giovedì, 31 maggio 2007
BALENE BIANCHE di Sabrina Campolongo
Credo che Sabrina Campolongo sia una delle abitanti del regno degli esordi letterari felici. Il suo primo libro “Balene bianche”, Di Salvo editore, sta riscuotendo un buon successo. Vi propongo, di seguito, per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, un brano tratto dall’opera. (Massimo Maugeri)
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Da: “Lei dev’essere Erica”
[…]
Trent’anni dopo. Una sera qualunque. Avevo capito subito, dalla voce di mia madre, che era successo qualcosa di grave. Anche se le sue prime parole, “Mi ha appena telefonato una sconosciuta” mi avevano portato totalmente fuori strada.
— Ha detto che Isabella è morta.
Strano, a ben pensarci, come non le fosse venuto in mente di fare alcuna precisazione.
Né che a me fosse venuto di chiedere: — Isabella chi?
Eppure, era una persona che aveva smesso di fare parte della nostra vita, oltre trent’anni prima.
Non avevo detto proprio nulla, all’inizio. Non mi era sembrato di provare alcuna emozione, come se quell’evento non riuscisse a fare breccia nella mia coscienza. L’unica sensazione era che mi si fosse asciugata la bocca.
— Come? — avevo chiesto poi.
— O…ver…dose. — aveva singhiozzato mia madre.
Solo allora la mia mano che reggeva il telefono aveva preso a tremare.
— Quella donna mi ha detto…— aveva poi ripreso, a fatica, — Che domani spargeranno le sue ceneri… Alla…alla…
— Mamma…
— Scusa… è che… Alla casa al lago, tesoro.
Dopo un’altra crisi di pianto lei riuscì a dirmi, e io a capire, che la donna stava cercando di riunire alcune persone alla casa al lago, che aveva trovato il mio numero – che era ormai soltanto quello di mia madre – tra le cose di Isabella, che lei le aveva spesso parlato di me.
— Io non ce la faccio ad andarci, Erica — aveva concluso.
Io invece in qualche modo ero lì, accanto a una donna che si era appena presentata come Lucia, e che era stata qualcosa, nella vita di Isabella, con i piedi sul prato che tante volte avevo calpestato da bambina, a guardare il tetto sfondato, le mura scrostate di quella casa che conoscevo come la mia e che ora sembrava aspettasse solo che ce ne andassimo tutti per morire come chi l’aveva occupata.
Avevo detto a mio marito che andavo al funerale di una vecchia amica. Marco mi aveva chiesto se volevo che mi accompagnasse; gli avevo risposto di no.
— Non avrebbe una sua foto recente?
Lucia scosse la testa.
— Le ho cercate, in casa, ma non le ho trovate. Immagino che le abbia bruciate prima…
Vidi che la commozione stava per avere la meglio sul suo autocontrollo.
— Mi scusi. É solo che così mi sembra di essere al funerale di una bambina. L’ultima volta che l’ho vista aveva nove anni.
La donna annuì.
— Lo so. Quella era la sua casa, vero?
— Sì. — dissi, guardandola.
Sembrava vuota, al momento, ma era in condizioni molto migliori di quella di Isabella. I nuovi proprietari l’avevano tenuta con cura. Mi chiesi se fossero sempre gli stessi: la giovane coppia alla quale mia madre aveva venduto, quell’inverno.
Non mi aveva mai dato una spiegazione soddisfacente per quella vendita. Non era stato bisogno di soldi, credo. Ho sempre pensato che non volesse rivedere Lori, dopo che era successo quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Dopo che era stato il suo, di matrimonio, a perdere l’equilibrio e a cadere, nonostante il nostro giardino perfetto, incurante dei manicaretti che lei preparava per noi, infischiandosene della sua assennatezza.
Era accaduto soltanto pochi mesi dopo quell’ultima estate.
Fu una doccia gelata per me. Compresi troppo tardi che per un periodo avevo vissuto nel riflesso abbagliante dell’esistenza di Isabella, così accecata da non vedere più nient’altro.
La scomparsa di suo padre era tanto più eclatante del lento allontanarsi del mio, come più sfrontato era stato il suo amore; la tristezza di Lori, la rabbia di Isabella: era tutto così visibile, così drammatico. Le lacrime di mia madre, se c’erano state, erano cadute fuori dalle luci della ribalta; non ricordo di aver mai sentito i miei litigare ma, per quanto poi mi sia sforzata da allora, non riesco a ricordare una sola conversazione avvenuta tra di loro quell’estate.
La vita di Isabella aveva inghiottito la mia.
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Registrai la presenza di un’auto che non conoscevo, quel pomeriggio, rientrando dalla spesa, però non mi chiesi di chi fosse, sul momento. I miei pensieri immediati gravitavano attorno al sacchetto di liquirizie che tenevo stretto in pugno come un trofeo, dopo essere riuscita a estorcerlo a mia madre. Volevo soltanto trovare Isabella (e Tomas?) per spartirci il frutto del mio lavoro.
Dirigendomi a casa sua la vidi sgattaiolare in veranda. Feci per chiamarla, ma qualcosa nel modo in cui aveva chiuso la porta dietro di sé, avendo evidente cura di non fare rumore, mi dissuase dal farlo. La vidi correre via, verso il lago e la seguii, cercando di abbreviare la distanza che ci separava. Feci in tempo a scoprirla infilarsi nel capanno dove era custodita l’attrezzatura per la pesca, nonché la famosa canoa – il capanno stesso era stato costruito per metterla al sicuro da noi, ma, dopo i primi tempi in cui era rimasto diligentemente chiuso, il lucchetto era andato perso e mai più sostituito.
Entrai nella penombra surriscaldata appena in tempo per sentirla urlare:
— Tuo padre ha messo la lingua in bocca a mia madre!
Il destinatario di quella che aveva tutta l’aria di essere un’accusa era in piedi in fondo al capanno, con un piombino in una mano e la canna da pesca nell’altra.
Accortasi del mio arrivo, Isabella mi ripeté l’accaduto. Forse restai a guardarla interdetta, forse cercai aiuto nello sguardo di Tomas. Comunque fu chiaro che non avevo capito.
— Tu non sai niente. — disse Isabella. Non come se volesse prendermi in giro, o farmelo pesare. Sembrava sconsolata, raffreddata all’improvviso dal mio mancato supporto alla sua indignazione.
— L’ha baciata con la lingua. — provò a spiegare.
— Evidentemente, anche lei ha baciato lui. — ribatté Tomas, in tono accademico.
— Non è vero!
Isabella sembrò di nuovo cercare il mio appoggio. Dovette rendersi conto, però, che ancora non avevo messo a fuoco la situazione.
— Dammi un bacio con la lingua! — ordinò allora a Tomas, spazientita. — Così può giudicare!
Tomas non sembrò troppo sconvolto dalla richiesta. Più tardi riflettei sul fatto che in quello si assomigliavano. Potevi proporre a Isabella le imprese più assurde, certa di non sentirla pronunciare frasi come “Sei pazza?”. Non che accettasse qualsiasi follia, ma quantomeno era sicuro che avrebbe analizzato la cosa.
Lo stesso fece Tomas quella volta.
— Non posso baciarti. Sei mia sorella.
— No che non lo sono!
— Va bene, sei la mia sorellastra. In ogni caso non posso baciarti. Abbiamo la stessa madre.
— Bacia lei allora.
Non ricordo se e cosa replicai. Le mie parole sono andate distrutte nell’incendio che divampò in quel momento dentro la mia testa.
Vedo però nitidamente Tomas che appoggia gli attrezzi per la pesca. Che si toglie il berretto che portava calcato sugli occhi – un particolare questo che ancora mi fa sorridere – e che si avvicina.
Ricordo le sue mani posate con fermezza sulle mie spalle. Le sue dita che stringono un po’, attirandomi verso di lui. Il suo viso inclinato che viene sempre più vicino. Poi devo avere chiuso gli occhi.
Le sue labbra erano saline del sudore che ci ricopriva tutti, nell’aria immobile e arroventata del capanno, e calde. La sua lingua ancora più calda era per un attimo scivolata sopra la mia. Per reazione le mie gambe si erano fatte di burro.
Poi era di nuovo a un palmo da me. Le sue mani erano ancora sulle mie spalle, ma non stringevano più.
— Sai di liquirizia — disse.
E, per la prima volta, mi sorrise.
Sorrisi anch’io.
Per un attimo ci dimenticammo di Isabella.
— Fate schifo!
L’offesa ci colpì come uno schiaffo.
Avremmo dovuto sentirci sdegnati, avremmo dovuto reagire con le armi che ci dava il buonsenso – dopotutto non avevamo fatto nient’altro che quello che lei aveva voluto – invece, di fronte a tanta ferocia, alla voce strozzata dal disgusto, a quegli occhi affilati d’odio, sia io che Tomas finimmo con l’abbassare lo sguardo.
Il nostro silenzio sembrò scatenare una reazione ancora più violenta. Per la prima volta da che la conoscevo la sua lingua non seppe essere tagliente. Restò a fissarci ancora qualche istante a bocca aperta, rossa in viso, stringendo spasmodicamente i pugni serrati contro i fianchi. Poi scappò via.
Tomas e io la seguimmo fuori dal capanno. Nessuno dei due credo avesse in mente di andare a cercarla. Semplicemente il fatto di restare soli ci imbarazzava.
Tornammo verso le rispettive case. Io tenevo ancora in mano il mio sacchetto di liquirizie. E sorridevo. Il fatto che Isabella ce l’avesse con me mi avrebbe gettato nello sconforto più nero, in un altro momento. Ora invece mi sentivo gonfia di qualcosa di dolce e frizzante. E avevo voglia di restare sola nella mia camera, per ripensare a quello che era successo.
Non potevo immaginare che quel tempo passato sul mio letto a ridere da sola e a guardare il soffitto era tutto quello che mi sarebbe rimasto, per fare la pace con Isabella. E per stare con Tomas.
Mia madre mi chiamò poco prima dell’ora di cena – le avevo detto che avevo un po’ di mal di pancia e lei aveva dedotto che ci fossimo mangiate tutte le liquirizie che invece avevo nascosto in tasca – dicendomi che Isabella voleva salutarmi.
La notizia mi sorprese piacevolmente. Non mi interrogai sull’uso del verbo salutare, lo intesi come se avesse voluto dire “parlarmi”. Mi precipitai giù per le scale.
Mi bloccai nell’atrio, vedendoli tutti e tre: Lori, ben vestita e truccata e Isabella e Tomas, con addosso gli abiti da città.
— Erica, Isabella deve tornare a casa prima, quest’anno. — spiegò mia madre, leggendo il mio sconcerto — É venuta a salutarti.
Isabella abbassò lo sguardo, come a smentire quell’affermazione. Lori provò a spingerla verso di me, inutilmente. Poi venne ad abbracciarmi, sfoggiando un sorriso teso.
— É solo arrabbiata perché non vuole tornare a casa. — mi sussurrò, sempre china su di me.
Poi si avvicinò Tomas. Lori gli scoccò un’occhiata sorpresa, prima di farsi da parte.
— Ciao.
— Ciao.
Per un attimo restò ancora davanti a me, forse chiedendosi come poteva salutarmi. Io abbassai il viso, terrorizzata all’idea che pensasse di abbracciarmi, o, chessò, di baciarmi, davanti a mia madre.
Ovviamente non lo fece.
La sua mano si tese a stringere la mia, un gesto che le due madri trovarono molto divertente. — Come siamo formali!
Tomas approfittò della distrazione generale per farmi scivolare una carezza leggera sul palmo.
Prima di andarsene, Lori mi porse un pacchettino infiocchettato.
— É per il tuo compleanno. Mi spiace che non possiamo fermarci abbastanza per festeggiare assieme, quest’anno. Spero ti piacerà lo stesso. L’ha scelto Isabella sai… L’ha visto in vetrina e non ha voluto prendere in considerazione nient’altro!
— In realtà, anch’io penso che sia perfetto per te. — aggiunse.
Poi non c’erano più. Partiti. Sopra l’auto sconosciuta cui avevo dato così poca importanza, quel pomeriggio. Con lo sconosciuto che aveva baciato Lori in quel modo – e che, a quanto pareva, era il padre di Tomas – che li aspettava già seduto al posto di guida.
Seguirono giorni di dolorosa inerzia. Un’altra volta mi ritrovavo sola nella casa al lago, quell’estate, ma se la solitudine iniziale era stata illuminata dall’attesa dell’arrivo di Isabella, questa nuova portava i colori tetri di un abbandono.
Ogni filo d’erba mi parlava della loro assenza. Bastava una buca abbandonata, il rumore del vento tra le canne, l’odore dolciastro dell’acqua bassa sulla sponda, a spingermi un peso sul petto che mi mozzava il respiro. Mi trascinavo di qua e di là tentando di sfuggire allo sguardo e alle domande di mia madre, in cerca di angoli inesplorati, di luoghi che non portassero il ricordo di Isabella, o di Lori, o di Tomas. Alla fine trascorsi i miei ultimi giorni di vacanza chiusa nella mia stanza. Guardando il braccialetto che mi tintinnava al polso, il regalo di Isabella che mia madre aveva deciso di darmi in anticipo, sperando di alleggerire il mio umore. Una semplice catenella d’oro. Appesi c’erano un orsacchiotto, una stella, un cuoricino e due lettere. Una E e una I.
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Non riuscivo più a portarlo al polso. Era un braccialetto da bambina che ora tenevo in una tasca della giacca invernale.
— Se vuole ho preparato un piccolo rinfresco dentro, — mi stava dicendo Lucia.
— No, grazie. Non credo di volere entrare.
— Capisco. Se ha sete posso portarle qualcosa fuori.
— Sto bene, non si disturbi.
— Ho dato una ripulita alla casa. Era in condizioni tremende. Del resto lei, da sola, non poteva fare più quasi nulla.
— Per colpa della droga?
Vidi che l’avevo sconcertata.
— Droga? Isabella non si drogava. Chi le ha detto una cosa del genere?
Ora era il mio turno di essere sgomenta.
— Mi scusi. Credevo fosse morta di overdose.
Lucia sospirò. Annuì, stirando le labbra in un sorriso triste.
— Capisco. Mi scusi lei. Avevo avuto, in effetti, l’impressione che sua madre non avesse colto gran parte di quello che le riferivo. Comprensibilmente, mi è sembrata molto scossa.
— Cos’è che non ha colto?
— Isabella è morta a causa di un’overdose di farmaci. Non accidentale. Si è suicidata. Aveva ben chiaro come farlo. Era infermiera, lo sapeva?
— No. Non lo sapevo.
— Ha preso tanta di quella roba che una lavanda gastrica sarebbe stata inutile.
La domanda “perché?” mi rimase sulla lingua. Che senso poteva avere chiederlo a lei? E dubitavo in ogni caso che avrei potuto comprendere: non sapevo nulla della vita adulta di Isabella.
— Aveva un cancro. Incurabile.
Spinsi quest’ultima informazione in un angolo della coscienza. Avrebbe dovuto rendere le cose più facili, forse. Però pensare a Isabella malata faceva male.
É perché la vedi ancora bambina, mi dissi. Questo pensiero ne trascinò un altro.
— Dov’è Lori? Non l’ho ancora vista.
Lucia aggrottò le sopracciglia, guardandomi con aria interrogativa.
— La madre di Isabella.
— Ah. Mi scusi, non sapevo si chiamasse così. Nessuno sa dove sia, comunque. Se ne è andata quando Isabella aveva una decina d’anni. É sparita dalla sera alla mattina, come aveva fatto con il primo marito, in Svizzera.
Questa volta cercai di non farle capire che non sapevo nulla nemmeno di quella vecchia storia. Pensavo all’uomo che avevo intravisto in macchina. Lei intanto continuava a parlare.
— Isabella ha vissuto per un po’ con il padre, poi è andata a vivere con il fratello. Lui è l’unico che le sia rimasto vicino fino alla fine. Sarà Tomas a spargere le sue ceneri.
Il mio cuore prese un’accelerata non prevista.
— Tomas? Tomas è qui?
— Sì certo. É stato lui a darmi il suo numero di telefono.
A malapena ascoltai quell’ultima informazione. E in seguito dimenticai di chiederne spiegazioni.
— E… dov’è adesso? Sa dov’è?
Ora mi stava guardando in modo strano, o era solo frutto della mia paranoia? E perché diavolo mi sentivo in colpa? Tomas era l’unica persona che conoscevo, lì in mezzo.
— Credo sia andato giù al capanno. Mi ha detto che c’era una canoa, una volta, voleva vedere se era ancora in condizioni di portarlo in mezzo al lago.
Mentre scendevo verso la riva mi venne in mente che non sapevo nemmeno se fosse solo. Poi mi chiesi che differenza avrebbe mai potuto fare e mi sentii sciocca per quel pensiero. Intanto ero quasi arrivata al capanno. Potevo sentire i rumori di roba spostata che giungevano dal suo interno.
Mi affacciai, e per poco non venni colpita dalla prua della canoa. Mi sfuggì un gemito di sorpresa.
— Oddio, ho fatto male a qualcuno?
La voce era quella di un uomo.
— No. Sto bene — mi sforzai di replicare. — …Tomas?
La canoa venne abbassata.
— Erica?
Era stato un ragazzino alto – alto per la sua età, si dicevano le madri – ma a un certo punto doveva essersi fermato. Ora aveva una statura assolutamente nella media. Era sempre molto magro, ma aveva imparato a tenere le spalle diritte. Portava i capelli più lunghi e una sottile peluria bionda sulle guance. Gli occhi però erano quelli che ricordavo.
Vidi che anche lui mi stava studiando, mentre mi avvicinavo. Gli tesi la mano, per fare qualcosa.
— Come siamo formali.
Anche il suo sorriso con gli anni non era cambiato.
Gli strinsi le braccia attorno al collo. Lui mi serrò forte contro di sé. Accarezzai i suoi capelli e le sue guance, cercai con foga le sue labbra.
Furono i singhiozzi a obbligarci a staccarci. Restammo ancora abbracciati, piangendo.
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Eravamo in tre, sulla canoa. Lucia teneva l’urna sulle ginocchia. Più tardi pensai che mai prima di allora mi ero sentita così vicina a qualcuno che non fossero i miei figli. Eppure, ero con una donna che avevo visto quel pomeriggio per la prima volta e con un uomo che avevo più che altro ammirato da lontano, quando entrambi eravamo bambini. E sentivo che avrei potuto fare qualsiasi cosa per loro, se solo me l’avessero chiesto. L’avrei fatto per lei. Era tutto per lei, per Isabella. Lo era sempre stato.
Ci fu un momento – Tomas aveva smesso di pagaiare e la canoa aveva fatto un lento mezzo giro su se stessa – in cui mi colse la melodrammatica certezza che saremmo caduti e annegati nell’acqua gelida. Che saremmo finiti sul fondo del lago con lei, che era per quello che ci trovavamo lì.
Invece, ognuno di noi affondò le mani nella cenere fredda che era stata Isabella e la lasciammo cadere e danzare sulla piatta superficie verde scuro, la lasciammo precipitare, lentamente, verso il fondo.
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— Mia moglie non è voluta venire. A lei Isabella non è mai piaciuta, e non le è mai andato giù che occupasse tanto spazio nella mia vita.
Non mi sorprese che Tomas parlasse della moglie, ora che eravamo rimasti soli, davanti alla mia auto. Non cercai parole gentili o frasi di circostanza. Mi parve che fossimo andati oltre quella necessità. Lo salutai con un bacio leggero sulle labbra.
Lucia ci raggiunse prima che andassi a cercarla.
— Sono felice di averti incontrata, — disse. Eravamo passate spontaneamente al “tu”.
Non provò nemmeno a dire “restiamo in contatto”. Sapevamo entrambe che con tutta probabilità non ci saremmo riviste più.
Anche lei mi salutò con un bacio, sulla guancia.
— L’ultima volta che Isabella mi ha parlato di te, mi ha detto che sei stata il suo primo amore. — fu quello che mi disse, prima di indietreggiare, chiudendomi la portiera.
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Sabrina Campolongo – Balene Bianche
Michele Di Salvo editore
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Sabrina Campolongo è nata il 16 agosto del 1974, nel milanese. Dopo aver conseguito un diploma linguistico, ha lavorato come impiegata fino al 2003, quando ha deciso di concedersi il tempo per occuparsi dei suoi due bambini e per scrivere.
Nel 2000 il suo primo romanzo giallo, tuttora inedito, è stato scelto tra i sei finalisti del premio Alberto Tedeschi (giallo Mondadori).
Nel 2005 uno dei suoi racconti è apparso sulla Writer’s Magasine Italia, edita da Delosbooks e un altro ha vinto il concorso letterario Ore contate ed è stato pubblicato sulla relativa antologia, curata da Ibis edizioni.
Nel marzo 2007 pubblica, con Di Salvo Editore, il volume di racconti Balene Bianche.
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