Pur ironizzando senza risentimento su scrittori “affermati”, da Sandro Veronesi Veronesi a Umberto Eco, Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) realizza, ironia della sorte, con Fìdeg, suo romanzo d’esordio, un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra, dal “punto di vista del cane”. Come in alcuni scrittori dell’area emiliano-padana (da Ugo Cornia a Daniele Benati a Paolo Nori) anche in Colagrande “l’ideologia” dominante è un quotidiano burbero e vero, spazientito e diretto, sgomento e tragicomico: un quotidiano senza sovrastrutture piccolo-borghesi o “televisive”.
Colagrande usa un’oralità “semicolta”, che discende dagli “zii” Celati-Cavazzoni, eppure, a questo punto, sappiamo due cose: che la lingua dei semicolti è un artificio retorico (a volte di maniera) di certa letteratura “del Po”, e che Parma, tanto per dare un centro geografico a questo “gruppo molteplice” di scrittori, è in realtà una piccola e raffinata capitale culturale, una piccola Parigi – il “proustiano” Attilio Bertolucci, con la sua cinica grazia, è un riferimento obbligato, come ovviamente sono un riferimento obbligato Luigi Malerba, Cesare Zavattini e Alberto Bevilacqua, sempre meno “bestsellerista” nella considerazione dei critici.
Questi “nuovi” scrittori di area emiliano-padana usano il “basso”, verrebbe da dire, per mirare sempre più in alto. Eppure sappiamo quante difficoltà questi scrittori hanno nello sperimentare strade nuove di ricerca letteraria. In Colagrande, per esempio, il dato dominante è un umorismo intellettuale senza visceralità e senza facili ammiccamenti; un umorismo mai gratuito e risentito, ma sempre lucido, fortemente saldato a una precisa visione “teorica” del mondo – valgano da esempio le bellissime pagine sul campanilismo; su Cristoforo Colombo conteso dai genovesi, dai piacentini e dagli spagnoli. In Guido Conti, invece, e lo abbiamo visto nel suo ultimo romanzo La palla contro il muro, l’attenzione si è spostata efficacemente dai “folli” alle angosce piccolo-borghesi. Anche in Beppe Sebaste una narrazione fortemente orale si è ormai “allargata”, finanche nella forma, alla riflessione filosofica, linguistica e politica – valga per tutti l’esempio di Tolbiac. Lo stesso vale per Paolo Nori, che è passato da una comicità “stralunata” ed esilarante a un maggiore impegno civile – si pensi a Noi la farem vendetta. Forse solo Cornia, con il suo bellissimo Le pratiche del disgusto, sembra issato nella sua felice forma conchiusa: nel suo malinconico e masochistico affondo nella quotidianità.
Paolo Colagrande allarga e rafforza un gruppo di scrittori che ebbe nella rivista Il semplice il suo centro propulsore. Nel suo bellissimo Fìdeg, vincitore del premio Campiello opera prima, troviamo certamente l’oralità, il “basso”, il comico, l’inciampo “chapliniano”, la provincia, la marginalità, ma il tutto è irrobustito da una intelligente e continua riflessione sulla forma romanzo e sul fare letteratura. E’ come se questi scrittori emiliano-padani, partiti come semicolti, adesso risalissero il fiume della letteratura “alta” – ma, in fondo, non sono forse Celati, Cavazzoni, Sebaste, giusto per fare qualche nome, anzitutto dei raffinati studiosi?
Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) della nostra provincia profonda, delle alterità linguistiche, di una quotidianità mai piccolo-borghese o sociologica. Anziché piangere sulle orride trasformazioni della via Emilia, questi scrittori continuano a cercare, come animali solitari, angoli bui dove trovare parole e immagini nuove, semplici e marginali. Come faceva il grande fotografo Luigi Ghirri. Come fece, fino a un anno fa, Giorgio Messori, che trovò a Tashkent, in Uzbekistan, un’altra via Emilia in cui non essere braccato.
Andrea Di Consoli
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Fìdeg
Paolo Colagrande
Alet
205 pagine 12,00 euro
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Ringrazio la Alet che ha messo a disposizione un estratto del testo di Fìdeg. Potete leggerlo di seguito. (Massimo Maugeri)
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Tra le disgrazie dell’umanità – diceva Neride Bisi – c’è che quando uno sente il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, novantanove su cento poi la dice.
Da questa debolezza dipende la crisi del mondo moderno, diceva sempre Neride Bisi che per questo motivo aveva deciso di parlare solo quando era al bar o dal barbiere, che sono delle specie di aree protette, oasi ecologiche dove il parlare è indifferentemente un fatto di istinto o di divertimento o di abitudine, come fumare o giocare a carte o bere dei bianchi; tutte cose che lui faceva sempre volentieri, specialmente l’ultima.
Da questa premessa mio nonno Neride Bisi aveva tratto un’importante regola sociologica rivoluzionaria di cifra anarchica, cioè: che il parlare e il ragionare viaggiano su due strade diverse che non si incontrano, non c’è il collegamento, lo svincolo, il crocevia logico funzionale; di conseguenza, mancando il crocevia logico funzionale, le cose intelligenti vengono fuori solo per caso o addirittura per sbaglio, cioè tipo una volta su un milione. La teoria sociologica aveva poi anche un imprevisto risvolto macroeconomico, perché mio nonno Neride, con un passaggio un po’ ardito che non mi ha mai spiegato bene, diceva che a tacere tutti si migliorava il livello di benessere della società e si diventava ricchi, nel senso di fare i soldi. Lui, ricco, non lo è mai diventato.
L’ho presa lunga con mio nonno Neride non solo perché mi andava di baccagliare un po’, ma soprattutto per dire che quella cosa intelligente dei richiami semantici in tema di tubatura era meglio che me la tenevo per me: risparmiavo le parole e non passavo da locco.
Locco è una parola nordemiliana-sudlombarda assolutamente intraducibile: perché dire allocco, cioè una specie di uccello rapace notturno sinonimo non so perché di stupido, oppure babbeo, aggettivo manzoniano usato nei dialoghi di Tex, non dà quell’idea dispregiativa trasversale che solo la parola locco riesce a rendere. Quindi terrei locco, nella speranza che il concetto sia ben trasmesso.
Dimenticavo di dire, prima della digressione sull’epiteto locco nordemiliano vagamente sinonimo di stupido, che quando dei famosi scrittori con cui ero a cena ieri l’altro mi han detto che il nome della rivista era La tubatura, ho sentito il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, e allora mi sono
lasciato scappare che nella tubatura c’erano molti richiami semantici.
Di qui il ricordo commosso di mio nonno Neride, bracciante agricolo con vocazione sociologica, morto a novantatré anni.
D’altra parte tutte le volte che incontro degli scrittori, cosa che non capita spesso, è più forte di me pensare che dentro la loro testa ci sia sempre un gran lavoro di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. E siccome ero a tavola con dei famosi scrittori che mangiavano del coniglio in umido e bevevano del rosso con la schiuma mentre buttavano giù il nome della rivista e altre cose tecniche come il palinsesto detto più propriamente menabò, ho pensato che in quel momento, all’interno dei loro cervelli, doveva esserci una tale esplosione di richiami e circuiti semantici che, a tenerci dietro a tutti, c’era veramente da farsi venire la febbre. E considerato che era già un po’ tardi e anch’io stavo mangiando il coniglio in umido – buonissimo, tra parentesi – con tre o quattro bicchieri di rosso con la schiuma, che non sono abituato, ed ero lontano centocinquanta chilometri da casa con strada collinare, ho pensato che era inutile mettersi a tirar giù uno a uno i richiami semantici esplosi nel cervello degli scrittori, e che era più pratico, intanto, far vedere intelligentemente che sapevi che c’erano, e poi a casa tirarli fuori con calma; magari non tutti, i principali. Mi era sembrata la cosa più pratica, da dire.
Invece era più pratico se stavo zitto. Adesso non voglio farla più tragica di quel che è, ma se c’era lì mio nonno Neride (cosa impossibile essendo morto quando avevo quattordici anni) diventava rosso in faccia dalla vergogna.
Perché i famosi scrittori che hanno inventato questo bellissimo nome per la rivista sono stati più che altro ispirati, come han cercato caritatevolmente di spiegarmi, dalla musicalità. La tubatura, a ripensarci, lasciando stare gli altri concetti che son secondari, è una parola con una musicalità da far venire la pelle d’oca, con un ritmo musicale, con delle bellissime note musicali
ripetute, che non ce le aveva neanche 1ostakovic; e poi con un gran bel labiale, che un labiale così non ce l’ha nessuna parola sul vocabolario, a parte Lolita, che non è sul vocabolario perché è un nome proprio e che comunque c’ha dietro tutto un suo ragionamento. Insomma a riflettere attentamente sulla straordinaria musicalità e sul labiale della tubatura ti si apre un orizzonte immaginifico da non credere, e mi sono sentito come in un grande prato verde pieno di scrittori contemporanei che si scambiavano ritmi musicalità e labiali e io gli correvo incontro, a quegli scrittori, a braccia aperte per ringraziarli e abbracciarli commosso. E lì per lì – lì per lì è un’espressione che non uso mai, ma io ho una creatività un po’ tutta mia che, con buona pace di mio nonno Neride, bisogna che ogni tanto si sfoghi – e lì per lì, dicevo, ho capito una cosa importantissima, che se la capivo prima evitavo di fare delle brutte figure.
E cioè: dire a dei famosi scrittori che dentro una parola, o nel nome di una rivista, ci sono molti richiami semantici è come dire a un famoso elettricista che negli impianti elettrici c’è molta elettricità. O come dire a un famoso cuoco cinese che dentro la cucina cinese ci sono molti aromi orientali. Cioè, lasciando stare gli elettricisti e i cuochi cinesi che erano solo delle similitudini, per i famosi scrittori – ma anche forse per i normali scrittori – i richiami semantici sono tipo delle cuciture fini e invisibili e impercettibili come quelle delle camicie eleganti.
Ma se tu vedi una camicia elegante che ti piace, non dici che belle cuciture invisibili impercettibili che ha questa camicia elegante.
Le cuciture sono cose che ci sono e basta, e se tu lo sai che ci sono è inutile che lo dici. Così, per i famosi scrittori il richiamo semantico è una cosa talmente naturale e istintiva e anche evanescente che loro, gli scrittori, non ci pensano neanche che c’è o se lo dimenticano, e se tu glielo dici è capace che s’irritano e magari, per tornare al caso che ci riguarda, non ti fanno più la rivista. Così sono fatti i famosi scrittori.
E durante il viaggio di ritorno in macchina con Fangio che guidava fortissimo l’escort giù per il percorso collinare verso la stazione di Modena dove avevo, o almeno credevo di avere, il treno, pensavo che dovevo essere stato proprio un asino a rovinare una cosa così bella e musicale e ritmica come la tubatura, sparando fuori l’idea dei richiami semantici che sono una specie di essenza intestinale della formidabile musicalità di quel nome.
E se di una cosa bella tu tiri fuori solo l’essenza intestinale, corri il rischio di rovinarla per sempre.
Ma poi, considerato che, dopo che Fangio mi ha lasciato giù in stazione ed è ripartito e io ho scoperto tragicamente che poco alla volta venivano soppressi tutti i treni, per via dello sciopero del personale ferroviario, e considerato che in quello stesso momento mi sono anche accorto che il telefonino era scarico e che tutte le cabine di Modena, come mi ha spiegato il tunisino clandestino Jamal, vanno solo con la scheda telefonica, che io non avevo e lui neanche, e che alle due di notte non c’è nessuno che ti vende delle schede telefoniche e che l’indomani mattina alle nove dovevo essere alla Malpensa a prendere mio fratello che veniva da Londra e io la Malpensa a momenti non so neanche dov’è. Considerato che si è messo anche a piovere e la sala d’aspetto era chiusa e che l’unica cosa che potevo fare era stare sotto una pensilina in piedi perché le panche erano già occupate tutte da extracomunitari clandestini coricati, fra cui appunto il tunisino Jamal. Considerate tutte queste cose, compreso il fatto che alle tre ho bussato alla porta a vetri di un albergo dove per poco non chiamano i carabinieri, sono arrivato alla conclusione che, in quello stato di sfiga totale e di degradazione inarrestabile in cui inspiegabilmente mi trovavo, se anche facevo tra me e me qualche richiamo semantico, magari non rumoroso, la situazione non sarebbe comunque peggiorata. Tanto più che non c’erano scrittori in giro e in teoria potevo fare tutti i richiami semantici che volevo. E allora, mi sono fatto una specie di confessione.
Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato a bocca aperta dalla meraviglia sono le planimetrie e i disegni tecnici. Io penso che a volte ci sono delle planimetrie e dei disegni tecnici che a guardarli sono più belli di certi quadri famosi di celebri pittori.
Da quel punto di vista sono abbastanza fortunato perché ho un amico che è un famoso geometra e sul suo tavolo c’è sempre una montagna di planimetrie da guardare. Io non ho vergogna a dire che lo invidio molto perché sa fare dei disegni tecnici così belli e precisi e raffinati che io non sarei buono neanche se andassi a scuola di disegno tecnico per cinquant’anni a fila. E così, quando guardo una bella planimetria, specialmente quelle delle case, mi vengono due tipi di sentimenti che qualcuno potrebbe dire che sono in contrasto, ma invece non lo sono per niente: uno è quello di mettermi lì a estasiarmi davanti al foglio per delle mezze giornate e seguire col sorriso sulle labbra tutte quelle belle righe e quei bei spazi vergini con dei piccoli simboli tecnici che sembrano dei fiori in un giardino, l’altro è di prendere dei pastelli e farci in mezzo qualche disegno postmoderno a mano libera o riempire gli spazi bianchi con un bel colore o cose di quel genere.
Le planimetrie che mi piacciono di più sono le sezioni con gli schemi idraulici perché entrano in una specie di intimità maliziosa con la casa: in pratica è come vedere la casa segata verticalmente con un taglio preciso, dal tetto alla cantina, lungo il tracciato dei tubi d’ingresso e di scarico. Quelli d’ingresso c’hanno segnata una freccia verso l’alto, in quelli di scarico la freccia punta verso il basso: le frecce sono disegnate allo sbocco del tubo, cioè dove il tubo, andando verso l’alto, entra nella casa e a un certo punto finisce con un tappo. Se la sezione è di un condominio, ci sono tanti sbocchi di tubo quanti sono gli appartamenti. Ecco, io quando vedo questi disegni tecnici di sezioni idrauliche sulla scrivania del mio amico geometra, quando vado a trovarlo, ho l’irresistibile tentazione di prendere una matita, una di quelle bellissime matite a mina che tutti i geometri lasciano distrattamente in giro nei loro studi, e completare la bocca dei tubi disegnando, appena sopra la freccia, dei piccoli wc con su degli omini seduti. Il risultato è che al mio amico famoso geometra, dopo che sono uscito, gli tocca perdere poi dei quarti d’ora a tirare delle madonne a cancellare tutti i vaterini e gli omini che ho disegnato sulle sue meravigliose mappe. È più forte di me. Tra l’altro devo dire che ormai c’ho preso su una mano che sia i vaterini sia gli omini caganti mi vengono proprio bene: anche se sono stilizzati hanno una loro dignità composta e serafica, come dovrebbe avere normalmente una persona in quei momenti.
Questa mia mania di disegnare vaterini e omini serafici caganti sulle mappe del mio amico famoso geometra rappresenta solo la prima parte della confessione.
La seconda, quella più importante, è che quando questi amici scrittori mi hanno detto che il nome della rivista era La tubatura mi si è magicamente disegnata nella testa la sezione planimetrica di un condominio con schemi idraulici; già completo di vaterini e omini in cima ai tubi. Non solo, ma ho anche visto idealmente per un attimo tutto l’impianto in funzione con gli omini serafici che si danno da fare con movimenti impercettibili dell’addome e gli scarichi che scorrono nei tubi che si uniscono e si incrociano con dei gomiti, delle T, delle V, delle Y, e convogliano, come si dice in lingua idraulica, nella rete fognaria e via discorrendo.
È così che mi è scappato fuori il richiamo semantico.
E, modestamente, tra i possibili richiami semantici collegati alla tubatura – pensavo più tardi sotto la pensilina della stazione di Modena mentre aspettavo inutilmente dei treni soppressi – quello che ho trovato io mi sembra proprio azzeccato.
Perché, a pensarci, la rivista che mi si è idealmente raffigurata in testa è proprio una tubatura che convoglia i prodotti letterari di ciascuno di questi scrittori famosi o di scrittori minori o di scrittori esordienti o di scrittori sedicenti.
E ripensando alla cena dove più o meno tutti avevamo mangiato il coniglio in umido, tranne Girolamo che era a dieta e Gèc che ha preso il castrato, nella mia testa un po’ annebbiata dalla depressione del momento contingente ho rivisto tutti noi intorno a questa tavola seduti su tanti bei wc.
E la tavola è diventata la sezione idraulica di un piccolo condominio dove ciascuno di noi produceva letteratura seduto sul suo legittimo vaterino e il prodotto convogliava in una tubatura comune che era appunto la rivista.
Non escludo che in questa visione abbia giocato un elemento onirico – se mi si passa ancora una volta l’espressione – dovuto al fatto che sotto quella pensilina ci sono rimasto a deprimermi fino alle cinque cioè fino a quando ha aperto il bar della stazione, e allora siamo entrati io, quattro neri compreso Jamal il tunisino e tre prostitute altissime con la voce strana, io a comprare una tessera telefonica, le prostitute a bere il cappuccino e tutti quanti a scaldarci.
Ma a parte l’elemento onirico (su cui non mi soffermo, per la nota teoria macroeconomica di mio nonno Neride), credo che la mia idea del richiamo semantico-planimetrico-idraulico, idea che sto onestamente confessando da un paio di pagine e ormai ho quasi finito, sia un’idea azzeccata anche dal punto di vista dell’anonimato che è una caratteristica esclusiva della rivista La tubatura.
Perché il prodotto letterario di ciascuno di quegli omini serafici seduti sui vaterini va a finire appunto nella tubatura, seguendoun suo iniziale percorso intimo per entrare in una zona idraulica collettiva e paritaria dove nessuno può più rivendicare il prodotto come suo.
Chiaro che un esperto, posizionandosi nella parte finale della tubatura, quella che convoglia gli scarichi nella rete fognaria che semanticamente rappresenta il mercato editoriale, potrebbe riconoscere frammenti di prodotto letterario attribuibili all’uno o all’altro omino serafico. È un po’ difficile, ma infatti stiamo parlando di un esperto.
Ad esempio, Girolamo dopo le tagliatelle agli ovoli ha mangiato solo un’insalata mista e ha bevuto poco, per via della dieta, e allora i suoi frammenti narrativi di quella sera è facile che si disperdano un po’ nel filone letterario corrente; mentre Fangio ha mangiato, oltre al coniglio, i tortellini al pasticcio, le cipolline borettane in agrodolce e ha coricato due bottiglie. Gèc ha bevuto la vodka come aperitivo, prima delle tagliatelle, ma poi mi pare che ha mandato giù della gran acqua. Sono tutti dati importantissimi per l’eventuale esperto che, per amore di ricerca scientifica, volesse cimentarsi nel selezionare, dentro il prodotto letterario della rivista, il contributo soggettivo di ogni singolo omino serafico.
Alla fine della mia confessione, vorrei metterci ancora tante idee, perché ormai vado a ruota libera e, a dirla tutta, mi scappano ancora tante di quelle variabili semantiche che non basterebbero altre cento pagine: ad esempio, l’ipotesi che la tubatura un bel giorno si ingorghi perché qualcuno ha buttato nel wc letterario del materiale anomalo e improprio, o che qualche omino infingardo resti seduto facendo solo finta di produrre e via discorrendo. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo e devo dire che, a un certo punto di quella interminabile notte, mi è anche passata la depressione; che, come gli scrittori sanno, è un momento di grande rigoglio creativo.
Infatti, alle nove di mattina, grazie alla scheda telefonica comprata al bar, ho chiamato mio fratello sul cellulare. Come ho già detto, mio fratello mi aveva chiesto il grosso favore di andarlo a prendere alla Malpensa alle nove di mattina, e io, con la mia solita straripante generosa disponibilità, gli avevo risposto che non solo non c’erano assolutamente problemi ma che lo facevo con piacere qualunque fosse l’orario, anche alle sei di mattina. Lui mi aveva detto di non esagerare, che l’ora di arrivo comunque era le nove, ma io ho insistito e alla fine sono riuscito a convincerlo che era meglio che io arrivassi lì almeno alle otto; così lui, dopo che si è convinto, mi ha ringraziato perché gli toglievo davvero un pensiero. E io ero contento di far qualcosa di utile per mio fratello che è sempre in giro per il mondo a lavorare come un matto. Quando, dal telefono pubblico, alle nove di mattina, gli ho detto che ero in stazione a Modena da sette ore, e che il primo treno era alle due di pomeriggio, mi ha dato dell’asino.
Poi ha noleggiato una macchina alla hertz e mi è venuto a prendere a Modena; così alla mezza ero a casa a fare la doccia.
Mi ha detto, a livello di consiglio fraterno, che la prossima volta che mi chiede un favore di rispondergli semplicemente di no, che si evitano tanti problemi.
L’ultima riflessione l’ho fatta proprio mentre venivo scarrozzato sulla bellissima e profumatissima macchina noleggiata da mio fratello all’aeroporto della Malpensa: in fin dei conti, ho pensato, la teoria di mio nonno Neride con tutto il rispetto è molto opinabile. E mi sa che io sto già diventando come lui, che parlo sempre poco (a parte stavolta) e non c’ho mai una lira in tasca.
Ma se lui – mio nonno Neride – mi avesse visto quella notte di pioggia sotto la pensilina davanti alla stazione (chiusa) di Modena, in piedi, con tre prostitute e quattro clandestini, compreso Jamal il tunisino, ad aspettare per sei ore dei treni che venivano soppressi uno dopo l’altro, con il cellulare scarico e senza scheda telefonica, con ancora sullo stomaco un coniglio in umido mangiato molte ore prima insieme a famosi scrittori e a scrittori minori e a scrittori sedicenti; se, contemporaneamente, avesse visto mio fratello che, sbarbato e dopobarbato e in giacca e cravatta di ritorno da Londra, entrava alla hertz dell’aeroporto della Malpensa facendosi consegnare da una specie di miss mondo sorridente in divisa blu della hertz le chiavi di una bmw per venire a prendere me, fino alla stazione di Modena; se avesse visto tutto questo, compresa la faccia del custode
dell’albergo che, dalla paura che facevo, voleva chiamare i carabinieri, adesso probabilmente sarebbe abbastanza orgoglioso di suo nipote più vecchio (cioè io), anche se – pensando alla rivista denominata La tubatura e ricordando quel coniglio in umido – ogni tanto mi scappano ancora di quei richiami semantici così potenti che poi c’è da aprire delle finestre per delle mezz’ore.
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