venerdì, 27 marzo 2009
LA MALATTIA CHIAMATA UOMO di Ferdinando Camon
Sulla psicanalisi si è detto di tutto, si è scritto di tutto. Molti testi di narrativa, dal Novecento a oggi (cito “La coscienza di Zeno” per tutti) sono intrisi o fanno riferimento alla psicanalisi. I saggi non si contano; così come i manuali. Eppure “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon, romanzo appena ri-edito da Garzanti (euro 14,50, pagg. 186) è un testo che si distingue dagli altri. E non solo perché è un romanzo. Lo intuiamo già da questa frase riportata in copertina: “Viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne”. E di questo si tratta: la descrizione di un lungo e difficile viaggio durato ben sette anni di terapia. Alla fine del testo leggiamo questa avvertenza dell’autore: “Questo non è un diario o una cronaca, con personaggi della realtà, ma un romanzo: in qualche caso la realtà può avermi offerto un pretesto, ma niente più che un pretesto”. Al di là del fatto che la realtà sia stata rappresentata più o meno fedelmente, in questo libro c’è Camon: c’è l’esperienza dell’uomo esposta con il talento dello scrittore; c’è una rivelazione che forse costituisce la tappa finale di quel viaggio (ammesso che quel tipo di viaggio preveda l’esistenza di un punto di arrivo). Carlo Sgorlon sostiene (la frase è riportata in quarta di copertina): “Camon sembra essere entrato in quel gusto autolesionistico di sciorinare in pubblico le proprie disavventure che è talvolta tipico di alcuni scrittori ebrei, per esempio Philip Roth o Saul Bellow”. Non sono molto d’accordo. Non credo si tratti di gusto autolesionistico, ma di insopprimibile esigenza di raccontare (e raccontarsi) per uscire da sé. E nel percorso narrativo che porta a questa uscita da sé, Camon elabora (e offre al lettore) un testo unico: la storia di un’analisi raccontata dal suo interno; il rapporto tra medico e paziente visto con gli occhi di quest’ultimo. Una storia lunga e difficile, dicevo… che comincia così: “Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho quest’impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta” (pag. 9). Uno sconosciuto che diventa più indispensabile di una madre, ma che rimane estraneo fino alla fine del viaggio. “E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta – così piccolo, così magro, così vecchio – io non lo conosco.” (pag. 174)
Eppure questo sconosciuto (che rimane tale) diventa un punto di riferimento imprescindibile. “Incontrarlo diventava la cosa più importante della giornata, della settimana, persino (ora mi è difficile riconoscerlo) della vita.” (pag. 13). E la necessità di incontrarlo non scema (tranne che alla fine del percorso) di fronte alla consapevolezza dello stravolgimento interiore a cui il paziente va incontro: “L’analisi sta all’uomo come una guerra civile sta allo Stato” (pag. 153).
Silenzi prolungati, sfoghi improvvisi, racconti di traumi, rivelazioni e interpretazioni di sogni, disturbi psicosomatici, risvolti tragicomici (in alcuni punti perfino divertenti), malattie vere con conseguenti ricoveri ospedalieri: Camon racconta tutto da par suo; con scrittura ritmica, incalzante, che a tratti sorprende e colpisce allo stomaco. Al centro di tutto c’è la crisi della società e dell’uomo, la dissoluzione della famiglia, la scomparsa delle Chiese-madri e dei Partiti-padri (dunque la perdita di punti di riferimento). E la sconfitta del maschio: “L’orgoglio di essere maschio si è moltiplicato in ogni minuto di ogni giorno di ogni anno, ma il risultato finale di questa operazione non indica che una minima parte della realtà. Perché questo fiume di orgoglio lo aveva già accumulato mio padre, e prima di lui mio nonno, e prima di loro tutti i maschi della nostra famiglia, del nostro paese, del mondo, e tutti questi fiumi di orgoglio erano sfociati in me, riempiendomi come un mare, prima ancora che io nascessi.” (pag. 90)
Un accumularsi di maschio orgoglio che è facile riscontrare in frasi come questa: “Non piangere, sei un uomo”. I fiumi di orgoglio riempiono, i fiumi di orgoglio travolgono. Oggi più di ieri. Perché questi fiumi – forse – corrono su letti sempre più ristretti. E straripano. E allora, la malattia. Ma attenzione: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.
Sulla psicanalisi si è detto di tutto; ma a quel tutto aggiunge qualcosa in più la scrittura di questo romanzo sincero e coraggioso. Una scrittura che fluisce rapida, che scuote, che induce a riflettere sugli effetti dei mutamenti della società e sulla fragilità dell’equilibrio umano.
Di seguito potrete leggere la nota dell’autore alla nuova edizione (ringrazio Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla).
Mi piacerebbe discutere con voi sulle tematiche affrontate da questo libro.
Pongo alcune domande con l’intento di favorire il dibattito:
- che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?
A voi, come sempre, la parola.
Massimo Maugeri
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LA MALATTIA CHIAMATA UOMO (di Ferdinando Camon)
Nota dell’autore alla nuova edizione
Quando scrivevo questo libro, lo sentivo come pieno di sofferenza, a tratti d’angoscia, perciò sono rimasto sbalordito quando poi, appena è uscito, ho visto che i lettori e i critici lo trovavano divertente o perfino comico. Specialmente i lettori e i critici maschi. Le donne hanno avuto una reazione che ci ho messo un anno a capire: le giornaliste non si sono limitate a farci un articolo, ma han voluto una conversazione con l’autore: e così son venute a casa mia una sinologa, critica della «Stampa», una scrittrice del «Corriere della Sera», una romanziera francese redattrice di «Libération», una giornalista
della Radio svizzera… Io le ricevevo con gioia, ero contento che s’interessassero al mio libro, ma un po’ alla volta mi sono accorto che il loro interesse non era per il libro, era per l’uomo: godevano nell’aver tra le mani un uomo in analisi, e venendo a parlargli desideravano costringerlo a una seduta in più, farsi raccontare un altro capitolo, guidare o comunque partecipare all’analisi di un maschio, e in questo modo dominarlo, tenerlo in pugno. Io nel libro lo dico di un uomo per una donna: amare una donna, far sesso con lei, non è il modo più completo di averla in proprio dominio; e nemmeno confessarla, esaminarne i peccati e le colpe; no, il modo più completo ed entusiasmante di conquistarla e possederla è entrare negli spazi di lei che lei non conosce, farsi consegnare i sogni e le fantasie, scoprirne le fobie che lei patisce ma ignora.
Bene, queste donne che appena letta la Malattia venivano a cercarmi, cercavano un nuovo recesso del mio inconscio da indagare, da scoprire, un punto vulnerabile, un sogno dimenticato, una reazione incauta… Volevano una loro vittoria, diretta e personale, su un maschio in crisi. Per ottenere questo, eran disposte a pagare il prezzo che valeva, e cioè a scambiare sogno con sogno, confessione con confessione, seduta con seduta, e perciò mi raccontavano spezzoni della loro analisi, finita o ancora in corso. Alcune di queste loro confessioni sono poi confluite nella Donna dei fili. Ho imparato molto da quelle donne. Più di quanto ho loro insegnato.
Con questo libro, per la prima volta i contatti si facevano personali anche con direttori editoriali e traduttori con i quali fin’allora dialogavo per lettera. Questo è un libro che, fra tutti i miei, alla Gallimard, Hector Bianciotti ha amato di più. Da New York è venuto a trovarmi il traduttore John Shepley, s’è piazzato in un albergo qui vicino e c’è rimasto per alcuni giorni. «Per parlarmi», diceva lui. Credo che la ragione fosse un’altra: per vedermi. Da Buenos Aires è venuto Antonio Aliberti. Questo non lo avevo messo nel conto: che fosse un libro che fa venir voglia di vedere in faccia l’autore, sedersi di fronte a lui, vis-à-vis, entrargli in confidenza.
L’autore, al contrario, non ha voglia di farsi vedere dai lettori, il suo istinto è nascondersi.
Il libro è stato portato in teatro a Parigi, ed è stato recitato tutte le sere per quattro anni all’Aquarium. Io ero a Parigi la sera della prima. Ma non mi sono presentato al teatro.
In una pubblica piazza proiettavano, in prima mondiale, Ran di Kurosawa. In fretta e furia mi son procurato un accredito e mi son seduto tra la folla. Al teatro mi son recato una settimana dopo, l’attore che mi impersonava sulla scena mi ha riconosciuto e alla fine della recita mi ha indicato al pubblico, ma io non mi sono alzato in piedi.
Devo dire che le poche volte che sono andato a incontri con i lettori mi sono pentito. Le osservazioni e i dialoghi eran incauti, indelicati, dolorosi. Un gruppo di lettori aveva organizzato un piccolo festeggiamento con cena, mi presento, siamo nell’atrio della sala in attesa, una signora mi s’avvicina e mi fa: «È lei che ha scritto il libro?», «Sì, signora », «Leggendo, la immaginavo diverso», «E come m’immaginava?», la signora mi squadra dall’alto al basso, dal basso all’alto, e conclude, sprezzante: «Più ascetico».
Mi considero fortunato a non aver mai incontrato di persona, almeno finora, qualcuno dei lettori-pazienti che in questo quarto di secolo sono andati in analisi dall’analista di cui parlo nel libro. È stato lui stesso a raccontarmi che hanno tutti qualcosa da ridire: «Dov’è sul muro la macchia a forma di aereo che descrive Camon?», «Ma il lettino è sempre stato così vicino al muro? e quando venne il terremoto di cui parla Camon, sbatteva sul muro?». Son passati tanti anni, ma è come se andassi ancora in analisi insieme con loro. E neanche questo l’avevo previsto.
Quella che racconto nel libro è un’analisi in cui è uomo (maschio) sia l’analizzato che l’analista. Poiché l’analisi è onnisessuale, in questa onnisessualità fra due uomini una mente profana (beata lei) può sentire una vena di omosessualità: in fondo, son due uomini che parlano di sesso, in completa intimità. C’è stato uno scrittore omosessuale che è venuto a trovarmi, dopo di che mi ha mandato per lettera una scheda di valutazione del mio aspetto fisico: mani «raffinate», sopracciglia «stupende» (scusate, lo diceva lui; ma perché le donne non mi hanno mai fatto complimenti del genere?), sguardo «morbido»; «peccato le spalle…». Infatti, lo riconosco, sono un po’ curvo.
Non ho mai ricevuto esami anatomici dai lettori di nessun altro mio libro, ma della Malattia sì. Qualcosa deve significare.
La psicanalisi dà l’idea non di una relazione ma di una fusione psiche-soma. Valutazioni di questo tipo credevo che non mi facessero né caldo né freddo. Però, passano gli anni, e m’è venuto un tic: ogni mattina, quando mi rado, guardo le sopracciglia e ripeto dentro di me «stupende », guardo le mani e dico «raffinate», poi mi giro per vedere nello specchio le spalle e mi lamento: sì, sono curve, sembro Leopardi. È dunque un libro che mi ha inguaiato i rapporti con i lettori. E con me stesso.
Da Mosca il mio traduttore Mickail Andreev, professore all’università, mi mandò una lettera sconsolata: «Non mi la sciano tradurre questo libro, dicono di non poter ammettere che ci sia un’influenza che partendo dalla psiche si scarica sul corpo». Non so se la seduta sia un reato, come sosteneva il presidente degli psicanalisti italiani Cesare Musatti (è un aneddoto che cito spesso, a costo di ripetermi: «Se i carabinieri sentissero come parlano, e di cosa parlano, analizzato-analista, gli metterebbero le manette e li porterebbero in prigione di corsa»), ma certo è un tabù. E ogni capitolo del libro rompe questo tabù. E qui, probabilmente, c’è una violenza, una hybris. È una colpa, e chi la commette deve espiarla. Di fronte all’uomo in crisi, al maschio in analisi, la critica italiana dava spiegazioni storiche o economiche (l’Occidente è in decadenza, la donna guadagna quanto il marito, nei divorzi la moglie si porta via tutto, e soprattutto i figli, eccetera): noi avevamo una critica marxista-idealista, altrove usavano da tempo quelle che i francesi chiamano le «nuove scienze umane». E queste, nella comprensione di un testo letterario, rendevano di più. Perciò è stata profondamente diversa la lettura che di questo libro han fatto i giornali francesi, spagnoli, argentini rispetto a quegli italiani. Fuori d’Italia mi son sentito capito meglio. Qualcuno, all’estero, aveva affacciato l’ipotesi che il culmine della vittoria della donna sull’uomo (del femminile sul maschile) si fosse avuto quando c’era stato un papa che era durato solo 33 giorni, ma in quei 33 giorni aveva fatto in tempo ad annunciare al mondo che «Dio è mamma», cioè femmina. Fosse durato altri 15 giorni, avrebbe cambiato le parole con cui i cristiani sparsi sulla Terra si richiamano alla propria origine: «Madre nostra, che sei nei cieli». Era la de-maschilizzazione del mondo e della storia. Correva l’anno 1978, il mese era settembre, in analisi ero sprofondato nel tunnel dei sogni, ci volevano ancora tre autunni perché uscissi a riveder le stelle, intanto prendevo appunti, e quegli appunti erano il primo nucleo della Malattia chiamata uomo.
Ferdinando Camon
Luglio 2008
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AGGIORNAMENTO DEL 31 marzo 2009
Aggiorno il post con il bellissimo intervento che ci ha fatto pervenire Ferdinando Camon
(Massimo Maugeri)
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Ferdinando Camon a Massimo Maugeri
31 marzo 2009, ore 17,14
Caro Maugeri e cari colloquianti di “Letteratitudine”, leggo nella mattinata del 31 marzo il dibattito che si sta svolgendo sul mio libro “La malattia chiamata uomo”, e poiché qualcuno mi chiama in causa, ritengo un dovere morale rispondere. Non è una buona cosa che un autore risponda a domande su un suo libro, perché il libro dovrebbe già contenere le risposte: se le risposte le dà l’autore, vuol dire che il libro è incompleto o reticente. Ma il fatto è che si tratta di un romanzo-verità, un racconto-diario, e la verità e il diario riguardano una delle esperienze fondanti della vita, la psicanalisi, e perciò basta che uno viva per sentirsi coinvolto e reagire, concordando o dissentendo. Ho detto psicanalisi-esperienza. Il che comporta che chi ne ha fatto l’esperienza sa che cos’è, mentre chi ha soltanto letto dei libri o discusso con amici (o psicanalisti o preti o intellettuali vari) ne ha una intuizione esterna, ma non una conoscenza. La mia analisi è cominciata con Cesare Musatti, presidente degli psicanalisti italiani. Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della Spi, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre (e sfruttare) il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. E’ il protagonista del libro. Musatti era vecchio, e come tutti i vecchi parlava troppo. Mi raccontava di un altro scrittore che era stato in analisi da lui, un grande scrittore, che io sentivo come un fratello maggiore, Ottiero Ottieri: Ottieri era caduto in quella che si chiama “analisi interminabile”, dopo l’analisi con Musatti entrò in un’analisi junghiana, e dopo in un’altra ancora, e insomma non ne usciva più. Io amavo i suoi romanzi. Avevo raccolto in un libro le mie conversazioni con gli scrittori italiani che frequentavo, Moravia Pratolini Bassani Cassola Pasolini Volponi Ottieri Roversi Calvino, Musatti lo sapeva, e non doveva parlarmi in quel modo di due di questi autori, che per me erano due “figure interiori” dominanti. Ottieri beveva. La moglie gli nascondeva gli alcolici. Ma lui trovava il rimedio, beveva i profumi della moglie, che contengono alcol. Pasolini controllò con sofferenza le prime 6-7-8 sedute, non voleva che saltasse fuori la sua omosessualità. A un certo punto lo disse: “Parlerò di tutto, tranne che della mia omosessualità, perché la considero natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, perché è cultura”. Pasolini entrò in una crisi d’angoscia, saltò una-due-tre sedute, e alla fine non si fece più vedere. La mia opinione è che, se avesse continuato l’analisi, sarebbe ancora vivo, e avrebbe l’età di Zanzotto. Ma non sono convinto che Musatti abbia fatto bene a dire quelle parole. Lui non doveva spiegare nulla. Doveva soltanto analizzare perché Pasolini credesse che l’omosessualità fosse natura (convinzione, peraltro, che il senno del poi predilige). Anche per questi sconcertanti errori non mi fu traumatico passare da Musatti a Fara.
Quella era l’”epoca eroica” della psicanalisi, la psicanalisi freudiana si svolgeva così come io la racconto. Avevo amici psichiatri-psicanalisti che andavano in analisi a Parigi una volta al mese, da Salomon Resnik. Resnik, argentino trapiantato a Parigi, è l’autore delle voci sulla psicanalisi per l’Enciclopedia Einaudi. Questi miei amici stavano a Parigi un week-end al mese, e in quei giorni andavano in analisi ogni mattina e ogni pomeriggio. Poi, separazione totale per un mese. Assurdo. Per me, l’analisi è una “consegna” della vita, man mano che viene vissuta. Tu, all’analista, dai tutto quello che sei, giorno e notte, quello che sai e quello che non sai, e i sogni li consegni alla cieca, ignorando quel che contengono. In quello che non sai, e nei sogni, può esserci anche disprezzo per l’analista, e oltraggio, e protesta. Non ha importanza, il vostro rapporto non cambia. Il vostro rapporto è il rivivimento di altri rapporti, analizzando l’odio di questo rapporto tu capisci l’odio di altri rapporti, e ne vieni fuori. Finché non ne vieni fuori, lo patisci. E’ per questo che l’analisi è un cibo: un cibo lo devi mangiare, non saprai mai cos’è finché leggi menù. Così è l’analisi. Finché leggi libri, non ne fai esperienza.
L’analisi che racconto nella “Malattia” è la forma classica dell’analisi freudiana. Ci sono altre analisi, certo. Alcune selvagge. Un’analisi selvaggia la racconto nel romanzo “Il canto delle balene”, lo dico perché vedo che qualcuno di voi l’ha letto: l’analista del “Canto delle balene” è (scusate) un pazzo, che crede di guarire contagiando con la propria pazzia. Mi sono divertito scrivendo “Il canto delle balene”, ho sofferto oltre ogni dire scrivendo la “Malattia”.
Oggi non la scriverei più così, ma l’analisi nella sua forma classica resta quella. Allora c’erano ruoli inderogabili: padre, tu vieni dopo la famiglia; marito, tu vieni dopo tua moglie; figlio, ama il padre e la madre; omosessuale, tu sei un assassino. I “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” erano sette, il primo era l’omicidio volontario, il secondo il “peccato impuro contro natura”, cioè l’omosessualità. Capisco la disperazione, allora, di Pasolini, e oggi di Vattimo. Ognuno aveva un ruolo, sgarravi dal tuo ruolo e ti sentivi morire. Imperava il senso di colpa. L’analisi che io racconto è il processo a cui viene sottoposta una morale piena di valori e anti-valori terrificanti. Adesso il campo della morale è vuoto, il senso di colpa è dissolto.
Per tutto quello che ho detto, uno psicanalista ottiene più per quello che è che per quello che sa. Non contano le sue risposte, conta il modo con cui ti conduce a trovare le risposte. Non è vero che quando non risponde c’è il silenzio: siete in due, tutt’e due vigili all’estremo, quindi silenzio come assenza non c’è mai. Il silenzio come assenza è l’isolamento. Il silenzio come presenza vigile è la solitudine. E’ ben diverso.
Capisco chi dice oggi che quattro ore alla settimana sono troppe: oggi forse non sono neanche necessarie. Forse oggi non è necessaria nemmeno l’analisi col lettino, e infatti vedo che qualcuno ironizza sul lettino. Il lettino e il non-vedersi causano regressione. Il punto a cui arrivi con la regressione è il punto da cui parti con la ricostruzione. Vedo che qualcuno parla di “ricostruzione della persona”. E’ giusto, è l’operazione da fare. La persona fu costruita con la lingua, e con la lingua va ricostruita. Non sono sicuro che si possa porre un “essere” prima che si possa porre il “parlare”. Heidegger dice che il linguaggio “è la casa dell’essere”. Vito Mancuso dice che “l’essere divino è persona e ha un linguaggio”. Su quel che c’era in principio sta scritto: en archè en o lògos, in principio erat Verbum. Credo (ma non è il mio campo) che la lingua fondi la persona, e che il bambino che sente come prima parola “mamma” venga fondato diversamente da quello che sente “Mutter”. Poi, crescendo, i due bambini si differenziano sempre di più: il ragazzo che sente “attenzione” sta attento, il ragazzo che sente “Achtung” trema. All’interno di una lingua, ogni parlante è diverso dagli altri, e così per ogni uomo si svolge un’analisi diversa: se non fosse così, potrebbero esistere dei dizionari dei sogni, in cui dato un sogno con i suoi simboli si deducono le oggettive valenze. Come se il senso di un sogno fosse in chi lo interpreta. Invece il senso di un sogno sta dentro il sognatore, e quando vien fuori il senso se ne meravigliano sia l’analista sia chi va in analisi. Il terreno dell’analisi è il terreno dei tabù. Un’analisi si muove sempre nel proibito. E’ ingenuo il paragone (che spesso si fa) tra analista e confessore: un’analisi comincia dove la confessione finisce, la confessione a un certo punto si deve fermare (sta scritto nelle guide del confessore; se non si ferma, diventa morbosa), ma l’analisi è da lì che parte. Certo, come dice qui più d’uno (ho imparato molto da queste e-mail; grazie a tutti, da Zauberei agli altri, e grazie anche a Giampiero, che mi ringrazia), i tempi cambiano, cambia la famiglia, cambiano l’uomo e la donna, e dunque cambia anche l’inconscio. Perciò cambia la caccia all’inconscio. Tuttavia l’inconscio fu ipotizzato e cercato e rintracciato e descritto con la tecnica che io descrivo. Quella tecnica sta alla psicanalisi come il latino sta alle Scritture. Per capire le Scritture, bisogna conoscere la lingua in cui sono scritte.
Ferdinando Camon
Tags: analisi, Ferdinando Camon, garzanti, la malattia chiamata uomo, psicanalisi
Scritto venerdì, 27 marzo 2009 alle 23:40 nella categoria IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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