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Archivio della Categoria 'LETTERATURA DEI LUOGHI'

venerdì, 16 aprile 2010

LA MARSIGLIA DI JEAN-CLAUDE IZZO, incontro con Stefania Nardini

Dieci anni fa – il 26 gennaio del 2000 – moriva Jean-Claude Izzo: noto scrittore e sceneggiatore francese.
Parlare di Izzo equivale – per certi versi – a parlare di Marsiglia, la sua città natale (dove vide la luce il 20 giugno 1945).

Ed è questo l’obiettivo della discussione che vi propongo: aprire una finestra su uno scrittore e sulla sua città (tutto il contrario di una città per turisti, perché la sua bellezza non si fotografa, si condivide). Lo spunto ce lo offre la nuova opera di Stefania Nardini, intitolata ”Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese” ed edita da Perdisa Pop nell’ambito della nuova collana diretta da Luigi Bernardi: Rumore Bianco.

Avremo senz’altro modo di discutere della trilogia che ha come protagonista il più noto personaggio letterario creato da Izzo: Fabio Montale (Casino totale, Chourmo, Solea); ma anche dei romanzi Marinai Perduti e Il sole dei morenti. “Cinque libri” – leggiamo nella scheda del saggio della Nardini – “che hanno conquistato migliaia di lettori in Francia e in molti paesi europei. Solo cinque libri perché Jean-Claude Izzo a 55 anni se ne è andato, lasciando un segno, non solo nella città a lui cara, Marsiglia, ma in tutti coloro che nei suoi testi hanno ritrovato sensazioni, emozioni, verità“.

Per narrare di Izzo, l’autrice di questo saggio ha trascorso un po’ di tempo a Marsiglia. Ecco cosa scrive nella nota finale al libro: “Andai a Marsiglia. Dovevo restarci due settimane. Ci sono rimasta quattro anni“. Ed è così che Marsiglia è diventata una delle “città elettive” di Stefania Nardini (l’altra è Napoli).

Alcune domande per favorire la discussione…

Conoscete Jean-Claude Izzo? Avete mai letto qualcosa di suo?

Qual è l’eredità principale che ha lasciato Izzo?

Che tipo di contributo ha dato, nell’ambito della narrativa europea e mondiale, la trilogia marsigliese che ha per protagonista Fabio Montale?

Avete mai avuto modo di visitare Marsiglia? Che ricordo ne conservate?

E quale città (diversa da quella dove siete nati) eleggereste a vostra “città elettiva”? E per quale ragione?

Vorrei approfittarne anche per invitare Luigi Bernardi a raccontarci del progetto editoriale Perdisa Pop (e delle varie collane che dirige).

Di seguito, la recensione firmata da Gordiano Lupi e l’articolo che Sandra Petrignani ha pubblicato sul quotidiano L’Unità.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA DEI LUOGHI, OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   131 commenti »

martedì, 30 marzo 2010

L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo

Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA DEI LUOGHI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   227 commenti »

giovedì, 25 marzo 2010

NAPOLI E L’IRPINIA TRA I LIBRI

Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
- “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
- “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
- “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
- “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
- “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
- “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)

Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.

Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.

Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.

E ora… le domande del post:

1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?

2. Quali sono i “tratti” in comune?

3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?

4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?

5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?

6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?

Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA DEI LUOGHI   217 commenti »

martedì, 24 novembre 2009

IL SUD NELLA NUOVA NARRATIVA ITALIANA

Parliamo di letteratura, parliamo di Sud. L’occasione ce la fornisce questo interessante saggio di Daniela Carmosino (docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale) uscito di recente per i tipi di Donzelli con il titolo: “Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il Sud nella nuova narrativa italiana”.
Ecco la scheda del libro:
Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente? Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.

Mi piacerebbe organizzare un dibattito su questo interessante volume ragionando insieme a voi sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse. Inoltre vorrei tentare di mettere “a confronto” Daniela Carmosino con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio. Fino a questo momento ho avuto modo di contattare: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano (i quali – compatibilmente con i loro impegni – cercheranno di prendere parte, più o meno direttamente, alla discussione).
Naturalmente sono invitati a partecipare al dibattito tutti gli altri amici scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, ecc.
Come al solito proverò a porre alcune domande al fine di favorire la discussione. Eccole: (continua…)

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lunedì, 26 ottobre 2009

CITTA’ PER LE STRADE. ROMA E ALTRI LUOGHI

citta-per-le-stradeParliamo di città… di città e di strade, di quartieri urbani e letteratura.
L’occasione ce la fornisce questo progetto lanciato dalla casa editrice AZIMUT, a cui ho aderito con piacere ed entusiasmo.
Come prima cosa ci tengo a evidenziare che Città per le strade è un progetto editoriale NO PROFIT: i proventi degli autori, dei curatori, degli agenti, e dell’editore saranno devoluti ad ospedali, associazioni, centri che si occupano dell’infanzia. Il progetto consiste in una serie di raccolte di racconti incentrate su alcune città e le loro strade… sui loro quartieri, sui loro luoghi. Una sorta di stradario, un “Tuttocittà” dei narratori… i quali non hanno alcuna limitazione espressiva se non quella di collocare la propria storia in un quartiere o in una via della città. Prende così corpo un mosaico di avventure e intrecci, di personaggi e situazioni: il tutto per creare la mappa di una città che va svelandosi nella sua topografia attraverso la fantasia di chi scrive.
E – proprio come nelle città nuovi quartieri vanno aggiungendosi a quelli antichi e conosciuti – anche nella collana Città per le strade, narratori esordienti si affiancano a nomi già affermati nel panorama letterario nazionale e internazionale.
Sono già stati pubblicati i volumi Milano per le strade, Napoli per le strade e un primo volume dedicato a Roma. (continua…)

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martedì, 26 maggio 2009

MONTEVERDE di Gianfranco Franchi

Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 31 luglio 2007

COLOBRARO, IL PAESE CHE NON SI PUO’ DIRE (di Andrea Di Consoli)

I paesi della Lucania sono centotrentuno. Di questi, centotrenta sono infelici, mentre il centotrentunesimo è arrabbiato nero. Questo paese si chiama Colobraro. Per una strana assonanza lessicale, il paese sembra chiamarsi così perché somiglia a una “columbària”, cioè a un serpentario. Questo paese sconosciuto è una rocca, una collina rocciosa (da qui i serpenti), un “eden” di ginestre, olivi, boschi e canneti.

Colobraro è un piccolo paese della provincia di Matera – dal capoluogo dista una novantina di chilometri – e dai suoi pianori si possono ammirare gli ineffabili calanchi del materano, i campi di grano sterminati, i giardini di Tursi (il paese del grande poeta dialettale Albino Pierro), le ricche coltivazioni di Policoro, le luci ammalianti di Valsinni (il paese dove visse e dove tragicamente morì la poetessa Isabella Morra), la diga di Senise, l’immenso lago artificiale che dà da bere alla Puglia, e le mastodontiche tubature dell’Acquedotto Pugliese.

Gli abitanti di Colobraro – il paese più arrabbiato della Lucania – sono appena millecinquecento, ma un tempo i colobraresi furono quasi cinquemila. Dove sono finiti tutti i colobraresi? E perché sono così arrabbiati? Qual è il segreto di Colobraro? Ecco, il segreto di Colobraro è che milioni di superstiziosi-imbecilli, in Italia, quando sentono questo nome – Colobraro, appunto – si toccano le palle e fanno le corna sul ferro. Il paese materano, purtroppo, ha una brutta nomèa, ché viene considerato il paese della iella, delle “masciare”, delle fattucchiere e dei sortilegi d’amore – Colobraro è il paese che non si può dire, in definitiva.

Arrivo a Colobraro nel pomeriggio di un venerdì afoso di luglio. Ho guidato sulla Sinnica con i finestrini aperti, facendomi intorpidire dal calore del sole. Sulla mia destra, per molti chilometri, mi hanno tenuto compagnia le tubature arrugginite dell’Acquedotto Pugliese, mentre in alto, sulla rocca, come uccellacci della modernità sostenibile, ad annunciarmi il paese c’erano alcune pale eoliche ferme nell’immobilità dell’aria. So già, mentre salgo la strada dissestata che porta a Colobraro, che la storia della iella e delle “masciare” è solo una leggenda nera, una leggenda paesana senza nessun fondamento, ma voglio verificare, parlare con la gente, capire la storia di quest’assurda “condanna” secolare.

Parcheggio in piazza e mi guardo intorno. Decido di entrare nella chiesa nuova del paese – quella vecchia fu colpevolmente abbattuta negli anni Sessanta. Tre signore anziane recitano il rosario, ma non sono fattucchiere, sono solo tre signore cattoliche molto devote. Esco, e mi faccio abbagliare dal sole caldo. Una bella ragazza sta seduta, annoiata, davanti a una macelleria, mentre un’altra ragazza, scura di pelle, entra trafelata in un bar, e mostra orgogliosa un bel tatuaggio sulle gambe.

Parlo con un ragazzo seduto ai piedi della statua della Madonna. Fuma e parla poco. Gli chiedo cosa c’è da vedere a Colobraro, ma lui mi dice, con diffidenza: “Niente, non c’è da vedere niente”. Lo saluto e ovviamente non gli credo, ché un paese è sempre pieno di storie nascoste, di cose belle. Mi fermo davanti al tabacchino e parlo con un signore. A bruciapelo gli domando com’è nata questa storia delle “masciare”, ma lui si irrita, è sulle difensive, mi dice che di questo non vuole parlare, che in paese c’è gente disposta a fare a botte, contro i superstiziosi. Gli dico che non sono a Colobraro per inventarmi finte maghe, ma per conoscere la verità, per sfatare una triste nomèa. L’uomo parla – poco, ma parla.

E per la prima volta sento parlare di un famigerato “avvocato”, ma dopo qualche secondo, come ci fosse davvero la provvidenza, una macchina si ferma e un uomo anziano mi fa segno di avvicinarmi. E’ Rocco Mango, il mio salvatore, il mio Virgilio colobrarese. Mi avvicino a lui e subito mi domanda, come fossi il rappresentante del governo di Roma, se “abbiamo” trovato un accordo sulle pensioni. Gli dico che passo le mie giornate a girare paesi e a leggere libri, e che di pensioni non so nulla. Mi parla male dei politici italiani e mi chiede di seguirlo con la macchina – mi porta a due chilometri dal centro, in un posto chiamato Serra, in un “eden” di boschi e di panorami mozzafiato. Subito mi accorgo di aver trovato la persona giusta. Il suo racconto, infatti, coincide tout-court con il racconto di Colobraro: “Ho fatto per quarant’anni il maestro di scuola elementare. Ho settantacinque anni. Di questo paese conosco tutto. Ho fatto finanche le occupazioni delle terre negli anni Cinquanta contro i Berlingieri. La storia della iella? Non c’è niente di vero, credimi. Io mi gioco la casa, mentre tu ti giochi un caffè. Ci stai? Trovami una sola fattucchiera a Colobraro, una sola testimonianza del passato, e io ti regalo la mia casa”.

Sto in ascolto, con le braccia incrociate. Poi gli domando com’è nata, questa “leggenda nera”, perché qualcosa deve pur essere accaduto, negli anni che furono, per consolidare questo luogo comune. Rocco Mango spalanca gli occhi e si accalora: “Sai com’è nata questa stupida leggenda? E’ nata dal fatto che nei primi anni del Novecento, a Colobraro c’era un grande avvocato, Biagio Virgilio, che era il miglior avvocato del materano. Vinceva tutte le cause, aveva una testa grossa così. Ovviamente era invidiato, soprattutto a Matera. Un giorno, mentre discuteva animatamente con alcuni suoi colleghi, che evidentemente non sopportavano la sua bravura, cadde a terra un grosso lampadario. Tutti pensarono: ‘Ecco, questo porta iella, adesso abbiamo capito perché vince tutte le cause’. E la nomèa dilagò a Matera in un batter d’occhio. Biagio Virgilio, il grande avvocato, divenne ingiustamente l’Innominabile. Poi, con gli anni a venire, ogni volta che uno passava davanti a Colobraro, subito pensava: ‘Questo è il paese dell’Innominabile’. Il passo fu breve. Nel volgere di pochi anni l’intera Colobraro divenne innominabile, e così si diffuse la leggenda del paese della iella. Ma qui di fattucchiere non ce ne sono mai state, né ieri né mai”.

Diventiamo amici, io e Rocco Mango. Il sole arancione – e ancora caldo – si spegne superbamente all’orizzonte. Entra nella mia macchina e mi guida per il paese – mi porta nel ristorante di Raffaele, un suo ex alunno, e mi mostra il convento del XII secolo. Il suo racconto non ha sosta: “Il nostro paese è stato rovinato da questa leggenda. I ragazzi emigrano da sempre. Molti si vergognano di dire che sono di Colobraro. Io invece ne approfitto. Sai che faccio? Se vado a Matera in qualche ufficio, basta che vedo una lentezza burocratica o un’ingiustizia, e subito dico ad alta voce: ‘Devo rientrare a Colobraro, è tardi!’ Non appena dico così, tutti mi trattano bene, come un Re. Sono imbecilli, e io approfitto della loro imbecillità. Una volta la polizia mi fermò verso Altamura. Avevo fatto un sorpasso azzardato. Il poliziotto mi chiese patente e libretto, ma quando lesse che ero di Colobraro mi fece andare e mi chiese scusa. Sono imbecilli, e io me ne approfitto. Che altro devo fare?”

Rocco ride, ma un violento colpo di tosse spezza la sua ilarità. Sta male, Rocco, e io me ne accorgo. Mi guarda con i suoi grandi occhi verdi e mi confessa il male oscuro che lo sta consumando: “Non ho mai fumato una sigaretta, eppure ho un tumore al polmone. Faccio la chemioterapia a Policoro. Ho avuto anche un tumore al colon, che mi hanno guarito a Bari. Ma sono ancora vivo. Anzi, il male è come se non mi appartenesse. Ci rido sopra. Non ho paura di morire. Tanto è un ciclo. Tutti dobbiamo morire prima o poi, ma se ti deprimi è finita”.

Rocco mi parla dei tempi andati: dei contadini di Colobraro (del loro fiero individualismo, della loro mitezza, così diversa dall’aggressività e dall’intraprendenza dei tursitani), di quando in paese si coltivava il cotone, di quando Emilio Colombo (mammasantissima della Democrazia Cristiana lucana e italiana, presidente del consiglio nei primi anni Settanta) venne a Colobraro e, poco prima del paese, ridendoci sopra (e ignorando il luogo comune delle gomme che si forano in paese) bucò una ruota della sua macchina. Rocco mi dice: “Sai perché a Colobraro si foravano le gomme? Perché le strade sterrate erano disseminate di chiodi dei ferri di cavallo. Anche questo, però, contribuì a rafforzare la leggenda nera”. E poi mi confessa il suo sogno segreto di una Repubblica Indipendente della Lucania: “Se mettessimo il ferro spinato intorno alla nostra terra, noi saremmo ricchissimi. Abbiamo grano, abbiamo acqua, abbiamo petrolio. Siamo una terra ricca e invece anneghiamo nella miseria e affondiamo nell’emigrazione”.

In paese ci affacciamo da un piccolo pianoro. C’è Valsinni davanti a noi, illuminata come un pugno di gioielli. Rocco sorride: “Adesso te lo posso dire. A Valsinni un fattucchiere effettivamente c’era. Si chiamava Zi’ Giuseppe, abitava verso il monte Coppola. Ma non capiva un fico secco. Quando avevo vent’anni io stavo male, ero debole, non mangiavo. Mia madre gli portò la mia maglia. Lui la annusò e disse che ero sotto gli effetti di un sortilegio d’amore. Invece avevo una malattia vera. Altro che sortilegio!”, e ride di nuovo, stanco di aver parlato così a lungo, di avermi fatto conoscere i suoi amici (il mite preside in pensione, il finanziere con le guance rosse di mille venuzze), di avermi portato a casa dei suoi parenti (una sua zia mi regala, per il viaggio di ritorno, due buonissime focaccine ripiene di zucchine e di verdure), di avermi messo a parte, in così poco tempo, di tutta la sua vita.

E’ quasi buio. L’aria si rinfresca. La zia di Rocco mi mostra, prima di partire, la foto del marito morto – faceva il collocatore privato, dava i nullaosta ai colobraresi che partivano per la Germania, la Francia, la Svizzera. Rocco vorrebbe tenermi lì ancora a lungo, ma è tardi. Il paese mi sembra fraterno, di una fraternità assoluta. “Qui non c’è mai stato un solo omicidio” fa in tempo a dirmi Rocco Mango, maestro di scuola elementare, fiero cittadino di Colobraro, “e quando morirò, sulla mia lapide scriveteci questo: ‘Amò profondamente il suo paese’. Non scriveteci altro”.

No, non ci sono fattucchiere e “masciare”, a Colobraro. Ci sono solo uomini che hanno voglia di raccontarti i loro pensieri, indicando l’orizzonte di una dolcissima Lucania. E a Colobraro bisogna venirci perché è bellissima, e perché il paese più offeso e arrabbiato della Lucania attende da decenni un gesto riparatore dall’Italia dei superstiziosi e degli imbecilli. Ma sono sicuro che Rocco non morirà prima di questo gesto riparatore, ché lui farà in tempo a vedere il suo piccolo paese affollato di turisti, di colobraresi offesi che ritornano, di politici che finalmente si decideranno a dare il secondo medico, visto che in paese ce n’è solo uno e deve farsi carico di troppe persone. Sono sicuro che Rocco Mango farà in tempo a vedere la grande festa di Colobraro, il paese che, nel 2007, assurdamente, ancora non si può dire.

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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lunedì, 29 gennaio 2007

ROMA AMARA E DOLCE (di Ercole Patti)

Ho sempre considerato Ercole Patti (1903 – 1976), autore catanese – dunque mio conterraneo – come uno degli scrittori più interessanti del Novecento letterario italiano. Ho letto i suoi romanzi, mi sono immerso nelle sue storie, ho amato i suoi personaggi. Chi non ha letto opere – ne cito solo alcune – come Giovannino (1954), Un bellissimo novembre (1967) Graziella (1970), non sa cosa si è perso.

Pochi mesi fa la Bompiani ha riproposto Roma amara e dolce, viaggio nella memoria tradottosi in una raccolta di scritti apparsa per la prima volta nel 1972.

Ringrazio Sarah Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania e incaricata di Letteratura Teatrale Italiana e di Storia e Critica del Cinema, nonché curatrice di molte opere di Ercole Patti, per aver messo a disposizione la sua nota introduttiva a Roma amara e dolce che propongo qui di seguito quasi integralmente.

(Massimo Maugeri)

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« (…) In Roma amara e dolce, silloge di sedici racconti apparsa nel 1972, quattro anni prima della scomparsa dello scrittore, sono confluite gran parte delle Cronache romane del 1962. Emblematico il titolo del racconto di apertura, Il sapore della libertà. Come molti rampolli della borghesia e della nobiltà catanesi, Patti trascorre la prima fanciullezza al Collegio Pennisi di Acireale, "triste luogo", "una prigione" da cui è obbligo evadere. Nel rammemorare quei giorni "di grande sconforto", lo scrittore adulto passando "per la tortuosa stradetta" del Pennisi prova "la gioia" di non dovervi più rientrare. È l’archetipo del paradiso perduto, della cacciata dall’Eden, al quale Patti ritorna con toni di malinconica nostalgia. Interazione fra passato e presente, secondo Roy Pascal tra i più intricati casi di fenomenologia della "elusività del vero" o, freudianamente, "rielaborazione del lutto" attraverso la recita del dolore. Per lo stesso terapeutico motivo sono in doglianza Giovannino Calì del romanzo Giovannino e Giuseppe Laganà del romanzo Graziella. Patti che scrive, però, non è lo stesso Patti che ha vissuto e rivive quell’esperienza.

I motivi della fuga, del νóστος, della sensualità debordante, propri dell’universo pattiano, sono costruzioni mitiche, scelte tra molteplici frammenti di vissuto. Non esistono al di fuori della scrittura. Se è il giovane Patti a scoprirli e formalizzarli in coincidenza con l’apprendistato letterario nell’ambìto approdo romano ("la mia più grande aspirazione era quella di andare a vivere a Roma, ma urtavo contro lo scoglio insormontabile di mio padre"), sarà il Patti maturo della proustiana rimembranza, della narrazione retrodatata, del diaristico resoconto di sé, ormai "scrittore laureato", a darne una visione epica, certamente differente da quella iniziale, guardando al passato dall’alto della conquistata notorietà. Il cumulo dei ricordi dipanando per redigere, talora con qualche moto di legittimo compiacimento, il cursus di una vocazione convinta e coerente. Per lo scrittore girovago ulteriore tentativo di sviare "gli occhio calmi della morte". Ma senza illusioni o cedimenti.

Scrive Michail Bachtin: "La memoria nelle memorie e nelle autobiografie ha un particolare carattere; è memoria della propria età contemporanea e di se stesso. È una memoria non eroicizzante; in essa c’è un momento di meccanicità e registrazione (non monumentale). È una memoria personale senza continuità, limitata dai confini della vita personale. Non ci sono né padri né generazioni". Tale la condizione in Roma amara e dolce. Gli avvenimenti narrati scorrono celermente, senza pausa, né retorica. Con amletica leggerezza come si addice all’arte che se troppo palese diviene artificio. Rapide le notizie sulla famiglia, sull’infanzia, sulla giovinezza, sugli studi intrapresi. Fitte invece le informazioni circa il precoce esordio con la vigile guida dello zio, lo scrittore Giuseppe Villaroel ("fu nel vecchio e luminoso suo appartamento di via del Teatro Massimo a Catania che io conobbi i primi libri, ebbi cognizione dell’esistenza di una società letteraria e dei rapporti che corrono con gli scrittori, vidi le prime bozze di stampa della mia vita, i primi autografi di scrittori celebri"), dettagliato il ragguaglio delle giovanili letture (Manzoni, Flaubert, Verga), delle acerbe pubblicazioni. Mentre cresce l’ansia di evasione. Per accedere però alla terra promessa, alla società delle lettere, bisogna che Patti si sottometta a una prova. Il padre gli concederà di vivere sei mesi all’anno a Roma purché sostenga regolarmente gli esami alla Facoltà di Giurisprudenza di Catania: "Andavo vagando per le strade giornate intere, non mi stancavo di respirare l’aria di Roma a tutte le ore. I sedili del Pincio erano le mie soste preferite nella tarda mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Con un giornale in mano mi sedevo accanto a qualche busto di marmo e il mio cervello partiva in quarta sognando libri da scrivere, novelle da pubblicare sui giornali romani dove non conoscevo nessuno. Risento gli odori di Roma nel 1921; rappresentavano la libertà".

Roma è la città di "vecchie camere ammobiliate e trattoriole a prezzo fisso", di osterie povere, di feconde giornate di scrittura ai caffè Esperia, Aragno, Greco, dell’accendersi dei sensi ("il desiderio che ci spingeva l’uno contro l’altro era spontaneo e travolgente, le nostre mani premevano contro la parete nella voglia struggente di unirsi"). È sede delle testate giornalistiche che contano ("Il Messaggero", "Il Tempo", "La Tribuna", L’Idea Nazionale", "Il Tevere", "Il Popolo di Roma", "Il Giornale di Roma", "Il Giornale d’Italia"), "con le firme degli scrittori famosi". È centro culturale di prestigio. Nella terza saletta del celebre caffè Aragno si ritrovano de Chirico, Bartoli, Spadini, Cardarelli, Broglio, Barilli, Soffici, Baldini, d’Amico, personaggi politici di rilievo, alcuni dei quali fuggevolmente intravisti ("Facta presidente del consiglio prendeva in un angolo due uova al burro prima di rientrare a Montecitorio"). Roma vanta il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, "il più famoso e discusso teatro sperimentale d’Italia", nella cui "aura" si muovevano Bontempelli, Cecchi, Vergani: "Fu lì che vidi per la prima volta Luigi Pirandello col suo pizzetto bianco e quelle sue speciali camicie che all’altezza della cintura invece di entrare nei pantaloni si trasformavano in panciotto". Il drammaturgo fulmineamente traeva l’atto unico L’uomo dal fiore in bocca dalla novella Caffè notturno, segnando "con una matita rossa negli stretti margini delle pagine stampate qualche brevissima didascalia e una o due mezze battute". Il 21 febbraio 1923 la messa in scena. Poco tempo dopo, il 9 aprile, sarà la volta di Il carosello di Patti, atto unico ricavato dalla novella La giostra su sollecitazione di Ardengo Soffici, lodato da Alberto Savinio sul "Nuovo Paese".

Ma non basta a placare il disappunto del padre. Per dimostrargli la serietà delle sue intenzioni e della carriera che voleva intraprendere occorreva dimostrargli che era in grado di vivere con il suo lavoro anche facendo il giornalista. Quell’attività giornalistica che, iniziata nei verdi anni catanesi, sparsamente condotta su molteplici testate, registra una svolta decisiva allorché viene inviato da "Il Tevere" in India: "I resoconti del mio servizio vennero presi anche dal ‘Resto del Carlino’ di Missiroli e dalla ‘Gazzetta del Popolo’ di Amicucci; gli articoli uscivano nello stesso giorno sui tre giornali. Ultimato il servizio passai alla ‘Gazzetta del Popolo’ che mi inviò in Giappone". In dieci anni di vagabondaggio visita "la Russia, la Turchia, la Polonia, la Cina, l’Egitto e tutti i paesi europei". Da tali esperienze scaturirà nel 1934 Ragazze di Tokio (Viaggio da Tokio a Bombay), dedicato ad Ermanno Amicucci (poi riedito nel 1975 col titolo Un lungo viaggio lontano). Altro archetipo, il viaggio, metafora della ricerca di sé, della peregrinazione come affrancamento dal mondo e dalla storia, insidiosi e incontrollabili. Non risolvibile schillerianamente nell’immediatezza della fruizione istintiva e panica della natura in virtù della più matura e rinnovata disponibilità dello scrittore ad ascoltarne le voci, dalle fioche alle assordanti, a percepirne i profumi, dai delicati agli intensi, a rubarne la luce e tradurla in incanto. Spontanea corrispondenza che s’inscrive in un appagante bisogno di totalità, distante ormai dal sentimentalismo romantico del drammaturgo tedesco cui Patti aveva intonato pagine di vibrante elegia: "Presso di noi la natura è sparita, non la troviamo, non la incontriamo se non al di fuori dell’umanità. E perciò il sentimento con cui aderiamo alla natura è strettamente legato al sentimento col quale lamentiamo la fuggita età della fanciullezza e della fanciullesca innocenza". Una sorta d’intimo idillio. Così Patti ricordando Gibuti: "L’oceano indiano veniva piano a morire sulla sponda deserta ingombra di erbe marine secche tra granchiolini rossi che correvano veloci per traverso solitari davanti all’oceano tra frammenti di scheletri di cammelli biancheggianti nella sabbia tra le gambe candide delle mogli dei funzionari francesi che facevano il bagno al calar del sole in un’acqua piena di molluschi torbida e tiepida che sapeva di pescecane". Malinconica testimonianza d’irredimibile caducità. Si è conclusa la guerra di Abissinia, Mussolini proclama l’Impero. Il Negus Hailè Sellasiè fugge dal suo paese "cacciato da un esercito molto più potente del suo, che senza ragione valendosi soltanto del diritto del più forte gli aveva invaso il paese". In tanta levità di stile il viaggio si configura come incisivo segno di aristocratica riservatezza ed estraneità alla dittatura: "L’imbecillità ci prendeva tutti alla gola in quella Roma calma nella quale l’unica cosa da fare per un giovane era di andare in giro con le ragazze e portarsele a casa. A meno di non voler riparare all’estero come fuorusciti. Ma non tutti avevano la possibilità il temperamento e lo spirito di sacrificio per far questo". E ancora nella prefazione a Cronache romane: "La mia insofferenza e la mia lunga avversione per il fascismo non hanno mai avuto un momento di sosta. Si trattava di un sentimento profondo, costituzionale come se si trattasse di una questione di razza".

"L’uggiosa e avvilente Roma del fascismo", "dei labari", "dei luttuosi fez frangiati", delle adunate, delle veline, del Minculpop, è antro nero dove covano e si moltiplicano le "inique sanzioni" perpetuate, queste sì, dal regime. Il delitto Matteotti, le leggi antirazziali, la guerra, l’occupazione tedesca che "stringeva la città in un cerchio muto e insidioso", l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Sebbene abbia celato il suo dissenso dietro un sorriso disincantato, un apparente disimpegno, meglio, con François Paul Billetdoux, una "passione fredda", Patti, che nell’articolo dedicato a Trilussa apparso su "Il Popolo di Roma" del 5 settembre 1943 aveva definito la dittatura una "ventennale carnevalata", subisce la detenzione a Regina Coeli dove conoscerà i membri del Gran Consiglio poi fucilati a Verona e Giuseppe Saragat: "Non potevo immaginare che venti anni dopo mi sarei ritrovato con lui Presidente della Repubblica italiana a caccia al cinghiale nelle tenute di Castelporziano e di San Rossone". Dura prova da superare insieme a quella, dolorosamente irrisarcibile, della morte del padre avvenuta nel ’42: "Sotto una grande croce nera l’annunzio della morte di mio padre, del quale assieme agli altri congiunti io stesso ‘il figlio Ercole’ comunicavo la morte. Il viaggio verso Catania nello scompartimento pieno di sconosciuti con quel giornale che di tanto in tanto non potevo fare a meno di guardare e di rileggere e tanti pensieri e ricordi di mio padre alla cui morte non ero preparato neanche lontanamente mi sembrò lunghissimo". Ma, ricorda Martin Heidegger, "l’angoscia è premessa indispensabile alla conquista dell’autenticità".

Roma amara e dolce, journal intime impaginato dalla memoria, regesto e archivio degli anni più tormentati del Novecento, dalla grande guerra al nazifascismo, dalla fine del secondo conflitto mondiale alla ricostruzione, si chiude con L’avvenire appariva pieno di speranza: "Ripresero a lavorare gli scrittori italiani che la guerra e le persecuzioni fasciste avevano disperso o messo a tacere", "ancora nelle trattorie c’era qualche suonatore ambulante che cantava Lilì Marlene", "Rossellini girava Roma città aperta". A Roma, fecondo laboratorio, la vita s’affatica ancora una volta per lenire e trasformare. E ci sovvengono le parole di Philippe Lejeune: "Ciascuno di noi porta entro di sé una sorta di ‘scartafaccio’ rimaneggiato senza posa del racconto della propria vita. Taluni, più numerosi di quanto si creda, mettono ordine in tale scartafaccio e scrivono". Una profilassi di fronte alle tentazioni del delirio e del caos?

In Diario siciliano. Alla ricerca della felicità del 1971, "una specie di viaggio autunnale compiuto a ritroso" dal 1970 al 1931, Patti raccoglie scritti di varie epoche e provenienza, che investono l’altra sua fondamentale fonte d’ispirazione, quella dei luoghi natii. Altro archetipo, il ritorno alla terra madre, grembo vagheggiato ancor più quando, con Jean-Paul Sartre, "il desiderio di gloria esprime la vertigine della morte".

Povera di memorie, autobiografie, diari, appare a Leonardo Sciascia la letteratura italiana, una carenza "spia di tante altre carenze della società civile, della vita associata". Un mutamento di rotta positivo individua pertanto – a proposito di Diario romano di Vitaliano Brancati – nei diari di scrittori che hanno visto la luce a partire dalla seconda guerra mondiale, quasi un ripensamento, un travaglio delle coscienze sul fascismo e sulla sua fine. E cita quelli di Alvaro, Cajumi, Longanesi, Pavese, Delfini, Flaiano, Montale, de Chirico, Fausto Pirandello. Non cita Patti. Eppure avrebbe dovuto, per la vicinanza geografica, amicale, culturale con Brancati, la dicotomia Catania-Roma, l’itinerario esistenziale per tanti aspetti simile, con le medesime frequentazioni di salotti e caffè letterari, redazioni di giornali, ambienti cinematografici. Per la complicità negli scherzi canzonatori e maligni, nella creazione di curiosi e crudeli soprannomi. Il diario romano di Patti si snoda dal ’14 al ’45. Quello di Brancati, dai toni ben più risentiti e severi, dal ’47 al ’54.

Scrittore diarista, Ercole Patti, sul filo dell’immaginazione, del disincantato umorismo, della dissipazione erotica. "Scrittore di cose", come attesta il rigore cronachistico e l’aderenza alla realtà del vissuto. E tuttavia scrittore mendace, giacché qualsiasi scrittura, seppur fedelissima, non è riducibile alla reale identità dell’io. "Solo la finzione non mente, essa schiude nella vita di un uomo una porta segreta, attraverso cui scivola fuori da ogni controllo la sua anima sconosciuta" (François Mauriac). Se quindi la verità si produce in una struttura di finzione, confessione e bugia sono la stessa cosa. "Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, cioè la menzogna" (Franz Kafka). Non mai esaurendosi però il desiderio di catturare schegge vaganti di felicità. »

Dalla nota introduttiva a Roma amara e dolce di Sarah Zappulla Muscarà

Roma amara e dolce

di Ercole Patti

a cura di Sarah Zappulla Muscarà

Bompiani, 2006

pagg. 188, euro 7,80

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