martedì, 30 novembre 2010
ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010)
AGGIORNAMENTO DEL 30 novembre 2010
Ho riportato in evidenza questo post perché c’è un nuovo contributo: l’intervista che Michela Murgia ha rilasciato a Sergio Sozi (pubblicata su “Il Giornale dell’Umbria” del 22.11.2010).
La trovate alla fine del post.
Massimo Maugeri
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Michela Murgia vince il Premio Campiello 2010
Ho chiamato Michela venerdì mattina, al cellulare. Era appena atterrata a Venezia. Ed era emozionata. Le ho detto: “ho una sensazione positiva… vincerai il Campiello”. Lei mi ha ringraziato (magari avrà fatto gli scongiuri… chissà). Ma ciò che conta è che il Premio è andato a un libro assolutamente meritevole, di cui – peraltro – avevamo avuto modo di discutere l’estate scorsa proprio qui a Letteratitudine, con la partecipazione della stessa autrice.
Complimenti, Michela! Cento di questi Premi… e di questi libri.
Massimo Maugeri
5 settembre 2010
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Faccio i migliori auguri a Michela Murgia (nella foto) per aver vinto – sabato, 22 maggio – il Premio letterario SuperMondello 2010 e aver ricevuto contestualmente la comunicazione di far parte della cinquina dei finalisti del Premio Campiello di quest’anno (aggiudicandosi, dunque, il Premio Selezione Campiello). Il libro premiato si chiama “Accabadora” (Einaudi) e riconfermo le parole di elogio espresse nel post del 24 agosto 2009. Un libro bello e importante che, ancora una volta, consiglio di leggere.
Di seguito, il citato post pubblicato la scorsa estate.
Massimo Maugeri
24 maggio 2010
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Post del 24 agosto 2009
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre.
Sono queste le parole che si leggono sulla quarta di copertina del romanzo di Michela Murgia intitolato, appunto, “Accabadora” (Einaudi); un romanzo che – per quanto mi riguarda – è uno dei migliori che ho letto nel primo semestre del 2009.
Una storia forte, quella della Murgia; impreziosita da una scrittura di alta qualità (lirica, densa, ma molto efficace; da grande narratrice) e dal fascino di un’ambientazione riuscita (quella della Sardegna degli anni Cinquanta). Una storia che affronta tematiche complesse e attualissime quali: l’adozione (o l’affidamento), l’accompagnamento alla morte (eutanasia?), ma anche le contraddizioni e i taciti patti che possono interessare comunità organizzate come un unico organismo.
La giovane protagonista del romanzo, Maria, all’età di sei anni diventa «figlia d’anima» (fill’e anima) dell’anziana Bonaria Urrai. Cosa significa «figlia d’anima»? Significa – nella fattispecie – che la piccola Maria diventa figlia acquisita dell’anziana donna secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia.
Bonaria Urrai fa la sarta. Questo è quello che sa Maria. Ma c’è dell’altro. Nell’oscurità l’anziana donna svolge un ulteriore compito: entra nelle case per porre fine alle sofferenze degli agonizzanti e portare una morte pietosa. È un atto ossimorico, quello dell’ultima madre: ferale e amorevole.
Maria la scopre dopo, questa realtà. E la scoperta la sconvolge, la travolge. Perché la giudica inaccettabile. Perché discende dal crescente scarto tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano. Anche se – alla fine – un monito della stessa Bonaria aleggia nell’aria, penetra nelle orecchie: “non dire mai:di quest’acqua io non ne bevo”.
Vi invito ad approfondire la conoscenza di questo romanzo interagendo con l’autrice (che parteciperà alla discussione).
Contestualmente vi propongo di discutere sulle tematiche affrontate dal libro.
Come sempre, per favorire la discussione, pongo alcune domande.
1. (Maria diventa «figlia d’anima» di Bonaria Urrai)
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
2. (Bonaria Urrai pratica la «accabadura»)
Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?
Di seguito, potrete leggere la recensione di Bruno Quaranta pubblicata su Tuttolibri del 20 giugno 2009. Consiglio, inoltre, l’ascolto dell’intervista rilasciata alla trasmissione radio Fahrenheit.
Massimo Maugeri
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