Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini. Oggi ci occupiamo del rapporto tra “musica e poesia” attraverso questa conversazione con Alessandra Trevisan (foto in basso).
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Tra musica e poesia: conversazione con Alessandra Trevisan
Torniamo ancora una volta sul tema che sta a cuore a tutti coloro che frequentano questo forum, quello cioè del rapporto tra letteratura e musica, e facciamolo attraverso il contributo di Alessandra Trevisan, attivissima in entrambi i campi come autrice e come animatrice culturale.
Alessandra Trevisan (Mestre, 1987) ha conseguito la laurea magistrale in Filologia e letteratura italiana con una tesi dal titolo “Goliarda Sapienza (1998-2013): una voce intertestuale” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi saggi e contributi su Goliarda Sapienza sono apparsi in antologie, riviste e presentazioni. Si è formata partecipando alle attività del collettivo mestrino “Spritz Letterario” e al Festivaletteratura di Mantova. Dal 2011 è parte della redazione del litblog “Poetarum Silva” (poetarumsilva.com) e cura con Anna Toscano per Radio Ca’ Foscari il programma “Virgole di poesia” (www.radiocafoscari.it/virgole-di-poesia). È ufficio stampa nell’ambito degli eventi culturali e jazz (Associazione Culturale Caligola, nusica.org, Festival dei Matti di Venezia) e press agent di alcune formazioni jazzistiche (XYquartet, Piero Bittolo Bon Jümp the Shark, Domenico Caliri Camera Lirica). Partecipa al progetto UnkNwn (inditronica, trip-hop, electronic live band).
Ecco di seguito la trascrizione della conversazione, assai ricca e piacevole, con Alessandra Trevisan.
CM – Alessandra, in quali modi hai sperimentato il connubio tra musica e parola? Da animatrice culturale, sul litblog “Poetarum Silva”, e nella conduzione del programma “Virgole di poesia” con Anna Toscano su Radio Ca’ Foscari, hai senz’altro avuto modo non solo di riflettere sulla questione, ma anche di affrontarla concretamente.
AT – Grazie Claudio. Credo la questione si sia posta prima ancora delle due esperienze che tu citi e che hanno amplificato le possibilità di esplorazione di questa ‘relazione’ per me cruciale. Mi riferisco al fatto d’esserci passata dapprima attraverso il corpo, con il canto (ma di questo parleremo poi).
Ma il rapporto parola e musica si è rivelato ‘due volte evidente’ soprattutto attraverso la poesia dal 2010, l’anno d’inizio di entrambi i progetti. La poesia ha presentificato la mia voracità nei confronti della parola e della musica: a “Virgole di poesia” soprattutto grazie alla presenza della ‘voce’ mia, di Anna e dei poeti ospiti delle tre stagioni che abbiamo condotto; ogni puntata ha avuto come colonna sonora della musica strumentale (jazz, minimal, ambient). La voce in radio è ancella e protagonista. Su “Poetarum Silva” invece, ho spesso cercato di affrontare il connubio su due piani: con la lettura critica di certa poesia contemporanea, tenendo in considerazione il rapporto parola-musica e voce; dall’altro, intervistando alcuni artisti con l’intento di manifestare un’attenzione sempre molto alta e altra nei confronti della voce. In entrambi i casi dico ‘voce’ in senso lato ma non dimentico di porre l’accento sull’unicità che caratterizza i tipi di espressione di cui mi sono occupata.
CM – Nella musica strumentale dell’XYquartet e del Piero Bittolo Bon JÜMP THE SHARK, che tu segui come press agent, mi è sembrato di cogliere, soprattutto grazie ai titoli, una sorta di narrazione, che attraversa e si sovrappone alla struttura della composizione. Questo mi suggerisce un paio di domande che mi frullano in testa da parecchio tempo. La prima è: la musica può raccontare qualcosa, secondo te, oltre se stessa?
AT – Stimolante questa domanda. Sono felice, da pochissimo, di aver accettato anche di seguire il progetto di Domenico Caliri “Camera Lirica” (in uscita per Caligola Records).
Nel caso di quest’ultimo – e soprattutto di XYquartet – trovo la narrazione si manifesti nella forma della ‘composizione’, certamente in modo differente. Nicola Fazzini (X) e Alessandro Fedrigo (Y) hanno a lungo ragionato sulla ‘narratività’ della composizione non in forma di suggestione ma di struttura, sintesi, espressione di un’idea che sta nel titolo del brano (ad esempio). Nel caso del progetto di Piero Bittolo Bon credo vi sia una maggiore libertà, dovuta alla diversità di intenzione sottesa al progetto che ha una chiara matrice free del tutto estranea all’XYquartet, facente parte invece dell’esperienza di Caliri ma direi ‘liberamente interpretata’ – se c’è – in quest’ultimo progetto.
Ho molto riflettuto sulla sostanza musicale in termini di significato (attraversando il significante) e resta una questione irrisolta, da secoli. Ma tu mi chiedi di andare oltre, di guardare ciò che resta dopo la composizione. Allora ti dico che, secondo me, la musica racconta solo al presente, qui e ora, dal vivo. Non voglio assolutizzare il concetto ma trovo sia così. Il disco è documento. La vera importanza narrativa di certa musica (dal jazz all’elettronica) è, invece, il suo ‘farsi racconto’ al presente, la gamma di possibilità che mette in gioco nel momento dell’ascolto live. È sempre sorprendente.
CM – E invece, come si può raccontare la musica, secondo te?
AT – Come si possa raccontarla, è un nodo altrettanto irrisolto: io so di non aver ancora acquisito gli strumenti per trattarla in termini musicologici e teorici puri, e di utilizzare soltanto i miei strumenti critici ‘narratologici’, con i quali approccio anche altre forme artistiche. Parlando per me e soltanto per me, credo si possa raccontare la musica soltanto leggendola come la trama di un tessuto: mi piace ricordare che fondamentale nel mio caso sono stati la lettura e lo studio de Gli imperdonabili di Cristina Campo. E poi, essere sempre pronti a mettersi in difficoltà (prima), cercando di acquisire nuovi strumenti, nuovi parametri, nuovi criteri critici più ‘giusti’.
CM – C’è qualcosa che la musica può invidiare alla letteratura? E c’è qualcosa che la letteratura può invidiare alla musica? Parlo di invidia riallacciandomi a quanto diceva Manganelli conversando alla radio negli anni ottanta con Paolo Terni: “la capacità del discorso musicale di non dovere neanche… affrontare l’onta del significato: questo è un privilegio che il letterato non può non invidiare continuamente…”.
AT – Altro nodo capitale questo che io ho dovuto affrontare, ad esempio, dopo la lettura di Filosofia della musica di Massimo Donà. Ed è vero. La musica è un’arte talmente ‘democratica’ nel suo non avere pretese di significato ed è questa la vera cosa che la letteratura deve invidiarle, come già diceva Manganelli. Interessante che questa sua idea sia emersa durante una conversazione radiofonica. Non credo di ripetermi se tento un approccio che dia centralità ancora allo ‘strumento-voce’, e allora dico che un’altra cosa che la letteratura invidia alla musica è la capacità di dare corpo alla parola e farlo al ‘presente’, nell’hic et nunc.
Parto dalla seconda domanda per giungere alla prima, molto più difficile, e tento una risposta; si tratta del mio punto di vista che può facilmente essere messo in discussione. Mi sono interrogata a lungo sul valore del documento musicale, specialmente dopo averne sentito parlare a lungo in questi anni in cui mi trovo vicina per lavoro e per passione al jazz, ad esempio. I jazzisti sanno benissimo che l’importanza del documento è limitata a quel momento e a quel luogo; tutto l’irripetibile non riemergerà o potrebbe rivelarsi poi migliore o peggiore, in futuro. Dipende da molti fattori, non solo musicali. E non perché tra gli elementi costitutivi del jazz ci sia l’improvvisazione: questa cosa va al di là. Ma il jazz è del Novecento, così come il rock è del Novecento: la loro estetica ma anche la loro ontologia credo si possano dire legate a un concetto ‘rotto’ (infranto) di tempo che colpisce soltanto in parte la letteratura. Mi spiego: qualunque opera letteraria ha e avrà sempre pretese di eternità, anche il bestseller; non sono sempre esplicitate né espresse, ma l’opera letteraria è ontologicamente documento. Lo dico in un senso forse un po’ generalista ma trovo sia così. La musica jazz no. La musica rock no. La musica elettronica no. Vivono nel live. Quest’esigenza estrema del presente è la peculiarità che la letteratura invidia. Se a un reading ascoltassimo un autore modificare dal vivo il suo testo ne usciremmo sconcertati, mentre ci appare come ‘la norma’ poter ascoltare riarrangiamenti, nuovi assoli, nuove linee melodiche di voce, anche quando stiamo ascoltando delle canzoni che conosciamo a memoria. Gioca anche molto l’intenzione, cosa che nella letteratura è potenziale, nella musica un dato di fatto.
CM – Nelle composizioni del duo vocale TW/ Two Women e della band UnkNwn hai privilegiato, come vocalist e autrice delle liriche, la lingua l’inglese. Quali qualità dell’inglese ti hanno spinta a questa scelta?
AT – È una domanda che mi è stata sempre posta. Il progetto TW è iniziato come un duo chitarra-voce con dei brani di chiara ispirazione folk, un po’ retrò (anni Sessanta e Settanta-area statunitense), tradizionali ma con la pretesa di un approccio contemporaneo credo, dato anche il modo in cui abbiamo sviluppato certe idee, con loop ed effetti, in seguito. Personalmente mi sento più vicina all’inglese perché è una lingua che risuona meglio nella mia voce, e mi concede la libertà di prendermi degli spazi di improvvisazione più leggeri e meno pretenziosi rispetto all’italiano, lingua che merita un approccio diverso, che non le appartiene ‘vocalmente’. Mi riferisco all’improvvisazione in TW, in un senso ‘jazzistico’ quasi, non al vero e proprio ‘scat’ ma a qualcosa di simile, a una reinterpretazione di esso. Direi la stessa cosa del francese.
In generale, anche per quanto concerne la band di cui faccio parte, UnkNwn, trovo l’italiano sia la lingua nella quale nascono sia l’idea sia i versi (prima – è la lingua in cui penso) ma, per cantarli, ho bisogno di tradurli, perché li sento ‘vivi abbastanza’ solamente in inglese. Non è desiderio di mascheramento: è necessità di sentirli più veri al mio orecchio. Cantare in italiano è molto difficile per me, lo è sempre stato. Chissà che, un giorno, non decida comunque di tentare questa strada linguistica per un nuovo progetto.
CM – Uno degli elementi più forti (non l’unico, ci mancherebbe) della musica jazz è l’improvvisazione: un’improvvisazione controllata, certo, ma, comunque, uno svincolamento dalle rigidità della scrittura. Secondo te, c’è spazio per l’improvvisazione, o per qualcosa di analogo, anche in poesia?
AT – L’improvvisazione in poesia credo sia qualcosa di estremamente difficile nella nostra lingua. Parlo per esperienza. Sono a conoscenza (ma non ho mai del tutto approfondito) del fatto che esistano molti autori che portano avanti un tentativo di dare una forma performativa in senso anche improvvisativo, ai loro testi. Alcuni esperimenti interessanti, tra quelli che conosco, sono quelli di Ida Travi, che ho avuto modo di ascoltare a Roma in occasione di “Ritratti di poesia 2013”: Travi, attraverso la sua voce, i cambi di registro, gli intervalli, gli accenti, riusciva a veicolare il significato del suo testo (cosa che in qualche modo, come abbiamo detto, manca alla musica) in termini di ‘improvvisazione’ secondo me. C’era un lavoro a monte ma, ne sono quasi certa, ogni lettura è e sarebbe stata differente. Una cosa simile l’ho sentita fare da Silvia Salvagnini e da Giacomo Sandron, due poeti veneti; Sandron scrive in dialetto e partecipa a molti Poetry Slam, una forma imprescindibile di avvicinamento all’improvvisazione in poesia che sappiamo essere nata con la Beat Generation. Diciamo che riconosco in questi autori un tentativo di scrittura che porta verso la performance, più o meno incisiva. Altro discorso si potrebbe fare con il freestyle nell’hip hop; non sono ferrata, ma devo ammettere che mi piace molto come arte. Nel mio piccolo sostengo Endi, mc veneto molto sagace e caparbio, anche nei contenuti.
CM – E che cosa potrebbe corrispondere, nella scrittura tutto sommato solitaria della poesia, all’interplay, che è un’altra delle caratteristiche principali del jazz?
AT – L’interplay è, a mio avviso, il rapporto particolarissimo che si stabilisce con il pubblico durante i reading, i poetry slam, le occasioni pubbliche; può manifestarsi in forme di rara bellezza se l’ascolto è alto e il poeta incisivo con la propria voce. L’interplay per la poesia è una relazione ‘viva’ e che si fa ‘live’.
CM – Anche la letteratura oggi, come la musica, soffre di una tendenza alla standardizzazione. La musica che pratichi e segui sconvolge invece i confini tra i generi e supera ogni etichetta. Quale spazio di manovra (e di ascolto) c’è per chi vuole fare ricerca muovendosi al di là delle convenzioni, secondo te?
AT – Non sono del tutto certa di uscire dagli standard ma ti ringrazio per le tue parole; diciamo che ci provo con forza, cercando di smussare alcuni angoli, dando inclinazioni diverse ad alcuni approcci che utilizzo nel canto. Ad esempio, mi piace molto la forma del parlato, anche nell’elettronica, perché fa parte di me la forma di enunciazione che non sia solo ‘canto’. Ognuno deve provare quale sia l’abito che gli sta bene addosso anche in termini di contenuto, non solo di forma, che è comunque sostanza.
Mi ritengo una persona curiosa che tenta di valicare i limiti di ascolto (anche), mettendosi in crisi: sono onnivora ma non bulimica; non mi piace tutto ciò che ascolto. Amo particolarmente la musica sperimentale, vocale e non, ma dal vivo mi piace molto anche, chessò, il death metal. Quando parlo di ‘sperimentazione’ mi riferisco, ad esempio, ad artisti quali Alessandro Bosetti, Mat Pogo, ma anche Debora Petrina, Amy Kohn, più indietro Laurie Anderson, diversissime dai due precedentemente citati. Sono tutti artisti che ho ascoltato soprattutto negli ultimi anni.
Nutrire il proprio orecchio e la propria conoscenza di nuovi stimoli e l’unico modo per portare una piccola fetta di originalità nel proprio lavoro, anche se si sta tentando un progetto ‘pop’. Parleremo sempre con le parole degli altri (o con le note degli altri) ma bisogna essere ‘aperti’ e onesti, secondo me, per cercare di innovarsi: aperti al nuovo e al diverso, anche a ciò che turba e spaventa. Ad esempio, non sono una fan degli Swans, ma ascoltarli dal vivo è stato un’esperienza sonora incredibile: il loro noise ha aperto delle finestre di ascolto, per me, che non pensavo si potessero addirittura sfondare. Anche il post-rock (e lo slowcore), mai comparso tra i miei ascolti adolescenziali (molto mainstream) è stata una scoperta degli ultimi anni: ho compreso il valore della lentezza in una forma molto diversa da quella impartita dalla musica classica, contemporanea o jazz. È qualcosa di più simile a una lentezza generazionale, antropologica, culturale.
Amo fare scoperte da me e amo quando sono gli altri a darmi dei consigli. Non mi piacciono le rigide imposizioni, non mi piacciono molto le mode, anche la ricerca di artisti particolari solo perché sconosciuti e quindi osannarli: siamo tutti condizionati da fattori esterni ma dobbiamo continuare a essere noi stessi sino in fondo, a fare le nostre scelte, stratificandole, motivandole e attribuendo ad esse il significato che riteniamo più coerente con il nostro percorso. Io non sarò mai infedele a Billie Holiday: resterà sempre una di quelle voci che amerò alla follia fino alla fine; così vale per lo scat di Anita O’Day. Mi hanno insegnato che l’intenzione può essere tutto, ed anche il senso del tempo, lo starci sopra, sentirlo, dargli corpo, con la voce. Bisogna aspirare a quella ‘perfezione’ per poterla realizzare, o almeno provarci.
CM – Ci confidi qual è il tuo personale canone poetico? E quello musicale? Tra le fonti di TW/ Two Women citi ad esempio Joni Mitchell, Rickie Lee Jones, Joan As Policewoman, Tune-Yards, Cristina Donà, Carmen Consoli, e in ambito letterario Cristina Campo, Lalla Romano, Patrizia Cavalli, Fabrizia Ramondino, Anna Maria Carpi, Goffredo Parise, Italo Calvino…
AT – Mi ritengo un’autrice lirica, sia in poesia sia in musica. Non riesco a definirmi altrimenti. Per questo il cantautorato mi appartiene in modo viscerale. Credo nella forma canzone ma credo anche che, in certi casi, mi stia un po’ stretta. Allora tento di romperla come meglio posso, restando coerente ai miei ascolti ma anche alle vampe del momento.
Gli autori letterari che citi sono stati fondamentali per la mia formazione; salvo la Campo di cui ho parlato poco fa, Calvino mi ha messa in difficoltà con la sua particolare ed estesa predilezione nei confronti dell’”occhio” a discapito della voce, tema di cui comunque la sua opera tratta. Calvino è il piacere della storia ma anche un punto di svolta critico, per me, mentre gli altri autori sono in prevalenza lirici puri, in prosa e poesia.
La musica cantautorale, il cosiddetto songwriting, è stato il (se si vuole banale) mio incontro con il connubio parola-musica. Eppure, Carmen Consoli, che ora ho abbandonato, mi ha portato a costruire una discussione attorno alla scelta della parola ‘esatta’ sin dall’adolescenza; Rickie Lee Jones mi ha posta di fronte alla difficoltà di interpretazione (questo suo modo di cantare un po’ nasale, sbiascicato, fanciullesco, mi intriga e respinge allo stesso tempo); Joni Mitchell è il mio grande amore per i lyrics folk perfetti, compiuti, mentre Joan As Policewoman la vedo come la figlia americana di Cristina Donà, l’unica vera cantautrice rock che abbiamo in Italia. Tune-Yards, invece, mi ha fatto capire che musica è anche gioco, ritmo, uso di effetti. Mi piacciono molti i suoi arrangiamenti; si vede che ha un senso della tradizione proveniente da differenti culture ed epoche, ma anche la genialità di chi rischia, con dei testi molto intelligenti, e una propensione alla giocosità musicale e della parola insieme, per creare qualcosa di nuovo, inaudito.
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