lunedì, 3 settembre 2007
CAPITOLO I – “L’OCCHIO ALATO: storie di disumanizzazione scolastica” (di Miriam Ravasio)
Le nuvole. Il plesso delle prime. “Forse” aveva vinto. Sudavo. I cieli romantici. Niente matita. Un momento critico. Le nuvole sulla cattedra. Come Raffaello.
Non entravo in una classe da oltre 20 anni. Avevo la febbre e solo da pochi giorni era morto mio padre. Improvvisamente, per un infarto, mentre attraversava la strada sotto casa, era morto sorridendo. Chissà a cosa stava pensando…
Il giorno prima, la direzione didattica, o meglio Giovanna Portavoce, mi aveva postato una mail, come al solito un po’ così , ma il senso era chiaro: il progetto che avevo scritto, e che loro avevano presentato alla Regione “forse” aveva vinto. In attesa della comunicazione ufficiale, potevo iniziare subito ” magari con un altro argomento somigliante”; dovevo impegnarmi per 195 ore divise in tutte le classi della scuola. Ero felice, con 7 interventi per classe potevo sbizzarrirmi e aggiungere attività più complesse: potevo realizzare un buon lavoro, ma lo stile della comunicazione mi faceva sperare ben poco.
In mente avevo sempre mio padre, ma pensavo anche alle dimensioni della scuola a quanto avrei dovuto camminare per muovermi dalle aule alla stanza del materiale. Contavo mentalmente i passi e i metri che avrei dovuto percorrere. Pensavo alle gambe, agli spiacevoli esiti e a quell’intervento che continuavo a rinviare; e a questo nuovo capitolo della vita che si stava aprendo. Speranzosa e triste, alle 14 esatte mi presentai a scuola. Con me avevo tutto, i libri con i segni di diverso colore, l’astuccio con le gomme pane i quadrelli di creta e le matite 6B, il quaderno degli appunti, un po’ di fogli colorati in tinte pastello sui quali, avremmo incollato i primi lavori: le nuvole chiare, le nuvole rosa, le nuvole nere.
All’istante ho capito come sarebbe stata e che prima di affrontare la classe avrei dovuto ogni volta spiegare tutto e molto bene alle maestre. Guardavo i bambini che avevo di fronte e alcuni mi conoscevano, un po’ emozionata iniziai presentando il “magnifico programma d’arte” che avrei svolto con loro, cominciai parlando dei cieli, di come è bello guardarli e dei pittori che li dipingono nei quadri. Loro, attenti, incuriositi, volevano vedere i libri, la novità li eccitava e la maestra esercitava il controllo alzando la voce. Il raffreddore, che nel giro di poche ore sarebbe diventato febbrone da cavallo, mi aggrediva. Il naso gocciolava, avevo un gran caldo, sudavo e temevo di infettare i piccoli; loro invece erano attenti. Pendevano teneramente dalle mie labbra e anche se la condizione non era delle migliori, mostrai i libri con le immagini già divise fra le nuvole serene, quelle bianche e soffici; quelle gialle o rosa che salutano il sole; quelle nere cariche di pioggia, grandine e tempesta. La scelta cadeva sui pittori tedeschi e inglesi, sui cieli romantici. Secondo la mia scaletta, questa cosa dei libri non doveva durare più di 15-20 minuti al massimo, perché la loro attenzione è limitata e anche il disegno non doveva prendere più di un’oretta. In teoria tutto era stato calcolato.
E nonostante la tosse e il raffreddore, ogni cosa si stava svolgendo come previsto e con occhio fisso all’orologio seguivo le tappe. Bambini rapiti dall’idea di toccare e sfogliare i miei libri, rumorosi ma disciplinati, toccavano incantati i tramonti e i cieli azzurrissimi di quelle vecchie opere che si avvicinavano al vero.
Davanti ad un foglio bianco, con un pastello blu oppure rosso, giallo o rosa, aspettavano il resto delle indicazioni. ”Niente matita”, perché rovina l’effetto pittorico dei gessetti; e poi volevo che pensassero, che memorizzassero, e lavorassero con attenzione, senza la possibilità di cancellare. Giravo fra i banchi e tutti mi chiamavano contemporaneamente, chiedevano; tutti insieme volevano, pretendevano consigli, colori, esprimevano dubbi, mi volevano al loro banco. Un piacevole caos che temevo di non controllare.
I tempi dei bambini sono, per ognuno, diversi. Alcuni hanno fretta di dimostrare d’aver capito tutto, altri sono incerti se prendere la cosa come un compito serio o un divertimento nuovo, altri ancora hanno bene in mente cosa vogliono fare, ma temono la novità dei nuovi mezzi. Il pastello, usato al posto della matita, creava all’inizio una grande diffidenza, è sempre così; la paura di non poter cancellare si risolveva nel tentativo di cambiare il foglio. Dovevo intervenire per tranquillizzare tutti, prestare attenzione alla maestra, rispondere alle sue domande, spiegarle ogni cosa e farmi aiutare. Un momento faticoso, il punto critico di ogni lezione, un momento che dura poco ma con un livello d’attenzione massimo.
Ho lavorato con molte insegnanti e sono pochissime quelle che hanno l’intuito giusto nei confronti del disegno, la maggior parte di loro è attratta solo dall’ordine, e da un segno che non sia troppo marcato. E’ dura dover insegnare un metodo nuovo senza inibire i bambini, lasciandoli liberi nella loro espressività, e confondere le idee alle maestre. Bisogna improvvisare i commenti giusti e guadagnare tempo. Quello necessario alla consegna dei primi lavori, che guardo e metto da parte per rivederli con loro prima della fine della lezione.
La lezione piacque a tutti, i lavori uno dopo l’altro raggiungevano la cattedra. Belli, alcuni intensi, altri imprevedibili, altri tranquilli, esageratamente simpatici, coloratissimi, o appena accennati.
I gessetti colorati rendono. Sono un mezzo molto gratificante, efficace, veloce, rassicurante. Anche se ci si sporca, in un attimo tutto è subito risolto. L’uso della gomma pane aiuta a conferire l’effetto vaporoso e i bambini imparano in fretta. Le nuvole disegnate parlano del tempo, delle ore del giorno e della sera, della luce colorata del tramonto e dell’aurora, del buio della notte e dei temporali. Un buon lavoro. Ma non è una cosa straordinaria, a quella età la sicurezza di descrivere ciò che si conosce, o si ha appena imparato, o visto è intatta.
“Quando avevo l’età di questi bambini sapevo disegnare come Raffaello; mi ci è voluta tutta una vita per imparare a disegnare come loro.” Picasso.
Miriam Ravasio
Miriam Ravasio abita a Lecco, si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata “per caso”, dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere.
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