Immaginate un lavoratore manuale siciliano che, dopo anni di sudore e una vita di stenti, peripezie, stratagemmi vari e improvvisate strategie di sopravvivenza, decide di sedersi e di raccontare. Di raccontarsi. Immaginate che quest’uomo sia un semianalfabeta, ma che l’esigenza narrativa è così forte, così pressante, che nemmeno la carenza linguistica può costituire una barriera insormontabile.
Quest’uomo esiste. O meglio, è esistito.
“Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramente Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.”
Avete appena letto l’incipit di Terra matta, la peculiare autobiografia di Vincenzo Rabito, nato a Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa) – il paese di Serafino Amabile Guastella – nel 1899.
Un vita pregna di storie, quella di Rabito: da ragazzino è stato bracciante, poi è partito per il Piave, ha fatto la guerra D’Africa, è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto il minatore in Germania. Una vita il cui racconto diventa inconsapevole pretesto per tratteggiare gli eventi principali che hanno fatto la storia del Novecento: le due grandi guerre, l’avvento del fascismo, l’emigrazione. Una vita caratterizzata da una serie di furberie più o meno connesse al tentativo di sottrarsi a una povertà difficile da scrollarsi di dosso. Una vita di viaggi, dunque; spesso imposti. E un vita di ritorno. Il classico ritorno a casa, in terra di Sicilia, dove Rabito finisce per sposarsi e crescere tre figli. E poi l’incontro magico, imprevedibile e fruttuoso con una macchina da scrivere: una vecchia Olivetti dove, tra il 1968 e il 1975, il bracciante di Chiaramonte imprime i suoi ricordi con un (forse involontario) piglio tragicomico e un linguaggio indefinibile, che non è italiano e nemmeno siciliano; un linguaggio naturale che diventa lingua e trova nelle sue non-regole l’elemento vitale e fascinoso di una narrazione fuori dai canoni, ma sincera e avvincente. La narrazione di chi scrive perché ha qualcosa da dire (a prescindere da tutto e da tutti), che è diversa da quella di chi scrive per dire qualcosa. E Rabito di cose da dire ne aveva tante, che “se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare.”
Ha ragione Andrea Camilleri a sostenere che dall’autobiografia di Rabito emergono « cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa»; e che siamo di fronte a «un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso.»
Un personale plauso alla Einaudi che ripropone – in versione lievemente ridotta – un testo che va in tutt’altra direzione rispetto alle mode e alle correnti del momento, ma che – a ben ragione – è stato definito come una delle opere più straordinarie e monumentali tra le scritture popolari mai apparse in Italia. L’aggettivo monumentale non è utilizzato a caso giacché Terra matta, nella sua versione originale, raccoglie ben 1027 pagine a interlinea zero e scritte «senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale».
Massimo Maugeri
Ringrazio la Einaudi per avermi concesso la possibilità di riprodurre le prime tre pagine del testo:
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Capitolo primo
Come garzonello
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Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.
Il più crante di queste figlie si chiamava Ciovanni, ma Ciovanni di questa nomirosa famiglia non ni voleva sentire per niente; se antava allavorare, quelle poche solde che guadagnava non bastavino neanche per lui, e quinte quella povera di mia madre era completamente abilita. Mio padre, con quelle tempe miserabile, per potere campare 7 figlie, con il tanto lavoro, ni morì con una pormenita, per non antare arrobare e per volere camminare onestamente. Ma il Patreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire.
Così, il seconto di questa nomerosa famiglia era io. Ed era io, Vincenzo, che così picolo sapeva che mia madre aveva molto bisogna dai figlie, perché era senza marito. Io non la voleva sentire lamentare perché non aveva niente per darece ammanciare ai suoi figlie. I tempe erino miserabile, li nostre parente erino miserabile come noie. E quinte, non zi poteva antare avante in nesuno modo.
Quinte, io fui nato per fare una mala vita molto sacrificata e molto desprezata. Quinte, mia madre era con la stessa mentalità di mio padre, che non voleva antare arrobare per campare ai suoi figlie, e neanche mia madre voleva fare la butana, come tante famiglie che fanno tutte le porcarieie per potere sfamare ai suoi figlie, mentre mia madtre voleva antarere avante onesta amente.
Io era picolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inafabeto. Quinte io, che capiva che cosa voleva dai suoi figlie mia madtre, per fare soldei mi n’antava magare allavorare lontano di Chiaramonte, bastiche io portava solde a mia madre. Perché mia madre non dormeva alla notte, perché penzava che aveva 7 figlie: che lo più crante era da 14 o 15 anne, io Vincenzo ni aveva 11 o 12 anni, e la più picola figlia ni aveva 3 mese. Quinte io solo penzava che per manciare ci volevano solde, per non morire di fame questa famiglia senza padre. Così, mia madre sempre diceva: «Menomale che c’ene Vincenzo che porta qualche lira per dare aiuto alla famiglia». E deceva sempre che quanto portava solde «mio figlio Vincenzo sempre veneva cantanto e allecro», ma quanto non portava solde «veneva arrabbiato e bestimianto, perché non poteva sentire lamentare alla sua madre perché non c’era niente che manciare».
Che brutta vita che io faceva! Ciovanni neanche ci penzava, Vito era di 9 anne e magare che faceva qualche cosa faceva da sé, mia sorella aveva 7 anne e antava alla scuola, ma, con quelle miserabile tempe, il desonesto coverno non dava neanche uno centesimo per potere comperare uno quaterno, perché voleva che tutte li povere fossemo inafabeto, così io questo lo capeva. Pure, poi, il desonesto coverno che comantava non dava maie asegne, e dovemmo stare per forza non inafabeto solo, ma magare molte di fame.
Ma io mi piaceva il manciare, ma mi piaceva magare di cercare il lavoro, perché era sempre pieno di coraggio e di cercare lavoro, compure che aveva auto la sventura che restaie senza padre e mia madre senza marito e i povere miei fratelle e li picole 3 sorelline restammo tutte senza quida e senza nesuno che ci comantava. Tutte comandammo e la pendola non bolleva maie.
Così, venne il mese di setembre. Io sapeva che a Vitoria era tempo di ventemmia. Una matina alle ore 2 mi alzo con 4 mieie compagne più crante di me e ci ne siammo antate a Vettoria di notte a piede. Così, alle 6 di matina, fuommo a Vittoria. Per strada, certo che avemmo manciato tanta racina perché ni l’avemmo fotuto dorante la strada.
Quinte, li mieie compagne hanno fatto quello che ci ha piaciuto e poi amme mi hanno detto: – Vicienzo, e tu che fai, niente?
Io aveva 12 anne, e certo che queste putane, per lecie, non mi dovevino fare entrare, ma secome io ci ho detto che ni aveva 18 come li mieie compagni, ebbi la fortuna di entrare pure.
Così, i miei compagni hanno messo un soldo per uno e ci hanno detto a queste putane che solde io non ni aveva: – Così, se vuoi che questo fa cosa, ti deve acordare con poco solde –. Ma la
putana ha detto sì. E così io, per mio conto, ebbe la crante fortuna di conoscire la prima volta li donne.
Così manciammo, ciusto che il primo lavoro l’abiammo fatto.
E ci n’antiammo impiazza per vedere se c’era qualcuno che ni voleva portare allavorare. Ma io fui uno dei fortonate, con pure che era lo più picolo, che vedo a uno che erino amice con il mio padre, che sapeva che era morto, e mi ha detto: – Vicienzo, ci vuoi venire a straportare racina con uno cavallo, che il quadagno ene di 70 centesime al ciorno?
TERRA MATTA di Vincenzo Rabito
2007 – Supercoralli Italiani
EINAUDI
pp. VIII-416 – euro 18,5
Vincenzo Rabito è nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899. «Ragazzo del 99», è stato bracciante da bambino, è partito diciottenne per il Piave, ha fatto la guerra d’Africa e la Seconda guerra mondiale. È stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato e ha allevato tre figli. È morto nel 1981.
La sua autobiografia ha vinto il «Premio Pieve – Banca Toscana» nel 2000, ed è conservata presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.
Mi piacerebbe aprire un dibattito su questo libro.
C’è qualcuno tra voi che l’ha letto?
La critica lo ha accolto molto bene.
Voi che ne pensate?
Mi rivolgo anche a coloro che hanno letto solo il brano che ho riportato in questo post. Quali sono le vostre impressioni?
L’idea di questo semianalfabeta colpito, e vinto, dal virus della scrittura mi ha molto affascinato. Ho anche pensato che lo stesso Vincenzo Rabito, in fondo, potrebbe essere un interessantissimo personaggio letterario.
Ho letto questo libro con entusiasmo.
Confermo che ha dell’incredibile pensare a un signore, mezzo analfabeta, e comunque poco avvezzo alla scrittura, che d’improvviso rimne folgorato dall’impellente necessità di specchiarsi sulla carta.
Non l’ho letto. Lo leggerò.
L’idea di Morabito, seppur in odor di Neorealismo, e’ ottima. Avvicina l’oralita’ alla Letteratura e dunque vivifica la carta. Io preferisco altre letture, ma questo di Morabito e’ l’aspetto migliore di un filone che io non seguo – appunto il Neorealismo italiano.
Sergio Sozi
Penso che scrivere, a volte sia necessario. Per poter dare un senso, ed anche una direzione, alla nostra vita. Forse questo povero siciliano mezzo analfabeta, all’improvviso ha sentito il bisogno di mettere su carta qualcosa che altrimenti, rimanendo nella sua testa, gli avrebbe creato problemi ulteriori.
Penso che leggerò questo libro, mi incuriosisce.
Non ho letto il libro, però penso che sia importante, una testimonianza importante e non filtrata… un po’ come quando gli etnomusicologi vanno in giro a registrare nelle campagne (a proposito di siciliani, un bel lavoro con relativo libro l’ha fatto Orazio Corsaro, virtuoso della zampogna messinese. Bello anche il fatto che quest’uomo abbia sentito l’esigenza di farlo…
Stupendo!
Finalmente concludo questo lungo fine settimana, proprio in bellezza.
Questa idea mi sembra in assoluto la più bella cosa che sia accaduta in questi ultimi anni nel mondo editoriale. Un antifiction per eccellenza!
Il vero che prorompe senza filtri.
Un personaggio autentico e sincero che dimostra che la differenza tra autore e artefice a volte si confondono…
Come avrei voluto essere io questo personaggio, ma sono sempre in tempo, forse. Mi manca soltanto di riuscire a non capire per niente il mondo cosidetto colto, ma ci sto riuscendo e non mi sembra vero!
Sicuramente, un interessantissimo personaggio. Ha sentito il bisogno di mettere in ordine i suoi giorni e imparando a riconoscere le lettere sui tasti si è inventato una lingua breve. Ne’ italiano, ne’ dialetto e forse nemmeno lo slang (si scrive così?) dell’emigrante; un mezzo suo riconoscibile a tutti come la sua durissima vita.
Molti emigranti, venuti qui, al nord, da tutte le regioni, si esprimono, ancora oggi, un commisto di bergamasco e baggiano e dialetto originale… come i personaggi di Diego Abbatantuono e Antonio Albanese. Io ne conosco diversi, sono persone molto comunicative che, appunto, non si preoccupano della forma e sono anche persone molto gioiose con tanta voglia di vivere. Ma questo signore si è messo a scrivere come un fiume in piena, forse grato al mezzo meccanico della macchina che gli permetteva di dare un senso concreto ai suoi ricordi, alla sua vita: la rivincita di Rosso Malpelo. Ho letto queste pagine quasi sillabando.
Chiedo venia per aver storpiato il nome dell’autore: il sig. Rabito (e non Morabito) mi scusi tanto.
Sergio Sozi
E’ davvero un brutto libro. Valeva la pena tentare un’operazione di marketing di questo tipo?
E’ già sulle bancarelle dei libri usati.
Non saprei. Scrive come mio nonno quando scriveva le sue lettere ai parenti americani. A questo punto si potrebbero accorpare lettere e liste della spesa di una intera generazione di semianaflabeti e farne una bella raccolta di racconti di autori vari.
Mi sembra una iniziativa piuttosto cervellotica. Non mi piace.
A me pare un’idea molto buona. Non sono d’accordo con outwork. Qui non si tratta di accorpare lettere o liste della spesa, ma di un caso piuttosto unico. La storia di una vita e di un paese raccontata da quest’uomo con enorme forza di volontà. Non credo che la novità vera sia il linguaggio. Piuttosto il caso. Io non ho mai sentito dire di semianalfabeti che scrivono storie di mille pagine. A meno che non si arriva a dire la banalità che in Italia ci sono più (pesudo)scrittori che lettori
Questo libro mi intriga. Penso che lo prenderò anche se immagino che per chi come me non abbia dimestichezza col dialetto siculo possano presentarsi difficoltà di lettura.
Una domanda per Renato Di Lorenzo. Un libro può piacere oppure no. Chi legge ha il diritto di considerarlo bello o brutto. Domanda: possibile che ogni cosa la si debba vedere nell’ottica dell’operazione di marketing? Se così fosse si dovrebbero pubblicare solo libri scandalistici e via dicendo.
Al di là della cultura acquisita con gli studi esiste quella intrinseca alla persona che sa osservare, immagazzinare fatti e sensazioni per riviverli ed esternarli quando l’impulso del raccontarsi diventa bisogno vitale, necssità primaria.
Si entra nel campo della diaristica. Ma Rabiti ha un frasario diverso,personalissimo; nel suo esprimersi non c’è nè autocommiserazione nè autocompiacimento. Ci sono i fatti, e le persone che di questi fatti subiscono le conseguenze.
E’credibile, e il lettore ne ha piena consapevolezza.
Buona, quindi, la decisione di EINAUDI di pubblicare “TERRA MATTA”.
Speriamo soltanto che non serva a pretesto per il proliferare di un filone affine, frutto di emulazione.
Marisa Magnani
Ho deciso, acquisterò questo libro che mi sembra secco nella semplicità di linguaggio e diretto al cuore. Grazie del consiglio.
Morgan
Avevo adocchiato questo libro in libreria,ma non avevo capito di cosa si trattasse. Grazie per la dritta. Pare proprio particolare.
Confesso che i brani di “Terra matta” riportati da Massimo mi fanno guardare con favore l’autobiografia di Rabito; e ciò per più motivi. Innanzitutto perché c’è, da parte dell’autore, il racconto di una vita che è la propria. E con la propria vità c’è poco da fingere o nascondersi. Poi, per una lingua che (come è stato detto in precedenti commenti) appartiene a una oralità sempre più dimenticata. E ancora: vi si narrano aspetti di un nostro passato che, seppure trattati in molte opere letterarie, in fiction ed in film,ssembrano qui rese interessanti dall’inusuale punto di vista dell’autore. Poi, in quanto vi è l’avvicinamento di un semianalfabeta ad una macchina da scrivere, perché spinto dall’urgenza del racconto della sua vita. Un atto che sembra avere del magico. Peccato solo non averlo potuto filmare! Un atto che, ancora una volta, ha fatto compiere alla scrittura una delle sua più nobili prerogative: la trasmissione della propria esperienza. Se “Terra matta” è un’operazione commerciale, che ben venga.
Gabriele Montemagno.
Ho comprato il libro il mese scorso e lo sto leggendo in questi giorni.
Posso dire di non essermi pentito dell’acquisto. In alcuni punti la lettura è un po’ faticosa, ma ne vale veramente la pena.
Per scrivere è necessaria almeno una minima conoscenza della grammatica e della sintassi, come nel cinema una preparazione tecnica e una conoscenza della pellicola o delle tecniche di ripresa, delle luci, della fotografia, ecc. Queste sono operazioni puramente di marketing, chiunque altrimenti può scrivere un libro con le proprie esperienze di vita. In linea di principio queste sono iniziative che mi vedono contrario e credo che questa NON sia arte, mi dispiace. Però potrebbe anche esserci il caso di chi, pur privo di cultura e conoscenze, abbia tali e tante idee e cose da dire che lo rendono comunque uno scrittore e un artista. Non avendo letto il libro non posso giudicare il caso specifico.
il punto è proprio questo. c’è gente che sa scrivere e non ha idee, e che scrive per dire qualcosa. così come c’è gente che non sa scrivere, ha molte idee e scrive perché ha qualcosa da dire. rabito rientra nella seconda categoria
Secondo me, Rabito non ha scritto perché aveva delle idee ma, bensì, perché ha trovato il modo di cristallizzarle, renderle solidamente autentiche. Per lui la scrittura è stato il mezzo per rendere la sua esperienza di vita assolutamente insindacabile; la sua verità ufficializzata dalle pagine. Questo non è poco e dovrebbe farci riflettere sul potere della parola scritta, che noi, forse, abbiamo perso. Quella di Rabito non è letteratura ma una semplice performance che, nel campo artistico trova i corrispettivi nella Brut Art. ” Arte prodotta da persone che, per età, stato mentale o posizione rispetto alla società, sono inconsapevoli dei tradizionali canoni artistici e dei valori culturali e dingono (o scrivono) solo per soddisfare un desiderio interiore.E qui si potrebbe aprire una riflessione.
Ma non si scrive solo per arte, io credo, si scrive anche per fermare delle cose. Lui ha fermato un suo mondo, un’epoca. ora non ricordo dove né quali siano le modalità esatte ma c’è una biblioteca che raccoglie le testimonianze degli anziani (che qualcuno meno smemorato mi aiuti) testimonianze appunto.
Grazie per i commenti.
@ Miriam:
cara Miriam, sostenendo che quella di Rabito non è letteratura tu ri-apri un tema che avevamo già dibattuto: che cosa è letteratura?
Ti ricordi?
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2006/11/che_cosa_letter.html
@ Massimo:
E’ vero, hai ragione. Il bello del tuo blog è proprio questo: poter interloquire con gli altri attorno a temi importanti, che riproponendosi sotto diversi aspetti, ci riportano al centro delle cose. La letteratura, come l’arte vive un momento no, anzi non. Non si può chiamare arte ogni performance, non si può considerare letterario ogni libro. Al contrario, possiamo però considerare, letteratura e arte, in modo nuovo, diverso e nella diversità definire gli spazi. Artieri, sono gli artisti della Transavanguardia; termine coniato da Achille Bonito Oliva. Artisti consapevoli che “l’attuale” richiede uno sforzo in più, una responsabilità comunicativa fatta di mestiere e di qualità intuitiva.E in letteratura che termine potremmo coniare? Lascio a voi la ricerca…ciao
Artiere è una parola che veniva già usata nell’ambito della critica letteraria già nell’800 se non prima.
La Repubblica delle Lettere è così grande e vasta, così inesplorata e quasi insondabile da avere al suo interno interi continenti tutti da scoprire… C’è spazio per tutto e per tutti, per gli artigiani della parola e per gli Artisti con la A maiuscola, i geni, le voci immortali che parlano a tutti gli uomini di ogni tempo e travalicano qualsiasi confine geografico, politico, sociale…
Vero è che per scrivere sono necessarie almeno le tecniche di base, diciamo i fondamentali, però è anche vero che pagine come questa trasudano verità molto più di tante paginette calligrafiche e vuote in cui conta più il saper dire che non l’atto del dire in sé, del comunicare e trasmettere idee, emozioni, sentimenti. Penso al nostro povero italiano delle origini, a tutti quegli oscuri notai, giuristi, a quegli storici o meglio cronachisti, a quei poeti che non sapevano più scrivere in latino e balbettavano la nostra lingua come un bambino muove i primi passi su una superficie eccitante e sconosciuta. Anche loro hanno fatto la nostra storia letteraria. Arte è un’altra cosa, ma non è corretto disprezzare questi documenti che gettano una luce nuova, magari insolita anche se a tratti urticante e urtante, su fatti, ambienti ed epoche che ritenevamo esplorate, studiate abbastanza e già passate in giudicato.
Spero che questa non sia l’ennesima bufala letteraria, che non ci sia stato spacciato un falso o un grande bluff…
Vero è che ormai in letteratura stiamo raschiando il fondo del barile, però chi l’avrebbe detto che dai nostri poveri artieri delle origini sarebbe venuto fuori Dante? Non disperiamo…
A proposito: conoscete il Premio Vittorini? Io sono di Siracusa e mi piace puntare l’attenzione su un premio di portata internazionale ma che in Italia non è conosciutissimo. Quest’anno verrà assegnato alla bravissima scrittrice siciliana Maria Attanasio, per “Il falsario di Caltagirone”, che io ritengo il più maturo dei suoi libri. Leggete anche “Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile”: parla della storia vera di POlizzi, un ceramista, un artigiano quindi, che si mise a scrivere nella Caltagirone del Seicento riuscendo ad essere più significativo e vero di tanti storici patentati, lasciando anche un patrimonio di storia minore, di microstoria, di microstorie che la brava Maria Attanasio ha trasformato in romanzo… Polizzi si era inventato una lingua tutta sua, un misto di siciliano e italiano che ha una sua pregnanza e potenza espressiva assolutamente da non disprezzare, pur essendo logicamente sgrammaticato per la nostra coscienza di lettori “letterati”…
Ben venga quindi un’opera come “Terra matta” se può provocare un dibattito proficuo su cosa è letteratura e cosa non lo è.
Comunicato stampa
Martedì 26 giugno 2007, alle ore 18.00, in Foro Umberto I 21 presso la
“Libreria Kursaal Kalhesa”
a Palermo
L’Associazione Culturale Metamorphosis e Giulio Einaudi editore
presentano il libro:
Terra Matta
di Vincenzo Rabito
a cura di Evelina Santangelo e Lucca Ricci
Interverranno Evelina Santangelo
e Paola Gallo
responsabile narrativa italiana Einaudi
Letture di Vincenzo Pirrotta
“Cinquant’anni di storia d’Italia: una straordinaria epopea degli « ultimi» raccontata da un sorgivo, inarrestabile talento narrativo. Dal Piave al ’68, le grandi e piccole guerre quotidiane di chi la storia d’Italia se l’è fatta a piedi, a scavare trincee, a girare per bordelli, a prendere le tessere di partito che servivano per lavorare, a sudare per il primo televisore, a bisticciare con la suocera, fino a portare i tre figli all’università.”
Un signore siciliano si è chiuso a chiave nella sua stanza e ogni giorno, dal 1969 al 1975, senza dare spiegazioni a nessuno, ingaggiando una lotta contro il proprio analfabetismo, ha digitato su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Ha scritto 1027 pagine a interlinea 0, nel tentativo di raccontare tutta la sua «maletratata e molto travagliata e molto desprezzata» vita.
Ne è venuta fuori un’opera monumentale, la più straordinaria tra le scritture popolari mai apparse in Italia: per la forza espressiva di questa sua lingua mescolata di italiano e siciliano, per il talento narrativo con cui Rabito è riuscito a restituire sotto una prospettiva assolutamente inedita (dal punto di vista degli «ultimi» e con l’urgenza di chi ha patito le cose sulla propria pelle) raccontando le sue peripezie, le sue furbizie e i suoi esasperati sotterfugi per affrancarsi dalla miseria.
Il libro viene proposto per la prima volta al pubblico in versione ridotta ma esattamente come lui l’ha scritto, senza cambiare neppure una parola di quelle che lui ha scolpito, a fatica, sulla sua macchina da scrivere, lasciandoci più che un’autobiografia un’epopea, che è anche un monumento d’umanità.
Vincenzo Rabito è nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899 è morto nel 1981 – la sua autobiografia ha vinto il Premio Pieve – Banca Toscana 2000.
Per ulteriori informazioni
Ufficio Stampa Einaudi – 011/ 5656279
Non ho letto il libro. Lo leggerò. E’ un autore di gran coraggio come è stata la sua vita. Una boccata d’aria fresca, in mezzo a tanti (senza offender nessuno) “studiosi” imprigliati tra chirigori filosofici e affanni letterari, ma con naturalezza e disinvoltura, come per sgravarsi da una vita vissuta ingiusta, crudele in un secolo di sangue.
Mi ritrovo in questo brano come donna nata in un periodo di guerra e un dopo guerra di rinunce e sacrifici con case e scuole abbattute. Anch’io semianalfabeta con una gran voglia di sapere, di conoscenze e
la beffa di chi leggendomi o ascoltandomi mi deride brutalmente per errori anche banali come una virgola. Certo la vita è un’altra cosa!
Grazie Vincenzo!
maria Rosaria