E’ un’ ispezione nel labirinto del tradimento quella attuata da Antonio Di Grado, resa attraverso lo sguardo dei letterati che tra Ottocento e Novecento ne hanno esaminato e poi interpretato le multiple valenze semantiche. L’atto del tradimento è inteso non solo come effetto di una delazione ma anche come conversione, apostasia, ricognizione, nei confronti “di una fede, di un patto, di un mandato o di una gerarchia di norme e di valori, di una identità nazionale o ideologica”. Giuda è un personaggio-simbolo, anzi, usando un termine caro a Debenedetti (tra l’altro chiamato in causa in questo testo), rappresenta il personaggio-uomo; risulta plasmabile, indefinito, moralmente plastico, dove per plasticità s’intende la capacità continua di adattamento ai vari contesti sociali, culturali, ideologici, religiosi. La letteratura riprende ed interpreta, col proprio linguaggio, l’episodio cardine che ha dato vita a quell’opposizione tra identità senza identificazione (propria dell’uomo) e determinatezza dell’infinito, percezione della sua illimitatezza (propria di un’entità). Giuda non è solo il discepolo che tradì per trenta denari Gesù o il fedele esecutore del disegno divino in cui interpretò la vittima sacrificale ma diviene uomo comune, con la sua fragile umanità, con i suoi ripensamenti, le sue contraddizioni e con il marchio del peccato.
La figura di Giuda viene scissa nel corso dei tempi e viene dall’autore identificata ora con l’Iscariota, ora con gli intellettuali che hanno rinnegato il loro credo ideologico (una buona parte degli esponenti della letteratura italiana tra le due guerre) e persino con gli scrittori ‘irregolari’, emarginati, in quanto traditori di norme e valori fissati da un canone da cui hanno preso le distanze, quelli che egli definisce gli “esclusi dalle provvidenziali risorse della totalità epica o romanzesca” e per i quali chiede una sorta di rivalsa: “E’ forse il caso allora –scrive- di riformulare la categoria stessa di ‘minore’, affinché essa non rimandi più a improponibili gerarchie di valori”. Tra essi sfilano scrittori come: Lanza (Giuseppe), Alvaro, Aniante, i ‘moralisti vociani’ Boine e Jahier, (dove il termine di ‘moralista’ è stato da molti usato come mera etichetta che “ha funzionato sempre e soltanto come una comoda scappatoia per archiviare la moralità…”), fautori, questi ultimi, di una nuova interpretazione della natura del peccato “ineluttabile e connaturato all’uomo, alla sua legittima volontà di operare nel mondo e di trasformarlo”.
Ma il tradimento richiede inevitabilmente altri soggetti oltre ai traditori: i traditi; tra questi Di Grado chiama in causa gli ebrei, vittime di un tradimento attuato dalla storia e da quello stesso Dio ‘assente’, silenzioso, sulla cui indifferenza ha persino dubitato Gesù nei momenti che hanno preceduto la sua morte. Vediamo così sfilare in rassegna una costellazione di autori che nel Novecento hanno trattato di Giuda: Leo Perutz, Paul Claudel, Borges, fino ad arrivare alla denuncia di André Gide del tradimento di tutte le chiese operato nei confronti delle fedi. Il riferimento al tradimento inteso come adulterio viene solo accennato per il riferimento ai due grandi romanzi di Flaubert e Tolstoj.
Ma è, in particolare, in una frase dello stesso autore che si può cogliere l’invito ad un nuovo atteggiamento ‘intellettuale’ nei confronti di quello ‘scacco’ nella storia dell’umanità, proteso a rilevare una redenzione e riconciliazione tra la figura di Giuda e quella di Cristo, tra il peccato e la predisposizione alla coerente perfezione, tra la condizione dell’uomo e la sua spiritualità: “grazie a quei trenta denari coniati nella sofferenza l’uomo-Giuda sarà liberato”. Una scrittura sofisticata, ricca di metafore ricercate, di lucidità e logicità sintattiche; corposa, eclettica e raffinatamente ‘eversiva’. Un libro gremito di riflessioni, eleganti provocazioni, inconfessabili idiosincrasie, che, insieme, si svelano come tracce indelebili dell’ ‘oscuro’ e ineluttabile rapporto tra letteratura, destino ed essenza dell’uomo.
Sabina Corsaro
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Si ringraziano l’autore del libro e la casa editrice per aver concesso la pubblicazione del brano che segue.
Aveva scritto Paolo che, se i Greci cercano la sapienza e i Giudei i miracoli, «noi predichiamo il Cristo crocifisso, follia per i Greci e scandalo per i Giudei». L’Evangelo è questo, è questo il nucleo, è questa la sintesi della rivelazione. Che perciò non è conoscenza filosofica, non è efficienza storica. È un Dio in croce, è un Dio sconfitto, è lo scandalo della debolezza e della morte, della carne piagata e degli olocausti, repliche infinite dell’incarnazione. È il Dio che s’accompagna ai reietti, alla feccia; è il Dio che intinge il boccone per Giuda e ne riceve amichevolmente il bacio.
Nel cosiddetto Vangelo di Giuda, Gesù ride spesso. Ride dell’ottusità degli apostoli, ride dell’indegnità delle chiese e dell’inferiorità del loro dio, ride della nostra ignoranza che ci rende inaccessibile il nome dell’Eterno. In quel vangelo come negli altri testi gnostici, la salvezza non è l’espiazione del peccato ma il raggiungimento della consapevolezza, che è un dono, è il frutto d’una elezione: come sarà per Lutero la fede che ci giustifica. Per i tanti cristianesimi possibili dei primi secoli, così come per quelli resi possibili più tardi dalla Riforma, il rapporto diretto con Dio, il dono della Sophia o della Grazia, il libero esame della Parola sono la via – plurale, sinuosa, errabonda – per la salvezza.
Ma gli gnostici non intesero il mistero dell’incarnazione e lo scandalo della Croce, né la centralità del corpo e l’annunzio della sua resurrezione, cui sostituirono il mito dell’anima autorizzando manie d’immortalità nonché la voga – malauguratamente ricorrente – delle New Age spiritualistiche. E i protestanti edificarono chiese, stabilirono gerarchie, finirono troppo spesso col riprodurre forme e norme della chiesa di Roma.
Nulla salus in ecclesia? Aveva ragione André Gide, a voler comporre un Christianisme contre le Christ, come a dire che l’Evangelo è tradito dalle chiese, la fede dalle “religioni”? Umana, troppo umana, inevitabilmente intrisa di peccato e di sopraffazione, di errore e di presunzione, ogni chiesa forse è tradimento: arresta
la Parola in movimento del Cristo, il suo dispiegarsi in cammino, il suo farsi incessantemente e mutevolmente carne; le dà alloggio mentre essa (Matteo 8, 20) «non ha dove posare il capo».
E ancora avanza, quella Parola, senza tema di confondersi con la propria eco cangiante, di offrirsi instabile e alterata «come in uno specchio». Si accompagna anche con scrittori oziosi e di smodata immaginazione come ieri con pubblicani e prostitute. Invita i curiosi e i disperati che l’ascoltano a tradire fedi, patrie, chiese, idee, affetti e altri umanissimi vincoli. E ci parla d’un solo Dio: non una seconda e più autorevole divinità da contrapporre al collerico demiurgo dell’Antico Testamento; semmai, come affermavano gli gnostici valentiniani, un’idea più profonda oltre l’immagine popolare, umana, dispotica, maschile del Dio d’Israele. O, come scriveva Paul Tillich, un «Dio al di là di Dio». Un Dio Padre-Madre-Figlio: solo in questi termini, forse, è possibile concepire l’inesplicabile politeismo della Trinità; solo così, come Grazia e principio femminile, è possibile dare un senso all’enigmatica o pleonastica figura dello Spirito; solo così è possibile ricondurre all’unità – dell’autorità paterna ma pure dell’indulgenza della madre generatrice – la figura a tratti ribelle, quasi sempre amletica, comunque irriducibile, del Cristo.
E quella Parola in cammino misteriosamente aggrega la chiesa invisibile degli eletti, che attraversa tutte le fedi; e recluta, fuori da quelle, moltitudini di dubbiosi e miscredenti, perché Dio ha conosciuto nel Figlio la ribellione e la bestemmia; e forse non gradisce altra forma di preghiera che non sia la sorda colluttazione con l’Angelo:
E Iacob restò solo: ed un huomo lottò con lui fino all’apparir dell’alba.Ed esso, veggendo che non lo potea vincere, gli toccò la giuntura della coscia: e la giuntura della coscia di Iacob fu smossa, mentre quell’huomo lottava con lui.E quell’huomo gli disse, Lasciami andare: percioche già spunta l’alba. E Iacob gli disse, Io non ti lascerò andare, che tu non m’habbi benedetto.
Così, nella splendida lingua seicentesca di Giovanni Diodati, la lotta di Giacobbe con l’inviato di Dio (Genesi 32, 24-26), e dell’uomo con Dio stesso. Così lottano nella storia e nei libri, e nella coscienza d’ognuno, Gesù e Giuda; e alla fine, ogni volta, Gesù lo benedice.
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Giuda l’oscuro
Letteratura e tradimento
di Antonio Di Grado
Claudiana – Torino, 2007
Euro 13,50
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