mercoledì, 30 aprile 2008
GIOVANNINO GUARESCHI E IL GIORNALISMO UMORISTICO
È con molto piacere che ospito un intervento di Daniela Marcheschi sul “giornalismo umoristico” e sulla figura di Giovannino Guareschi (padre letterario di Don Camillo).
Si tratta del pezzo introduttivo al Catalogo della mostra Giovannino Guareschi: nascita di un umorista. “Bazar” e la satira a Parma dal 1908 al 1937, a cura di Giorgio Casamatti e Guido Conti, Parma, MUP, 2008, pp.16-23. La mostra, curata da Casamatti e Conti, è a Parma dal 19 aprile al 1 giugno 2008 (assolutamente da vedere, perché molto bella).
Ne approfitto per ringraziare la professoressa Marcheschi e la MUP per la gentile concessione del testo.
Vi invito a leggerlo con attenzione e a dire la vostra.
Inoltre ricordo che proprio il 1° maggio decorre il centenario della nascita di Guareschi (venuto alla luce, appunto, a Roccabianca il 1° maggio del 1908).
Vi consiglio di collegarvi al sito del Comitato Nazionale per le celebrazioni della nascita di Giovannino Guareschi: www.guareschi2008.com
Seguono alcune domande che mi pongo (e vi pongo), come al solito, per favorire il dibattito.
Il giornalismo umoristico, oggi, può avere una funzione? E fino a che punto?
Il giornalismo umoristico può essere considerato letteratura dell’umorismo?
Quello di Beppe Grillo, anche con il suo blog, può essere considerato giornalismo umoristico?
Parliamone (se vi va).
Buon 1° maggio a tutti.
Massimo Maugeri
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Daniela Marcheschi, nota italianista e critica letteraria, è autrice di saggi tradotti in varie lingue, curatrice dei Meridiani Mondadori delle opere di Carlo Collodi e Giuseppe Pontiggia, vincitrice, per il suo lavoro di traduzione e critica in campo scandinavistico, del Tolkningspris dell’Accademia di Svezia
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Tradizione e innovazione del «giornalismo umoristico»: Giovanni Guareschi
di Daniela Marcheschi
Giornalista e scrittore, vignettista e autore di testi satirici, Giovanni Guareschi è uno degli umoristi più completi del nostro Novecento, capace di ridare vita e forma nuova alla tradizione comico-umoristica, così come essa si era codificata in Europa, prima, e in Italia, poi, nell’esaltazione delle passioni risorgimentali.
Guareschi, che era nato nel 1908, aveva avuto modo di conoscere la comicità sia di Sergio Tofano o STO, che si esplicò in svagati toni palazzeschiani ed anche in un segno dai tratti sinuosi e morbidi, sia di Ettore Petrolini, le cui celebri canzonette erano costruite sui non-sense, le cui farse e macchiette giocavano di continuo su esilaranti situazioni surreali. Leggerezza e cinismo, humour e paradosso, satira e ironia si incontrano così da subito nella produzione umoristica di Guareschi, che di scritti e vignette, a partire dal 1929, inondò giornali e numeri unici di Parma: «La Voce di Parma», «La Fiamma. Corriere del Lunedì» ecc.. Nello sfogliare le pagine di simili giornali e periodici – così come quelle del più tardo «Bertoldo» (fondato nel 1936) o del suo celebre almanacco a cui Guareschi collaborò – possiamo scoprire e constatare la capacità di azione nel tempo di modelli umoristici o satirici che vantavano almeno ottanta anni circa di storia: quelli del «giornalismo umoristico» ottocentesco, che il nostro Carlo Lorenzini (1826-1890), alias Collodi – ma già alias L., alias Lampione, alias Scaramuccia, alias ZZTZZ, alias Diavoletto, solo per citare alcuni dei suoi più celebri pseudonimi – aveva contribuito ad inventare e re-inventare gomito a gomito con i caricaturisti Cabrion (Niccola Senesi), Angiolo Tricca o Mata (Adolfo Matarelli) e in una sorta di dialogo a distanza con Honoré de Balzac, la cui opera gli era arcinota.
Intorno al 1830 e nei decenni successivi in Francia erano fioriti periodici che, facendo perno su una scrittura briosa ed ironica, sulle vignette e caricature di Daumier, Grandville, Gavarni ecc., offrivano notizie dei teatri e degli spettacoli, articoli vari, racconti e romanzi spesso a puntate. Da «La Caricature» a «Le Charivari», da «La Mode» a «La Silhouette», a «Le Corsaire Satan» e via discorrendo, una generazione intera di autori, come Balzac, Nodier o la Sand, aveva dato vita a una letteratura pronta ad assumere forti connotazioni critiche, specialmente grazie a Balzac, nei confronti della cultura romantica e della Modernità in genere. Lo stesso Giacomo Leopardi – con un senso vivo della complessità delle tradizioni presenti e passate – nel maggio del 1832 avrebbe voluto pubblicare a Firenze un «Giornale di ogni settimana» con il titolo «Lo Spettatore Fiorentino»: una sede «per ispeculare», con il proponimento di «ridere molto», e per contenere «pareri intorno a libri nuovi», ma anche notizie «di teatri e spettacoli», «traduzioni di cose recenti e poco note da diverse lingue», nonché «articoli nuovi da valenti ingegni italiani o stranieri». Leopardi si proponeva di creare un “anti-giornale” a cui demandare un’esigenza di letteratura e critica militante, e attraverso cui continuare, alla luce del suo totale disincanto, la battaglia contro le verità scoperte dal suo secolo e per una filosofia materialistica contro certo sentimentalismo o mondo ideale romantico, che falsificava il senso stesso del destino dell’essere umano1. Non per nulla, nel preciso intento di fare una satira senza sconti della realtà politica e culturale del proprio tempo, Collodi – dalla «Nazione» al «Fanfulla» – non farà che ironizzare sul cattivo gusto di una borghesia che continua a preferire la poesia di Metastasio a quella di Leopardi2; e nel Novecento, Marcello Marchesi e Alberto Savinio si divertiranno a raccontare la biografia di Leopardi in modo dissacrante e paradossale, mentre Giovanni Guareschi, ispirato dal carattere dello Zibaldone, eterogeneo ed originale, nel 1948 pubblicherà presso la casa editrice milanese Rizzoli lo Zibaldino. Storie assortite vecchie e nuove: un modello di libro aperto, né romanzo né raccolta, dove trovano posto racconti, pezzi stravaganti, riflessioni, pagine di diario all’insegna dell’eteroclito.
Nonostante divergenze politiche ed economiche, le élites più accorte dell’Italia ottocentesca guardavano con attenzione alla Francia, seguendone la letteratura e la stampa periodica. La comparsa in quel paese di una letteratura militante, in posizione “agonistica” verso la società industriale e (per usare un termine caro a Balzac) verso le sue «patologie» culturali, artistiche, letterarie, non poteva non interessare generazioni che avrebbero vissuto il Risorgimento con slancio generoso, nell’amore smisurato verso la nazione e nella volontà di darle una struttura unitaria in grado di rinnovarne profondamente e sistematicamente la società ed ogni aspetto della cultura. Così, quando a causa della crescente protesta popolare, negli anni 1847 e 1848, i diversi regnanti degli stati italiani – da Ferdinando II di Borbone a Carlo Alberto – furono uno dopo l’altro costretti a concedere una Costituzione, in genere ispirata a quella francese orleanista, anche in Italia poté esservi la libera espressione della stampa. Un po’ ovunque fiorirono numerosi giornali umoristici, d’ispirazione liberale e democratica (ma non solo) e di netta satira politica e sociale. Il più importante fu com’è noto «Il Lampione» (13 luglio 1848-11 aprile 1849), animato a Firenze da Carlo Lorenzini che, nel 1860, ne riprese la pubblicazione per sostenere la campagna di annessione al Piemonte. Per rimanere nell’ambito dei giornali liberali e democratici, si ricordino ad esempio, in una Toscana brulicante di tali imprese, periodici quali «Il Birichino», «La Lanterna Magica», «La Voce del Popolo», «Lo Charivari del Popolano», «Belfagor Arcidiavolo», «Calambrone» e «L’Inferno»; ma anche «L’Arlecchino» di Napoli, «Il Fischietto» di Torino, «Lo Spirito Folletto» di Milano. Qualche anno più tardi troviamo «L’Arte», «Lo Scaramuccia», ancora diretto e fondato da Collodi, «La Lente», «La Chiacchiera» ecc., a cui si uniscono ad esempio il napoletano «Verità e Bugie», il torinese «Pasquino», il milanese «Il Pungolo». Gli schemi editoriali imitavano i petits journaux francesi, il cui influsso è evidente nel titolo «Lo Charivari»: a fianco delle caricature, realizzate con la litografia (la cui tecnica non consentiva tirature elevate), i collaboratori facevano satira politica e, con una prosa brillante ed ironica, tratteggiavano «fisiologie» dei tipi sociali più reazionari, pubblicavano romanzi a puntate ecc. Negli anni seguenti la repressione, quando di politica sarà invece impossibile parlare, i collaboratori commenteranno con la solita prosa scherzosa eventi di attualità in campo teatrale, letterario, artistico, poetico, oppure pubblicheranno «divagazioni» e bizzarrie, testi umoristici vari, fra cui buffi aforismi, dialoghetti satirici o parodie in versi. Il punto sarà in breve quello di mantenere un atteggiamento attivo nei confronti della società, di non disgiungere l’esercizio della moralità dal gioco dell’invenzione, mantenendo vivo il ruolo civile della critica. Il «Fanfulla», fondato a Firenze nel 1870, poi trasferito a Roma non appena questa divenne capitale del Regno d’Italia, sarà proprio l’ultimo grande giornale di tale tradizione umoristica.
La definizione «giornalismo umoristico» non deve però sviare: si trattò infatti di letteratura vera e propria (non sempre raccolta in volume), ironica e comica, ricca di notazioni bizzarre e curiosità letterarie, che si alimentavano della cronaca politica, teatrale o musicale, per dar vita a testi e vignette all’insegna della satira, della divagazione scherzosa e della complicità con i lettori. L’uso degli pseudonimi – che era frequentissimo se non costante su quelle pagine e che oggi complica talvolta la ricostruzione del contesto culturale dell’epoca – non era un tentativo di sfuggire ai rigori della censura: la struttura della redazione del giornale umoristico era infatti in genere assai esile ed i gerenti e i pochi compilatori erano facilmente identificabili dalle autorità di polizia. Piuttosto, bisogna pensare che gli pseudonimi consentivano allo scrittore umorista una grande libertà espressiva, la possibilità di saltare senza remore da un argomento all’altro, da un registro all’altro, dall’ironia alla parodia ecc.; e gli permettevano una dilatazione a piacere delle potenzialità stilistiche, in sintonia con la programmatica pluralità dei toni e delle forme che caratterizzavano un simile umorismo. In maniera analoga, come autentico semenzaio dell’immaginazione, andrà considerata la frequenza degli pseudonimi nel giornalismo e nella letteratura satirica del Novecento: Cesare Zavattini, che si firmava Za, insegna!
Proprio con il «Fanfulla» iniziò il declino del «giornalismo umoristico», e ciò avvenne per diverse ragioni di carattere socio-economico e culturale. Da un lato, l’industria della carta stampata cambiò strutturazione, finanziamenti e distribuzione, ed i giornali umoristici, diffusi principalmente per abbonamento, non riuscirono più a fronteggiare la concorrenza dei fogli d’informazione varia, meglio accolti sul mercato. Dall’altro, la vittoria del Naturalismo sancì un mutamento radicale del gusto del pubblico, ora tutto teso ad avere una “copia” della realtà. Nella estetica o poetica naturalistica si affermava l’idea misticheggiante dell’oggettività assoluta dello sguardo o, con un altro a priori, dell’oggettività assoluta delle cose: precisamente l’opposto della libertà inventiva propria delle poetiche dell’Umorismo. Così il genere comico-umoristico confluì o fu relegato fra i generi ritenuti a torto minori: la letteratura per l’infanzia, il teatro comico – appunto Petrolini e, più avanti, Totò o Fo…
I giornali umoristici resteranno comunque senza essere più i protagonisti principali della scena culturale: si pensi alla notevole fortuna di fogli come il «Guerin Meschino», fondato nel 1882 a Milano (chiuderà i battenti nel 1943), e il «Capitan Fracassa», nato nel 1886 a Roma. Gli spazi dell’umorismo e della satira, da allora in poi, potranno però subire una modificazione profonda, nel senso di una presenza – talora una prevalenza, in quei periodici – dell’intrattenimento leggero e amabilmente sorridente, dunque anche un po’ casuale e dispersivo. Più spesso vi saranno oscillazioni continue fra divertissement e scherzo ironico: non per nulla l’accostamento fra vignette e versi in rima baciata tipico del «Corriere dei Piccoli», dove furoreggiava dal 1917 il Signor Bonaventura creato da STO, varrà anche per il «Guerin Meschino». In altri casi, o momenti, potrà esservi da subito, oppure tornare attiva, una volontà critica e pugnace nei confronti di una società e una cultura spesso autoritaria, gretta, se non retriva: basta pensare alla carica dirompente di un settimanale socialista come «L’Asino», fondato a Roma nel 1892 e soppresso nel 1925 all’affermarsi del Fascismo, oggetto di tanti suoi strali; ai fogli satirici diffusi sul nostro fronte durante le fasi finali della I Guerra Mondiale; e, in Francia, anche soltanto a «La Feuille» o a «Le Rire», la cui presenza è risaputa nella Biblioteca dell’Archivio Guareschi (Roncole Verdi)3. In quest’ultimo giornale – e in altri periodici satirici francesi della grande tradizione comico-umoristica e parodica dell’Ottocento, ispirata principalmente, ma non solo, alla maniera di Laurence Sterne – Marcel Duchamp (1887-1968) aveva avuto modo di affinare la propria ironia come disegnatore umoristico. Anche questo gli avrebbe permesso di diventare uno degli artisti più capaci d’influire sull’arte del XX secolo, grazie alla forza dell’estro inventivo e alla spregiudicatezza dell’intelligenza. In breve, lo spirito dissacrante, il gioco del rovesciamento paradossale fino all’assurdo, messo in atto dall’artista e caro al movimento Dada, erano non solo una generica disposizione psicologica dell’uomo, ma anche e soprattutto una scelta culturale. Si trattava di un elemento di poetica suggerito dalle teorie estetiche, caratteristiche proprio di quella vasta e ricchissima tradizione europea, nel cui ambito, nell’Ottocento e nel Novecento, transitavano in vario modo, è bene ripeterlo, Daumier e Gavarni, Balzac e il giovane Baudelaire, Collodi e Palazzeschi, Pirandello e Zavattini, Tofano e Novello.
I giornali satirici o numeri unici – da «Straparma» a «Bazar» e su fino al «Bertoldo» e al «Candido», nato nel 1945 – che Guareschi fondò, o che ne ebbero in vario modo la brillante collaborazione di umorista e di vignettista satirico, sono costruiti sui medesimi schemi strutturali messi a punto dalla letteratura umoristica dell’Ottocento. Vignette varie e numerose, dialoghi e «sillogismi» scherzosi, buffi monologhetti e storie o articoli brevi, parodie in versi e via discorrendo, risuonano così allo stesso tempo vecchi e nuovi, ma sempre in maniera vitale: infatti vicende, personaggi, problemi del Novecento, sono messi alla berlina grazie a modelli o contenitori comico-satirici di derivazione ottocentesca. Insieme a tutto questo sono, ancora una volta, un analogo gusto del paradosso e dell’invenzione burlesca, lo stile scorrevole, il gioco linguistico a partire dalle valenze letterali della parola. Tuttavia, come le linee del disegno satirico risentono per essenzialità e tratteggio degli apporti formali delle avanguardie novecentesche o della pittura degli anni Venti-Trenta (non si dimentichi «Il Selvaggio» di Mino Maccari), così i modi del paradosso e del surreale sembrano scaturire da certo Futurismo o dagli esiti formali di Palazzeschi e Pirandello.
Lo statuto della stampa umoristica realizzata da Guareschi o supportata dal suo lavoro è talvolta misto, come lo fu ad esempio anche quello di un «settimanale-umoristico-illustrato» quale «Numero» fondato nel 1913, a cui collaborò STO. Intendiamo «misto» nel senso che vi possiamo trovare sia il puro intrattenimento, che mira a suscitare il sorriso – come l’innocua caricatura di un personaggio conosciuto (magari anche solo nella città di Parma) -, sia la pungente satira politica e sociale in grado di coinvolgere problematiche più ampie e profonde. Da questo punto di vista, nel godimento di una libertà di stampa e di espressione impensabile nell’età fascista, il «Candido» – con la sua caricatura, la parodia, l’ironia finalizzate ad una serrata critica degli eccessi degli ideologismi nel secondo dopoguerra – appare al di là delle contingenze uno degli esempi di «giornalismo umoristico» novecentesco più coerenti ed efficaci nella rappresentazione disincantata di tanti aspetti della società italiana contemporanea.
Daniela Marcheschi
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