Ho il piacere di segnalarvi un ottimo libro dedicato alla figura del compianto Turi Ferro. Il volume, curato da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, zeppo di bellissime fotografie che riproducono l’attore in vari momenti significativi della sua carriera, si intitola "Turi Ferro, il magistero dell’arte", edizioni La Cantinella, Catania 2006.
Ringrazio la casa editrice che ha messo a disposizione di Letteratitudine il testo introduttivo (riportato di seguito).
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Maturata a ridosso delle esperienze storiche più significative del primo Novecento, la stagione aurea del teatro siciliano aveva rinverdito le scene nazionali e internazionali esibendo le straordinarie doti interpretative di Giovanni Grasso e Angelo Musco che avevano alimentato un intenso dibattito sull’azione educativa del teatro, sul ruolo dell’attore, sulle ragioni del mercato, sui condizionamenti del pubblico, sull’inviolabilità del testo letterario, sulla trasgressione interpretativa, sui diritti d’autore, sulla necessità di una messa in scena più dinamica, inquieta, polisemica. Sul tronco del naturalismo i grandi attori-mattatori siciliani, che affondavano le radici, attingendone nutrimento vitale, in un humus teatrale antichissimo, avevano innestato il loro istintivo talento, rinsanguato da generazioni dì pupari, da pratiche di commedia dell’arte, da retaggi di cultura orale, da elementi temperamentali ‘forti’.
Informato al medesimo spirito dionisiaco, di tale multiforme patrimonio Turi Ferro è stato naturale erede. I suoi esordi risalgono ai verdi anni, a fianco del padre Guglielmo, appassionato componente della «Brigata d’Arte filodrammatica», al Teatro Coppola di Catania, prima, nei teatrini parrocchiali della città etnea, poi, dove individua e matura una vocazione che non verrà mai meno. Nel 1946 partecipa alla rubrica di Radio Catania Tutta la città ne parla dando vita a popolari personaggi e conquistando simpatia e notorietà. Durante la stagione 1948-’49 è a Roma, nella Compagnia di Rosso di San Secondo e Rocco D’Assunta, dove incontra Ida Carrara, discendente da un’antica famiglia di comici, destinata a divenire sua splendida compagna d’arte e di vita, che sposerà il 14 febbraio 1951. Dopo l’esperienza della «Compagnia Anselmi-Abruzzo», nel 1953 riprende la collaborazione con Radio Catania in Contropiede, rubrica satirico-sportiva del lunedì, e nel 1955 in Il ficodindia, settimanale umoristico di cronaca e attualità. Negli stessi anni si ricostituisce la «Brigata d’Arte» del risorto Circolo Artistico, diretta da Silio Ali, scenografo il pittore Francesco Contrafatto, dove ha modo di misurarsi anche con testi del teatro nazionale ed europeo. La compagnia annovera, con Turi Ferro che ne è l’animatore, alcuni dei protagonisti ‘storici’ del teatro siciliano, Rosina Anselmi, gustosa partner di Angelo Musco, il marito Lindoro e il cognato Eugenio Colombo, Iole e Vittorina Campagna, esponenti come Franca Manetti e Maria Tolu, sorelle di Ida Carrara, di una delle tante illustri famiglie di teatranti.
Non l’Accademia è stata la scuola di Turi Ferro, piuttosto la realtà della sua terra, per sua natura ‘teatrale’, e il magistero del geniale eclettismo di comici, nel cui DNA personale e ambientale è racchiuso un faticante e seducente destino, che gli hanno trasmesso il loro stipato bagaglio di bizzarre virtualità istrioniche, di fantasticherie perturbanti, di esperienze frutto di mestiere ed arte: il trovarobato di trucchi e magie appresi fin dalle quinte, la memoria cromosomica di famiglia attorica all’italiana antica.
Il 20 ottobre del 1958, consumato un felice momento capocomicale, dando vita ad un sogno lungamente accarezzato, in una Catania ancora laboratorio letterario sebbene non più operoso e fervido come un tempo, con Mario Giusti, Gaetano Musumeci, Piero Corigliano, Nunzio Sciavarrello, Pietro Platania ed altri, Turi Ferro fonda l’Ente Teatro di Sicilia. Con loro due capocomici della statura di Michele Abruzzo e Umberto Spadaro che, con Rosina Anselmi, Turi Pandolfìni, Jole e Vittorina Campagna, Virginia Balistrieri, Eugenio Colombo, Rosolino Bua, appartenevano al ‘vecchio’ ceppo dell’eroico teatro siciliano. Il futuro Teatro Stabile di Catania (il cui settore organizzativo verrà affidato a Giuseppe Meli), luogo di divertenti evasioni, di rigorose verifiche, di esaltanti approdi, s’imporrà via via nel panorama non soltanto italiano, ripercorrendo con identico successo nelle numerose tournées estere le tappe delle gloriose compagnie dei primi decenni del secolo.
Pièce inaugurale Malia di Luigi Capuana, messa in scena il 3 dicembre dello stesso anno, regia di Accursio Di Leo, scene e costumi di Renato Guttuso, musiche di Angelo Musco junior. E non a caso. Con Malia, suo cavallo di battaglia, soleva esordire Giovanni Grasso, «il più grande attore tragico del mondo», come è stato unanimemente definito. Un ulteriore filo rosso che lega attori tanto genuini e veri nei toni, nella gestualità, nei costumi, nella lingua. Dal capolavoro drammaturgico di Luigi Capuana prende abbrivio un nuovo itinerario teatrale di Turi Ferro, votato a raggiungere traguardi sempre più prestigiosi per l’abilità di acquisire ed elaborare in modo personale e creativo codici multipli dell’attore di razza: voce, mimica, prossemica, fisiognomica.
Da allora, attore di singolare duttilità, proteiforme, capace d’inasprire il comico fino al tragico, di trascorrere con inusitata repentinità da uno stato d’animo all’altro, Turi Ferro ha assiduamente attraversato il variegato, prismatico, intrigato territorio del teatro siciliano ora giocoso, ilare, grottesco, ora melanconico, severo, drammatico: I civitoti in pretura, L’aria del continente, San Giovanni Decollato, Annata ricca massaru cuntentu, Sua Eccellenza, Il marchese di Ruvolito, L’altalena di Nino Martoglio, Lu cavaleri Pidagna, Il Paraninfo di Luigi Capuana, La Lupa, Cavalleria rusticana, Caccia al lupo, Dal tuo al mio di Giovanni Verga, La bella addormentata di Pier Maria Rosso di San Secondo, L’eredità dello zio Canonico, II cittadino Nofrio di Antonino Russo Giusti, I Don di Pippo Marchese, Domini di Saverio Fiducia, Faidda di Francesco De Felice, Questo matrimonio si deve fare, La governante, II Gallo di Vitaliano Brancati, L’avventura di Ernesto di Ercole Patti, Le notti dell’anima, Gli abusivi di Turi Vasile. Ma pure Giacomino Re nel grano di Giovanni Guaita, La grande speranza di Carlo Marcello Rietmann, Fumo negli occhi, Né di Venere né di Marte di Faele e Romano, I Carabinieri di Beniamino Joppolo, Antigone Lo Cascio di Giulio Gatti, Mariana Pineda di Federico García Lorca, La dote di Mario Brancacci, L’uomo e la sua morte di Giuseppe Berto, Un’abitudine a che serve? di Aldo Formosa, Inquisizione di Diego Fabbri, Il Riscatto di Vittorio Metz, Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo. In ‘anni difficili’, in cui la denuncia della mafia, delle perverse logiche del potere, del malessere di una democrazia e di una politica corrotte e corruttrici, della violenza e delle imposture della storia, non era usuale, lo Stabile di Catania metteva in scena testi di forte impegno sociale, di generosa tensione morale, di vigile coscienza critica. In particolare quelli di Leonardo Sciascia (il rifacimento de I Mafiosi di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto, Il giorno della civetta, Il Consiglio d’Egitto, A ciascuno il suo) e di Giuseppe Fava (La violenza, Il Proboviro, Ultima violenza). Una grande lezione civile cui Turi Ferro ha offerto il lievito e il carisma di una sanguigna interpretazione. Al contempo si misurava con gli immortali personaggi della grande narrativa siciliana ridotta per il teatro, contribuendo così alla sua divulgazione presso un vasto pubblico. Da antologia le interpretazioni di “padron ‘Ntoni” de I Malavoglia e di “Gesualdo Motta” del Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga, di “don Blasco” de I Viceré di Federico De Roberto, di “don Fabrizio Gerbera principe di Salina” di Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Un repertorio ubertoso che registra anche Fedor Dostoevskij (Il villaggio Stepančikovo), Anton Čechov (Zio Vanja), Molière (Il malato immaginario, L’avaro, La scuola delle mogli), William Shakespeare (La bisbetica domata, ridotta in siciliano col titolo Castigamatti, Tifo Andronico, La Tempesta), Sofocle (Antigone), Plauto (Miles gloriosus, ridotto in siciliano col titolo Lu surdatu vantaloru), Euripide (Elena), Ronald Harwood (Servo di scena), Eric Emmanuel Schmitt (Il visitatore). Autore di riduzioni teatrali e regista, Turi Ferro è stato interprete pure di vari sceneggiati televisivi (L’accusatore pubblico, La locanda dei misteri, Merluzzo, Mastro-don Gesualdo, Ma non è una cosa seria, L’insuccesso, Il mondo di Pirandello, Boris Gudonov, I racconti del maresciallo, Il segreto di Luca, Il candidato, I Nicotera, La quinta donna, La famiglia Ceravolo, E non se ne vogliono andare, E se poi se ne vanno?) e film (Un uomo da bruciare, Io la conoscevo bene, Rita la zanzara, 7 volte 7, Un caso di coscienza, Scipione, detto anche l’Africano, L’istruttoria è chiusa: dimentichi, Imputazione di omicidio per uno studente, La violenza: quinto potere, Mimi metallurgico ferito nell’’onore, Malizia, Virilità, La governante, Il lumacone, Malia, Vergine e di nome Maria, I Baroni, Stato interessante, Che notte, quella notte, Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, Ernesto, La posta in gioco, Malizia 2000, Novella siciliana).
Innumerevoli segni, tutti questi, di una vocazione che si rivela senza precedenti e senza confronti quando investe un autore quale Luigi Pirandello, ampiamente ed insistentemente frequentato.
Del 1957 è la prima rappresentazione della commedia Liolà (ripresa nel 1959 e tenuta in repertorio fino al 1973), che affascina per la ricchezza coreografica, l’esplosione di suoni, canti, luci, colori, movimenti, l’esuberanza con cui è condotto il giunco dell’intreccio, lo spessore antropologico, sociologico, psicologico, l’energia interpretativa di Turi Ferro. Alla gioiosa vitalità di Liolà l’attore affiancherà via via, in un crescendo di registri, nel segno di una corrosiva ed inesorabile dialettica, percorsa da vibranti tensioni esistenziali, i testi più emblematici dell’agrigentino: La giara, Così è (se vi pare), L’uomo, la bestia e la virtù, Ciascuno a suo modo, Vestire gli ignudi, Il berretto a sonagli, Lumìe di Sicilia, Questa sera si recita a soggetto, Il giuoco delle parti, Ma non è una cosa seria, Sei personaggi in cerca d’autore, I Giganti della Montagna, ‘U Ciclopu (da Euripide), Pensaci, Giacomino!, La cattura (ultimo suo spettacolo, che sigla una lunga fedeltà pirandelliana); e per il cinema: Il turno, Tu ridi. Votatamente elusi, in omaggio a Salvo Randone, quelli che sono stati i cavalli di battaglia del conterraneo siracusano, Il piacere dell’onestà, Tutto per bene e, in particolare, Enrico IV.
Ma a restare consegnate alla ‘storia’ del teatro sono le magistrali interpretazioni di “Liolà” e di “Ciampa”. E di quel “mago Cotrone”, visionario, onirico, surreale e insieme terragno, che lascia intravedere le speculari immagini dell’autore e del regista, primi maghi evocatori, nella memorabile edizione del 1966, al Teatro Lirico di Milano, de I Giganti della Montagna di Giorgio Strehler. Sua la definizione di Turi Ferro quale «uno degli attori più epici. Forse Brecht è nato con lui».
E se la festevole interpretazione del giovane contadino-poeta, «ebbro di sole», della commedia campestre Liolà è divenuta con gli anni irripetibile, ormai mitica nella memoria collettiva, quella dolente ed esacerbala dello scrivano-filosofo “Ciampa” di Il berretto a sonagli, sussiegoso raisonneur, ammantato di callida suasività, d’intellettuale abilità loica, di furori ragionativi, di manie teorizzatoci, si è avvalsa della complicità del tempo, di cui il corpo non è più illustrazione ma clessidra, fino all’identificazione totale. Quel corpo che è «oggetto della mente» per Spinoza, come il volto è «anima del corpo» per Wittgenstein. Giacché, per far ricorso stavolta a Simmel, «nella forma del volto l’anima si esprime nel modo più chiaro». Seducente strumento di teatralità, il volto, di cui l’età è nemico ma pure certosino scultore. Del paesaggio interiore l’ortografia del volto, cui è consegnato il racconto di una vita, rappresentando il punto di emersione. Così come la facies della terra è il punto di emersione del paesaggio naturale. Entrambi testimoniando stagioni, rughe, nervature, ingrottamenti, depressioni, fratture, cedimenti, squarci. Il faticoso incedere, i lenti gesti, gli eloquenti sguardi, le meditate pause, i dolorosi silenzi, l’arrochirsi della voce, l’emozione dissugata dell’attore, che vieppiù guadagnava in intensità quanto perdeva in baldanza, scavavano, per lungo studio e acquisita sapienza, nelle piaghe dell’uomo per estrarne, distillandone gli affanni, l’antico malessere, il dolore del ‘mondo offeso’. Autore anch’egli del suo personaggio, l’attore, al pari dello scrittore. Fabulatore e poeta. Ammaliante alchimista. Conformemente al dettato pirandelliano, la sua esecuzione balzava «viva dalla concezione, e soltanto per virtù di essa, per movimenti cioè promossi dall’immagine stessa, viva e attiva, non solo dentro di lui, ma divenuta con lui e in lui anima e corpo». Erano proprio il tono epico-lirico, la pregnante gestualità mediterranea, la naturale accensione siciliana della lingua, la musicalità segretamente vibrante di slanci e di tribolazioni, le intense sospensioni brulicanti di senso, l’essenzialità ma pure l’enigma del silenzio a restituirci, penetrando negli strati più incandescenti del testo, con il prodigio e il potere evocativo della parola pirandelliana, il sentimento dell’impotenza, della solitudine, dell’angoscia del vivere. Nel magistero dell’arte il proscenio si tramutava in ‘stanza della tortura’, in impietoso tribunale di coscienze ed insieme in strumento per cauterizzare le inquietudini, le ansie, le pene esistenziali. Ridando all’attore quel ruolo di «epitaffio e cronaca del proprio tempo» che gli assegnava Shakespeare, Turi Ferro faceva del teatro l’onnipotente luogo della vraisemblance.
Il luogo senza frontiere dove, per una sorta di complicità tra attore e pubblico, ogni alchimia si consumava. Sapientemente celando in un’aura di poesia l’inganno della menzogna che è dell’attore, il suo incomparabile privilegio di essere, con Baudelaire, «se stesso e altrui a suo piacimento», negli esiti più felici Turi Ferro è figura dell’attore-santo di cui parla Grotowski che, in un’ascesi mistica alla ricerca della verità, liberava da ogni istrionismo l’actio oratoria. L’illusion comique si sublimava in illusione trascendentale. Ed è la fictio, vale a dire la capacità di evocare fantasmi, che nell’ambiguità eticamente e poeticamente si definiscono, mediante cui il teatro celebra il suo magico rito, ad eternare personaggio ed interprete.
Sarah Zappulla Muscarà
Enzo Zappulla
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"Turi Ferro, il magistero dell’arte",
di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla
edizioni La Cantinella, Catania 2006
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