Sulla psicanalisi si è detto di tutto, si è scritto di tutto. Molti testi di narrativa, dal Novecento a oggi (cito “La coscienza di Zeno” per tutti) sono intrisi o fanno riferimento alla psicanalisi. I saggi non si contano; così come i manuali. Eppure “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon, romanzo appena ri-edito da Garzanti (euro 14,50, pagg. 186) è un testo che si distingue dagli altri. E non solo perché è un romanzo. Lo intuiamo già da questa frase riportata in copertina: “Viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne”. E di questo si tratta: la descrizione di un lungo e difficile viaggio durato ben sette anni di terapia. Alla fine del testo leggiamo questa avvertenza dell’autore: “Questo non è un diario o una cronaca, con personaggi della realtà, ma un romanzo: in qualche caso la realtà può avermi offerto un pretesto, ma niente più che un pretesto”. Al di là del fatto che la realtà sia stata rappresentata più o meno fedelmente, in questo libro c’è Camon: c’è l’esperienza dell’uomo esposta con il talento dello scrittore; c’è una rivelazione che forse costituisce la tappa finale di quel viaggio (ammesso che quel tipo di viaggio preveda l’esistenza di un punto di arrivo). Carlo Sgorlon sostiene (la frase è riportata in quarta di copertina): “Camon sembra essere entrato in quel gusto autolesionistico di sciorinare in pubblico le proprie disavventure che è talvolta tipico di alcuni scrittori ebrei, per esempio Philip Roth o Saul Bellow”. Non sono molto d’accordo. Non credo si tratti di gusto autolesionistico, ma di insopprimibile esigenza di raccontare (e raccontarsi) per uscire da sé. E nel percorso narrativo che porta a questa uscita da sé, Camon elabora (e offre al lettore) un testo unico: la storia di un’analisi raccontata dal suo interno; il rapporto tra medico e paziente visto con gli occhi di quest’ultimo. Una storia lunga e difficile, dicevo… che comincia così: “Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho quest’impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta” (pag. 9). Uno sconosciuto che diventa più indispensabile di una madre, ma che rimane estraneo fino alla fine del viaggio. “E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta – così piccolo, così magro, così vecchio – io non lo conosco.” (pag. 174)
Eppure questo sconosciuto (che rimane tale) diventa un punto di riferimento imprescindibile. “Incontrarlo diventava la cosa più importante della giornata, della settimana, persino (ora mi è difficile riconoscerlo) della vita.” (pag. 13). E la necessità di incontrarlo non scema (tranne che alla fine del percorso) di fronte alla consapevolezza dello stravolgimento interiore a cui il paziente va incontro: “L’analisi sta all’uomo come una guerra civile sta allo Stato” (pag. 153).
Silenzi prolungati, sfoghi improvvisi, racconti di traumi, rivelazioni e interpretazioni di sogni, disturbi psicosomatici, risvolti tragicomici (in alcuni punti perfino divertenti), malattie vere con conseguenti ricoveri ospedalieri: Camon racconta tutto da par suo; con scrittura ritmica, incalzante, che a tratti sorprende e colpisce allo stomaco. Al centro di tutto c’è la crisi della società e dell’uomo, la dissoluzione della famiglia, la scomparsa delle Chiese-madri e dei Partiti-padri (dunque la perdita di punti di riferimento). E la sconfitta del maschio: “L’orgoglio di essere maschio si è moltiplicato in ogni minuto di ogni giorno di ogni anno, ma il risultato finale di questa operazione non indica che una minima parte della realtà. Perché questo fiume di orgoglio lo aveva già accumulato mio padre, e prima di lui mio nonno, e prima di loro tutti i maschi della nostra famiglia, del nostro paese, del mondo, e tutti questi fiumi di orgoglio erano sfociati in me, riempiendomi come un mare, prima ancora che io nascessi.” (pag. 90)
Un accumularsi di maschio orgoglio che è facile riscontrare in frasi come questa: “Non piangere, sei un uomo”. I fiumi di orgoglio riempiono, i fiumi di orgoglio travolgono. Oggi più di ieri. Perché questi fiumi – forse – corrono su letti sempre più ristretti. E straripano. E allora, la malattia. Ma attenzione: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.
Sulla psicanalisi si è detto di tutto; ma a quel tutto aggiunge qualcosa in più la scrittura di questo romanzo sincero e coraggioso. Una scrittura che fluisce rapida, che scuote, che induce a riflettere sugli effetti dei mutamenti della società e sulla fragilità dell’equilibrio umano.
Di seguito potrete leggere la nota dell’autore alla nuova edizione (ringrazio Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla).
Mi piacerebbe discutere con voi sulle tematiche affrontate da questo libro.
Pongo alcune domande con l’intento di favorire il dibattito:
- che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?
A voi, come sempre, la parola.
Massimo Maugeri
(continua…)
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