Ho sempre considerato Ercole Patti (1903 – 1976), autore catanese – dunque mio conterraneo – come uno degli scrittori più interessanti del Novecento letterario italiano. Ho letto i suoi romanzi, mi sono immerso nelle sue storie, ho amato i suoi personaggi. Chi non ha letto opere – ne cito solo alcune – come Giovannino (1954), Un bellissimo novembre (1967) Graziella (1970), non sa cosa si è perso.
Pochi mesi fa la Bompiani ha riproposto Roma amara e dolce, viaggio nella memoria tradottosi in una raccolta di scritti apparsa per la prima volta nel 1972.
Ringrazio Sarah Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania e incaricata di Letteratura Teatrale Italiana e di Storia e Critica del Cinema, nonché curatrice di molte opere di Ercole Patti, per aver messo a disposizione la sua nota introduttiva a Roma amara e dolce che propongo qui di seguito quasi integralmente.
(Massimo Maugeri)
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« (…) In Roma amara e dolce, silloge di sedici racconti apparsa nel 1972, quattro anni prima della scomparsa dello scrittore, sono confluite gran parte delle Cronache romane del 1962. Emblematico il titolo del racconto di apertura, Il sapore della libertà. Come molti rampolli della borghesia e della nobiltà catanesi, Patti trascorre la prima fanciullezza al Collegio Pennisi di Acireale, "triste luogo", "una prigione" da cui è obbligo evadere. Nel rammemorare quei giorni "di grande sconforto", lo scrittore adulto passando "per la tortuosa stradetta" del Pennisi prova "la gioia" di non dovervi più rientrare. È l’archetipo del paradiso perduto, della cacciata dall’Eden, al quale Patti ritorna con toni di malinconica nostalgia. Interazione fra passato e presente, secondo Roy Pascal tra i più intricati casi di fenomenologia della "elusività del vero" o, freudianamente, "rielaborazione del lutto" attraverso la recita del dolore. Per lo stesso terapeutico motivo sono in doglianza Giovannino Calì del romanzo Giovannino e Giuseppe Laganà del romanzo Graziella. Patti che scrive, però, non è lo stesso Patti che ha vissuto e rivive quell’esperienza.
I motivi della fuga, del νóστος, della sensualità debordante, propri dell’universo pattiano, sono costruzioni mitiche, scelte tra molteplici frammenti di vissuto. Non esistono al di fuori della scrittura. Se è il giovane Patti a scoprirli e formalizzarli in coincidenza con l’apprendistato letterario nell’ambìto approdo romano ("la mia più grande aspirazione era quella di andare a vivere a Roma, ma urtavo contro lo scoglio insormontabile di mio padre"), sarà il Patti maturo della proustiana rimembranza, della narrazione retrodatata, del diaristico resoconto di sé, ormai "scrittore laureato", a darne una visione epica, certamente differente da quella iniziale, guardando al passato dall’alto della conquistata notorietà. Il cumulo dei ricordi dipanando per redigere, talora con qualche moto di legittimo compiacimento, il cursus di una vocazione convinta e coerente. Per lo scrittore girovago ulteriore tentativo di sviare "gli occhio calmi della morte". Ma senza illusioni o cedimenti.
Scrive Michail Bachtin: "La memoria nelle memorie e nelle autobiografie ha un particolare carattere; è memoria della propria età contemporanea e di se stesso. È una memoria non eroicizzante; in essa c’è un momento di meccanicità e registrazione (non monumentale). È una memoria personale senza continuità, limitata dai confini della vita personale. Non ci sono né padri né generazioni". Tale la condizione in Roma amara e dolce. Gli avvenimenti narrati scorrono celermente, senza pausa, né retorica. Con amletica leggerezza come si addice all’arte che se troppo palese diviene artificio. Rapide le notizie sulla famiglia, sull’infanzia, sulla giovinezza, sugli studi intrapresi. Fitte invece le informazioni circa il precoce esordio con la vigile guida dello zio, lo scrittore Giuseppe Villaroel ("fu nel vecchio e luminoso suo appartamento di via del Teatro Massimo a Catania che io conobbi i primi libri, ebbi cognizione dell’esistenza di una società letteraria e dei rapporti che corrono con gli scrittori, vidi le prime bozze di stampa della mia vita, i primi autografi di scrittori celebri"), dettagliato il ragguaglio delle giovanili letture (Manzoni, Flaubert, Verga), delle acerbe pubblicazioni. Mentre cresce l’ansia di evasione. Per accedere però alla terra promessa, alla società delle lettere, bisogna che Patti si sottometta a una prova. Il padre gli concederà di vivere sei mesi all’anno a Roma purché sostenga regolarmente gli esami alla Facoltà di Giurisprudenza di Catania: "Andavo vagando per le strade giornate intere, non mi stancavo di respirare l’aria di Roma a tutte le ore. I sedili del Pincio erano le mie soste preferite nella tarda mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Con un giornale in mano mi sedevo accanto a qualche busto di marmo e il mio cervello partiva in quarta sognando libri da scrivere, novelle da pubblicare sui giornali romani dove non conoscevo nessuno. Risento gli odori di Roma nel 1921; rappresentavano la libertà".
Roma è la città di "vecchie camere ammobiliate e trattoriole a prezzo fisso", di osterie povere, di feconde giornate di scrittura ai caffè Esperia, Aragno, Greco, dell’accendersi dei sensi ("il desiderio che ci spingeva l’uno contro l’altro era spontaneo e travolgente, le nostre mani premevano contro la parete nella voglia struggente di unirsi"). È sede delle testate giornalistiche che contano ("Il Messaggero", "Il Tempo", "La Tribuna", L’Idea Nazionale", "Il Tevere", "Il Popolo di Roma", "Il Giornale di Roma", "Il Giornale d’Italia"), "con le firme degli scrittori famosi". È centro culturale di prestigio. Nella terza saletta del celebre caffè Aragno si ritrovano de Chirico, Bartoli, Spadini, Cardarelli, Broglio, Barilli, Soffici, Baldini, d’Amico, personaggi politici di rilievo, alcuni dei quali fuggevolmente intravisti ("Facta presidente del consiglio prendeva in un angolo due uova al burro prima di rientrare a Montecitorio"). Roma vanta il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, "il più famoso e discusso teatro sperimentale d’Italia", nella cui "aura" si muovevano Bontempelli, Cecchi, Vergani: "Fu lì che vidi per la prima volta Luigi Pirandello col suo pizzetto bianco e quelle sue speciali camicie che all’altezza della cintura invece di entrare nei pantaloni si trasformavano in panciotto". Il drammaturgo fulmineamente traeva l’atto unico L’uomo dal fiore in bocca dalla novella Caffè notturno, segnando "con una matita rossa negli stretti margini delle pagine stampate qualche brevissima didascalia e una o due mezze battute". Il 21 febbraio 1923 la messa in scena. Poco tempo dopo, il 9 aprile, sarà la volta di Il carosello di Patti, atto unico ricavato dalla novella La giostra su sollecitazione di Ardengo Soffici, lodato da Alberto Savinio sul "Nuovo Paese".
Ma non basta a placare il disappunto del padre. Per dimostrargli la serietà delle sue intenzioni e della carriera che voleva intraprendere occorreva dimostrargli che era in grado di vivere con il suo lavoro anche facendo il giornalista. Quell’attività giornalistica che, iniziata nei verdi anni catanesi, sparsamente condotta su molteplici testate, registra una svolta decisiva allorché viene inviato da "Il Tevere" in India: "I resoconti del mio servizio vennero presi anche dal ‘Resto del Carlino’ di Missiroli e dalla ‘Gazzetta del Popolo’ di Amicucci; gli articoli uscivano nello stesso giorno sui tre giornali. Ultimato il servizio passai alla ‘Gazzetta del Popolo’ che mi inviò in Giappone". In dieci anni di vagabondaggio visita "la Russia, la Turchia, la Polonia, la Cina, l’Egitto e tutti i paesi europei". Da tali esperienze scaturirà nel 1934 Ragazze di Tokio (Viaggio da Tokio a Bombay), dedicato ad Ermanno Amicucci (poi riedito nel 1975 col titolo Un lungo viaggio lontano). Altro archetipo, il viaggio, metafora della ricerca di sé, della peregrinazione come affrancamento dal mondo e dalla storia, insidiosi e incontrollabili. Non risolvibile schillerianamente nell’immediatezza della fruizione istintiva e panica della natura in virtù della più matura e rinnovata disponibilità dello scrittore ad ascoltarne le voci, dalle fioche alle assordanti, a percepirne i profumi, dai delicati agli intensi, a rubarne la luce e tradurla in incanto. Spontanea corrispondenza che s’inscrive in un appagante bisogno di totalità, distante ormai dal sentimentalismo romantico del drammaturgo tedesco cui Patti aveva intonato pagine di vibrante elegia: "Presso di noi la natura è sparita, non la troviamo, non la incontriamo se non al di fuori dell’umanità. E perciò il sentimento con cui aderiamo alla natura è strettamente legato al sentimento col quale lamentiamo la fuggita età della fanciullezza e della fanciullesca innocenza". Una sorta d’intimo idillio. Così Patti ricordando Gibuti: "L’oceano indiano veniva piano a morire sulla sponda deserta ingombra di erbe marine secche tra granchiolini rossi che correvano veloci per traverso solitari davanti all’oceano tra frammenti di scheletri di cammelli biancheggianti nella sabbia tra le gambe candide delle mogli dei funzionari francesi che facevano il bagno al calar del sole in un’acqua piena di molluschi torbida e tiepida che sapeva di pescecane". Malinconica testimonianza d’irredimibile caducità. Si è conclusa la guerra di Abissinia, Mussolini proclama l’Impero. Il Negus Hailè Sellasiè fugge dal suo paese "cacciato da un esercito molto più potente del suo, che senza ragione valendosi soltanto del diritto del più forte gli aveva invaso il paese". In tanta levità di stile il viaggio si configura come incisivo segno di aristocratica riservatezza ed estraneità alla dittatura: "L’imbecillità ci prendeva tutti alla gola in quella Roma calma nella quale l’unica cosa da fare per un giovane era di andare in giro con le ragazze e portarsele a casa. A meno di non voler riparare all’estero come fuorusciti. Ma non tutti avevano la possibilità il temperamento e lo spirito di sacrificio per far questo". E ancora nella prefazione a Cronache romane: "La mia insofferenza e la mia lunga avversione per il fascismo non hanno mai avuto un momento di sosta. Si trattava di un sentimento profondo, costituzionale come se si trattasse di una questione di razza".
"L’uggiosa e avvilente Roma del fascismo", "dei labari", "dei luttuosi fez frangiati", delle adunate, delle veline, del Minculpop, è antro nero dove covano e si moltiplicano le "inique sanzioni" perpetuate, queste sì, dal regime. Il delitto Matteotti, le leggi antirazziali, la guerra, l’occupazione tedesca che "stringeva la città in un cerchio muto e insidioso", l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Sebbene abbia celato il suo dissenso dietro un sorriso disincantato, un apparente disimpegno, meglio, con François Paul Billetdoux, una "passione fredda", Patti, che nell’articolo dedicato a Trilussa apparso su "Il Popolo di Roma" del 5 settembre 1943 aveva definito la dittatura una "ventennale carnevalata", subisce la detenzione a Regina Coeli dove conoscerà i membri del Gran Consiglio poi fucilati a Verona e Giuseppe Saragat: "Non potevo immaginare che venti anni dopo mi sarei ritrovato con lui Presidente della Repubblica italiana a caccia al cinghiale nelle tenute di Castelporziano e di San Rossone". Dura prova da superare insieme a quella, dolorosamente irrisarcibile, della morte del padre avvenuta nel ’42: "Sotto una grande croce nera l’annunzio della morte di mio padre, del quale assieme agli altri congiunti io stesso ‘il figlio Ercole’ comunicavo la morte. Il viaggio verso Catania nello scompartimento pieno di sconosciuti con quel giornale che di tanto in tanto non potevo fare a meno di guardare e di rileggere e tanti pensieri e ricordi di mio padre alla cui morte non ero preparato neanche lontanamente mi sembrò lunghissimo". Ma, ricorda Martin Heidegger, "l’angoscia è premessa indispensabile alla conquista dell’autenticità".
Roma amara e dolce, journal intime impaginato dalla memoria, regesto e archivio degli anni più tormentati del Novecento, dalla grande guerra al nazifascismo, dalla fine del secondo conflitto mondiale alla ricostruzione, si chiude con L’avvenire appariva pieno di speranza: "Ripresero a lavorare gli scrittori italiani che la guerra e le persecuzioni fasciste avevano disperso o messo a tacere", "ancora nelle trattorie c’era qualche suonatore ambulante che cantava Lilì Marlene", "Rossellini girava Roma città aperta". A Roma, fecondo laboratorio, la vita s’affatica ancora una volta per lenire e trasformare. E ci sovvengono le parole di Philippe Lejeune: "Ciascuno di noi porta entro di sé una sorta di ‘scartafaccio’ rimaneggiato senza posa del racconto della propria vita. Taluni, più numerosi di quanto si creda, mettono ordine in tale scartafaccio e scrivono". Una profilassi di fronte alle tentazioni del delirio e del caos?
In Diario siciliano. Alla ricerca della felicità del 1971, "una specie di viaggio autunnale compiuto a ritroso" dal 1970 al 1931, Patti raccoglie scritti di varie epoche e provenienza, che investono l’altra sua fondamentale fonte d’ispirazione, quella dei luoghi natii. Altro archetipo, il ritorno alla terra madre, grembo vagheggiato ancor più quando, con Jean-Paul Sartre, "il desiderio di gloria esprime la vertigine della morte".
Povera di memorie, autobiografie, diari, appare a Leonardo Sciascia la letteratura italiana, una carenza "spia di tante altre carenze della società civile, della vita associata". Un mutamento di rotta positivo individua pertanto – a proposito di Diario romano di Vitaliano Brancati – nei diari di scrittori che hanno visto la luce a partire dalla seconda guerra mondiale, quasi un ripensamento, un travaglio delle coscienze sul fascismo e sulla sua fine. E cita quelli di Alvaro, Cajumi, Longanesi, Pavese, Delfini, Flaiano, Montale, de Chirico, Fausto Pirandello. Non cita Patti. Eppure avrebbe dovuto, per la vicinanza geografica, amicale, culturale con Brancati, la dicotomia Catania-Roma, l’itinerario esistenziale per tanti aspetti simile, con le medesime frequentazioni di salotti e caffè letterari, redazioni di giornali, ambienti cinematografici. Per la complicità negli scherzi canzonatori e maligni, nella creazione di curiosi e crudeli soprannomi. Il diario romano di Patti si snoda dal ’14 al ’45. Quello di Brancati, dai toni ben più risentiti e severi, dal ’47 al ’54.
Scrittore diarista, Ercole Patti, sul filo dell’immaginazione, del disincantato umorismo, della dissipazione erotica. "Scrittore di cose", come attesta il rigore cronachistico e l’aderenza alla realtà del vissuto. E tuttavia scrittore mendace, giacché qualsiasi scrittura, seppur fedelissima, non è riducibile alla reale identità dell’io. "Solo la finzione non mente, essa schiude nella vita di un uomo una porta segreta, attraverso cui scivola fuori da ogni controllo la sua anima sconosciuta" (François Mauriac). Se quindi la verità si produce in una struttura di finzione, confessione e bugia sono la stessa cosa. "Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, cioè la menzogna" (Franz Kafka). Non mai esaurendosi però il desiderio di catturare schegge vaganti di felicità. »
Dalla nota introduttiva a Roma amara e dolce di Sarah Zappulla Muscarà
Roma amara e dolce
di Ercole Patti
a cura di Sarah Zappulla Muscarà
Bompiani, 2006
pagg. 188, euro 7,80
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