un effetto collaterale, nella seconda stagione domina incontrastato proprio quel sostrato di relazioni intricate, e i singoli personaggi sono parte di vicende estremamente ramificate.
Era inevitabile che fosse penalizzata la capacità di identificazione del pubblico con le singole storie: ciascuna avrebbe potuto costituire – in tempi non troppo lontani, in cui le narrazioni seriali erano dilatate e sospese, e ben puntellate da cliffhanger al termine di puntate diluite – un racconto a sé, ne conterrebbe tutti gli elementi. Sarebbero stati possibili focus monografici su ciascuno dei personaggi principali perché ci sarebbe stato materiale narrativo a sufficienza, tanto che il risultato dell’averlo concentrato in una stagione di otto episodi crea a tratti confusione e spaesamento (ne sono una prova i numerosi commenti negativi, alimentati anche dall’odiosa abitudine corrente di ‘recensire’ le singole puntate – come se si pubblicassero commenti ai singoli capitoli di un libro prima di avere una visione d’insieme).
La storia di Ray Velcoro, il rapporto conflittuale con l’ex moglie, l’incertezza sulla paternità, il rapporto intenso con il figlio e la relazione di confronto con il genitore, con la tentazione del male e l’intuizione del bene sarebbe potuta essere centrale in un racconto poliziesco, così come le vicende di Ani Bezzerides, il cui rapporto con il padre rappresenta la continua dialettica fra scelte di vita ed educative intergenerazionali e la loro impossibile trasmissione in eredità, dato che ogni decisione deve essere maturata autonomamente e rende inevitabile l’uccisione dei padri e dei loro modelli di vita.
L’omosessualità di Woodrugh e i suoi trascorsi bellici sono elementi sufficienti per la struttura di una storia a sé; su tutte, le vicende di Frank Semyon si sarebbero prestate a un racconto su ascesa, declino e compromessi, sulle logiche del lato oscuro del potere, sulla comprensione di limiti e opportunità. Il personaggio interpretato da Vince Vaughn è forse il più interessante, così come il suo rapporto con la compagna Jordan.
Eppure tutti questi personaggi sfaccettati e tridimensionali sono per lo spettatore forse solo punti di vista all’interno della città, il modo per visitare i luoghi del potere e intravedere le relazioni fra politica e criminalità, per scoprire in che modo soldi, diamanti e sesso costituiscono merce di scambio.
Se la densità del materiale narrativo penalizza la fruibilità della storia, l’idea sottesa alla seconda stagione di True Detective merita sicuramente la visione, considerando però che è proprio dal confronto con la prima che si trae il meglio, dalla comprensione che sia possibile proseguire qui l’indagine interrotta, anche se in un altro luogo e con un’altra vicenda, addentrandosi ancora di più in quel labirinto che prima era Carcosa e ora diventa Vinci, ma è sempre parte di un groviglio di relazioni che reggono la società, e di cui i delitti sono solo manifestazioni accidentali.