max-maugeri-twitter-fb

CLICCA ogni giorno su... letteratitudinenews ... per gli aggiornamenti

Più di 50.000 persone seguono

letteratitudine-fb (Seguici anche tu!)

Avvertenza

La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui. Commenti fuori argomento, o considerati offensivi o irrispettosi nei confronti di persone e opinioni potrebbero essere tagliati, modificati o rimossi. Nell’eventualità siete pregati di non prendervela. Si invitano i frequentatori del blog a prendere visione della "nota legale" indicata nella colonna di destra del sito, sotto "Categorie", alla voce "Nota legale, responsabilità, netiquette".

dibattito-sul-romanzo-storico

Immagine 30 Storia

letteratura-e-fumetti

 

marzo: 2009
L M M G V S D
« feb   apr »
 1
2345678
9101112131415
16171819202122
23242526272829
3031  
letteratitudine-fb
letteratitudine-su-rai-letteratura
venerdì, 27 marzo 2009

LA MALATTIA CHIAMATA UOMO di Ferdinando Camon

Sulla psicanalisi si è detto di tutto, si è scritto di tutto. Molti testi di narrativa, dal Novecento a oggi (cito “La coscienza di Zeno” per tutti) sono intrisi o fanno riferimento alla psicanalisi. I saggi non si contano; così come i manuali. Eppure “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon, romanzo appena ri-edito da Garzanti (euro 14,50, pagg. 186) è un testo che si distingue dagli altri. E non solo perché è un romanzo. Lo intuiamo già da questa frase riportata in copertina: “Viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne”. E di questo si tratta: la descrizione di un lungo e difficile viaggio durato ben sette anni di terapia. Alla fine del testo leggiamo questa avvertenza dell’autore: “Questo non è un diario o una cronaca, con personaggi della realtà, ma un romanzo: in qualche caso la realtà può avermi offerto un pretesto, ma niente più che un pretesto”. Al di là del fatto che la realtà sia stata rappresentata più o meno fedelmente, in questo libro c’è Camon: c’è l’esperienza dell’uomo esposta con il talento dello scrittore; c’è una rivelazione che forse costituisce la tappa finale di quel viaggio (ammesso che quel tipo di viaggio preveda l’esistenza di un punto di arrivo). Carlo Sgorlon sostiene (la frase è riportata in quarta di copertina): “Camon sembra essere entrato in quel gusto autolesionistico di sciorinare in pubblico le proprie disavventure che è talvolta tipico di alcuni scrittori ebrei, per esempio Philip Roth o Saul Bellow”. Non sono molto d’accordo. Non credo si tratti di gusto autolesionistico, ma di insopprimibile esigenza di raccontare (e raccontarsi) per uscire da sé. E nel percorso narrativo che porta a questa uscita da sé, Camon elabora (e offre al lettore) un testo unico: la storia di un’analisi raccontata dal suo interno; il rapporto tra medico e paziente visto con gli occhi di quest’ultimo. Una storia lunga e difficile, dicevo… che comincia così: “Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho quest’impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta” (pag. 9). Uno sconosciuto che diventa più indispensabile di una madre, ma che rimane estraneo fino alla fine del viaggio. “E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta – così piccolo, così magro, così vecchio – io non lo conosco.” (pag. 174)
Eppure questo sconosciuto (che rimane tale) diventa un punto di riferimento imprescindibile. “Incontrarlo diventava la cosa più importante della giornata, della settimana, persino (ora mi è difficile riconoscerlo) della vita.” (pag. 13). E la necessità di incontrarlo non scema (tranne che alla fine del percorso) di fronte alla consapevolezza dello stravolgimento interiore a cui il paziente va incontro: “L’analisi sta all’uomo come una guerra civile sta allo Stato” (pag. 153).
Silenzi prolungati, sfoghi improvvisi, racconti di traumi, rivelazioni e interpretazioni di sogni, disturbi psicosomatici, risvolti tragicomici (in alcuni punti perfino divertenti), malattie vere con conseguenti ricoveri ospedalieri: Camon racconta tutto da par suo; con scrittura ritmica, incalzante, che a tratti sorprende e colpisce allo stomaco. Al centro di tutto c’è la crisi della società e dell’uomo, la dissoluzione della famiglia, la scomparsa delle Chiese-madri e dei Partiti-padri (dunque la perdita di punti di riferimento). E la sconfitta del maschio: “L’orgoglio di essere maschio si è moltiplicato in ogni minuto di ogni giorno di ogni anno, ma il risultato finale di questa operazione non indica che una minima parte della realtà. Perché questo fiume di orgoglio lo aveva già accumulato mio padre, e prima di lui mio nonno, e prima di loro tutti i maschi della nostra famiglia, del nostro paese, del mondo, e tutti questi fiumi di orgoglio erano sfociati in me, riempiendomi come un mare, prima ancora che io nascessi.” (pag. 90)
Un accumularsi di maschio orgoglio che è facile riscontrare in frasi come questa: “Non piangere, sei un uomo”. I fiumi di orgoglio riempiono, i fiumi di orgoglio travolgono. Oggi più di ieri. Perché questi fiumi – forse – corrono su letti sempre più ristretti. E straripano. E allora, la malattia. Ma attenzione: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.
Sulla psicanalisi si è detto di tutto; ma a quel tutto aggiunge qualcosa in più la scrittura di questo romanzo sincero e coraggioso. Una scrittura che fluisce rapida, che scuote, che induce a riflettere sugli effetti dei mutamenti della società e sulla fragilità dell’equilibrio umano.

Di seguito potrete leggere la nota dell’autore alla nuova edizione (ringrazio Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla).

Mi piacerebbe discutere con voi sulle tematiche affrontate da questo libro.
Pongo alcune domande con l’intento di favorire il dibattito:
- che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?

A voi, come sempre, la parola.

Massimo Maugeri

—-

LA MALATTIA CHIAMATA UOMO (di Ferdinando Camon)

Nota dell’autore alla nuova edizione

camon-a-padova-2007.jpgQuando scrivevo questo libro, lo sentivo come pieno di sofferenza, a tratti d’angoscia, perciò sono rimasto sbalordito quando poi, appena è uscito, ho visto che i lettori e i critici lo trovavano divertente o perfino comico. Specialmente i lettori e i critici maschi. Le donne hanno avuto una reazione che ci ho messo un anno a capire: le giornaliste non si sono limitate a farci un articolo, ma han voluto una conversazione con l’autore: e così son venute a casa mia una sinologa, critica della «Stampa», una scrittrice del «Corriere della Sera», una romanziera francese redattrice di «Libération», una giornalista
della Radio svizzera… Io le ricevevo con gioia, ero contento che s’interessassero al mio libro, ma un po’ alla volta mi sono accorto che il loro interesse non era per il libro, era per l’uomo: godevano nell’aver tra le mani un uomo in analisi, e venendo a parlargli desideravano costringerlo a una seduta in più, farsi raccontare un altro capitolo, guidare o comunque partecipare all’analisi di un maschio, e in questo modo dominarlo, tenerlo in pugno. Io nel libro lo dico di un uomo per una donna: amare una donna, far sesso con lei, non è il modo più completo di averla in proprio dominio; e nemmeno confessarla, esaminarne i peccati e le colpe; no, il modo più completo ed entusiasmante di conquistarla e possederla è entrare negli spazi di lei che lei non conosce, farsi consegnare i sogni e le fantasie, scoprirne le fobie che lei patisce ma ignora.
Bene, queste donne che appena letta la Malattia venivano a cercarmi, cercavano un nuovo recesso del mio inconscio da indagare, da scoprire, un punto vulnerabile, un sogno dimenticato, una reazione incauta… Volevano una loro vittoria, diretta e personale, su un maschio in crisi. Per ottenere questo, eran disposte a pagare il prezzo che valeva, e cioè a scambiare sogno con sogno, confessione con confessione, seduta con seduta, e perciò mi raccontavano spezzoni della loro analisi, finita o ancora in corso. Alcune di queste loro confessioni sono poi confluite nella Donna dei fili. Ho imparato molto da quelle donne. Più di quanto ho loro insegnato.
Con questo libro, per la prima volta i contatti si facevano personali anche con direttori editoriali e traduttori con i quali fin’allora dialogavo per lettera. Questo è un libro che, fra tutti i miei, alla Gallimard, Hector Bianciotti ha amato di più. Da New York è venuto a trovarmi il traduttore John Shepley, s’è piazzato in un albergo qui vicino e c’è rimasto per alcuni giorni. «Per parlarmi», diceva lui. Credo che la ragione fosse un’altra: per vedermi. Da Buenos Aires è venuto Antonio Aliberti. Questo non lo avevo messo nel conto: che fosse un libro che fa venir voglia di vedere in faccia l’autore, sedersi di fronte a lui, vis-à-vis, entrargli in confidenza.
L’autore, al contrario, non ha voglia di farsi vedere dai lettori, il suo istinto è nascondersi.
Il libro è stato portato in teatro a Parigi, ed è stato recitato tutte le sere per quattro anni all’Aquarium. Io ero a Parigi la sera della prima. Ma non mi sono presentato al teatro.
In una pubblica piazza proiettavano, in prima mondiale, Ran di Kurosawa. In fretta e furia mi son procurato un accredito e mi son seduto tra la folla. Al teatro mi son recato una settimana dopo, l’attore che mi impersonava sulla scena mi ha riconosciuto e alla fine della recita mi ha indicato al pubblico, ma io non mi sono alzato in piedi.
Devo dire che le poche volte che sono andato a incontri con i lettori mi sono pentito. Le osservazioni e i dialoghi eran incauti, indelicati, dolorosi. Un gruppo di lettori aveva organizzato un piccolo festeggiamento con cena, mi presento, siamo nell’atrio della sala in attesa, una signora mi s’avvicina e mi fa: «È lei che ha scritto il libro?», «Sì, signora », «Leggendo, la immaginavo diverso», «E come m’immaginava?», la signora mi squadra dall’alto al basso, dal basso all’alto, e conclude, sprezzante: «Più ascetico».
Mi considero fortunato a non aver mai incontrato di persona, almeno finora, qualcuno dei lettori-pazienti che in questo quarto di secolo sono andati in analisi dall’analista di cui parlo nel libro. È stato lui stesso a raccontarmi che hanno tutti qualcosa da ridire: «Dov’è sul muro la macchia a forma di aereo che descrive Camon?», «Ma il lettino è sempre stato così vicino al muro? e quando venne il terremoto di cui parla Camon, sbatteva sul muro?». Son passati tanti anni, ma è come se andassi ancora in analisi insieme con loro. E neanche questo l’avevo previsto.
Quella che racconto nel libro è un’analisi in cui è uomo (maschio) sia l’analizzato che l’analista. Poiché l’analisi è onnisessuale, in questa onnisessualità fra due uomini una mente profana (beata lei) può sentire una vena di omosessualità: in fondo, son due uomini che parlano di sesso, in completa intimità. C’è stato uno scrittore omosessuale che è venuto a trovarmi, dopo di che mi ha mandato per lettera una scheda di valutazione del mio aspetto fisico: mani «raffinate», sopracciglia «stupende» (scusate, lo diceva lui; ma perché le donne non mi hanno mai fatto complimenti del genere?), sguardo «morbido»; «peccato le spalle…». Infatti, lo riconosco, sono un po’ curvo.
Non ho mai ricevuto esami anatomici dai lettori di nessun altro mio libro, ma della Malattia sì. Qualcosa deve significare.
La psicanalisi dà l’idea non di una relazione ma di una fusione psiche-soma. Valutazioni di questo tipo credevo che non mi facessero né caldo né freddo. Però, passano gli anni, e m’è venuto un tic: ogni mattina, quando mi rado, guardo le sopracciglia e ripeto dentro di me «stupende », guardo le mani e dico «raffinate», poi mi giro per vedere nello specchio le spalle e mi lamento: sì, sono curve, sembro Leopardi. È dunque un libro che mi ha inguaiato i rapporti con i lettori. E con me stesso.
Da Mosca il mio traduttore Mickail Andreev, professore all’università, mi mandò una lettera sconsolata: «Non mi la sciano tradurre questo libro, dicono di non poter ammettere che ci sia un’influenza che partendo dalla psiche si scarica sul corpo». Non so se la seduta sia un reato, come sosteneva il presidente degli psicanalisti italiani Cesare Musatti (è un aneddoto che cito spesso, a costo di ripetermi: «Se i carabinieri sentissero come parlano, e di cosa parlano, analizzato-analista, gli metterebbero le manette e li porterebbero in prigione di corsa»), ma certo è un tabù. E ogni capitolo del libro rompe questo tabù. E qui, probabilmente, c’è una violenza, una hybris. È una colpa, e chi la commette deve espiarla. Di fronte all’uomo in crisi, al maschio in analisi, la critica italiana dava spiegazioni storiche o economiche (l’Occidente è in decadenza, la donna guadagna quanto il marito, nei divorzi la moglie si porta via tutto, e soprattutto i figli, eccetera): noi avevamo una critica marxista-idealista, altrove usavano da tempo quelle che i francesi chiamano le «nuove scienze umane». E queste, nella comprensione di un testo letterario, rendevano di più. Perciò è stata profondamente diversa la lettura che di questo libro han fatto i giornali francesi, spagnoli, argentini rispetto a quegli italiani. Fuori d’Italia mi son sentito capito meglio. Qualcuno, all’estero, aveva affacciato l’ipotesi che il culmine della vittoria della donna sull’uomo (del femminile sul maschile) si fosse avuto quando c’era stato un papa che era durato solo 33 giorni, ma in quei 33 giorni aveva fatto in tempo ad annunciare al mondo che «Dio è mamma», cioè femmina. Fosse durato altri 15 giorni, avrebbe cambiato le parole con cui i cristiani sparsi sulla Terra si richiamano alla propria origine: «Madre nostra, che sei nei cieli». Era la de-maschilizzazione del mondo e della storia. Correva l’anno 1978, il mese era settembre, in analisi ero sprofondato nel tunnel dei sogni, ci volevano ancora tre autunni perché uscissi a riveder le stelle, intanto prendevo appunti, e quegli appunti erano il primo nucleo della Malattia chiamata uomo.
Ferdinando Camon
Luglio 2008

———–

AGGIORNAMENTO DEL 31 marzo 2009

Aggiorno il post con il bellissimo intervento che ci ha fatto pervenire Ferdinando Camon
(Massimo Maugeri)

—–

Ferdinando Camon a Massimo Maugeri
31 marzo 2009, ore 17,14

Caro Maugeri e cari colloquianti di “Letteratitudine”, leggo nella mattinata del 31 marzo il dibattito che si sta svolgendo sul mio libro “La malattia chiamata uomo”, e poiché qualcuno mi chiama in causa, ritengo un dovere morale rispondere. Non è una buona cosa che un autore risponda a domande su un suo libro, perché il libro dovrebbe già contenere le risposte: se le risposte le dà l’autore, vuol dire che il libro è incompleto o reticente. Ma il fatto è che si tratta di un romanzo-verità, un racconto-diario, e la verità e il diario riguardano una delle esperienze fondanti della vita, la psicanalisi, e perciò basta che uno viva per sentirsi coinvolto e reagire, concordando o dissentendo. Ho detto psicanalisi-esperienza. Il che comporta che chi ne ha fatto l’esperienza sa che cos’è, mentre chi ha soltanto letto dei libri o discusso con amici (o psicanalisti o preti o intellettuali vari) ne ha una intuizione esterna, ma non una conoscenza. La mia analisi è cominciata con Cesare Musatti, presidente degli psicanalisti italiani. Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della Spi, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre (e sfruttare) il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. E’ il protagonista del libro. Musatti era vecchio, e come tutti i vecchi parlava troppo. Mi raccontava di un altro scrittore che era stato in analisi da lui, un grande scrittore, che io sentivo come un fratello maggiore, Ottiero Ottieri: Ottieri era caduto in quella che si chiama “analisi interminabile”, dopo l’analisi con Musatti entrò in un’analisi junghiana, e dopo in un’altra ancora, e insomma non ne usciva più. Io amavo i suoi romanzi. Avevo raccolto in un libro le mie conversazioni con gli scrittori italiani che frequentavo, Moravia Pratolini Bassani Cassola Pasolini Volponi Ottieri Roversi Calvino, Musatti lo sapeva, e non doveva parlarmi in quel modo di due di questi autori, che per me erano due “figure interiori” dominanti. Ottieri beveva. La moglie gli nascondeva gli alcolici. Ma lui trovava il rimedio, beveva i profumi della moglie, che contengono alcol. Pasolini controllò con sofferenza le prime 6-7-8 sedute, non voleva che saltasse fuori la sua omosessualità. A un certo punto lo disse: “Parlerò di tutto, tranne che della mia omosessualità, perché la considero natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, perché è cultura”. Pasolini entrò in una crisi d’angoscia, saltò una-due-tre sedute, e alla fine non si fece più vedere. La mia opinione è che, se avesse continuato l’analisi, sarebbe ancora vivo, e avrebbe l’età di Zanzotto. Ma non sono convinto che Musatti abbia fatto bene a dire quelle parole. Lui non doveva spiegare nulla. Doveva soltanto analizzare perché Pasolini credesse che l’omosessualità fosse natura (convinzione, peraltro, che il senno del poi predilige). Anche per questi sconcertanti errori non mi fu traumatico passare da Musatti a Fara.
Quella era l’”epoca eroica” della psicanalisi, la psicanalisi freudiana si svolgeva così come io la racconto. Avevo amici psichiatri-psicanalisti che andavano in analisi a Parigi una volta al mese, da Salomon Resnik. Resnik, argentino trapiantato a Parigi, è l’autore delle voci sulla psicanalisi per l’Enciclopedia Einaudi. Questi miei amici stavano a Parigi un week-end al mese, e in quei giorni andavano in analisi ogni mattina e ogni pomeriggio. Poi, separazione totale per un mese. Assurdo. Per me, l’analisi è una “consegna” della vita, man mano che viene vissuta. Tu, all’analista, dai tutto quello che sei, giorno e notte, quello che sai e quello che non sai, e i sogni li consegni alla cieca, ignorando quel che contengono. In quello che non sai, e nei sogni, può esserci anche disprezzo per l’analista, e oltraggio, e protesta. Non ha importanza, il vostro rapporto non cambia. Il vostro rapporto è il rivivimento di altri rapporti, analizzando l’odio di questo rapporto tu capisci l’odio di altri rapporti, e ne vieni fuori. Finché non ne vieni fuori, lo patisci. E’ per questo che l’analisi è un cibo: un cibo lo devi mangiare, non saprai mai cos’è finché leggi menù. Così è l’analisi. Finché leggi libri, non ne fai esperienza.
L’analisi che racconto nella “Malattia” è la forma classica dell’analisi freudiana. Ci sono altre analisi, certo. Alcune selvagge. Un’analisi selvaggia la racconto nel romanzo “Il canto delle balene”, lo dico perché vedo che qualcuno di voi l’ha letto: l’analista del “Canto delle balene” è (scusate) un pazzo, che crede di guarire contagiando con la propria pazzia. Mi sono divertito scrivendo “Il canto delle balene”, ho sofferto oltre ogni dire scrivendo la “Malattia”.
Oggi non la scriverei più così, ma l’analisi nella sua forma classica resta quella. Allora c’erano ruoli inderogabili: padre, tu vieni dopo la famiglia; marito, tu vieni dopo tua moglie; figlio, ama il padre e la madre; omosessuale, tu sei un assassino. I “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” erano sette, il primo era l’omicidio volontario, il secondo il “peccato impuro contro natura”, cioè l’omosessualità. Capisco la disperazione, allora, di Pasolini, e oggi di Vattimo. Ognuno aveva un ruolo, sgarravi dal tuo ruolo e ti sentivi morire. Imperava il senso di colpa. L’analisi che io racconto è il processo a cui viene sottoposta una morale piena di valori e anti-valori terrificanti. Adesso il campo della morale è vuoto, il senso di colpa è dissolto.
Per tutto quello che ho detto, uno psicanalista ottiene più per quello che è che per quello che sa. Non contano le sue risposte, conta il modo con cui ti conduce a trovare le risposte. Non è vero che quando non risponde c’è il silenzio: siete in due, tutt’e due vigili all’estremo, quindi silenzio come assenza non c’è mai. Il silenzio come assenza è l’isolamento. Il silenzio come presenza vigile è la solitudine. E’ ben diverso.
Capisco chi dice oggi che quattro ore alla settimana sono troppe: oggi forse non sono neanche necessarie. Forse oggi non è necessaria nemmeno l’analisi col lettino, e infatti vedo che qualcuno ironizza sul lettino. Il lettino e il non-vedersi causano regressione. Il punto a cui arrivi con la regressione è il punto da cui parti con la ricostruzione. Vedo che qualcuno parla di “ricostruzione della persona”. E’ giusto, è l’operazione da fare. La persona fu costruita con la lingua, e con la lingua va ricostruita. Non sono sicuro che si possa porre un “essere” prima che si possa porre il “parlare”. Heidegger dice che il linguaggio “è la casa dell’essere”. Vito Mancuso dice che “l’essere divino è persona e ha un linguaggio”. Su quel che c’era in principio sta scritto: en archè en o lògos, in principio erat Verbum. Credo (ma non è il mio campo) che la lingua fondi la persona, e che il bambino che sente come prima parola “mamma” venga fondato diversamente da quello che sente “Mutter”. Poi, crescendo, i due bambini si differenziano sempre di più: il ragazzo che sente “attenzione” sta attento, il ragazzo che sente “Achtung” trema. All’interno di una lingua, ogni parlante è diverso dagli altri, e così per ogni uomo si svolge un’analisi diversa: se non fosse così, potrebbero esistere dei dizionari dei sogni, in cui dato un sogno con i suoi simboli si deducono le oggettive valenze. Come se il senso di un sogno fosse in chi lo interpreta. Invece il senso di un sogno sta dentro il sognatore, e quando vien fuori il senso se ne meravigliano sia l’analista sia chi va in analisi. Il terreno dell’analisi è il terreno dei tabù. Un’analisi si muove sempre nel proibito. E’ ingenuo il paragone (che spesso si fa) tra analista e confessore: un’analisi comincia dove la confessione finisce, la confessione a un certo punto si deve fermare (sta scritto nelle guide del confessore; se non si ferma, diventa morbosa), ma l’analisi è da lì che parte. Certo, come dice qui più d’uno (ho imparato molto da queste e-mail; grazie a tutti, da Zauberei agli altri, e grazie anche a Giampiero, che mi ringrazia), i tempi cambiano, cambia la famiglia, cambiano l’uomo e la donna, e dunque cambia anche l’inconscio. Perciò cambia la caccia all’inconscio. Tuttavia l’inconscio fu ipotizzato e cercato e rintracciato e descritto con la tecnica che io descrivo. Quella tecnica sta alla psicanalisi come il latino sta alle Scritture. Per capire le Scritture, bisogna conoscere la lingua in cui sono scritte.
Ferdinando Camon


Tags: , , , ,

Scritto venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:40 nella categoria IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

116 commenti a “LA MALATTIA CHIAMATA UOMO di Ferdinando Camon”

Questo è un post sulla psicanalisi e su questo bellissimo libro di Camon.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:43 da Massimo Maugeri


È un post “delicato”… che parla di argomenti “delicati”.
Vi chiedo, dunque, di essere altrettanto “delicati” nei commenti.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:43 da Massimo Maugeri


L’argomento è molto affascinante e si presta, comunque, e a mio modo di vedere, a un interessante dibattito.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:45 da Massimo Maugeri


Ne approfitto, intanto, per ringraziare subito Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso la possibilità di pubblicare la nota dell’autore alla nuova edizione.
Grazie mille. Davvero.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:46 da Massimo Maugeri


Ripropongo le domande del post nei commenti a seguire…

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:47 da Massimo Maugeri


Che idea avete della “psicanalisi”?
Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:48 da Massimo Maugeri


secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:48 da Massimo Maugeri


- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:48 da Massimo Maugeri


Le Chiese-madri e i Partiti-padri sono davvero scomparsi?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:49 da Massimo Maugeri


siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:49 da Massimo Maugeri


Da dove deriverebbe questa crisi?
Quale generazioni di maschi ha colpito di più?
E per quale motivo?

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:50 da Massimo Maugeri


Quante domande, eh…:-)
Vediamo se c’è qualche benemerito che prova a rispondere a tutte.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:51 da Massimo Maugeri


Buonanotte e buon week end a tutti.

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:51 da Massimo Maugeri


E’ un post delicatissimo, Massi. Ma denso e vero. Bravissimo.
E bravissimo anche Camon.
Nell’uomo che analizza e si fa analizzare io vedo lo scrittore. La parola che viene fuori . E che da fuori guarda.
Si guarisce così. Sapendosi guardare.
Notte…Domani ne parleremo ancora…

Postato venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:53 da simona lo iacono


Rispondere a tutte le domande mi è impossibile, in una sola volta. Della
psicanalisi penso che forse è un frutto che cresce solo in Occidente dove lo stile di vita crea problemi psicologici, talvolta addirittura terremoti. La psicanalisi vuole essere una terapia per questo “male oscuro” chiamato nevrosi. Il “pro” è che guida il percorso all’ interno del nostro io per scoprirne i lati oscuri, per esorcizzare i fantasmi che vi si annidano.
I “contro ” credo siano più dei “pro”. !) si diventa dipendenti dello psicanalista. 2) il rapporto psicanalizzato/psicanalista è un rapporto squilibrato. Il paziente si denuda, lo psicanalista no. 3) Credo sia molto difficile trovare uno psicanalista professionalmente corretto, dotato di una dose di sensibilità tale da tenere in equilibrio il rapporto
paziente/psicanalista. Per anni ho frequentato il Corso di studi cristiani alla Cittadella di Assisi. Un anno c’ era uno psicoterapeuta latino americano. Chi voleva poteva iscriversi alla terapia di gruppo guidata da lui. Ci andai e fu un’ esperienza bellissima. Ricardo Petter ( questo il suo nome) guidava le 15 persone che formavano il gruppo di uomini e donne in giochi all’ apparenza sciocchi ma che avevano una finalità precisa: fare acquisire la consapevolezza che inseguire il successo, la perfezione (valori occidentali. lo dico io. non lo diceva lui ) genera ansia, angoscia.
Ai giochi ( per es. fingere di essere un cane) seguivano momenti di silenzio, riflessioni sul tema drammatico della morte. ” Che cosa faresti se sapessi di avere soltanto una settimana di vita?” Poi, in una penombra che sfiorava il buio, ci scambiavamo strette di mano, abbracci, carezze.
Ricardo non saliva mai in cattedra. Lo sentivamo amico e guida in un percorso di incontro con gli altri, di ricerca di armonia, di accettazione dei nostri limiti. Alla fine del corso, per inciso gratuito, mi sentii rigenerata. Tornai a casa con il libro di Ricardo: ” Liberaci dalla perfezione”. Se avvertite i primi segnali di una nevrosi comprate il libro. Vi sarà utile.
Ciao a tutti. Franca

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 01:10 da Franca Maria Bagnoli


Ho avuto il privilegio di ascoltare le lezioni di Cesare Musatti, allora mente giovanissima in un corpo anzianissimo e mi ha conquistato nonostante le mie ritrosie e diffidenze (loro dicono rimozioni). Mi ricordo che, a un certo punto del disvelamento dell’inconscio e dello studio delle simbologie oniriche, non riuscivo più a dormire: una parte di me, nel sonno, analizzava le visioni che proiettava l’altra parte e le interpretava, anche ironicamente, e mi svegliavo. La faccio breve (perché, come dice Platone, la verità finisce per nascondersi tra le righe e bisogna poi cercarla col lanternino): secondo me è utilissimo prendere coscienza di certe cose ma necessario, una volta apprese, tornare a lasciarle dove le ha poste madre natura che le ha (ci ha) architettate. Il punto di equilibrio, non facile, tra sapere e non sapere. Ma, indubbiamente, occorre saper guardare, come ha scritto Simona brevemente e efficacemente.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 07:39 da gianmario


Quanto ho scritto prima rispondeva alla introspezione invasiva, molto ben scritta, di Camon. Come romanzo-sguardo d’insieme sull’argomento suggerisco il libro di Yalom: La cura Schopenhauer.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 07:51 da gianmario


Non è che sia in grado di parlare della psicanalisi, nel senso che non ho fatto studi al riguardo. Però, nella continua ricerca dentro di me riesco a volte a trovare risposte ai miei comportamenti e così, di riflesso, cerco di comprendere cosa vi sia dietro a quello di altri. Evidentemente è una pratica da autodidatta, ma comunque non è raro il caso che poi le mie conclusioni empiriche trovino conferma nella realtà.
Certo ci sono pro, quali il piacere di capire il perché di certe cose, ma ci sono anche dei contro, dati dal fatto che, se si esagera, si tende ad avere rapporti interpersonali nei quali l’istintiva simpatia può essere minata dai risultati di un’osservazione imprecisa e non professionale.
In generale ritengo la psicanalisi una disciplina utile, ma non determinante, perché lo studio della psiche presenta tante e troppe caratteristiche di aleatorietà che non può essere ridotto a una generalizzazione. Ogni soggetto è un caso a sé e quindi, anche se le nozioni sono utili, non riescono a essere del tutto adeguate.
Oggi, indubbiamente il rapido evolversi delle situazioni, le maggiori possibilità di contatto, le novità tecnologiche di uso comune impongono all’uomo una velocità di adattamento che per sua natura non ha e di conseguenza è più facile che ne risulti un diffuso disagio, con sensi di frustrazione, e senza dimenticare che la competitività viene propugnata al massimo livello. Quindi, nascono problemi di adattamento che possono scaturire in atteggiamenti diversi, non esclusi spesso ingiustificati sensi di colpa.
Se aggiungiamo poi la progressiva caduta dei valori guida, fra i quali la famiglia è determinante e ora è per lo più ridotta a una semplice convivenza (basti pensare che marito e moglie che lavorano ritornano a casa stanchi e con le frustrazioni proprie di un’attività che impone di correre sempre di più, con conseguente riduzione del tempo per un dialogo), si può ben comprendere come possano sorgere disturbi della psiche, anche di notevole portata.
E’ vero che nulla è immutabile, ma oggi le cadute sono frequenti, e così al disvalore della famiglia, si uniscono quelli per la religione e per i partiti politici, istituzioni che hanno perso la loro caratteristica di punti di riferimento, senza che possano essere sostituiti da altre, perché non ne esistono. L’unica cosa importante è il profitto, ma il dio denaro di per sé esige continui sacrifici umani, rendendo di fatto la vita un periodo non di gioia, ma di tormenti, di frustrazioni che incidono sul comportamento dei soggetti.
Non penso poi che il maschio sia in crisi, anzi credo che la coppia sia in crisi, proprio per quei motivi di cui ho scritto sopra.
Il maschio può sembrare in crisi, secondo me, perché animatore preponderante di una vita in comune ha perso questa sua caratteristica di guida, non avendo obiettivi e scopi validi a cui improntare il proprio comportamento.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 07:55 da Renzo Montagnoli


se lo psicanalista è un cane, non ti risolve il problema. se lo psicanalista è bravo, allora ti fa vedere chi sei. il che è anche peggio :-)
Non mi piace la psicanalisi, non mi piacciono i libri che ne parlano o a cui fanno riferimento. La penso un po’ come Sgorlon, insomma, specialmente per quanto riguarda Roth. Credo, però, che ci voglia coraggio e onestà a raccontar(si) tra le righe di un romanzo in accadimenti che hanno in qualche modo segnato l’esistenza.
Massimo ha citato Italo Svevo. A me viene in mente il Giuseppe Berto de “Il male oscuro” che lessi e apprezzai. E poi, però, dimenticai.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 09:13 da enrico.gregori


Secondo me la psicanalisi é qualcosa di affascinante, una magia moderna annidata nell’animo degli uomini. Un mago possiede la chiave di lettura ed é una parola giusta. Questo, la parola giusta nel momento giusto, é la vera bacchetta magica contemporanea. Infanti la parola che é in sè uno strumento verbale finito, si espande nell’anima infinita penetrandone i più intimi recessi ed acquistando potenza e dimensioni illimitate ed impensabili. Il vero grande nemico dell’umanità, intesa anche nel senso di disponibilità dell’animo, oltrechè di essenza ontologica, é il silenzio.
Alla presenza di atavico silenzio interiore odierno, il maschio, il cosiddetto uomo di oggi, reagisce con la crisi di se stesso e dei suoi valori; non si sta più ritrovando nei modelli che fino ad ora gli sono stati inculcati . Non é solo su questo difficile percorso, ma ha bisogno di tempo e di aiuto per potersene trarre fuori o meglio, per adattarsi ad una soluzione di vita, di compromessi, di patteggiamenti con sè e con gli altri, di cui ancora non ha sperimentato in pieno l’esito positivo.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 09:15 da pinellamusmeci


MAssimo capisci bene che non posso rispondere a tutte le domande insieme si? Solo per la prima ci metterò 3 ore.
Vorrei fare delle osservazioni – considerando che io invece mi preparo a diventare analista. junghiana, cioè psicologa analista. Quindi le mie sono delle osservazioni dall’interno – e come tutti quelli che osservano le narrazioni esterne e semplificatorie di costruzioni invece molto complesse, avverto il forte desiderio di fare delle specificazioni volendo di protestare: perchè davanti a buona parte dei commenti mi sento come un medico di ospedale costretto a guardare “ER” e constatare: marò quanti luoghi comuni, quanta poca conoscenza e quanti giudizi romanzati.
Innanzitutto, come sempre si scambia psicoanalisi con freudismo. Cioè si crede che l’archeologia sia tecnologia. Il libro di Camon è senz’altro un bellissimo libro, ricco di idee importanti – ma afferisce a una tecnica terapeutica particolare e che ultimamente è sempre meno applicata. E’ una ristampa, oggi Camon scriverebbe un altro – bellissimo – romanzo. Nel mondo intellettuale umanistico continua l’uso di Freud e di Jung come referente ermeneutico e come teoria della terapia, e si ignora in maniera quasi arrogante quanto è stato fatto in oltre 70 anni di ricerca e di riflessione. No l’analista come specchio non esiste più, no l’asimmetria non esiste più almeno come un tempo, no il paziente come singolo non esiste più: non si scriverebbe più di non sapere chi è il proprio analista a inizio libro, perchè in cura ora non è più un soggetto ma una relazionalità. Ai freudiani di prima generazione e seconda il controtransfert faceva orrore, oggi è uno strumento fondamentale: questo nella prassi vuol dire una riduzione dell’asimmetria perchè – con accurati dosaggi – l’analista, il migliore analista – usa se stesso e palesa sagacemente il proprio uso di se. Io di anni di analisi ne ho fatti nove – e per la mia scuola grosso modo altrettanti me ne aspettano – e so molte molte cose del mio ex terapeuta.
C’è anche – ma forse non tra questi commentatori, ma è un sottotesto diffuso ovunque – l’idea che l’analisi sia una cosa per i malesseri sofisticati degli intellettuali occidentali. Qualcuno scriva di depressione sopra -na robbetta da gniente ce se ammazza di depressione – qualcun altro citava Roth. C’è un segreto classismo in queste convinzioni: il classismo che unisce la complessità alla classe agiata e all’occidente, mentre quell’artri i poverelli l’operai che s’ammazzano di fatica un po’ non hanno ilo tempo per le seghe un po’ e diciamocelo! Sono anche deficenti. In questo modo un’idea retrograda dell’approccio psicoanalitico si unisce a un atteggiamento sminuente l’alterità. Invece la psicoanalsi è un arsenale di tecniche di strumenti e di semantica che ha un’incredibile vitalità e che oggi vengono ampliamente utilizzati nei centri di igene mentale con persone che provengono da contesti non esattamente radical chic, e che -oh sorpresa! – hanno molto da dire e trovano nella narrazione diadica con il proprio terapeuta un modo per ragionare sui propri significati e difficoltà e non tanto di risolverle, quanto di elaborlarle allo scopo di poterle tollerare. Avendo ben chiaro che i problemi sul tavolo non sono oh dottore mi sento un po’ giù sono depresso: ma alcolismo, tossicodipendenza disturbo borderline di personalità, reiterati tentativi di suicidio e magari rischio di omicidio nei confronti dei propri cari.
Anche l’idea della patologia mentale come parto occidentale è un’idea abbondantemente sorpassata. Si ignorano quanti interessanti frutti diano le collaborazioni tra antropologia culturale e rierca psicodinamica, si ignora il fatto che oggi esiste una disciplina con il nome di etnospichiatria, si ignora il fatto che oggi i costrutti della ricerca psicologica vengono studiati con esperimenti in applicati in utto il mondo. Uno stesso esperimento viene fatto nelle culture più diverse. Valga per tutti il caso del concetto di “attaccamento” derivato diretto della psicoanalisi delle relazioni oggettuali, e che classifica i diversi stili di attaccamento tra genitori e bambini, che si rivelano stabili negli anni, e che possono essere ottimi predittori di alcune patologie mentali. Ecco questo costrutto è stato studiato con lo stesso esperimento in tutta Europa, in diverse tribù dell’Africa, in Giappone in Israele, in Nord E Sud America. E questi sono i dati di cui dispongo con certezza. I risultati hanno delle variazioni ma la linea di massima rimane la stessa e sono assolutamente comparabili tra loro.
Ovvero la ricerca psicodinamica comincia ad avere dei costrutti transculturali.

Mi fermo qui in caso torno dopo.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 10:19 da Zauberei


Non ho letto il libro di Camon ma ho letto un altro libro che ho trovato molto intenso. E’ la storia di una donna che affronta con dolore una lunga estenuante terapia psicanalitica. E’ da tanto che voglio rileggerlo ma non ho mai trovato il tempo emotivo di riaffrontare la questione.
Il libro è “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 10:22 da mavie parisi


Ho letto questo libro di Camon. E’ bellissimo,credetemi, scritto davvero bene . Mi sono molto immedesimato nel protagonista del romanzo e ho visto molto di me stesso. Non so se Camon leggerà questo messaggio, ma volevo ringraziarlo moltissimo per questa storia.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 10:26 da Giampiero


Trovo vera l’idea che la malattia si propaghi endemicamete attraverso la parola, la relazione.
E che la malattia dell’uomo derivi dalla malattia della parola.
E questo perchè la parola è – per sua natura – all’origine della creazione. E perchè di questa origine si fa portavoce e testimone.
Il suo “senso”, il significato al quale è preordinata, è raccogliere il dolore umano attraverso la bellezza.
Trasformare.
La trasformazione è l’indispensabile presupposto della relazione e – quindi – della comunicazione. Una relazione che non trasforma continuamente si ammala. Si incurva in sè.
Perde quell’ancestrale significato per cui è nata.
Ecco perchè l’attaccamento del protagonista del romanzo a chi – la parola – la offre risanata.
In una seduta psichiatrica l’atto supremo è la relazione, la parola che esprime dolore.
E che attraverso questa espressione si riappropria del suo originario significato.
Bravissimo, Camon.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 10:45 da simona lo iacono


Massimo! Rispondo brevemente a ogni domanda
.) La psicanalisi è necessaria, perché viviamo in un mondo, troppo ricco di verità personali, che nella nostra libera manifestazione di cittadini democratici possiamo sviluppare e sostenere, ancora! Esse sono le più svariate possibili, da aver perso il punto principale di riferimento e da seguire.
Da qui, le difficoltà dell’uomo ad adattarsi alle metamorfosi sociali, di una società in sobbalzo frenetico tra una libertà concessa senza senso e maturità raggiunta e le costrizioni economiche sociali di un sistema immaturo e rimasto indietro.
.) C’è stato, ma penso che nel prossimo futuro la famiglia riacquisterà la sua notevole importanza, quando gli animi esausti da troppa cecità individuale avranno bisogno di nuovo di sostenersi e vivere insieme.
.) Di certo, sì. Non sanno trasmettere sicurezza nelle menti, diventate più aperte ai principi di equità e solidarietà.
.) La crisi del maschio deriva dal fatto, che l’emancipazione della donna non ha tenuto conto che essa va fatta di pari passo con lui. Ci sono poche donne veramente emancipate e troppo che usufruiscono del momento propizio per avvantaggiarsi con i mezzi di sempre: l’incanto e seduzione con le loro ben note qualità esteriori, tanto che il maschio incomincia a ignorarle e volgere lo sguardo altrove.
.) La crisi credo che derivi dalla presunzione di poterci liberare della tradizione, troppo sobbarcata di errori e costrizioni dannose per secoli, senza sostenere il processo di maturità personale e quindi senza serietà d’intenti.
Dal polo del male e stagnazione ci siamo mossi verso l’opposto troppo rapidamente, senza capire che è un cammino lungo e spinoso del riconoscere e maturare lentamente, sostenendo sacrifici e facendo anche errori, dai quali imparare e infine trovare la via della liberazione personale.

Il tema è talmente delicato e profondo da poter riempire tanti libri.
Cari saluti
Lorenzo

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 12:59 da lorenzerrimo


Sulla cosiddetta “crisi del maschio” segnalo un libro ormai divenuto un classico: Robert Bly, “Iron John. A Book About Men” (1990). La traduzione italiana è del 1992, con questo titolo: “Per diventare uomini” (Mondadori). Il libro è interamente leggibile, in italiano, anche in rete, qui:
http://www.scribd.com/doc/9271303/Robert-Bly-Iron-John-a-Book-About-Men-677k-

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 13:27 da Subhaga Gaetano Failla


@ Simona carissima, proprio ieri sera parlavo di te ad una amica di mia figlia. Margherita si è laureata in legge ed è di Ragusa. Le raccontavo della tua onestà intellettuale, di come scrivi bene e della tua sensibile bravura professionale che ti rende unica. Come vedi anche se ultimamente le mie incursioni nel blog sono rare, il mio pensiero costante aleggia come un fantasma. Per tornare all’argomento, capisco quanto possa essere importante per molte persone avere un bravo analista che ascolti i disagi del vivere. Tuttavia penso che alla fine il paziente , abbia risolto i propri problemi da solo, visto che il medico appare come un fondale e non interviene mai. Molte volte sfogarsi con un amico sincero e leale che riesce a capire le motivazioni e a farti riflettere su una diversa angolazione del problema, mi sembra più appagante.
E’ difficile però immedesimarmi quando non si è affetti da tale impalpabile sofferenza. Infatti non mi lascio mai abbattere dalle avversità e non vivo la sensazione di sentirmi in balia degli eventi.
Quindi il mio giudizio risulterà aleatorio ed azzardato.
Colgo l’occasione per abbracciati
Tessy
@ Massimo super pensatore, sto preparando la relazione per la presentazione (alla Libreria Becarelli di Siena- Giovedi 16 Aprile 2009-0re 17,30) del volume ” Morte agli Italiani! – Il Massacro di Aigues – Mortes, 1893 – Prefazione di Gian Antonio Stella – Introduzione di Alessandro Natta – Infinito Ed. Roma, volume ripubblicato dal carissimo amico scrittore Enzo Barnabà, valguarnerese di nascita. Se qualche lettore vicino volesse intervenire, sara molto gradito.
Ho parlato a Gabriella, padrona della Libreria per richiedere all ‘Editore Azimut il nostro libro ” Letteratitudine”. sarà mia cura invogliare i miei amici a comprarlo. Resta valido l’invito per una eventuale presentazione
da concertare con te. Scusa se ho sforato il discorso non pertinente alle
domande che ci hai rivolto.
Mi assento nuovamente, sperando di poter essere più presente al tema
la prossima volta.
Un saluto affettuoso
Tessy

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 13:35 da M. Teresa Santalucia Scibona


Provo a dare qualche risposta, frutto soltanto di osservazione personale, tengo a precisarlo.
La psicanalisi ha fornito chiavi per l’ introspezione, che mai si sarebbe potuta ottenere diversamente, almeno a grandi linee. Senza farla diventare dogmatica, la psicanalisi ha fornito davvero grandi schiarite sui processi psichici e sui relativi risvolti traumatici o semplicemente esistenziali.
L’uomo di oggi ha creato da sé tutti i presupposti per complicarsi la vita, ma credo anche che sia il risultato ineludibile dell’evoluzione della specie. Che sia più difficile adattarsi dipende forse dalla complessità crescente a ritmo esponenziale delle tecnologie e dei consumi, e dall’aumento stesso della popolazione.
Questo sulla famiglia è un argomento che meriterebbe un intero post con relativa discussione.
Chissà che non sia in atto un depauperamento delle figure genitoriali e parentali in genere, a me sembra di sì, e questo forse favorisce anche la comunicazione webale, il tentativo di stabilire connessioni fraterne-amicali, dove queste figure si fanno evanescenti, inattendibili.
Le grandi religioni sono strutture fisse, cristallizzate e non al passo coi tempi.
Non credo che sia solo il maschio in crisi, ma penso che sia la maggiore consapevolezza in generale, a rendere anche le donne insicure, perché, seppure più capaci di autogestirsi devono ancora confrontarsi con gli uomini che finora le avevano considerate, grazie alla cultura maschilista protrattasi ancora ai giorni nostri, proprietà da proteggere, o prede da conquistare.
Credo che sia un momento di grandi cambiamenti, per tutti.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 17:19 da cristina bove


@Cristina: più che momento di grandi cambiamenti, secondo me sarebbe auspicabile che avvenissero i grandi cambiamenti, perchè così non si può andare avanti, in una corsa sfiancante e senza meta, come cavalli impazziti. L’uomo deve riprendere il filo della ragione, fermarsi, guardarsi intorno e soprattutto vedere dentro di sè. Non è che invochi un ritorno al passato, ma non si possono distruggere le basi su cui si è costruita una civiltà senza sapere come sostituirle, non si può vivere alla giornata senza prospettiva di futuro. L’uomo, oggi più che mai, dimostra che l’evoluzione è una teoria che si scontra con l’oggettività di un essere ancora del tutto impreparato a diventare veramente sapiens.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 17:56 da Renzo Montagnoli


La malattia chiamata uomo è un bellissimo titolo. Le cose che ho letto qui sono interessanti. Mi procurerò di certo il libro. Saluti a tutti.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 19:11 da Margherita


Su questo interessantissimo post la primissima emozione che ho provato quando ho letto le parole di Ferdinando Camon è stata la voglia di abbracciarlo teneramente, di stringerlo fra le mie braccia senza chiedergli niente o indagare sui perché di certi dolori interni.
Successivamente mi sono chiesta se Ferdinando Camon o uomini in stati d’animo simili a quelli da lui descritti, avrebbero gradito il mio gesto senza prendermi per una “missionaria” occasionale alla quale non interessano neanche un po’ le super- problematiche- psicologiche che rendono così interessanti certe personalità.
Sempre cercando di capire le esigenze del polo a me complementare e adottando la delicatezza che mi è propria, il primo punto fondamentale è capire al volo il motivo per il quale gli uomini vogliono andare sul lettino…
Conosco uomini, solitamente autentici misogini, che passano tre quarti della loro giornata a riflettere sul giusto ruolo della donna, s’impallinano se preferire la loquace intellettuale sempre pronta al dibattito competitivo che mette pepe nelle relazioni, oppure non correre rischi, rimanere sereni al fianco di morbide curve senza troppe pretese e pillole antinevralgiche. Di solito una cosa esclude l’altra, l’importante è non provare disagio, non sentirsi inferiori, il sentimento della gratificazione nelle relazioni include molte componenti.
Questo vale anche per le donne e siccome il nostro grado di maturità ci consente di poter stare fuori e dentro quel lettino, iniziamo inforcandoci gli occhiali (non me ne vogliano le vere strizzacervelli!), riconoscendo il valore dello studio clinico di chi ha distinto le cause ed i suoi effetti, escludendo ogni giudizio e pregiudizio.
La moderna psicologia definisce “siderale” la solitudine dell’uomo moderno, nonostante le parole siano tante, infinite, bla bla bla, pensate, scritte, parlate, spesso si ignora il valore del silenzio, la comprensione delle mani o di uno sguardo, in molti comunicano con gli occhi, con i capelli, con la pelle, con gli odori, le tette appuntite come fossero siluri mandano messaggi, le natiche pure, barbe morbide, il sorriso, le rughe, la tonicità, la flessibilità, il corpo si muove al di là delle parole ed è visibile nel suo lògos.
Forse il silenzio da evitare non è “il tacere”, ma lo stato di autismo interiore in cui spesso l’uomo si trova.
Quando parliamo di stress, nevrosi, ci sono anche cause esterne che hanno condotto l’uomo verso questo autismo, le sue orecchie ascoltano rumori tecno e non soltanto in discoteca (basti pensare ai linguaggi contratti), i suoi occhi vedono immagini riprodotte all’infinito e lontani dal concetto di unicità , così come la massificazione dell’informazione con i nuovi strumenti di cultura quali la televisione, il computer, i nastri di registrazione e quant’altro seriale e numerico, hanno finito per sostituirsi ai messaggi dei colombi viaggiatori, alle verticali pagine di qualità e ai canti gregoriani, non ci stupiamo, quindi, se da tutto questo “mare nostrum” viene fuori la scimmia che non-vede non-parla non-sente e, di conseguenza, non comunica in alcun modo.
Quanto siamo lontani dalla civiltà egizia dove gli occhi le orecchie la bocca e le narici erano le porte del tempio interno dell’uomo!
Ritornando al lettino, anche se non concordo con eccessivi prolungamenti terapeutici (dipende dai casi) la psicoanalisi, condotta professionalmente, è positiva quando aiuta a non naufragare, quando aiuta a cercare il giusto modo per relazionarsi con il prossimo e, a maggior ragione, con il sesso opposto, trovate le cause in quella che è stata l’educazione individuale di formazione, il successivo inserimento o “non inserimento” nella società che, per come funziona ai nostri giorni, si avvicina sempre più alle partite di rugby ed alla giungla.
L’Uomo Saggio si nutre di ben altro.
Qui mi fermo e mi tolgo gli occhiali. L’intercambiabilità dei sessi la trattiamo in un altro momento.
Baci

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 19:49 da rossella la sicula


1) Sono stato un paio di anni in analisi (junghiana), credo di averne tratto beneficio in quel momento, ma qui mi fermo riguardo a giudizi generici sui suoi pro o i suoi contro. Il discorso di Zauberei è peraltro molto approfondito, e l’argomento meriterebbe molto di più di generiche asserzioni la maggior parte basate su opinioni indirette e “per sentito dire”, come molte di quelle lette qui.
2) i mutamenti della società oggi avvengono in modo molto più rapido che un tempo. Da qui le molte dificoltà di adattamento dell’uomo moderno (risposta un po’ banalotta, ma fondamentalmente credo vera) e la nascita continua di nuovi disagi (o sempre gli stessi ma in nuove forme?)
3) sul processo di dissoluzione della famiglia non vorrei rispondere così, in due righe. Credo che comunque questo sia legato alla precedente domanda (e risposta).
4) chiese-madri e partiti -padri (ma è, o è stato, così?) direi che è evidente quanto le gerarchie ecclesiali o i vecchi partiti si siano anch’essi arroccati su posizioni vetuste e puramente difensive per propria incapacità di cogliere i mutamenti della società, perdendo progressivamente consensi e riuscendo solo ad infiammare uno zoccolo duro di militanti sempre più ottusamente integralisti. Il risultato in questo paese è che i partiti tradizionali si sono discolti o si vanno sciogliendo come neve al sole e un “non partito” raccoglie i consensi della maggioranza e ha invaso la nostra vita politica, svuotandola di contenuti seri, veramente “politici”.
Quanto alla chiesa la svolta ratzingeriana è secondo me del tutto autolesionista e non fa che allontanare sempre di più le gerarchie dalle masse. Mi sembra un ritorno ad una chiesa verticistica di stampo medioevale, operazione fondamentalmente un po’ becera. (Oddìo, sul verticismo la chiesa è nata, cresciuta e si è pasciuta per tutta la sua storia: solo che forse dopo il “Vaticano II” ci si aspettava un mutamento significativo che invece sta svanendo del tutto).
5) della crisi dell maschio si parla già da molto tempo: mi viene in mente quel film di Ferreri dove Depardieu alla fine si autoevirava. Anche questo è un discorso molto ampio e complesso, difficile da affrontare in poche righe. Ma direi che intanto va inquadrato nel discorso dei mutamenti della società, poi che per alcuni versi la ritengo salutare (una società maschiocentrica come è stata la nostra fin dai tempi di Mosè o dei Faraoni, o anche prima, non ha ragione di essere), infine che esiste anche una crisi della femmina perchè se i ruoli vacillano, tutte le parti in causa (uomini e donne) ne risentono.
Di Camon non ho letto questo libro, ma diversi anni fa lessi “Il canto delle balene”, che trattava anch’esso di psicanalisi in qualche modo, per giungere a concludere della necessità di avere anche dei segreti nella vita. Era un bel romanzo. Mi ripromettevo di leggerne altri e non l’ho fatto. Spero di riuscire a rimediare.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 20:20 da Carlo S.


@Renzo, tu hai ragione perchè, soprattutto qui da noi, si avverte la discrepanza trail progredire delle tecnologie avanzate e il pensiero non allineato al progresso materiale.
I cambiamenti ci sono comunque, oggi si possono osservare e analizzare le cose, un tempo era solo privilegio di poche menti illuminate.
Il fatto stesso che se ne possa discutere in una sede come questa, ne è la chiara dimostrazione. Che l’homo sapiens abbia ancora da percorrere la sua strada evolutiva, è innegabile.
.
@Carlo, mi fa piacere che tu abbia condiviso e approfondito i miei punti di osservazione.
buona serata a tutti

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 21:03 da cristina bove


Volevo aggiungere che il commovente intervento di Camon mi ha invogliato a leggere il libro.
Di lui ho letto soltanto “Un altare per la madre”.
Grazie a Massimo per questo post.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 21:11 da cristina bove


Sui pro e i contro Massimo. Il discorso è veramente TROPPO complesso. E onestamente io posso anche provare a rispondere, purchè capisca esattamente di cosa si parli: perchè se per psicoanalisi intendi ciò che realmente è, e cioè la tecnica applicata dagli analisti affiliati alla SPI, cioè i freudiani ortodossi – i pro e i contro sono di un tipo, se invece consideri tout court come in genere si fa comunemente tutte le terapie di orientamento psicoanalitico, ma che risentono dell’evoluzione nella ricerca negli ultimi cinquant’anni, i pro e i contro sono altri. Valga per tutti l’esempio che solo per l’ortodossia freudiana più zelante si considerano salubri e proponibili 4 sedute a settimana. Personalmente questo ritmo di sedute crea dipendenza, e anestetizza certe parti creative del se – che si ritrovano nel circuito auto generante del rapporto coll’analista. L’inconscio non rifiata. Questo non vale per tutti e c’è senz’altro un tipo di pazienti, o certi momenti di vita, in cui questo ritmo può essere auspicabile. Questo è solo un esempio.

Ma per quanto riguarda le altre domande.
2. credo che ci sia un problema per una certa generazione. La mia per esempio è già abituata al cambiamento. Il mondo in rapida evoluzione è stato un dato con cui noi siamo cresciuti. Sono nata senza computer e mi ritrovo col telefonino e internet. Non mi turba. Le generaizoni successive partecipano sempre di più a questa velocizzazione del cambiamento, e non hanno problemi di adattamento. Lo sciok e per le generazioni più anziane, e forse per i contesti culturali diversi dai nuclei urbani.
3. credo che ci sia una dialettica storica tra le forze della ideologizzazione e della sacralizzazione e le forze della laicizzazione e della desacralizzazione, mi viene anche il sospetto che questa dialettica storica abbia aderenze con le oscillazioni economiche. Meno quatrini e più proiezioni salvifiche – siano esse religiose siano esse politiche. Più quatrini e più individualismo e materialismo. Da tutto questo il discorso la vera riflessione politica e il vero sentimento spirituale sono naturalmente esclusi, e sono – duole dirlo – spesso un discorso che riguarda ristrette minoranze. In termini di grandi numeri siamo in clima di risacca. Per il momento credere è una parola in disarmo. Non so quantodurerà e non so quali forme prenderà il pendolo alla prossima oscillazione.
– 4. La formula “maschio in crisi” mi da l’orticaria – Massimissimo te prego la pole dire Bruno Vespa ma te no. Mi da l’orticaria per due ragioni. La prima è che non vorrei si parlasse di crisi ma di cambiamento, e di difficoltà del cambiamento, la seconda è che questa difficoltà del cambiamento riguarda le donne e gli uomini nella stessa misura. La difficoltà di rinegoziare per entrambi la divisione del lavoro sia produttivo che diciamo relazionale. Difficoltà che in questo paese le istituzioni – con questo governo più che in tutti i precedenti – persino la Democrazia Cristiana era mejo – aquiscono grandemente.
Paradossalmente io sono piuttosto ottimista – perchè ve lo devo dire, almeno nel mio contesto culturale, gli uomini intorno alla mia età stanno trovando una collocazione un posto e un modo di essere. sanno essere relazionali, sanno stare e anzi vogliono stare con donne con cui scambiare anche significati razionali e intellettuali. Certi escono insieme con i passeggini e i figli piccoli dentro. certi sanno dire alle loro mogli – non mollare e lavora a questa cosa a cui tieni, ti aiuto io. Non è così ovunque – parliamo di trentenni, di romani, e anche di trentenni che fanno certe professioni e non altre – ma mi dimostrano che c’è una soluzione in vista.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 22:35 da Zauberei


Troppe domande Massimo, e tutte micidiali. Mi limito alla prima. Quando si considera l’opera di Freud, non si dovrebbe mai dimenticare il tipo di paziente e di nevrosi su cui la teoria e la terapia psicanalitica si sono formate: cioè l’umo dell’età vittoriana, caratterizzato da una “militarizzazione” precoce degli istinti e da una dissociazione ciulturale tra efficienza razionale e vissuto sentimentale. Se consideriamo il tipo umano e nevrotico prevalente nella società consumistica del secondo dopoguerra, ci accorgiamo che è la personalità narcisistica a determinare l’orizzonte principale del disagio e quindi la richiesta terapeutica. Freud, che pure a un certo punto aveva intuito l’importanza della libido narcisistica, non era “sociologicamente” in condizione di realizzare quello che in seguito ha fatto Heinz Kohut, cioè una riforma della terapia psicanalitica che ne “sprovincializzasse” il contesto di nascita. In altri termini: la psicanalisi funziona se non si solidifica in una rappresentazione filosofica della psiche, e resta soprattutto una terapia capace di rinnovarsi a fronte della richiesta terapeutica concreta.

Postato sabato, 28 marzo 2009 alle 23:38 da valter binaghi


Meravigliosa la verità che c’è dietro le parole di Camon, quella verità che viene fuori da tutti i suoi scritti: quella di esser uomo.
Detto questo, caro Massimo, intervengo esponendo la mia opinione sulla psicoanalisi. Prendendo come metro di misura la verità, io credo che la psicanalisi sia un tentativo, a volte, mal riuscito di far intravedere una parte di essa: è una pseudo verità o, per dirla in modo più razionale, è una ricostruzione dell’io. Ma di quale io? Quello che si è veramente o quello che lo psicanalista ha colto durante le sedute (durate anche anni) col paziente? Quanta verità c’è alla fine che viene fuori? Si tratta di un problema di interpretazioni, la psicanalisi non è del tutto scientifica poiché la psiche e la mente umana appartengono alle cose imperscrutabili del mondo sublunare, proprio perché una parte dell’essere umano è qualcosa di altro rispetto alla natura fisica. Ora è tardi ma continuerò nei prossimi giorni, perché si tratta di un argomento importante e per me è un grande piacere aver scoperto un’altra parte di un grande scrittore come Camon.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 00:20 da Sabina Corsaro


La postfazione firmata da Ferdinando Camon, qui offertaci, mette molta curiosità. Sarò uno dei prossimi lettori di questo libro.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 01:54 da Leon


Caro Massimo,
la psicologia e la psicanalisi mi hanno sempre affascinato. Come mi ha sempre affascinato il lavoro narrativo, saggistico e poetico del conterraneo Ferdinando Camon: uno dei più importanti ed emblematici scrittori europei contemporanei.
Prima però di rispondere, sinteticamente, alle tue numerose e complesse domande, permettimi di rilevare – da “allievo” di Angela Pellegrino – che la disciplina scientifica denominata “psicoanalisi”, sorta come metodo terapeutico per curare le nevrosi, nell’opera di Freud si generalizzi in un procedimento d’indagine dei fenomeni psichici che, disvela, nel suo cammino, un nuovo “continente” scientifico, delineandone la struttura portante e le modalità di funzionamento.
Freud ha frequentato a Vienna i corsi del filosofo Brentano ed ha assimilato gli studi del biologo e fisico tedesco Helmholtz, espressi nella sua scienza positivistica della natura.
Ebbene, da questa scienza positivistica, Freud trasse il postulato del determinismo radicale, secondo il quale qualsiasi evento non è che il risultato degli eventi che lo hanno preceduto. Così come tutta la costruzione dell’apparato psichico risente dell’influsso analogico della fisica (chiedo venia per i termini specialistici). Difatti, il funzionamento della psiche è rappresentato come un insieme di forze che si autoregolano in un sistema chiuso, il quale tende a mantenere costante il livello di tensione, scaricando ogni eccesso di energia. Eccesso che non va mai perduto, ma che si trasforma o si proietta in vari ambiti, in base al principio della minor spesa energetica possibile.
- Quali sono i pro e i contro di questa disciplina?
La psicoanalisi – come ogni disciplina – non ha regole ferree, non dà certezze assolute: non ne è in grado per il sostrato su cui si fonda. Da quando in qua una persona è uguale ad altre? Simile, più o meno, ma mai uguale. Ciascuna persona, ovvero ciascuna psiche ha infatti delle peculiarità inconfondibili, proprie, che le derivano dai geni ereditati, dal contesto ambientale in cui si è sviluppata, dalla cultura di gruppo e magari da certi “quid” forniti dalla Natura.
Certo è, comunque, che oggi la picoanalisi – specie dopo le ulteriori elaborazioni di Freud e le “dissidenze” di Jung da una parte e di Adler dall’altra e dei loro rispettivi discepoli o emuli – costituisce un’asse portante della cultura contemporanea – secondo quanto sostiene giustamente la Pellegrino – sia come campo discorsivo autonomo sia come repertorio concettuale che investe altri settori del sapere, così come ne viene investito.
- Riguardo poi alla domanda se l’uomo odierno abbia più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto all’uomo di un tempo, beh -secondo me – il rapido susseguirsi delle rivoluzioni sociali, industriali e tecnologiche lo disorientano, gli creano ostacoli o freni emotivi, affettivi e valoriali. La psiche degli umani è fragile e “lenta”, nel senso che assimila gradualmente i cambiamenti della società e della tradizione, soprattutto in virtù degli istinti di difesa e conservazione su cui si regge e da cui viene insistentemente condizionata.
- C’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia?
La famiglia patriarcale o matriarcale resistono a stento, e nelle regioni meno sviluppate. Specie perché, come viene intesa da noi, è fondamentalmente (piaccia o no) una costruzione sociale. Siccome la società è cambiata o sta cambiando, è cambiata o sta cambiando anche la famiglia. Anzi, anche la famiglia si sta adattando ai cambiamenti della società, essendone appunto una costruzione, un “prodotto”. Ma con quali conseguenze? … Una parola!
Quando si cambia il “regime” di vita, acquisendo nuovi valori, nuovi modelli comportamentali, nuove visioni del mondo, nuove prospettive esistenziali e di lavoro, ne devono trascorrere di anni prima che gli individui – e la psiche degli individui – “metabolizzino” cambiamenti, rivolgimenti, schemi culturali, trasformandoli quindi in tradizione. Ovvero, acquisendo un’ identità altra.
- Le Chiese-madri e i Partiti-padri sono davvero scomparsi?
No, stando cambiando pelle, per ora. O cercano di cambiarla, costretti. Ma in futuro (prossimo), dicendola con Mitscherlich, forse le società non avranno più la solita Madre e il solito Padre. Forse, lo sottolineo.
Buona giornata, Ausilio Bertoli

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 03:54 da giuseppe ausilio bertoli


Buona giornata e buona domenica a tutti.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 13:29 da Massimo Maugeri


Scusatemi se riesco a ri-connettermi solo adesso…
Ho dato una rapida occhiata ai commenti (poi li leggerò con calma) e vi ringrazio di cuore per l’impegno che avete messo nel rispondere alle mie domande. Come ha giustamente sottolineato Valter Binaghi: “Troppe domande Massimo, e tutte micidiali”.
Vero. Dunque vi ringrazio tutti.
Molti di voi hanno scritto dei veri e propri commenti fiume. Li leggerò con calma e metterò in evidenza qualche passaggio.
Ancora grazie.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 13:32 da Massimo Maugeri


Ciao a tutti e complimenti per il blog. Ho 18 anni, ma sono una divoratrice di libri (non è vero che i giovani leggono poco), però confesso di non aver mai letto Ferdinando Camon. Lo scopro oggi con questa nota che leggo qui. Mi ha molto colpita e non vedo l’ora di comprare il libro. Lo farò domani.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 15:26 da Caterina


Una persona a me cara è morta a causa della depressione, preda del mal di vivere. L’analisi, quella vera e fatta bene, può essere decisiva per salvare vite umane.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 18:11 da Alfio


siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
……………….
- Sono d’accordissimo. Il maschio è in crisi. E’ in crisi per via dei mutamenti della società, del cambiato rapporto con la donna, ecc. E più è in crisi, più i rapporti con la società e la donna cambiano. E’ un circolo vizioso.
Di chi è la colpa?

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 18:47 da Lidia


Chiese madri e partiti padri.
Rispondo alla domanda di Massimo Maugeri per quelle poche briciole di conoscenza che ho ed in base a quanto ho potuto osservare nella mia personale esistenza.
Così come accade agli adolescenti in fase di crescita , a mio avviso, nei confronti di padre e madre gli spiriti liberi sono anche un pò ribelli, la ricerca della verità in loro si profila come un bisogno interiore che spinge da dentro, un’ “impulso sacro” di cui è difficile farne a meno ma che porta con sé molti pericoli, dovuti soprattutto alla confusione e agli equivoci di chi vende “lucciole per lanterne” ai propri interlocutori.
Tutti conoscono Socrate ed il suo “conosci te stesso” che si presta volentieri alla psicoanalisi, alle moderne new age, alle religioni ortodosse, organizzazioni, associazioni, qualunque strada voglia intraprendere il cosiddetto “povero cristo”, ovvero colui che cerca un po’ di luce per risolvere i propri problemi personali stanco di vecchie ipocrisie e del passato, in questo suo entusiasmo e voglia di cambiare corre il rischio di incappare nell’esercito dei pinocchi, di prestare una fede eccessiva in coloro che dichiarano di essere quello che non sono e che, di conseguenza, non faranno mai che quel che dicono di poter fare.
Il paragone calza molto bene ogni qualvolta si prospetta un cambiamento nella vita di un uomo e lo trovo perfetto anche per i partiti politici di governo, qualora si presti fede ad un rinnovamento che viene garantito da padri affettuosi ed invece è gestito da cattivi patrigni, menefreghisti, talvolta dei vecchi “padrini” travestiti con nuovi look.
Il nostro “povero cristo” è sempre lì, immobile come un albero dalle chiome sbattute dai venti, si accorge dell’utopia e ne viene straziato, nel momento in cui si accorge che la croce gli è stata data proprio da chi aveva promesso di torglierla.
Nelle alte gerarchie spirituali e sociali, quali chiese-madri e partiti- padri, l’errore commesso non è mai ammesso e si camuffa come si può, il rischio della perdita è troppo alto e le normali conseguenze si comprendono senza ulteriori spiegazioni: c’è solo da sperare che nelle pareti delle loro stanze questi governanti responsabili dei destini di masse ed individui vengano dilaniati dai rimorsi e sorpresi da una parola che si chiama “ PUDORE”, per come hanno adoperato i poteri loro affidati.
Ma torniamo al nostro caro Socrate.
Il filosofo greco ed il suo “conosci te stesso” ha seminato in maniera feconda laddove, storicamente, Gesù Cristo ha fatto germogliare il primo comandamento e la sua morale e, se non è stato seguito questo iter, il sapiente rischia di essere alla pari di un cretino, i risultati sono identici, con l’aggravante che il primo la legge la conosceva ed ogni grado di Ragione è stato azzerato.
Iniziare ad applicare la logica della morale che, a ben guardare, come l’Amore, dispone i colori sulla tavolozza e sulla tela in maniera ordinata e senza esclusioni, riconoscendo ad ognuno il proprio valore. La psicoanalisi capisce che la libido và canalizzata nei giusti settori e che l’esperienza dell’ isteria decisamente non c’entra nulla con l’estasi religiosa, viene capito che Plotino, influenzato dalle religioni orientali, nella sua esperienza mistica senza nome, svuotò l’anima di tutto ciò che la legava al molteplice liberandosi di sentimenti, immagini, concetti, ricordi, compreso il ricordo di sé, si capisce che è “un errore superficiale e diffuso quello di scambiare, in sede psicologica come in quella storica, il misticismo naturale con quello cristiano, avvalendosi delle innegabili assonanze tra l’uno e l’altro” (Balducci), così come appare molto chiaro che le preghiere di Santa Teresa D’Avila e la sua estasi religiosa sono il punto estremo di un arco metafisico che non è né l’ebbrezza orgiastica né il tragitto verticale di eros…
Tutto è meraviglioso, tutto è vita, ma l’esperienza religiosa non è territorio di così gratuito accesso ed un po’ di chiarezza ritengo sia necessaria per tutti coloro che hanno deciso di cercare la verità, le distinzioni che ci appartengono, così come possiamo solo augurarci che il “povero cristo”, fatte le dovute puntualizzazione fra cervello cuore e pene, sia assistito da Suo Padre e che, avendo compreso il suo disperato dolore, le religioni ufficiali e le tradizioni “alternative”, chiese madri e partiti padri, dicano finalmente “mea culpa”, inginocchiati però, focalizzato un punto fondamentale che accomuna tutti questi combattenti e cioè il rapporto tra spiritualità e moralità.
Saluti
Rossella

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 19:27 da rossella la sicula


Vi ringrazio per questi nuovi commenti (Caterina, Alfio, Rossella).
E mi scuso… purtroppo non posso stare molto on line.
Tornerò con più calma domani sera, a riprendere le fila della discussione.
Intanto voi continuate pure…
(abbiate pazienza, eh)
Buonanotte a tutti.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 22:57 da Massimo Maugeri


@Zauberei, visto che nessuno pensa che si possano condensare anni di studio (nove hai detto?) in una risposta e che, se anche ci riuscissi tu, forse non la capiremmo lo stesso (non potendo arrivare in profondità per mancanza degli strumenti che tu hai imparato ad usare) non potresti darci una lezioncina, ad usum delphini, stando in superficie?
Per me la domanda più interessante del nostro Navigero è la seconda, perché sta alla base delle altre. Mi piacerebbe se mi spiegassi: esiste veramente un uomo d’oggi diverso da quello di ieri? E in questo caso un inconscio (in senso lato) di oggi diverso da quello di ieri? Infine: al di là dei dettagli che non esistono più (ad es l’isteria, perché persi in un tempo che modifica i comportamenti), si può fare un discorso di verità comune? (Oggi non si usano più le candele ma la luce elettrica: però il buio è sempre lo stesso). Grazie. Ciao.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 23:20 da gianmario


Intervengo brevemente per aggiungere il mio pensiero.
Credo che al di là dei luoghi comuni la possibilità di incontrare un’analista, una o più volte la settimana sia ancora un privilegio riservato a pochi. Che poi questa terapia porti benefici dipende dalla bontà dell’analista scelto e dalla “predisposizione” dell’ “analizzato”. Conosco persone che hanno risolto i loro nodi dopo anni di analisi, altre che terminata l’analisi non erano in grado di “stare da sole sulle loro gambe”. Nulla da eccepire sugli strumenti utilizzati dalla psicoanalisi nei centri di igiene mentale, ma quanto è descritto nel libro non è propriamente riferito a questo quanto ad una persona che può permettersi di avere quattro incontri settimanali con un’analista non di certo incontrato all’asl di quartiere.

Postato domenica, 29 marzo 2009 alle 23:47 da Marina


@Gianmanrio incasso, e capisco il tuo tono – ma non mi riferivo al tuo intervento, se può confortare. Capisci però che la psicologia è uno dei campi dove di più le persone dicono secondo me… e giù indicativi! Leggi altri commenti sopra. Leggi la sicumera doi chi dice secondo me la patolgia mentale è roba solo occidentale, oppure la psicoanlisi crea questo. E dimmi se questa stessa disinvoltura la trovi in un dialogo sulla gastroenterologia. Ahò lo so si reagisce in maniera antipatica. Ma ognuno combatte per la propria disciplina. E questa disciplina ha un oggettivo bisogno di essere presa più sul serio.
. In ogni caso i nove anni non erano di studio ma di analisi. Di studio sono 7:) e poi ve ne saranno altri.
Però venendo alla tua domanda.
Io ho questa sensazione della forma e della materia. Mi pare che la materia sia sempre uguale, e le forme varino a seconda e spesso in maniera relativa come conseguenza dei cambiamenti storici. La materia è l’umano. Questo umano è grosso modo sempre uguale a se stesso – per altro divergente dalle altre specie animali al livello biologico per due cazzate, quando vai a vedere il cervello o il dna. Le forme di questa materia cambiano un po’ a seconda dei contesti. La ricerca va cercando dei tratti comuni tra contesti culturali diversi e li trova. Soprattutto nei meccanismi. E nella stessa plasmabilità di questi meccanismi, che segue dei percorsi. Non so come dire. E’ come con l’arte ci possono essere quadri diversi, ma i colori sono sempre quelli, le materie sono sempre quelle: e la conoscenza della chimica e dell’ottica ti può far prevedere che cosa succede se un giallo lo ammischi a un blu, e poi ci metti il nero. Ciò non toglie che sostrati biolgici da una parte contesti culturali dall’altra determinino circostanze in cui si usino di più certi colori di altri, certi disegni di altri etc. In questa dialettica continua tra chimica e arte, tra necessità scientifica e libertà individuale, sta il continuo gioco dialettico tra ciò che c’è di metastorico e ciò che c’è di storico nella teorizzazione psichiatrica. Dimme se non me se capisce e perdona se sono arrogante.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 00:55 da Zauberei


zaub
se capisce… se capisce…

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 09:58 da cristina bove


nella recensione di massimo maugeri mi ha molto colpito questa citazione sulla parola e sulla malattia legata ad essa: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 10:12 da valeria


mi ha colpito perché è una cosa che ho sempre pensato. la parola può trasmettere malattia, la parola può essere malattia, la parola può uccidere. così come, d’altra parte, può guarire, essere panacea, può salvare la vita.
E’ da ieri che rifletto su questo. è stata una riflessione utilissima per me. Per questo vi ringrazio.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 10:15 da valeria


Devo confessare che questo è il primo argomento che mi crea forte imbarazzo,non perchè io non abbia da dire,ma perchè trovo che l’argomento sia troppo delicato per generalizzare.Penso a quanti si ammalano di depressione o di “malattie mentali” e ad essere poco visibili e comprensibili a gli occhi di chi gli vive accanto,spesso se ne parla senza sapere solo perchè si è indottrinati di teorie,ma chi è stato sfiorato da un disagio psichico o da una persona cara che ne abbia sofferto sà in cuor suo quanto sia doveroso parlarne con rispetto e cognizione di causa.Ogni caso,poichè è di individui che parliamo,nella loro complessità, và giudicato e curato a sè, e facciamo attenzione col dire che le depressioni sono una moda,perchè qualche volta c’è chi ha scelto di morire perchè non capace di sostenere il peso della vita,altre volte ci sono madre che diventano completamnete anaffettive per loro personale sofferenza non compresa e la catena non si spezza portando altra sofferenza a chi vive senza il calore di una carezza,il tutto spesso,troppo,per ignoranza o superficialità, nella totale incomprensione di coloro che vivono accanto. L’indifferenza non è sempre figlia dell’ignoranza,ma spesso della presunzione di sapere e dell’incapacità di accogliere il dolore altrui e minimizzarlo.

Per la crisi del maschio mi sento di dire che fà parte di una crisi più grande, della coppia, dell’individuo in genere, si cresce insieme e laddove i vasi non comunichino più l’uno con l’altra nascono le crisi,ma le crisi sono prove e esistono perchè ognuno di noi le guardi in faccia e superi lo scoglio,l’importante è non smettere di dialogare e di accogliere.Altro discorso è quando subentra la malattia,andiamo da chi può aiutarci e curarci,perchè se ci fà male il dente non corriamo dal dentista?Il problema è che per i mali dell’anima siamo più restii a prenderne atto e pensiamo che una eventuale psicoanalisi non serva,eppure se il terapista è giusto e la terapia anche,il risultato si sente ed è il primo passo per un’autocoscienza che ci fa riprendere la nostra vita in mano e credere in noi stessi e nella nostra forza.Non entro nel merito perchè non ne avrei gli strumenti e questi sono soltanto pareri personali,ma io ho seguito una terapia cognitivo-comportale per due anni e ne sono stata molto felice,stranamente tutto ciò che si è mosso dentro di me è accaduto in quegli anni,perchè non mi ha tolto il “problema” o la sofferenza,ma mi ha dato l’opportunità di guardarla in faccia senza temerla.
Ho soltanto paura dell’indifferenza delle persone verso chi si ammala nel silenzio della propria anima perciò se parlarne serve a far stare un pochino più attenti ben venga il dialogo su questo delicatissimo argomento.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 10:33 da francesca giulia


“Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è.”
Trovo questo incipit sconvolgente nella sua verità. Anch’io, come il personaggio del libro, sono stato in terapia per anni. E c’è stato un momento in cui mi sono sentito così vicino all’analista da aver avuto l’illusione di conoscerlo a fondo come lei (era una donna) conosceva me. Poi all’improvviso ho provato a gurdarla, e mi è parsa una sconosciuta. E’ stata una rivelazione sconvolgente.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 10:51 da matteo cardone


Interessante il post, interessanti i commenti. E’ da ieri che leggo. Ora che ho finito mi sento talmente assorbita che non saprei cosa aggiungere.
Questo post + i commenti è diventato una specie di libro, per lunghezza. Forse avrei fatto prima a leggere il libro di Ferdinando Camon, che comunque acquisterò :)
Complimenti per il blog.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 11:56 da Samantha


Massimo, sono d’accordo con gli altri commentatori. Un post molto impegnativo, questo. Gli argomenti sono delicati. Bello, però. Molto. Ci sarebbe da discutere per settimane.
Au revoir.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 12:20 da Angela


Posso inserire una citazione caustica e divertente sulla psicanalisi? E’ di Gianni Monduzzi.
-
Gli psicoanalisti hanno capito che per far guarire i pazienti bisogna farli pagare salato: così si impegnano a rinsanvire più in fretta. I Freudiani hanno addirittura diviso la personalità in tre parti distinte (Io, Es e Super Io) per farsi pagare da tutti e tre, moltiplicando le loro parcelle. (Gianni Monduzzi)
-
A me ha fatto sorridere.
Complimenti per il post e per il blog.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 13:33 da Jester


@Zauberei
Certo, è antipatico che chiunque ci vuole “insegnare” il nostro “mestiere”. Sai chi sono le persone che vogliono “insegnare” di più agli “insegnanti”? Le équipes psico-pedagogiche. Io trovo molto affascinanti i discorsi sulla psiche umana e spesso ho incontrato persone preparate e capaci, ma mi chiedo: perché presupporre sempre che chi non ha “studiato” psicologia o psichiatria non è in grado di comprendere con chi ha a che fare? Non è una “polemica” rivolta a qualcuno in particolare, ma in generale.
Il problema, poi, è che, se anche per la maggior parte delle volte i consigli che ci vengono dati sul come instaurare quelle che chiamano “le relazioni” sono validissimi, tuttavia sono sia difficilmente applicabili nel concreto ( a causa di una serie di contingenze che ne rendono impossibile l’applicazione), sia non tengono conto del diverso “ruolo” che è richiesto a ciascuno: gli insegnanti devono trasmettere competenze ( che servono alla formazione della persona), non possono occuparsi esclusivamente delle problematiche socio-affettive delle persone( anche se spesso lo fanno). E anche quando lo fanno, non sono “addestrate”a farlo, è evidente.
Un ultimo quesito: secondo te è possibile “guarire” alcune problematiche ( non gravi) socio-affettive potenziando proprio le competenze di ciascun individuo? Mi spiego meglio: come possiamo “spiegare”, a chi ci dice di NON occuparci troppo delle competenze da trasmettere, che spessissimo la “frustrazione” guarisce quando un individuo può dire a se stesso: “So fare molte cose” (= leggere+ scrivere+ comporre ecc) invece che: “Non so fare nulla”?

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 15:56 da roberta


@ Zauberei
Una curiosità. Secondo te che rischi comporta il ruolo dello psicanalista da parte di chi esercita la professione? Mi sono sempre domandata, a furia di avere a che fare con i pazienti non c’è il rischio di perdere il proprio equilibrio? E se “trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia” non c’è il rischio che la contragga pure l’analista?

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 16:14 da Martina


Complimenti per il dibattito, per la recensione e per la bella postfazione firmata dallo stesso Camon.
Sarò una delle prossime lettrici del libro.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 16:15 da Martina


Delle domande per me! Grazie.
– Roberta
metti un sacco di carne sul fuoco e spero di riuscire a rispondere o a dire la mia opinione su tutte gli argomenti che tu sollevi. Si è terribile – concordo l’atteggiamento pedagogico e scassapalle del mondo psicopedagogico, e capisco che tra insegnanti e psicologi ci sono delle profonde affinità. Però ecco io da psicologa posso fare un ciclo di incontri su come usare determinate reazioni psichiche o come gestire in classe alcuni comportamenti patologici, ma stai sicura che non posso dirti molto su come spiegare le radici quadrate. Che per altro non so fare. Ciò non toglie che esiste un secolo di studi stratificati, di ricerche standardizzate, e insomma un corpus di conoscenze: credo che come per le altre discipline per poter giudicare questo sapere strutturato bisognerebbe avere l’umiltà di prenderne visione prima di sparare opinioni, perchè non conoscendolo si danno giudizi su cose non aderenti alla realtà. Come chi parla di un libro senza averlo letto, come chi ciancia di medicine senza sapere cosa curano. Molte discipline godono di questo rispetto – e la psicologia altrettanto, ma in paesi che non sono il nostro.
Sui consigli da dare – non so dirti, non mi sono occupata moltissimo di psicologia scolastica, e non posso parlare di cose che non so. Presentai un progetto per un periodo nei licei romani ma non passò – e posso solo immaginare come avrei lavorato io. Ma il mio progetto non prevedeva consigli di sorta. In generale chi ha una formazione analitica non dispensa consigli, che è invece un portato tipico delle formazioni psicologiche di matrice esclusivamente universitaria, che studiano la psiche solo sulla carta. Se si passa dai cicli di analisi personale, si tende a ripensare le cose esperenzialmente. In buona sostanza: a voja consij se sa che non servono. Invece io volevo lavorare sui processi controtransferali degli insegnanti, in modo che rimanesse loro qualcosa da utilizzare da soli poi come gli pareva. Ma ripeto non andò. Ci si riporverà.
– A me sembra che la trasmissione di saperi sia il grande regalo psichico che faccia un buon insegnante e guarda – ne scrivevo oggi – in un certo senso anche un buon genitore. E’ tutto sommato quello che deve fare. Quello che forse psicologicamente si può aggiungere è la spessa rete di significanze che ogni parola e intenzione catalizza. Vale a dire che tu insegnante non trasmetti solo un sapere ma a anche un sapere – perchè, un sapere per chi un sapere che ha delle emozioni, e quello li che lo riceve anche investe e colora il sapere che arriva di tutta sta masnada di cose, altre anche sue e della sua famiglia. Non di rado ci aggiunge un tanfo sgradevole. Ecco bisogna occuparsi credo anche di tutti questi odori.

Martina. I rischi ci sono e le supervisioni e le analisi didattiche stanno li apposta per contenerli. Per questo io preferisco sempre le scuole solide, che hanno sto armamentario di vecchioni dietro che ti sorvegliano. Si impara a gestirsi ecco. Si impara a usare la porpria emotività correndo il rischio senza bruciarsi sempre. Il rischio c’è quando si è all’inizi – ma si impara – spero che cavolo! – col tempo.
Io non sono convinta per niente che la malattia sia la parola. Nonnò la malattia è prima. La malattia è nei modi dell’essere ecco, la parola li dice ma sempre dopo. La parola sono i vestiti che scegliamo. Quando l’analista contrae la malattia, non è perchè l’ha preso il bacillo, ma perchè era bello che malato da prima, e non aveva sufficientemente elaborato questo nucleo che ora il paziente gli risbatte infaccia.
Se invece il terapeuta sa di avere avuto quella malattia e ci ha ragionato, questo lo renderà addirittura migliore.

Massimo scusa l’Ot. Ero incerta se spostarmi nella camera accanto. Però insomma erano sempre domande in tema di post e sono rimasta.
Spero di non aver sbagliato:)

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 16:49 da Zauberei


@ Zauberei
senza voler contraddirti, perché hai esposto la tua mansione con disciplina e umiltà, mi viene un dubbio.
So per esperienza che l’uomo reagisce contrariamente, sebbene non immediatamente, a interventi terapeutici sul suo stato psichico.
Alla prima, reagisce energicamente, perché si sente scoperto nelle sue disfunzioni neuro affettive, ma dopo e soprattutto quando la terapia viene condotta con tatto e prudenza si lascia condurre verso la via d’uscita e coopera con il personale terapeutico.
Ma curata una disfunzione, ne sorge dopo un’altra, come reazione allo stato di stabilità stabilitosi, ma in sé non voluto, perché causato dagli influssi esterni che regolano e diciamolo pure dominano l’andamento collettivo nella società che non subisce i necessari miglioramenti.
Mi sembra che i terapeutici si curino dello stato psichico indebolito del paziente, senza intervenire nella loro prevenzione che a mio parere risiede nell’ordine sociale in atto, quindi nell’andamento del mondo del lavoro, della famiglia, dell’educazione, istruzione, eccetera.
Sarebbe come costatare: lasciamo il mondo com’è, ne guadagna l’industria farmaceutica e gli specialisti hanno un’occupazione, anche se non li soddisfa e addirittura mette a rischio la loro condizione psichica stessa.
Sinceramente, mi aspetterei un po’ più impegno e determinatezza sul giusto campo dalla classe accademica, istruita con molti costi unicamente per migliorare le condizioni di vita e quindi psichiche dell’uomo.
Tu naturalmente, come ho introdotto all’inizio, ne sei esclusa.
Cari saluti
Lorenzo

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 18:36 da lorenzerrimo


@Zaub, bellissime le tue riflessioni ….però la parola ci immette nel mondo. Crea la relazione. E’ la prima espressione di noi e…ci precede, perchè spesso conosce prima di noi stessi (quante terapie di guarigione sono basate sulla scrittura…).
Tutto parte dall’essere, ma l’essere è tutt’uno con la parola che definisce i suoi rapporti con gli altri. Sia essa parlata o scritta.
Anche perchè non sempre è lo specchio di ciò che vorremmo. Spesso ci sfugge di mano, si appropria di noi, modifica la nostra percezione della realtà.
In realtà la parola ha un potenza creatrice e distruttiva molto forte. Quasi uno spirito indipendente.
Niente come la parola, inoltre, può essere frainteso se l’accoglienza dell’altro non è matura, sofferta, umile.
Essere e parola non sono coincidenti, purtroppo.
Per questo la relazione si ammala.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 19:09 da simona lo iacono


Faccio un intervento un po’ provocatorio.
E se invece di curare i sintomi, cercassimo di eliminare le cause?
Questo ricorso alla psicanalisi è frutto soprattutto del modus vivendi, che provoca insoddisfazione, stress, depressione e sensi di colpa.
Guardate che si può cambiare, si può arrivare a un mondo dove il PIL non sia la misura a cui tutti devono tendere e non è vero che si ritornerebbe indietro molto o che peggiorerebbero le nostre finanze.
Già ci sono studi in proposito, e non pochi. Sono convinto che più che l’indice di produttività conti quello di serenità, in un mondo che non corra come un pazzo e in cui il rispetto della natura cominci con il rispetto per noi stessi.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 19:19 da Renzo Montagnoli


@ Zauberei-Simona

Io vedo la parola, come un mezzo. Può essere efficacissimo, come amorfo. Per alcuni è un richiamo buono, perché aspettato, d’aiuto, per altri minaccioso come un urlo che non vorrebbe mai sentire, per altri ancora un ingombro che gli dà solo fastidio.
Dipende quindi dal soggetto che l’accoglie a essere viva o morta, utile o insignificante.
Poi la parola può venire anche tramutata secondo dei propri scopi e diventare un mezzo di costrizione, di oppressione per chi non sa difendersi con altre parole giuste e appropriate.
Sarebbe sempre utile confrontare la parola con il riflesso degli occhi di la usa per capire se sia falsa o sincera, un mezzo buono o cattivo.
Cari saluti a entrambe.
Lorenzo.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 20:34 da lorenzerrimo


@Lorenzerrimo
tu dici delle cose interessanti, a cui mi sento di rispondere in due direzioni antitetiche – se vogliamo. Se ne evincerai un disturbo dissociativo sarai giustificato:)
– lo scarso impegno socioculturale dal parte degli operatori di area psi è determinato nel nostro paese dallo scarso rispetto di cui è circondato il loro operare. Cioè sostanzialmente non li si vuole, e quando essi fanno delle proposte in area istituzionale raramente esse sono accettate e spesso sono accettate a gratisse. Che non è bello – e che tende a falsificare la qualità dell’operato. Ma di tutte le cose fichissime che si potrebbero fare – no non si fa niente di niente. Niente screening nelle scuole, niente lavoro solido di sostegno sociopsicologico nelle aree a rischio, niente centri di recupero focalizzati su singoli assetti psicopatologici. In qualche CIM si fanno delle cose interessanti perchè c’è qualche invasato che le porta avanti. Ma a macchia di leopardo.
– D’altra parte c’è un grosso nodo intorno alla psicologia e alla psicodinamica e questo nodo diventa incandescente nel momento in cui si arroga il diritto di lavorare in termini di prevenzione: il problema dei contenuti normativi, il problema del sancire cosa è legittimo e cosa no. Lavorare così sul sociale implica una serie di archetipi della salute psichica che hanno pericolose simpatie con gli archetipi del socialmente condiviso e della cultura dominante. Ecco io non credo che sia giusto chiedere alla psicologia questo – e quando vedo gli psicologi mediatici – i Risè, gli Andreoli, etc – cominciare a dire cose generiche che uniscono il clinico al culturale, in miscele di volgare buon senso reazionario – ho la pelle d’oca. Per non sembrare una pazza dissociata io no credo che la psicologia debba intervenire sempre dopo – sempre a curare la vita che si sente al posto sbagliato; certo non può scappare dalla consapevolezza che certe cose sono lesive, ma deve agire in modo sommamente cauto e solo in contesti accertati come idonei. Per es. Bruno Vespa non è un contesto idoneo.
Sul fenomeno di cui parli: si chiama terapia negativa ed è un classico delle migliori cure: ci sono passata anche io:) ma di solito se la terapia tiene regredisce – è analizzato e passa. A meno che in realtà non si è curato niente e allora no non c’è stato mai nessun progresso. Il che in tatti assetti purtroppo si da.
@Simona anche a me piacciono le tue riflessioni:) Però boh gli studi e l’esperienza mi stanno portando lontano da questo potere della parola, che la vedo sovrainvestita anche se alla fine rimane potentemente strutturante. Non ne nego il potere – no non è l’unico potere. Se tu ci hai una mamma incazzata nera perchè non voleva un figlio che ora tiene in braccio, e ora quella mamma non parla ma lo tiene in bracico svogliata non guardando, non creando turnazioni di sguardo quella diade strutturerà una semantica emotiva che col tempo e con altre situazioni si strutturerà diciamo in un’orchestra di movimenti di gesti e di vissuti – preverbali per il bambino ma profondamente intensi – che un domani determineranno la scelta delle parole di quel bambino e le aree che ripercorrerà. Queste cose le studiano quelli dell’Infant Research – io per il momento ne ho per altro una conoscenza imbarazzantemente superficiale – filmando e seguendo longitudinalmente coppie di bimbi e caregiver per del tempo, monitorando strutturazioni psichiche e pattern neurofisiologici. Ecco è impressionante quanto siano predittive queste osservazioni quanto la gestualità di un’interazione possa dire del futuro relazionale di un soggetto. Allo stesso tempo non si ha idea quanto del lavoro nella stanza di analisi con pazienti adulti sia non solo la parola, ma la gestualità intorno alla. Alle volte ho il sospetto – non parlo di te che non ti conosco Simo, pensa che potrei parlare anche di me di una me passata , che questo grande amore che riserviamo alla parola, è il frutto di un furbo uso che la nevrosi fa della nostra intelligenza: la nevrosi che per resistere al contatto con i contenuti emotivamente forti del nostro essere nel mondo, ce li fa mediare con il filtro della narrazione. Anzichè toccarci nella vita preferiamo leggerci in un libro. Ah l’interpretazione che gioia! Il suo bello è che ce ne è almeno un’altra.

Massimo ariperdoneme.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 20:40 da Zauberei


@ Zauberei
mille grazie per la esaudiente risposta. Non preoccuparti, sono tranquillo arrabbiato, il che vuol dire frustrato.
Il problema della società è sempre il potere di pochi su tutti gli altri.
È il potere che non vuole curarsi del cittadino, ma solo dei suoi seguaci.
E così è con lo stato, con la chiesa e tante altre istituzioni che sono strumenti con fini a sé.
A quando il bel evento e che nome hai scelto?
Saluti
Lorenzo

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 21:29 da lorenzerrimo


@ Simona
credo che intenda con la parola, la forza dello spirito universale che regge il tutto e che quindi era prima di noi.
Il verbo, che noi abbiamo riportato nella lingua e fatto proprio?
Se è così, esiste una differenza tra di loro e qui sta la nostra difficoltà a capirla e seguirla. Pochi sanno comprenderla, perché costa molti esami e riflessioni, molte rinunce e sacrifici per liberarci dal peso della nostra limitatezza fisica.
Grazie per le tue belle parole, che intendo come compito da assumere e alla fine trovare la luce della liberazione ed elevazione.
Un abbraccio
Lorenzo

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 21:40 da lorenzerrimo


@Zauberei. Grazie della risposta, sei stata chiara. Mi affascina anche il tuo discorso tra materia (uomo) e forma (sovrastruttura) che, allargato, mi porta direttamente al campo filosofico. Ciao.
@Camon. Non mi è certo sembrato da ridere, ma coraggioso. Non dev’esser stato facile ripercorrere l’iter, rimettersi allo specchio, ma forse bisognava attraversarlo, lo specchio, altrimenti non può che riflettere, e sempre la stessa immagine.
@Maugeri. Interessante come sempre, il dibattito proposto. Ma ho l’impressione che questa volta il boccone che ci hai gettato sia finito in una pozza d’acqua lasciando dei cerchi che si allargano. Vedi se lo rintracci con lo scandaglio. Ciao.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:15 da gianmario


Cari amici, eccomi qui.
Mi scuso per la mia presenza in-costante, ma sono giorni fitti di impegni.
Ho letto tutti i vostri commenti, compresi quelli enciclopedici:-)
Che vi devo dire se non ancora una volta grazie?
Be’, grazie…

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:31 da Massimo Maugeri


Aggiungo che – come spesso avviene – ritengo di aver imparato qualcosa in più dalle cose che avete scritto. Anche perché non sempre la verità non è univoca. A volte rimbalza da un pensiero all’altro…

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:33 da Massimo Maugeri


@ Zauberei
Grazie per la tua consulenza. Ero certo che saresti intervenuta da addetti ai lavori. In effetti lo speravo. Dunque non ho nulla da perdonarti, cara. Ho solo da ringraziare.
-
Sul potere “curativo” della parola, però, noto un leggero cambiamento del tuo pensiero. Ricordo che mesi fa ti esprimesti in maniera più a netta a suo favore.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:37 da Massimo Maugeri


Molti di voi mi hanno ringraziato per il dibattito. No, sono io che ringrazio voi (da Gianmario in su). Se un dibattito diventa interessante è solo grazie alla vostra partecipazione, ai vostri interventi.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:39 da Massimo Maugeri


Mi ritrovo d’accordo con l’ultimo commento di Simona:
la parola ha un potenza creatrice e distruttiva molto forte. Quasi uno spirito indipendente.
Niente come la parola, inoltre, può essere frainteso se l’accoglienza dell’altro non è matura, sofferta, umile.
Essere e parola non sono coincidenti, purtroppo.
Per questo la relazione si ammala.

-
Sì, lo penso anch’io…:-)

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:40 da Massimo Maugeri


Dunque… meglio essere accoglienti, maturi, umili (per accogliere l’altro e prevenire la “malattia relazionale”).
O no?

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Infine… non mi è chiara una cosa.
C’è o non c’è la crisi del “maschio”?
Zauberei dice di no, altri dicono di sì.
Chi avrà ragione?

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:43 da Massimo Maugeri


Meno male Massimo:)
Sulla questione della parola. Non è che ti ricordi a quando risalgono le mie esternazioni? Perchè è il secondo cambiamento che un interlocutore attento mi rileva e in effetti in questo ultimo anno – più che cambiando sto dando ecco maggior peso a cose che tendevo a sottovalutare, cose che guardavo con una certa spocchia perchè appunto erano poco letterarie e narrative – non avenano lo charme che ha tutta la teoria della psicoanalisi come teoria della narrazione (ci sarebbe un bel post da cucinare in tema se ti interessasse) mi riferisco a Gadamer e Ricoeur etc. Ma narrare si pole tutto – questo è importante.
Cioè mi sa che sto a sforà.
:)

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:48 da Zauberei


Zaub, riesci sempre a farmi sorridere:-)
Adesso non ricordo esattamente il post, ma mi ricordo che tu sostenesti la tesi a favore del potere salvifico della parola (o qualcosa del genere). Immagino sarà stato un anno fa, o giù di lì.

Postato lunedì, 30 marzo 2009 alle 23:59 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per augurare una serena notte a voi tutti.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 00:00 da Massimo Maugeri


Caro Massimo, gentili lettrici e lettori,
m’intrometto nuovamente nella discussione per tentar di rispondere alla domanda, saltata in precedenza, se ci sia o no la crisi del “maschio”.
Per me il maschio è effettivamente in crisi. Per molteplici ragioni.
Anzitutto è in crisi perché la società tradizionale (“vecchia”) sta cambiando rapidamente. E questo cambiamento rapido nei comportamenti come nei ruoli, nei modi di pensare come nelle prestazioni o azioni, negli atteggiamenti verso i nuovi modelli produttivi o ricreativi come verso i rapporti familiari o di coppia, suscita spesso negli “attori” maschili, cioè nei “maschi”, un eccesso di ansia nel cimentarsi o nel confrontarsi con la società medesima – che è poi la società dell’efficienza, del successo, dell’apparenza – per raggiungere gli obiettivi prefissati. Ovvero l’ansia di arrivare nel momento migliore e in splendida forma, ottenendo il risultato massimo nel minor tempo possibile.
Ovvio che, alle prime sconfitte, s’instaura negli “attori” sociali un senso d’inadeguatezza se non la percezione della sconfitta. Sconfitta o inadeguatezza curabili con che cosa?
Coi farmaci, con la vacanza, con gli sport rilassanti o, eventualmente, con la psicoanalisi e la psicoterapia … Già, la psicoanalisi.
E questo vale non solo per il “maschio”, ma anche per la “femmina” inserita negli ambiti lavorativi – e magari anche ricreativi o, comunque, di relazione – della moderna società e dei suoi dettami.
Che ne pensate?
Ausilio Bertoli

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 04:07 da giuseppe ausilio bertoli


giuseppe ausilio bertoli, scrivi alle 4:07 am.
Ma quando dormi?

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 09:31 da Marco Vinci


Comunque sono d’accordo con te, Bertoli. La crisi del “maschio” c’è. C’è e si sente. Da un lato il rapporto con la donna, per fortuna, è mutato. ma non è mutato il suo ruolo di capofamiglia, di dover fare i conti con questa società ultracompetitiva. Certo, questa società ultracompetitiva ormai interessa pure la donna. Lancio una provocazione. Secondo me ci sono alcune donne che sono più “maschi” di altri uomini. C’è una dicotomia, perciò anche la “femmina” è in crisi.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 09:35 da Marco Vinci


Ma se il “maschio” è in crisi e la “femmina” è in crisi, chi si salva?
La crisi, dunque, è dell’uomo inteso in senso lato.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 09:36 da Marco Vinci


La crisi secondo me è di coppia,nel senso che l’incontro già di per sè è difficile,poi il portarlo avanti nella quotidianità sotto diverse pressioni esterne richiede un impegno che spesso gli individui non sono più pronti a dare. Oggi la crisi è visibile nella mancata pazienza,nel fatto che il desiderio è bruciato dai tempi,non c’è condivisione dei progetti comuni,si pensa di vivere tutti al grande fratello dove il protagonismo dell’individuo è spettacolo,stupore,ma falso stupore. Lo stupore vero nell’amore andrebbe nutrito nei gesti del vivere comune. Per quanto riguarda i ruoli,non credo che sia il vero problema,ogni cambiamento imposto dai cambiamenti contigenti sociali si riflette anche sulla coppia,ma è all’interno di questa che vanno armonizzate le differenze,con amore sì ,ma con tanta buona volontà da parte di entrambi.
Tutta la crisi ben esposta da G.a.bertoli è reale,ma come già preannuncia nelle sue parole,è una crisi che investe tutti e come tale anche la coppia.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 11:03 da francesca giulia


Non so se avrà la possibilità di rispondere, ma vorrei porre una domanda a Ferdinando Camon.
Questo libro è stato pubblicato agli inizi degli anni Ottanta. Se dovesse riscriverlo oggi, dopo un quarto di secolo, cambierebbe qualcosa? E cosa, nell’eventualità?

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 11:04 da Domenico


Ngiorno.
Io distinguerei alcuni fattori, perchè se no si finisce col dire che il maschio è in crisi pure perchè ce so meno api. Distinguerei tra:
1. La crisi in cui versa la società per via dei cambiamenti che sono avvenuti nella gestione e nella divisione del lavoro – con il violento impatto delle tecnologie. non vedo una specifica qui che valga solo per gli uomini.
2. La crisi in cui versa la società come mutazioni di valori, rispetto al passato.
3. la crisi intesa come difficoltà nel nuovo modo di gestire la relazione e l’identità di genere. Quando si parla di crisi del maschio il sottotesto è che la donna nun sarebbe in crisi perchè la donna ha imposto un cambiamento dinnanzi a cui il maschio si trova costretto ad adeguarsi.

Io credo che sarebbe utile però considerare
– le differenze che intercorrono tra generazioni – e credo che i più giovani sentano questa crisi di meno
– le differenze che intercorrono tra contesti economici e sociali. Nella campagna laziale la crisi del maschio mi pare che c’è pochino, e sospetto anche in varie arie rurali del sud, essendo che sono rimasti stronzi come prìa – perdonate la franchezza.

La mia sensazione è che quelli che si sentono in crisi sono quelli che avavano una disponibilità al sentirsi in crisi anteriore – per incertezze proprie ma anche se vogliamo per una certa sensibilità che stride con il comma culturale di provenienza e che impone una onestà, ma molti uomini scelgono quasi inconsciamente – si ritrovano in un posto: o al di qua – cioè contro una mutazione dei rapporti di potere uomo donna, e contro una riedizione dell’identità di genere femminile che cambi il modo di essere anche insieme anche al cinema etc. E quelli che invece, e sono tutto sommato le persone con cui spesso ho a che fare, per un fatto forse politico e generazionale, hanno bello che saltato e hanno trovato una dimensione pacifica.
Questo vale per entrambi, come diceva G.A. Bertoli, ma sarò femminista oltranzista – ma a certe donne – quelle che avrebbero già bello che giulivamente saltato e non hanno problemi di sorta con la propria identità sessuale o di genere e con la loro vita relazionale insomma queste privatamente sarebbero contentone: pubblicamente però è ancora un problema: la disparità di trattamento sul lavoro, gli ausili nulli alla maternità etc.

Vorrei dire ancora una cosa: la psicoanalisi può certamente aiutare, ma non perchè essa nasca come cura moderna ai mali della modernità, ma perchè essa ragiona intorno ai simboli che ogni contesto culturale propone e che il soggetto usa per esprimere il proprio malessere. Per quanto un mutamento socioculturale possa essere determinante non sarà mai la prima determinante di una forma di malessere ma piuttosto l’arsenale con cui quel malessere decide di esplicitarsi, quasi la copertura.
Per dirla in maniera franca, franca: scordateve che se ariva un paziente e dice: “Dottò nun trombo!” il problema sia perchè le femmine ora vanno a lavorare.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 11:09 da Zauberei


zaub hai ragione,ma credo che il punto focale sia proprio il 2:cioè le differenze che intercorrono fra contesti economici e sociali,perchè in quei contesti è più difficile che si ricorra all’aiuto degli strumenti pscicoanalitici,cioè spesso il condizionamento è così forte che seppure una donna ne avesse bisogno le farebbero credere che è sbagliato qualcosa in lei stessa. La scelta più consapevole della psicoanalisi è data dalla conoscenza,anche se non vuol dire necessariamente che in contesti più socialmente e culturalmente elevati non ci siano problemi all’approcciarsi alla disciplina.Molti,spesso,gli uomini, di questi contesti ahanno grande difficoltà a mettersi in discussione e vedono una probabile analisi,di coppia ma anche della donna singola come una minaccia all’equilibrio di coppia. Del tipo:questa mò chissà che scopre facendo l’analisi e poi mi lascia!.
IL mio è uno sguardo diciamo dal basso del problema,non da studiosa,ma da ciò che vedo intorno a me.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 11:23 da francesca giulia


Perché negare che il “maschio” è in crisi? Dire che il “maschio” è in crisi non equivale a dire che è colpa della donna.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 11:55 da Amelia


Francesca giulia, credo di essermi spiegata male. Non intendevo mettere in relazione i due fenomeni – presunta crisi del maschio/soluzione psicoterapeutica, per la verità contestavo la facilità di questa relazione. La psicoanalisi, o io preferisco dire la psicologia dinamica, non si occupa di questo e quando lo fa fa indirettamente come corollario. Questo tipo di questioni hanno innanzitutto una valenza sociale e politica e si combattono sul piano sociale e politico. Non si negozia la propria indipendenza economica andando dal terapeuta. Se si decide di andare può essere perchè questa cosa è colegata ad altre, tutto sommato e non a torto più importanti. Ma sono due campi diversi.
In ogni caso, per quella che è la mia esperienza – nei contesti rurali l’evoluzione non è tanto asimmetrica – purtroppo. Il problema del maschilismo è un problema culturale, cioè di una cultura che lo sostiene. gli uomini non hanno bisogno di scoraggiare alcunchè perchè l’orizzonte di senso è masochisticamente condiviso dalle donne. Accettano serafiche e spesso ti dicono sospirando “Volevo nascere maschio”.
Sull’uso delle psicoterapie però, dinnanzi alle necessità qualsiasi contesto è costretto a fare i conti. Io ho lavorato in una clinica psichiatrica convenzionata con la regione, e arrivavano pazienti da tutto l’hinterland laziale, anche persone molto semplici. dinnanzi alle esortazioni dello psichiatra o del personale, che indicavano la necessità di una psicoterapia, per quanto straniti nessuno ha chiesto a nessuno di rinunciarvi. E lo stesso vale per i servizi che per esempio si occupano di adozione. Insomma la resistenza è in realtà molto più aggirabile oggi di un tempo – se solo lo stato volesse.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 14:04 da Zauberei


@ Marco Vinci
Eh, Marco. La notte fonda “mi lego” alla sedia, davanti al pc, per scrivere, leggere, redigere i risultati delle ricerche effettuate nel pomeriggio e alla sera. Una vitaccia. A volte mi chiedo chi me lo faccia fare. Con cordialità, A. B.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 15:34 da giuseppe ausilio bertoli


Ferdinando Camon a Massimo Maugeri
31 marzo 2009, ore 17,14

-
Caro Maugeri e cari colloquianti di “Letteratitudine”, leggo nella mattinata del 31 marzo il dibattito che si sta svolgendo sul mio libro “La malattia chiamata uomo”, e poiché qualcuno mi chiama in causa, ritengo un dovere morale rispondere. Non è una buona cosa che un autore risponda a domande su un suo libro, perché il libro dovrebbe già contenere le risposte: se le risposte le dà l’autore, vuol dire che il libro è incompleto o reticente. Ma il fatto è che si tratta di un romanzo-verità, un racconto-diario, e la verità e il diario riguardano una delle esperienze fondanti della vita, la psicanalisi, e perciò basta che uno viva per sentirsi coinvolto e reagire, concordando o dissentendo. Ho detto psicanalisi-esperienza. Il che comporta che chi ne ha fatto l’esperienza sa che cos’è, mentre chi ha soltanto letto dei libri o discusso con amici (o psicanalisti o preti o intellettuali vari) ne ha una intuizione esterna, ma non una conoscenza. La mia analisi è cominciata con Cesare Musatti, presidente degli psicanalisti italiani. Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della Spi, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre (e sfruttare) il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. E’ il protagonista del libro. Musatti era vecchio, e come tutti i vecchi parlava troppo. Mi raccontava di un altro scrittore che era stato in analisi da lui, un grande scrittore, che io sentivo come un fratello maggiore, Ottiero Ottieri: Ottieri era caduto in quella che si chiama “analisi interminabile”, dopo l’analisi con Musatti entrò in un’analisi junghiana, e dopo in un’altra ancora, e insomma non ne usciva più. Io amavo i suoi romanzi. Avevo raccolto in un libro le mie conversazioni con gli scrittori italiani che frequentavo, Moravia Pratolini Bassani Cassola Pasolini Volponi Ottieri Roversi Calvino, Musatti lo sapeva, e non doveva parlarmi in quel modo di due di questi autori, che per me erano due “figure interiori” dominanti. Ottieri beveva. La moglie gli nascondeva gli alcolici. Ma lui trovava il rimedio, beveva i profumi della moglie, che contengono alcol. Pasolini controllò con sofferenza le prime 6-7-8 sedute, non voleva che saltasse fuori la sua omosessualità. A un certo punto lo disse: “Parlerò di tutto, tranne che della mia omosessualità, perché la considero natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, perché è cultura”. Pasolini entrò in una crisi d’angoscia, saltò una-due-tre sedute, e alla fine non si fece più vedere. La mia opinione è che, se avesse continuato l’analisi, sarebbe ancora vivo, e avrebbe l’età di Zanzotto. Ma non sono convinto che Musatti abbia fatto bene a dire quelle parole. Lui non doveva spiegare nulla. Doveva soltanto analizzare perché Pasolini credesse che l’omosessualità fosse natura (convinzione, peraltro, che il senno del poi predilige). Anche per questi sconcertanti errori non mi fu traumatico passare da Musatti a Fara.
Quella era l’”epoca eroica” della psicanalisi, la psicanalisi freudiana si svolgeva così come io la racconto. Avevo amici psichiatri-psicanalisti che andavano in analisi a Parigi una volta al mese, da Salomon Resnik. Resnik, argentino trapiantato a Parigi, è l’autore delle voci sulla psicanalisi per l’Enciclopedia Einaudi. Questi miei amici stavano a Parigi un week-end al mese, e in quei giorni andavano in analisi ogni mattina e ogni pomeriggio. Poi, separazione totale per un mese. Assurdo. Per me, l’analisi è una “consegna” della vita, man mano che viene vissuta. Tu, all’analista, dai tutto quello che sei, giorno e notte, quello che sai e quello che non sai, e i sogni li consegni alla cieca, ignorando quel che contengono. In quello che non sai, e nei sogni, può esserci anche disprezzo per l’analista, e oltraggio, e protesta. Non ha importanza, il vostro rapporto non cambia. Il vostro rapporto è il rivivimento di altri rapporti, analizzando l’odio di questo rapporto tu capisci l’odio di altri rapporti, e ne vieni fuori. Finché non ne vieni fuori, lo patisci. E’ per questo che l’analisi è un cibo: un cibo lo devi mangiare, non saprai mai cos’è finché leggi menù. Così è l’analisi. Finché leggi libri, non ne fai esperienza.
L’analisi che racconto nella “Malattia” è la forma classica dell’analisi freudiana. Ci sono altre analisi, certo. Alcune selvagge. Un’analisi selvaggia la racconto nel romanzo “Il canto delle balene”, lo dico perché vedo che qualcuno di voi l’ha letto: l’analista del “Canto delle balene” è (scusate) un pazzo, che crede di guarire contagiando con la propria pazzia. Mi sono divertito scrivendo “Il canto delle balene”, ho sofferto oltre ogni dire scrivendo la “Malattia”.
Oggi non la scriverei più così, ma l’analisi nella sua forma classica resta quella. Allora c’erano ruoli inderogabili: padre, tu vieni dopo la famiglia; marito, tu vieni dopo tua moglie; figlio, ama il padre e la madre; omosessuale, tu sei un assassino. I “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” erano sette, il primo era l’omicidio volontario, il secondo il “peccato impuro contro natura”, cioè l’omosessualità. Capisco la disperazione, allora, di Pasolini, e oggi di Vattimo. Ognuno aveva un ruolo, sgarravi dal tuo ruolo e ti sentivi morire. Imperava il senso di colpa. L’analisi che io racconto è il processo a cui viene sottoposta una morale piena di valori e anti-valori terrificanti. Adesso il campo della morale è vuoto, il senso di colpa è dissolto.
Per tutto quello che ho detto, uno psicanalista ottiene più per quello che è che per quello che sa. Non contano le sue risposte, conta il modo con cui ti conduce a trovare le risposte. Non è vero che quando non risponde c’è il silenzio: siete in due, tutt’e due vigili all’estremo, quindi silenzio come assenza non c’è mai. Il silenzio come assenza è l’isolamento. Il silenzio come presenza vigile è la solitudine. E’ ben diverso.
Capisco chi dice oggi che quattro ore alla settimana sono troppe: oggi forse non sono neanche necessarie. Forse oggi non è necessaria nemmeno l’analisi col lettino, e infatti vedo che qualcuno ironizza sul lettino. Il lettino e il non-vedersi causano regressione. Il punto a cui arrivi con la regressione è il punto da cui parti con la ricostruzione. Vedo che qualcuno parla di “ricostruzione della persona”. E’ giusto, è l’operazione da fare. La persona fu costruita con la lingua, e con la lingua va ricostruita. Non sono sicuro che si possa porre un “essere” prima che si possa porre il “parlare”. Heidegger dice che il linguaggio “è la casa dell’essere”. Vito Mancuso dice che “l’essere divino è persona e ha un linguaggio”. Su quel che c’era in principio sta scritto: en archè en o lògos, in principio erat Verbum. Credo (ma non è il mio campo) che la lingua fondi la persona, e che il bambino che sente come prima parola “mamma” venga fondato diversamente da quello che sente “Mutter”. Poi, crescendo, i due bambini si differenziano sempre di più: il ragazzo che sente “attenzione” sta attento, il ragazzo che sente “Achtung” trema. All’interno di una lingua, ogni parlante è diverso dagli altri, e così per ogni uomo si svolge un’analisi diversa: se non fosse così, potrebbero esistere dei dizionari dei sogni, in cui dato un sogno con i suoi simboli si deducono le oggettive valenze. Come se il senso di un sogno fosse in chi lo interpreta. Invece il senso di un sogno sta dentro il sognatore, e quando vien fuori il senso se ne meravigliano sia l’analista sia chi va in analisi. Il terreno dell’analisi è il terreno dei tabù. Un’analisi si muove sempre nel proibito. E’ ingenuo il paragone (che spesso si fa) tra analista e confessore: un’analisi comincia dove la confessione finisce, la confessione a un certo punto si deve fermare (sta scritto nelle guide del confessore; se non si ferma, diventa morbosa), ma l’analisi è da lì che parte. Certo, come dice qui più d’uno (ho imparato molto da queste e-mail; grazie a tutti, da Zauberei agli altri, e grazie anche a Giampiero, che mi ringrazia), i tempi cambiano, cambia la famiglia, cambiano l’uomo e la donna, e dunque cambia anche l’inconscio. Perciò cambia la caccia all’inconscio. Tuttavia l’inconscio fu ipotizzato e cercato e rintracciato e descritto con la tecnica che io descrivo. Quella tecnica sta alla psicanalisi come il latino sta alle Scritture. Per capire le Scritture, bisogna conoscere la lingua in cui sono scritte.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 19:33 da Ferdinando Camon


3a domanda: il maschio.
Le difficili domanda di Massimo s’intrecciano come i fili di una trama storica.
Voglio raccontarvi che qualche tempo fa ho trovato fra le pagine di un vecchio libro in biblioteca la descrizione dello spirito delle maschere, fra le quali, non tutti lo sanno, il siciliano Beppe Nappa che non porta la maschera e neppure si trucca o s’infarina, ma con passo saltellante cappello, berreta e scarpe bianche è servitore di un maestro di scuola.
Egli vuol far fare tutto ma, non sapendo come fare, combina danni e guai. Parodia che converte lo spirito di questa maschera nell’atavica megalomania non solo siciliana.
Sono d’accordo con Zauberei quando scrive che giallo e blu e nero fanno il verde scuro e mi auguro che si riferisca a coloro che sanno dosare le tinte senza diventare “imbrattatele”. In fondo la psicoanalisi lo sa che molti aspetti della “naturalità” dell’individuo sono anomalie da curare e devono essere riconosciute come tali e che i passi per chi cerca la propria identità seguono il discernimento di elementi quali natura, cultura, pagano, cristiano, religioso, romantico, mistico, bellezza dell’immanenza, bellezza della trascendenza e che Beppe Nappa come Pantalone e Colombina e Scaramuccia è meglio che non comandino… ma che “una volta bastava questa roba per diertire il rispettabile e l’inclita”
Il problema dell’identità dell’uomo non è disgiunto da quello economico e, a parte la robotica e la tecnoetica (?), chi meglio di Frank Lloyd Wright nella sua “Città vivente” illustra il sistema socio economico che si sarebbe prospettato dopo qualche decennio dall’ultimazione del suo libro, come una piramide con l’apice all’ingiù, la cui base è sostenuta da sostegni artificiali…
IDENTITA’!!!!!!!!CHE RIDERE!!!!!!!!

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 19:36 da Rossella


Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti, ma ringrazio soprattutto Ferdinando Camon.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 19:47 da Massimo Maugeri


Carissimo dottor Camon,
mi ha mandato un testo bellissimo. Non so come ringraziarla. Un testo importante, che risponde ad alcuni spunti forniti dai lettori/commentatori del blog e che – di fatto – diventa ulteriore postfazione de “La malattia chiamata uomo”.
È letteratura. Letteratura che merita di essere custodita e divulgata. E infatti le anticipo che questo dibattito confluirà in “Letteratitudine, il libro – vol II – 2008-2010″.
In queste settimane sto presentando, in giro, “Letteratitudine, il libro – vol I”.
Chiudo la presentazione leggendo il suo “Perché leggere” (sono un bravo lettore… con voce da “attore”, mi dicono): mi sembra un buon promo per la lettura e i libri in genere.
Leggo il testo e, una volta finito, scandisco il suo nome e il suo cognome: Ferdinando Camon.
Scrosciano gli applausi.
La ringrazio di cuore.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 19:51 da Massimo Maugeri


Questo intervento di Camon mi sembra altamente esauriente, tanto che, pur non nutrendo simpatia per la psicanalisi, mi ha fatto venir voglia di leggere il romanzo.
Posso solo dire che mi ritengo fortunato a non aver avuto necessità di sedute. Può darsi che ciò dipenda da un fatto puramente aleatorio, oppure anche da un mio modo di raffrontarmi. Però ci sono andato vicino, e molto, una depressione che piano piano mi avrebbe portato alla follia se non avessi trovato rifugio nella poesia, che scrivo da allora.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 20:58 da Renzo Montagnoli


Fai bene, caro Renzo. “La malattia chiamata uomo” è un libro da leggere.
Nei prossimi giorni inserirò nuovi spunti.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 21:51 da Massimo Maugeri


Intanto ho inserito l’intervento di Ferdinando Camon nel corpo del post (in aggiornamneto).
Lo trovate in alto…

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 21:52 da Massimo Maugeri


Bellissimo bellissimo intervento – davvero.
Naturalmente ci sono delle cose su cui dissento, o delle cose su cui avrei delle cose da specificare – io mica sono così certa che l’inconscio cambi – tutt’altro, per dire, così come prima di dire mamma, c’è un mondo di comunicaizone anteriore al parlare. E’ molto maschile questa fiducia nel logos, io sono donna e nella mia esperienza femminile penso molto a tutte le cose del materno che dal logos non passano affatto…
E non si sa le cose che mi verrebbe da dire sugli errori di Musatti… ma era un uomo formidabile, e concordo con Camon sul suo giudizio a proposito di Pasolini.
E ci sono delle cose che sottoscrivo in pieno dell’intervento di Ferdinando Camon, la faccenda della psicoanalisi come erlebnis, e la faccenda dello psicoanalista la cui bravura e talento hanno a che fare con il suo modo di essere piuttosto che con le cose che ha studiato sui libri. Mi ha fatto pensare agli insegnamenti di un mio caro amico – il curatore dell’edizione italiana delle opere di Jung, che si spingeva ancora oltre, e mi diceva – non devi essere troppo intelligente in questo mestiere. Non è un mestiere che si eserciti utilizzando il cervello come si fanno gli esercizi di matematica ecco. Vabbè me fermo.
Comunque davvero grazie anche da parte mia.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 21:59 da zauberei


Grazie anche a te, Zauberei. E sì, l’intervento di Camon è davvero bello. Vi invito nuovamente a leggerlo.
Una serena notte a voi tutti.

Postato martedì, 31 marzo 2009 alle 22:13 da Massimo Maugeri


@ a Massimo

A proposito del sarcastico “Il canto delle balene” (Garzanti, 1989) dello stesso Ferdinando Camon, il protagonista viene invitato dalla moglie, IN ANALISI, a partecipare a una seduta di terapia d’urto.
Ebbene, nella “giustificazione introduttiva” del romanzo Camon scrive testualmente: “Questa è la storia di come ho tradito mia moglie e non ne sono affatto pentito. Se lo merita. Non perché anche lei mi tradisca: so bene che non mi tradirà. Però fa qualcosa di peggio, qualcosa che risulta a me assolutamente intollerabile: appena ha fatto l’amore con me, corre a raccontarlo al suo analista. E’ come se io non facessi l’amore con lei, ma con lui, o come se lei lo facesse con lui, non con me.
Prima, la mia vita intima era mia, adesso non ho più niente di segreto: c’è qualcuno, che io non conosco, che sa tutto di me. E senza segreti non si può vivere: ogni uomo ha il suo …”.
Niente di più vero.
E qui vorrei chiederti (senza scomodare Ferdinando Camon) se una dose eccessiva di pudore, timidezza o riservatezza accentui la ritrosia delle persone sofferenti di depressione e di altri disagi psichici a recarsi dallo psicanalista. Appunto per non dovergli confessare anche i segreti più reconditi. Secondo me, infatti, moltissime persone – anche “studiate” – non solo non si recano dallo psicanalista, ma neppure dal medico di base.
Cordialmente, A. Bertoli

Postato mercoledì, 1 aprile 2009 alle 03:06 da giuseppe ausilio bertoli


Bravo Navigero, hai ritrovato la pietra nello stagno. Adesso che sai quanto è profonda l’acqua potremo arrivare tutti in porto tranquilli con la tua guida. Grazie, anche per l’interessante intervento di Camon.

Postato mercoledì, 1 aprile 2009 alle 14:25 da gianmario


che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
Capisco perfettamente che Zauberei si possa sentire come un vero medico sul set di ER… ma purtroppo la vulgata sulla psicanalisi, anzi le rappresentazioni letterarie della psicanalisi, prendono il posto della riflessione sull’evoluzione di questa tecnica – tecnica? io direi ermeneutica della psiche.
Per me infatti psicanalisi equivale a Svevo, agli universali junghiani…
Provo a rispondere alle domande sui massimi sistemi che ci propone Massimo…

- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
Credo che ogni epoca abbia avuto i suoi bravi problemi di adattamento, le sue crisi. Pensiamo al passaggio dalla sociatà contadina a quella industriale, agli spaesamenti, agli sradicamenti familiari e sociali di migranti, deportati, esiliati, pensiamo alle guerre, alle rivoluzioni.
Oggi la società affronta problemi nuovi. Tutto qui. Solo che oggi tutti i valori sono in discussione, i ruoli e le gerarchie sono saltati.
Gli uomini costituzionalmente si mettono in discussione e riformulano la propria vita meno delle donne. Parlano meno di sé e dei propri problemi e tante reti protettive sono saltate.
Forse ci si sta avviando, attraverso questa crisi, a rapporti più autentici. Ad una società meno spersonalizzante. Almeno lo spero.
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
Sono sotto gli occhi di tutti. Lo vedo a scuola, negli occhi dei ragazzi spesso sperduti, sempre fragili, desiderosi di aggrapparsi a qualcosa di solido. Le famiglie sono paludi di sabbie mobili, e fuori c’è una giungla minacciosa che uccide le speranze.
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
Guardiamo ai partiti italiani. Nessuno credo possa riconoscersi in queste lobby affaristico-mafiose. L’era dei partiti è finita. Ci si associerà diversamente in futuro: anche la politica per come l’abbiamo conosciuta finora è alla frutta.
Le chiese, finché saranno cattedre e non sorgenti di dialogo e carità vera, si allontaneranno sempre di più dalla gente, che ha bisogno di presenza e vicinanza, di una chiesa Mater.
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
Sicuramente. Ogni crisi storicamente ha richiesto una ridefinizione di ruoli.
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?
Una parola! Da una parte vedo giovani uomini molto compresi del solo ruolo di marito o compagno e padre, con un rapporto padre/figlio lontano da certe rigidezze e distanze rispetto a quello delle generazioni precedenti, dall’altra ci sono giovani anaffettivi, afasici dal punto di vista relazionale, che vedono la donna come preda o minaccia. Concordo con Zauberei: spesso anzi la gente non colta soffre anche perché non sa dare un nome alle proprie paure.
E chi a queste paure dà un nome poi non sa come affrontarle.
Credo che la psicanalisi – ben fatta, intendiamoci, non lasciata ad improvvisatori! – costituisca un aiuto validissimo. Anch’io ho certe remore, diciamo così, letterarie, nei confronti degli psicanalisti. Non so se mi sottoporrei all’analisi. Però ho seguito un corso di scrittura creativa ad orientamento gestaltico, che mi è molto servito. Credo che gli spprocci terapeutici vadano ritagliati sul singolo e che debbano essere pluridisciplinari, a tutto tondo. E credo che l’arte, la creatività, debbano avervi parte.

Postato mercoledì, 1 aprile 2009 alle 17:56 da Maria Lucia Riccioli


Grazie mille, Gianmario. E grazie anche a te, Maria Lucia.

Postato mercoledì, 1 aprile 2009 alle 22:25 da Massimo Maugeri


Bellissimo il cambiamento del modo di studiare l’inconscio, l’osservatore che muta e che si interroga, la relazione che trabocca di scavi dolenti.
Il nuovo intervento di Camon è una testimonianza di questi anni convulsi e dolorosi, dove l’identità patisce i disturbi e le ferite della morale, e in cui la fragilità si veste di violenza.
Quanti opposti da leggere. Quanta pietà nel condividerli.
La malattia chiamata uomo credo che guarisca solo in mezzo ad altri uomini.

Postato mercoledì, 1 aprile 2009 alle 22:54 da simona lo iacono


[...] colla collega bloggheressa Topolina Fattucchiera in calce allo psichico 60, deve un altro po’ a questa discussione tenuta dalle parti di Zoologia Fantastica, su un libro di Ferdinando Camon dedicato alla [...]

Postato giovedì, 2 aprile 2009 alle 11:11 da Kataweb.it - Blog - erlebnisblog » Blog Archive » Psichico 61/Parole Parole Parole…..


Scusate un’altra intromissione nel dibattito, suggeritami dal post “Psichico 61″.
Un’intromissione per insistere sul valore “taumaturgico” della parola, ossia della narrazione, della scrittura, della poesia e di ogni altra arte nel combattere, anzi nel “battere” i disagi psicologici, specie le depressioni.
E un’intromissione per ribadire come spesso – troppo spesso – i disagi psicologici siano “nascosti” dalle persone che ne vengono colpite e dalle loro famiglie, secondo me – soprattutto – per vergogna, pudore, riservatezza eccessiva, stigma sociale. E per la trascuratezza, per non dire incompetenza, di qualche medico di base non aggiornato in materia psicologica e psichiatrica. Sì, anche di qualche medico di base.
Purtroppo.
Un saluto, A. B.

Postato giovedì, 2 aprile 2009 alle 16:14 da giuseppe ausilio bertoli


Che idea avete della “psicanalisi”?
E’ una scienza umana che mi ha sempre indirettamente, letterariamente interessato, tanto che, scorrendo i vari interventi, mi sono accorta di aver letto nel tempo tutti i libri storici citati, anche quello della Cardinal di cui avevo dimenticato autrice e titolo, ma non il contenuto. E aggiungerei E liberaci dal male oscuro di Cassano. Mi affascina l’introspezione e l’insondabilità della psiche.

Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
Credo che, se portatori di disturbi seri, aiutati da un buon terapeuta, si possa giungere a risultati di guarigione apprezzabili ( in tempi lunghissimi dicono ). Invece diffido della “moda” di andare in terapia per disturbi più lievi che si potrebbero risolvere solo cambiando abitudini di vita o con una maggiore autointrospezione.
Secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
Non saprei dire. In fondo, nel nostro Paese, tutte le generazioni,a partire dal 1945, non vivono il dramma della guerra e per lo più non mancano dei beni primari. Messa così mi parrebbe che oggi dovremmo saperci adattare meglio alle metamorfosi sociali rispetto ai tempi passati. Tuttavia è anche vero che lo sviluppo tecnologico ci costringe a ritmi di vita molto più veloci e che stiamo perdendo quei ritmi distesi e quei contesti sociali che permettevano di assimilare esperienze anche traumatiche.

C’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?

Non vedo dissoluzione della famiglia, caso mai accanto alla famiglia tradizionale sono proliferate le famiglie mononucleari, quelle allargate, le comuni ( poche )…Questi nuovi tipi di famiglia mi sembra che vogliano rispondere al bisogno di rapporti affettivi meno rigidi e più autentici, con quali risultati per ora non saprei dire.

Le Chiese-madri e i Partiti-padri sono davvero scomparsi?

Forse stanno scomparendo, come la psicanalisi del resto. Leggevo un breve articolo di U. Galimberti il quale sosteneva che la mancanza di speranza oggi è dovuta proprio alla crisi di religione, marxismo e psicanalisi le tre “ scuole “ che garantivano la speranza della salvezza: salvezza eterna; salvezza come giustizia sociale; salvezza come guarigione.

siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?

Non i più giovani ormai avvezzi ad avere rapporti di “parità” con le donne; la crisi la vedo più nei maschi della generazione che ha vissuto la liberazione della donna: erano cresciuti in famiglie dove i ruoli padre madre erano ben distinti e si sono trovati a fare i conti con una realtà che li metteva in conflitto tra quello che avevano appreso e quello che sentivano giusto. Lo sperdimento della generazione delle passioni tristi credo sia causato da ben altri fattori fattori sociali.

Saluti
franca

Postato giovedì, 2 aprile 2009 alle 23:30 da franca canapini


METAMOFOSI SOCIALI.
Di quale tempo Massimo?
Abbiamo appena abbandonato il 900, secolo ricco di capovolgimenti storico culturali.
Mai come nel secolo scorso la parola progresso ha trionfato con le sue rivoluzioni industriali, le scoperte scientifiche comprese quelle delle nuove psicologie, per non parlare dei vantaggi in favore ell’abitazione e degli usi domestici, le innovazioni tecniche e mccaniche sono state determinanti nelle trasformazioni sociali.
Il quel passaggio fra la fine della seconda guerra mondiale e gli ultimi 40 anni del XX secolo, in quel passaggio vissuto come l’anticamera della moderna democrazia, si sono aperti gli scenari di quelle che sarebbero state le rivoluzioni culturlai legate all’economia, fino ad arrivare ai nostri giorni e se da un lato la vita dell’uomo è stata agevolata dai mezzi meccanici, paradossalmente, dall’altro lato si sono generate le contraddizioni dovute alle paure del rapporto con i mezzi da lui creati….

Postato sabato, 4 aprile 2009 alle 22:40 da rossella


è come se la fiducia avesse lasciato il posto alla sfiducia, la paura competitiva alla logica comportamentale, la calma e la lentezza alla nevrotica velocità, il binomio spazio tempo, accorciando le distanze, ha causato una specie di contrazione cerebrale. La psiconalisi in effetti ha un gran da fare.
Il linguaggio verbale prende forme slang,la cultura nei lavori usa e getta è un optional che non serve a niente e talvolta fastidioso,l’uomo si muove a scatti come azionato da un telecomando e mi pongo una domanda, ovvero se la parola “metamorfosi” generalmente riferita al passaggio dallo stato di larva allo stato di animale adulto, sia adatta alla società odierna che dice di essere in “evolution”…

Postato sabato, 4 aprile 2009 alle 22:47 da rossella


A questo punto colui che non vuole soccombere si comporta come un camaleonte, un trasformista che cambia rapidamente i suoi abiti come fossero involucri usa e getta, nella speranza e nell’intento di non farsi coinvolgere , avendo capito che egli è individualmente un componente di una società che nelle sue metamorfosi trascina con sè, a livello sociologico, crisi psichiatriche molto serie dovute alla idiosincrasia fra i repentini cambiamenti di superficie e la mancanza di cambiamenti profondi e reali di cui l’essere umano ha bisogno.
Insomma la gattopardiana frase “tutto cambia perchè niente cambi” là dove ataviche convinzioni bloccavano ventate di novità, non si adatta ai moderni risultati di coloro che, stanchi della storia, hanno condotto il prossimo verso quell’utopia nella quale la società , arrampicandosi su sè stessa, non cresce e non progredisce.

Colgo l’occasione per fare gli auguri a Massimo e confermo quanto ha scrtto su di lui Salvo Zappulla su La Sicilia di oggi. Massimo cresce e progredisce. E noi con te.

Postato sabato, 4 aprile 2009 alle 22:56 da rossella


Grazie, cara Rossella. E grazie per i commenti.

Postato domenica, 5 aprile 2009 alle 10:44 da Massimo Maugeri


SE PASOLINI FOSSE ANCORA VIVO

Frequento da poco il blog “Letteratitudine”, che mi sembra il migliore tra quanti orbitano intorno all’arcipelago della letteratura. Mi piace il clima cordiale degli interventi, anche se a volte con un sorriso di troppo si rischia di pregiudicare la verità. “Caritas in Veritate” secondo l’ultima enciclica, che sarebbe bene diventasse di moda. Entro nella pagina di Camon, per sapere qualcosa di uno scrittore che conosco poco. Mi soffermo sul titolo “La malattia chiamata uomo”, mi stupisco del fatto che la psicanalisi sia ancora un argomento d’interesse letterario, entro tra i commenti, vedo le domande di Massimo Maugeri (a proposito, mai pensato di scrivere le terne per gli esami?) mi sprofondo tra i vari interventi, leggo le considerazioni di Camon, che tutti giudicano bellissime, scopro che Ottieri per ubriacarsi rubava i profumi alla moglie e che Pasolini sarebbe fuggito da Musatti pur di non riconoscere che l’omosessualità non era natura ma cultura.
Oibò, mi sono detto, non è possibile che veda solo io. Sarebbe una tragedia: nel clima in cui viviamo, a gridare che il re è nudo si corre il rischio, se va bene, di trovare qualcuno che gratta gratta finisce con lo scoprire che da piccolo rubavi le caramelle e che per questo oggi hai le visioni. E me ne sarei stato volentieri zitto, visto che il dibattito da qualche mese si direbbe ormai concluso. Tanto più che mi sembra un po’ retro occuparsi ancora dei rapporti tra psicanalisi e letteratura. Avendo ormai più di sessant’anni ho seguito la parabola di questo dibattito nel nostro paese, dalle prime ostilità dell’idealismo all’ermeneutica di Lacan e alle visioni escatologiche di Deleuze e Guattari. E ne ho ricavato l’impressione che si fosse armai arrivati -per quanto riguarda il rapporto letteratura psicanalisi- su una sorta di binario morto.
Certo, resta la cultura specialista, testimoniata dagli interventi della Zauberei. Ma per i più, passata la moda, rimane il buco della serratura e il piacere di spiarci dentro. Il diario, per l’appunto. Ma alla mia età, con la barba bianca, sarebbe un piacere indecoroso. Una ragione in più per starsene zitti, allora.
E invece no. Forse c’è in ballo qualcosa di più importante. Così, per imitare l’ottimo Maugeri, e attratto anch’io da Don Chisciotte (a proposito: io salverei questo romanzo, non perché il più bello ma perché è il più vero e comprende tutti noi, moderni e post) sono stato tentato di proporre alla pagina inesorabilmente bianca, i seguenti argomenti di dibattito:

1) L’etica professionale impedisce all’analista di riferire i colloqui con il paziente (su questo tema, nei film americani gli strizzacervelli son sempre pronti ad immolarsi). Può invece il paziente, l’impunito, spifferare ai quattro venti quanto nel colloquio gli è stato suggerito? E ciò anche nel caso che il riferito coinvolga terzi? La domanda ovviamente non mette in gioco il diritto, ma l’etica.
2) Il fatto che i terzi in oggetto siano defunti costituisce una sorta di liberatoria o un ulteriore vincolo a rispettarne l’inviolabilità personale (che poi è anche quella di parenti, amici ecc)?
3) La circostanza che si tratti di personaggi pubblici autorizza quelle rivelazioni che ai sensi del quesito 1 e 2 potrebbero essere negate? O ne costituisce invece un ulteriore limite?
4) L’interesse storico e le ragioni della letteratura sono al di sopra di ogni obbligo morale?

E qui mi fermo, deciso a prevenire il sospetto, come accade tra Repubblica e Berlusconi, di indurre le risposte. E poi mi si potrebbe obiettare che la verità, con buona pace della caritas, non guarda in faccia a nessuno, in quanto valore superiore ad ogni altro. E che Dante a rispettare tutti i vincoli di cui sopra non avrebbe mai scritto la Commedia, anche se resta vero che le sue terzine riprendono fatti e argomenti che erano già di pubblico dominio..
Certo: può essere che l’attaccamento di Ottieri ai profumi della moglie e il rifiuto dell’analisi di Pasolini siano un fatto “storico”. Ma se “storico”, perché stupirsi allora della chiacchiera di Musatti, tanto più se affidata a uno scrittore che prima o poi ne avrebbe fatto “storia”? O non sarà, in cauda venenum, che lo scrittore Camon soffre del medesimo disturbo senile denunciato in Musatti: vale a dire il vizio di parlare (nel suo caso scrivere) troppo? E proprio qui, nel parlare o scrivere troppo, sempre sorridendo – caritas in veritate: se è lecito comparare le cose grandi alle piccole- non sarà forse il caso di vedere, secondo gli schemi della più sgangherata analisi, il tentativo di sostituirsi al padre?
Ma, lasciati i sospetti e i sorrisi, confesso che mi è sinceramente dispiaciuto sentire che Pasolini “se avesse continuato l’analisi sarebbe ancora vivo”. E chi l’ha detto, concessa per assurdo l’ipotesi, che l’essere ancora vivo sarebbe, per Pasolini e non solo per lui, un merito? Caro Camon, anche Don Chisciotte si poteva curare e ci ha pure provato. Arriva persino a empirsi la cabeza di testi religiosi e a spirare in santità. Ma resta sempre Don Chisciotte e quella è la sua ultima avventura.
Non ho il culto di Pasolini. Ma un grande rispetto sì. E’ accaduto alla mia generazione come agli americani per la morte di Kennedy: molti di noi si ricordano esattamente del luogo e del momento in cui giunse loro la notizia. A me persino capita, di tanto in tanto di rivederlo. Magari alle giornate del cinema democratico, a Venezia, quando tutti lo fischiarono. Alla fine un gruppetto gli si strinse attorno. “Perché non siete intervenuti?” disse.
Ecco, questa volta l’ho fatto. In ritardo. Ma ognuno ha i suoi tempi e i suoi conti da chiudere.

Postato venerdì, 4 settembre 2009 alle 22:52 da Antonio Bianchessi


Caro Antonio, grazie per questo tuo commento (che mi ero quasi perso). E grazie per i complimenti.
Devo dire che il tuo intervento è molto completo: contiene domande, ma anche (in parte) risposte.
Aggiungo, dal mio (opinabile) punto di vista, quanto segue:
- E’ vero, il tema psicanalisi-letteratura suscita ancora molto interesse
- Non credo che l’etica professionale che impedisce ai medici di riferire sui colloqui con i pazienti valga in senso opposto (a parte che, pur senza riferire il nome del paziente – per rispetto della privacy – a volte anche il medico espone pubblicamente il caso clinico)
- Quando si raccontano aneddoti (o si esprimono opinioni) riferiti a terze persone (viventi o defunte che siano) ognuno si assume le proprie responsabilità. Di certo non è possibile precindere da due cose: a) dire la verità; b) essere in buona fede.
A presto.

Postato lunedì, 7 settembre 2009 alle 22:05 da Massimo Maugeri


Ci vuole coraggio per andare in analisi e mettere in discussione prima se stessi che gli altri, oltre ad avere la capacita’ come Camon di saper raacontare e raccontarsi con infinitesime sfumatore. Caro Camon hai tutta la mia stima.

Postato mercoledì, 16 novembre 2011 alle 10:16 da Anonimo


Ci vuole coraggio per andare in analisi e mettere in discussione prima se stessi che gli altri, oltre ad avere la capacita’ come Camon di saper raacontare e raccontarsi con infinitesime sfumatore. Caro Camon hai tutta la mia stima.

Postato mercoledì, 16 novembre 2011 alle 10:17 da Lucia


Ci vuole coraggio per andare in analisi e mettere in discussione prima se stessi che gli altri, oltre ad avere la capacita’ come Camon di saper raccontare e raccontarsi con infinitesime sfumature. Scavare dentro se setessi e’ un grande rischio ea meno che non si abbia il privilegio di incontratre un analista come il Prof. Giuseppe Fara. Caro Camon hai tutta la mia stima.

Postato mercoledì, 16 novembre 2011 alle 10:19 da Lucia



Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

*********************
Regolamento Generale europeo per la protezione dei Dati personali (clicca qui per accedere all'informativa)

*********************

"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

*********************

*********************

*********************

*********************

OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

*********************

OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

*********************

RATPUS va in scena ratpus

*********************

Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

*********************

"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

LETTERATITUDINE su RaiEdu (clicca sull’immagine)

letteratitudine-su-rai-letteratura

letteratitudinelibroii richiedilo con lo sconto di 4 euro a historicamateriale@libero.it o su ibs.it - qui, il dibattito sul libro

letteratitudine-chiama-mondo

letteratitudine-chiama-scuola

Categorie

contro-la-pedofilia-bis1

Archivi

window.dataLayer = window.dataLayer || []; function gtag(){dataLayer.push(arguments);} gtag('js', new Date()); gtag('config', 'UA-118983338-1');
 
 

Copyright © 1999-2007 Elemedia S.p.A. Tutti i diritti riservati
Gruppo Editoriale L’Espresso Spa - P.Iva 05703731009