In questi giorni sulle pagine web di Nazione Indiana si sta consumando una polemica piuttosto virulenta a seguito della pubblicazione di articoli sul quotidiano “Il Mattino” da parte di alcuni scrittori, tra cui: Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale. Articoli finalizzati a fare il punto della situazione sulla Napoli post-Gomorra.
Vi riporto, di seguito, gli articoli di Pascale, Cilento e Di Consoli. Poi vi esporrò il mio parere.
Il Male che bagna Napoli (di Antonio Pascale)
La città di Napoli (e il suo hinterland) ha ormai invaso il nostro immaginario narrativo. Da una decina d’anni a questa parte, scrittori, artisti, intellettuali, registi, sceneggiatori e pure qualche poeta parlano e raccontano Napoli. Si può dire a tutt’oggi che nessuna città italiana ha subito lastre radiografiche così invasive e così continue come Napoli. Certo alcuni hanno preferito racconti superficiali, altri hanno raccontato la città con dolore e con amarezza, altri ancora con troppo dolore e troppa morbosità. Comunque sia, sfumature a parte, ne abbiamo elencato i difetti, le brutture, modi di vivere, le antropologie sociali, gli scempi urbanistici, spesso in presa diretta. Tanto che si può dire senza paura di esagerare che della città sappiamo ormai tutto, vita, morte e miracoli, per citare l’ultimo bel reportage televisivo, andato in onda giorni fa su L7. La domanda a questo punto è lecita: se sappiamo come ormai funziona il sistema camorristico, se la complicità tra politica e malaffare è sulla bocca di tutti che quasi accompagna le nostre discussioni al bar, se la vox populi dice cose molto sensate, se, ancora, abbiamo capito che la struttura economica che fonda e fa girare Napoli è seriamente a rischio crepe e di sicuro l’edificio nel futuro immediato si incrinerà seriamente, se sappiamo tutto questo, come mai a Napoli non cambia niente? Come mai non si prende atto dello stato di macerie e si comincia a ricostruire? Molti narratori, giovani e non, si sono convinti, in questi anni che l’espressione artistica deve per forza tenere conto di tutto quello che si muove sotto i nostri piedi. Qualunque tipo di torre l’artista costruisca, sia d’avorio o altrimenti corazzata, questa (la torre) poggia comunque le fondamenta nel sottosuolo. Non possiamo abbandonare la realtà sismologica e l’impegno che questa comporta. L’arte realistica è, in questo senso, un potente sismografo. Serve in primo luogo a proteggerci, proprio perché ci fa riconoscere l’onda sismica e in secondo luogo, serve, a costruire strutture antisismiche. Il narratore realista crede, in buona o mala fede, con ottimi e cattivi risultati, che questo sia il suo compito, indagare e costruire. Un compito che grava su di noi come una necessità primordiale, da svolgere a tutti i costi, arrivando fino ad invadere il lettore, come sostiene Saviano, prenderlo a pugni, svegliarlo dal torpore. Ebbene, sto sempre più nutrendo il sospetto che questo tipo di rappresentazioni rischia sì di indagare senza però smuovere nulla. E’ un indagine ripetitiva, per così dire. Consolante come tutte le ripetizioni. Quasi come se a risultato ottenuto, a narrazione finita, dopo aver militarmente invaso l’altro, al lettore, davanti a tale apocalisse, non resti che alzare le mani, dichiarare la resa. L’arte, dicono i teorici, deve conservare la tensione, sia quella verso il bene sia quella verso il male, altrimenti risulta mutila. Le rappresentazione che spesso hanno oggetto Napoli indirizzano la tensione verso il male. Anzi, spesso lo riproducono. Voglio dire, qualche volta, c’è nello stile che si adotta una seria complicità con il potere che si vuole contestare. E’ forse questo è un punto problematico per noi che scriviamo di Napoli, troppo spesso le narrazioni su, dentro e fuori Napoli, sono stilisticamente colluse. Oppure contribuiscono a creare una specie di retorica dell’apocalisse che blocca ogni tipo di pensiero vitale. Per molti di noi, Napoli è una città che sta diventando capro espiatorio. Con la narrazione rappresentiamo sì il male ma solo per allontanarlo e per sentirci migliori. Forse è per questo che non cambia nulla. Napoli non ci riguarda, fa troppo schifo, ne siamo fuori. E invece, forse, noi narratori dovremmo a questo punto cambiare tattica. Basta con l’epica della criminalità, perché la narrazione ripetuta con gli stessi stilemi e lo stesso ritmo, crea una sorta di assuefazioni e anche, a volte,la possibilità che si idolatri il criminale. Si pensa,e lo pensano i giovanissimi: quando la vita quotidiana è banale, meglio la forza del male. E invece, al contrario, bisognerebbe adottare un punto di vista meno morboso, meno osceno. Oppure dovremmo, di tanto in tanto, andare nelle scuole, nelle piazze a parlare ai ragazzi di scienza e scienziati, di ricerca medica, genetica, di botanica (perché l’ambiente è importante), di tecniche di costruzioni, dovremmo trovare, cioè, il modo, un modo non pretesco, senza prediche, di raccontare alle nuove generazioni che è meglio denudarsi, dai vestiti di marca, dalle droghe, dalle moto e di tutto quando fa spettacolo, vetrina, siparietto, a Napoli e riuscire insieme ad appassionarsi alla città. La passione verso la conoscenza nasce da qui, da un corpo nudo che vuole umilmente provare nuovi abiti mentali. Forse tocca a noi provare la giusta tessitura narrativa.
pubblicato su Il Mattino il 13 giugno 2007
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L’oleografia del male e i suoi danni (di Antonella Cilento)
La notizia che gira ci distrugge: amici da Londra mi scrivono per chiedermi se è vero che un’epidemia è scoppiata a Napoli. Ma quale epidemia?, chiedo subito, C’è un errore… Ma sì, mi rispondono: epidemia di colera. Allibisco. E’ vero: siamo sui giornali di tutt’Europa con lo scandalo della spazzatura. Con la camorra. Con tutto quel che non funziona. E alla fine l’effetto è lo stesso di un secolo fa: erano gli inglesi o gli americani dipinti da Edith Warthon che non volevano passare per Napoli, focolaio di epidemie.
Non solo, vado a trovare un amico albergatore e quando gli chiedo come va mi risponde: malissimo. Gli italiani e gli stranieri hanno ridotto le presenza turistica in forma radicale e, per di più, le locali istituzioni non sono partite per tempo con la pubblicità del Maggio dei Monumenti.
Che ci piaccia o meno l’enorme campagna stampa e letteraria dell’immaginario che circonda Napoli in questi ultimi tre anni, invece di fare luce, come è già stato detto da Antonio Pascale su queste pagine, crea oscurità. La città se ne cade di problemi, ma attorno a lei, dentro di lei, una colossale campagna di autodistruzione fa perdere di vista la verità dei fatti. E per conseguenza nasce l’oleografia del male, fioriscono i presunti cantori della camorra, che invece di colpire il Sistema, senza volere – o volendo – lo elogiano.
E’ pericoloso di questi tempi nascondersi dietro il Male, è pericoloso creare martiri, non ne abbiamo bisogno. Per tornare a guardare Napoli bisogna viverla e lavorarci dentro, non osservarla da altre città o con gli occhi rivolti al desktop invece che alla strada.
Non abbiamo bisogno di un mercato del racconto truce di Napoli (è roba vecchia, cambiano le forme ma le storie sono le stesse di cento anni fa, proprio come la notizia del colera): alla fine, anche questo, il raccontare il Male compiacendosene, è una forma di camorra.
Abbiamo invece necessità di far vedere le cose attraverso l’esperienza diretta di una città che, certo, non è il paradiso, ma che ha bisogno di pratica e non di teorie per cambiare.
La gratuità del Male che abita Napoli si ritrova bene cantata dai telegiornali, dai libri, dai giornali: il Male si alimenta del Male.
E tutto questo ci solleva dal dover osservare le pratiche quotidiane, i buoni comportamenti, la correttezza dell’uso del denaro, l’educazione stradale, il senso civico che non fanno audience e non vendono copie, ma che più banalmente servono a contrastare l’entropia.
pubblicato su Il Mattino il 17 giugno 2007
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Andare avanti dopo Saviano (di Andrea Di Consoli)
Le dure parole di Sergio De Santis, scrittore che è unanimemente riconosciuto equilibrato e mai demagogico, sulle colonne di questo giornale, in data 16 giugno, mi hanno dato l’impressione di un clima che sta cambiando. Ma cosa sta cambiando esattamente a Napoli? A mio avviso sta scricchiolando la dittatura del realismo e del reportage, quella che è stata giustamente definita, su questo giornale, la “retorica dell’apocalisse”.
Che Napoli sia un Far-West lo sanno tutti, lo sa tutto il mondo. Ma raccontare la realtà criminale non significa raccontare tutta l’anima di questa città, né i suoi sentimenti segreti, né il suo dolore. La vera letteratura, si sa, è parola che dura, è un affondo sentimentale di inaudita verticalità. Il realismo, invece, specialmente quello spettacolare, ha un grande impatto emotivo, ma lascia le cose, e le persone, così com’erano in partenza. Il giochetto è semplice: basta puntare vitalisticamente il taccuino, gli occhi e le telecamere sugli zombi della camorra, e l’effetto “pulp” è garantito.
Ma il convitato di pietra di queste discussioni è Roberto Saviano, inutile nasconderlo. Non finiremo mai di parlare bene del suo libro, né di vivere con apprensione la sua condizione di scrittore minacciato dalla camorra. Saviano è, per molti di noi, un amico, un giovane reporter di talento, ma per andare avanti, per non soccombere di fronte alla dittatura del realismo e alla “retorica dell’apocalisse”, di cui lui è il principale “colpevole”, l’unica soluzione, per consentire la rifioritura del racconto di Napoli, della sua anima, della sua anima plurale, è dimenticare Saviano.
Perché diciamoci la verità: tutti gli scrittori napoletani, oggi, vivono il complesso dell’anima bella. Qualsiasi cosa letteraria provenga da Napoli, da un anno a questa parte, sembra esercizio letterario, disimpegno filisteo rispetto alle emergenze napoletane (comunque immondizia, pistole, lavoro nero, contraffazione, sangue, droga e clan ci sono da prima che nascesse Saviano, questo va detto). Invece sappiamo qualcosa di Napoli grazie a tutti, anche grazie agli scrittori che hanno parlato d’altro: di sentimenti, di sogni, di storia, di amore, di utopie, di cose non “invischiate” con la cronaca nera.
Napoli è stata sempre una città “unica”, una città orgogliosa dei propri codici “sballati”, ma adesso è diventata una città-zoo, che i cronisti di tutto il mondo vengono a visitare con la stessa curiosità che si ha quando si vanno a fotografare le scimmie con il sedere rosso. Mi domando: perché i napoletani non sono offesi? Perché non si ribellano a quest’abnorme caricatura a cui certa letteratura e il circo dei media li ha ridotti? Perché insistono a voler vivere con rassegnazione in una città dove tutto è alla rovescia, dove i peggiori elementi di Napoli, i mariuoli, i killer, i camorristi presidiano come talebani il territorio? I politici, purtroppo, saranno poco determinanti in questa battaglia, se mai ci sarà, perché i politici fanno, com’è risaputo, solo ciò che la maggioranza vuole fare. I napoletani devono cambiare con le loro mani, e secondo me questo potrà accadere soltanto se proveranno il sentimento della vergogna e dell’umiliazione. Quanti napoletani, però, conoscono la vergogna e l’umiliazione? E mi domando: Saviano li ha davvero umiliati, tutti i mariuoli di Napoli?
Lo so che dire “dimenticare Saviano” fa male, è doloroso. Ma Napoli è tante altre cose, tanti altri mari, tanti altri linguaggi, tanti altri sentimenti. La camorra si umilia anche così: con la buona letteratura, con la gentilezza, con le belle parole, con il mare, con i sogni, con la cultura che si espande nonostante tutto. Non sono anime belle gli scrittori e le scrittrici che continuano a raccontare “un’altra Napoli”. Hanno pari forza e dignità di chi mette le mani nella bocca del leone. Ma la migliore Napoli, la Napoli della cultura, dell’intelligenza, della gentilezza e della legalità deve fare muro. Ovviamente contro la camorra quotidiana e contro i mariuoli, sia in cravatta che in jeans, ma purtroppo anche contro Saviano che, senza volerlo, ha dettato un canone ingombrante e tirannico. Mi perdoni Saviano, l’amico in pericolo in vita, il grande reporter, l’intelligentissimo scrittore (il Re degli scrittori di camorra), ma Napoli deve andare avanti, riscoprire la sua pluralità, riequilibrare i suoi tanti canoni letterari, i suoi infiniti paesaggi interiori.
pubblicato su Il Mattino il 18 giugno 2007
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Credo che i toni usati su Nazione Indiana siano stati eccessivamente aspri e che Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale abbiano subito insulti immeritati (forse anche perché il loro punto di vista è stato travisato).
Scrivo di seguito ciò che penso:
“Gomorra” di Roberto Saviano ha avuto meriti indiscutibili nell’indicare e stigmatizzare la cancrena del tessuto sociale ed economico di una certa Napoli. Perché non c’è dubbio che la società e l’economia napoletana abbiano piegato e continuino a piegare la schiena sotto il peso della criminalità organizzata. La camorra esiste – eccome se esiste -, così come esiste la mafia. A Saviano va tributato il merito del coraggio. Il coraggio di rischiare. Il coraggio di vedere e di dire, di scrivere e di descrivere. E il merito di averlo saputo fare con arguzia e talento.
Ma c’è, a mio avviso, un rovescio della medaglia di cui bisogna tener conto.
“Gomorra” si è fatto strada, prima lentamente, poi con forza inattesa fino a raggiungere livelli di fama non facilmente immaginabili. Capita però che, a volte, la fama trasbordi nella mitizzazione. E spesso la mitizzazione può essere causa di offuscamento delle prospettive, di distorsioni o addirittura – in alcuni casi – di effetti fuorvianti.
Vi ricordate il bandito Giuliano? A un certo punto, soprattutto all’estero, per via di un certo processo mediatico, la figura dell’efferato bandito fu idealizzata al punto tale da farla coincidere con l’immagine di un Robin Hood mediterraneo. Eppure Giuliano era solo un efferato bandito.
Ora, la camorra esiste e Saviano ha fatto bene a descriverla in maniera truculenta. Solo che a un certo punto il suo libro è… come dire… esploso.
Certo, se “Gomorra” ha subìto un processo di mitizzazione non è colpa del suo autore, quanto piuttosto di un sistema mediatico che tende – ripeto – a enfatizzare il successo con effetti omologanti e stereotipanti. È falso e semplicistico identificare Napoli con tarantella, spaghetti e pizza. Ma è altrettanto errato identificarla con la camorra. O soltanto con la camorra. Napoli è anche una città d’arte, di cultura, di atmosfere magiche, di grandi tradizioni. E, d’altro canto, Napoli è una città che presenta grossi problemi spesso non collegati alla criminalità organizzata.
Io non credo che gli articoli di Pascale, Cilento, Di Consoli e di altri scrittori intervenuti sulle pagine de “Il Mattino” mirassero ad attaccare Saviano e la sua opera. Il loro intento, a mio modo di vedere, era finalizzato al ristabilimento di un equilibrio perduto a causa di quel processo di mitizzazione cui facevo riferimento prima. Ma temo che alcuni passaggi di quegli articoli siano stati travisati.
Se Saviano ha sentito il dovere – rischiando la pelle – di descrivere senza veli la Napoli della camorra ha fatto cosa giusta. Se però altri intellettuali hanno sentito la necessità di “correggere il tiro” fornendo punti di vista differenti, ritengo che abbiano fatto altrettanto bene (e che non meritino di essere insultati).
Credo che la crescita intellettuale si basi sul confronto, a volte sulla contrapposizione, di tesi e idee. Ma confronto e contrapposizione genereranno crescita solo se mantenuti entro i margini di una dialettica civile. Le risse verbali tendenti al linciaggio non servono a nessuno. Non servono a Saviano, così come non servono a Pascale, o a Cilento, o a Di Consoli. E soprattutto non servono a Napoli.
Massimo Maugeri
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