venerdì, 18 maggio 2007
IL MANIACO (racconto di Sergio Sozi)
Il racconto che vi propongo in questo post è tratto dalla raccolta "Il maniaco e altri racconti" di Sergio Sozi. Vi invito a leggerlo e a lasciare i vostri commenti. L’autore sarà lieto di partecipare alla "discussione". Ringrazio ancora una volta l’editore Valter Casini per la gentile concessione.
Il maniaco
Rem tene, verba sequentur
Primo capitolo
Qualcuno gli avrebbe dato una medaglia, in altri tempi. Ne era convinto, il capitanone impomatato della Compagnia Trieste II. Poi, Euterpe Santonastasio, non è che usasse tanta gelatina, a dir la verità: era una questione di splendore naturale, riverberantesi da ogni pelo nero sulla ”clientela” di quell’affollato distretto. Così, oltre al nome sbagliato, il povero Benemerito aveva anche una fama immeritata, quella di ”cicalone”, ovvero ‘’sciccoso” e ”fotogenicofilo”. Tutte menzogne delle malelingue – bastarde e fors’anche prezzolate! – che spargevano unzioni all’uscio di ogni palazzo ceccobeppiano del circondario, senza risparmiare gli edifici d’epoca fascia o postquam. Questa ultima sarebbe in realtà la postmoderna:
«Ma poiché l’Epoca Postmoderna non esiste, bisogna contentarsi di un Postquam.»
Ragionamento quadrato, ineccepibile, caro capitan Santonastasio. Però gli untori imperversano, premono, spingono e scalciano. E perché tanta agitazione da parte della cosiddetta ”maggioranza morale” triestina, in quell’Anno Domini di post-finemillennio (secondo)?
«Ve lo dico io, gentilissimi utenti: perché i belli meridionali non devono beccare i delinquenti, ma fare le sfilate di moda sul Viale, o anche verso le Rive, quando ogni capello neropece attira raggi solari per accecare le pupille autoctone! E io, invece, ’sto disgraziato mariuolo, lo voglio proprio caccia’ in gattabuia. Be’.. mica ne sarei tanto sicuro, di volerlo; insomma, vedremo.»
Il mariuolo, secondo Euterpe II (”il Dialogante Solitario”), doveva esser ingabbiato da qualche sbirro fisionomicamente più idoneo alla bisogna: uno col viso oblungo e le lentiggini, la sparuta parrucca cinerea, e in allegato anche tanto di gestualità repressamente nervosa. Questo tipo umano garantisce fedeltà lavorativa, se si tratta di risolvere casi eclatanti. Casi come quello di un… un…
«…Un fottutissimo maniaco alfabeticodepressivo, Bedda Matri!»
Gli sbirri rudi e tarchiati vadano a risolvere furti di banane ai depositi portuali o rapine. Ecco: ladrocinî e rape d’ogni tipo, col taglierino o l’ascia a mezzaluna, con la falce fienaia o il piede di porco, con i moschetti e le mosche-al-naso. Basta che si freghi, si sottragga, si faccia sparire qualcosa. Anche le risse e i regolamenti di conti vanno bene. Ma…
«…Ma quel coglionazzo del mio maniaco triestino non borseggia e neanche s’interessa di sghei, non malmena, non violenta, né – Dio l’abbia in gloria! – procura dolore in giro a chicchessia!»
Però lo deve acchiappare lui. Inutile che Euterpe ”nomedafemmina” Santonastasio discuta col maggiore. Ed effettivamente aveva provato ad opporre resistenza, sperando nell’affidamento di un’altra indagine. Il maggiore si chiama Vlado Novak e durante la belle époque suo padre aveva rinunciato a diventare un Novacchi o un Novaco.
«Testone che non è altro, il capo. Tale e quale a me. E mai nessuno che dia le medaglie a chi se le merita, qui. Eh, in altri tempi l’avrebbe ottenuta sì, quello, l’onorificenza!»
Ma in quali altri tempi, capitano Santonastasio? E a chi daresti il premio? Lascia stare queste menate e tienti pronto, piuttosto, ché fra poco il primo querelante entrerà nel tuo ufficio: vorrei consigliarti di evitare i ricordi, ora, ma so che non ascolti.
Secondo capitolo
Quel giorno del benedetto affidamento, il maggiore Novak era nero come la fuliggine vista dalla cokeria durante il turno di notte. Quindi, svolgendosi il colloquio alle nove di un’assolata mattina estiva, la rabbia dell’ufficiale acquisiva, assieme alla sua folta peluria castano-bionda, un contrasto piuttosto inconsueto: crema e cioccolato, come nelle migliori gelaterie.
«C’è qualcosa che fa per lei, Santonastasio.»
Porca l’oca: ho sbagliato l’esordio. ”Che fa per lei… ” con lui non va bene. Si corresse mentalmente: ”C’è un caso raffinatissimo per lei… ”. Si corresse facendo sforzi di petto anche se sapeva di essere malumoroso: l’autocritica crea il consenso coi subordinati, si dice. Mannaggia… Troppo tardi!
«Sissignore: il prepensionamento, fa per me.»
Oddio, che giornataccia. Ormai non posso ricominciare da capo:
«Stavo scherzando. Indovini un po’ cosa sto per comunicarle?»
«Che me lo hanno concesso, mica.»
Di male in peggio.
«Spingo nelle alte sfere, spingo, capitano.»
«E intanto io non ne posso più di giocare a guardie e ladri, maggiore. Che, per caso hanno rubato un altro carico di granturco al Terzo Molo? Non guardi me. Io, il grassatore della Barcolana l’ho ammanettato personalmente ieri, in mezzo alla folla. Adesso vorrei un bel truffatore di matusalemmi, per stimolare la creatività investigativa. Ma non si stanchi, lei; spinga comunque. Grazie.»
Creatività investigativa, bene, bene. Stavolta lo incastro:
«Fuor d’ironia, capitano: la fantasia le servirà veramente, stavolta! Ho fra le mani un tizio che crea scompiglio, in città, senza far altro che discorrere con le sue vittime. Non le deruba, non le rapisce, non le picchia. Ci parla e anche a proprie spese, sembra.»
«Capito: è un maniaco che prende appuntamenti con femmine ingenue e intellettuali per fottersele, scusi l’espressione, dopo, in luoghi appartati.»
«Lui non fotte.»
«Logorroico parolacciaro e sporcaccione, zozzo maschio vecchio stampo?»
«Castigato quanto Giovanna d’Arco.»
«Femmine pazze e ninfomani mitomaniacali?»
«Le denuncianti sono sane mentalmente come noi due. Nessuna di loro ha a che fare con psicanalisti eccetera.»
«Lasci stare l’esempio, la prego, signore. Checcazzodiuomosarebbe, questo qua?»
«Un caso di coscienza.»
Lo accettò: evidentemente pensava che i suoi occhi grigiochiaro lo legittimassero al caso insolubile, nonostante la brunaggine tricomica da pesca-scippatori. Presto ne conobbe i dettagli, grazie (o malgrado?) al voluminoso fascicolo che un soddisfatto maggior Vlado Novak gli fece recapitare nello studio:
«Ecco… E guarda un po’… So’ sei mesi che ’ste poveracce fanno gli esposti. Niente indagine fino alla prima denuncia contro ignoti… Ah! Ma c’è anche un uomo. No: tre uomini e sette donne. Chissà perché. Tutti perseguitati. Il maniaco scrive lettere. Niente imèil, non ciatta, non va col telefonino. Niente telefonia fissa. Cazzo: addio tabulati. Rimangono le impronte sulla carta… robba diffficile!»
Santonastasio si allentò la cravatta con mossa di studiata decadenza, nel concludere la lettura dei verbali dai quali ogni fastidio sarebbe derivato. Solo e appoggiato coi polposi gomiti alla scrivania d’ordinanza, iniziò a pensare che era inutile atteggiarsi in presenza di un semplice mazzo di carte. Beh… semplici per modo di dire. Una bella grattata alla nuca lo riportò in fase concettual-meditativa:
«Bisogna reperire ancora i molestati per interrogarli.»
Le lettere anonime erano presenti solo in fotocopia. Alzò la cornetta e, mentre formulava le tre cifre dell’interno, parlava con se stesso a voce alta:
«Eppercheccazzo non ci hanno consegnato gli originali? Mi chiami Buritovič, per favore, Elsa? Sì, subito, subito. Come il maresciallo non c’è. Elsa, lo devi rintracciare immediatamente. D’accordo, chiamalo a casa e digli che mandi un fischio appena può, qui in ufficio. Sai per caso se i giornali hanno parlato di un maniaco alfabeticodepressivo, in questi giorni? Al-fa-be-ti-co-de-pres-si-vo. Un maniaco strano.»
No. Niente stampa né televisione. E allora, a un tipo come Novak, cosa gliene importa? Perché tanta fretta? Stai a vedere che qualcuna delle denuncianti fa l’amore con lui e… la gelosia triestina… ecco il caso fatto per me. Stronzetto. Ah, ah. (Pausa breve). Ennò: il maggiore xe molto pulito, xe candido come Voltèr. Stronzetto son mi. Sarà perché mancano i furti di carichi navali. Incredibile.
Il giorno stesso spedì il povero maresciallo Buritovič a rintracciare di persona i famosi denuncianti, tutti. Ecco come si trovò a dover pensare alla medaglia al merito d’altri tempi, una settimana più tardi. Ed infatti è ancora lì che aspetta di interrogare dieci persone; lo abbiamo conosciuto proprio mentre attendeva il primo di costoro. Questi ha appena salutato e chiede permesso, aprendo prudentemente la porta dell’ufficio.
Terzo capitolo
«Il fatto che lei non voglia consegnare ai carabinieri gli originali delle missive anonime, signor Bellini, a noi sembra… ecco…»
Un vero triestino, Clemente Bellini. Nato a Palermo e vissuto tra Figline Valdarno, Genova ed altre sett’otto città europee, espone disinvoltamente un naso molto insinuante. Fronte piatta e vasta come il lago Trasimeno. Impermeabile grigetto per un mite inizio di settembre; quarantott’anni spesi male a coprire un’evidente avarizia intellettiva, egli, inoltre, tace con gran classe.
«Se queste… cinque lettere autografe la infastidiscono veramente, perché non ce le dà? Sono prove.»
«Lo devo proprio fare… subito?»
«Naturalmente. Altrimenti, come potremmo indagare?»
Pausa imbarazzata del Bellini. Il capitano prosegue paternalmente:
«Perché… lei forse ci tiene, a queste lettere?»
La sfinge prende vita.
«Un poco io ci tengo.»
«Eh, ma… a che gioco giochiamo. Prima lei fa l’esposto, poi… siamo coerenti.»
«Mi fanno compagnia, ’ste lettere, signor capitano.»
«Allora ritiri l’esposto, così sospendiamo tutto e… arrivederci.»
Ancora un’istantanea fiammata di vivacità dell’interrogato.
«No. No. Vorrei sapere chi è.»
Santonastasio sta per collassare dalla rabbia (sangue bollente ch’avvampa gli occhi), ma si contiene, pensando alla imminente risoluzione del pasticcio. Mo’ lo metto ai ferri corti, ’sto frocetto.
«L’Arma non è un’agenzia per cuori solitari, scusi. Io la querelo per falso esposto. E meno male che i giornali non ne hanno parlato, altrimenti ci sarebbe anche la turbativa di ordine pubblico; il procurato allarme!»
«Capitano, io sono sposato e le assicuro di non essere… Il discorso va messo in altri termini. Non c’è morbosità, non c’è sesso.»
«Dica, allora, e presto, su, Bellini.»
«C’è che mi disturba profondamente, questo scrittore anonimo, ma anche mi aiuta a vivere. È profondo… ha letto queste lettere?»
«Qualche riga. Diciamo la metà di ogni sua lettera; perché non scrive solo a lei, lo sapeva?»
«Ah no?»
«Esistono altri nove destinatari, per un totale di… una sessantina di lettere, tutte scritte a mano e lunghe almeno cinque pagine. E questo, ammettendo che sia solo lui, il mittente: sa, prima di consultare un grafologo, noi vorremmo individuare un profilo giuridico. Un reato da Codice Penale. A mio avviso la grafia ha evidenti tratti somiglianti in tutti gli scritti: stesse grazie (gli abbellimenti dei caratteri corsivi), stesse aste per le ”d” e le ”t”. Occhielli identici nelle ”e” e nelle ”l”. Credo che sia un unico individuo.»
«Maschio o femmina?»
«Non sono uno psicologo e lui evita magistralmente di scoprirsi, da questo punto di vista. Certo, scrive bene. Le righe sono ordinatissime quasi sempre, prive di sbalzi e cancellature.»
Attento, capitano! Ti stai lasciando andare troppo. Oltre un certo limite, inizi a sognare.
«Ha fantasia, il suo piacevole persecutore. Se conservasse le brutte copie, dovrebbe pubblicarle. Ieri ho letto quella parte in cui tratta della personalità in chiave sociale: ”ogni uomo scompare nel suo relazionarsi con gli altri”. Più avanti, ritorna sull’argomento, spiegando anche che ”l’individuo, però, acquisisce un’irrinunciabile – ”irrinunciabile” diceva, mi sembra – chiarezza, solo quando è costretto a porsi in rapporto dialogico con altri enti.”. Bello, tutto ciò, signor Bellini. Ed anche vero.»
La curiosità, vecchio Santonastasio. Se eccedi in curiosità, l’intuito svanisce. E tu ti sei fatto soffiare dei clamorosi successi investigativi proprio per esserti interessato personalmente ai casi. Le linguacce sussurrano che saresti portato per natura ad assolvere chiunque, a causa del ”risvolto umano” delle vicende criminali. Ma adesso, perché non continui a cercare di appurare se ci sia qualcosa di punibile in tutto ciò?
Sarebbe possibile che il capitano si fermasse, se non ci fosse il primo interrogato a rispondergli prontamente:
«Dunque le sembra giusto, che io voglia conservare per me ’sta roba disturbante.»
«Se tutti i disturbi stessero in queste righe, io sarei orgoglioso che il maniaco avesse scelto me per conversare. Ma ora arrivederci. Ci faremo sentire noi.»
”Bravo il fesso. Domani pomeriggio, una bella passeggiata nella zona pedonale non me la leva nessuno: la farò per espiare.”
E si accese, a mo’ di anticipatorio fioretto, pure la sigaretta penitenziale, quella per lo stomaco vuoto. Poi prese l’inguattata bottiglia di brandy e si versò una abbondante coppa di rimorsoso liquore. Così qualcuno sostituisce ceri e mea culpa.
Quarto capitolo
Noi stiamo qui, in divisa con filorosso sulle gambe, per impedire ogni disagio alla popolazione: Deus nobis haec otia fecit! Peccato che il sereno volgo italico sia, a volte, leggermente masochistico. Se un autolesionista denuncia un sadico dopo averlo autorizzato a picchiarlo, come la mettiamo? Conta più il momento in cui quello ha deciso in piena libertà di farsele dare o il fatto che l’altro abbia accettato? Se non ci fosse plagio, naturalmente. Mandare una lettera anonima non è, di per sé, un reato, a meno che non vi sia intento persecutorio… anche solamente psicologico. Ma è il mittente, in questo caso, che si sta affidando alla benevolenza di chi riceve, poiché scrivere per motivi interiori produce sempre incertezza nel lettore. E un lettore (cioè anche un uomo qualsiasi) incerto, prima o poi opta per il peggio, immagina il marcio, lo schifo negli intenti altrui. Questo fenomeno, presumo che abbia origine dalla profondità, che toglie facilità di interpretazione all’espressione grafico-verbale.
Santonastasio, celibe e nottambulo, rifletteva sul suo fottutissimo caso, al termine del decimo colloquio con i denuncianti e non riusciva a decidere. Ancora evitava di capire se avesse perso l’ultima settimana guadagnandosi il pane, o, piuttosto, in un privato esercizio intellettuale sulle orme di quell’epistolario. ”A due passi dalla pensione, sono: se non due, massimo tre anni ancora e… la pace dei sensi.”. Brutta strada, imboccano i pensieri, alle due di notte. Bisogna indirizzarli meglio.
Colmato nuovamente il bicchierino di grappa croata, l’uomo si rimboccò le maniche, al fine di riordinare i dialoghi tenuti in caserma. Era tornato a casa da poco. Nel salotto liberty, il rombo delle macchine triestine sembrava esser quanto di meno pertinente ai mitici Roaring Twenties – atmosfera eccitante a cui lo rimandavano gli ereditati mobili scuri. Quelle persiane verde smeraldo, poi, lasciavano che anche certi sporadici miagolii interrompessero i soliloqui prodotti dai veicoli. Peggio ancora: annoiati i guidatori sgommanti e in calore i felini… il contesto, a modo suo armonico, non richiede tutori dell’ordine.
«Saremmo noi ad aver bisogno di silenzio. Anzi, sarei io.» Disse.
Beh, tutti i ”perseguitati” avevano in fondo espresso la medesima incertezza, fra il sentirsi in colpa per aver chiamato i carabinieri e la volontà di esprimere a qualche essere umano, neutrale come un gendarme, il proprio disagio interiore. Una serie di interrogativi sembravano esser affiorati alle coscienze di costoro, per via delle lettere. Era gente alquanto sola, o solitaria, per quanto oggi si possa considerare pienamente solitaria o sola la generazione fra i trenta e i cinquant’anni. Infatti, la solitudine è così diffusa che forse nessuno la vuole ma tutti non possono starne senza. Come ’sto maniaco: va ricercato e preso o… È un caso di coscienza, certo. Quel cazzo di Novak me lo ha spiattellato sulla scrivania per farmi impazzire. La gente parla, comunque. Presto andrà a finire tutto sui giornali, è questione di giorni. E dopo Bellini, ho parlato con quella grassoccia, la Ortolano, o con la Cosulich? Sì, era la Cosulich, la più giovane. L’unica che abbia sporto denuncia contro ignoti. La più strana ed incomprensibile, ’sta Marialisa Cosulich. Carina, magra, truccata, sprofumata, vestita alla moda. Orecchino al naso, ovviamente, senza che sia una rom. Aria germanica, eccetto la struttura ossea, la complessione. Forse uno dei suoi cento antenati era proprio italiano. Oh, che voce sottile e limpida:
«È un criminale, un arrogante. Dovete aiutarmi.»
«Ho visto le quattro lettere a lei indirizzate, signorina. Non contengono insulti, contumelie, minacce… voglio dire… mi è sembrato, leggendole, che si trattasse di poesie, con qualche osservazione in mezzo. O sbaglio? Mi dica, prego.»
Ero fresco come un giglio di campo, quel pomeriggio con la Cosulich, poiché l’angoscia del tormentone, al secondo colloquio, ancora non m’aveva riempito lo stomaco. La biondina sembrava in preda ad un panico sottocutaneo, che penso credesse di nascondere bene. Quasi tremava, mentre le pupille scoppiettavano nervose, inquadrando istantaneamente ora me, ora i muri dell’ufficio, la finestra, il pavimento di vecchie maioliche cilestrine.
«Ho bisogno della mia riservatezza, signor capitano. E la legge la garantirebbe, giusto?»
Ero tentato di mandarla a fare in culo; così, a pelle.
«Certo, certo. La garantisce, entro certi limiti.»
Quasi mi interruppe:
«Allora cerchi di evitare che questo sconosciuto mi importuni per via postale. Io non lo conosco, né l’ho invitato a scrivermi. Cosa c’entrano le poesie? Io non le desidero e questo basta. I limiti di cui lei parla, capitano, credo che prevedano il rispetto della mia volontà di vivere a casa mia senza essere bersagliata da lettere anonime. Se cerco qualcuno, io, prima mi presento con nome e cognome.»
«Ma la legge prevede l’accertamento preventivo, da parte nostra, di almeno una sola vera e propria offesa, di un turpiloquio esplicito o molto probabile, prima di avviare indagini e prove calligrafiche, eccetera. Non posso arrestare un tizio solo perché le scrive dei biglietti non richiesti.»
In procinto di ribattere acidamente, la Cosulich si esibì in una smorfia che non dimenticherò mai, sempre che riesca a non farmi seppellire da questa cazzutissima storia meta-investigativa. Ecco: allargò le narici come un negro senza strabuzzare gli occhi o arricciare le labbra carnose. Difficile a vedersi, roba da circo Barnum.
«Lei non può? Ed io chiedo al mio avvocato di procedere contro l’Arma per interpretazione ingiustificatamente estensiva del Codice Penale, a questo punto.»
Stava per andarsene senza salutare.
«Ma cosa la infastidisce, di quelle lettere, scusi? Mica pensa che quell’uomo tenterà di avvicinarla?»
«E perché non dovrei, capitano? Sono sicuro che lo farà, prima o poi!»
«Dopo un anno che le scrive? E usando quei toni delicatissimi, elegiaci, direi?»
«Anche il mio ex fidanzato mi ha rivolto la parola dopo due anni che mi vedeva all’università. Chi sa, cosa agita la mente dei matti?»
«Magari stavolta non si tratta di un matto.»
«Non raccolgo l’ironia; poca confidenza, signor carabiniere.»
Che facesse pure quello che voleva: denunciasse me per libidine mentale, la stronza. Poco me ne importava. Volevo vedere chiaro nella faccenda e quello era proprio il momento di capire qualcosa di più… scommisi tutto sulla Cosulich:
«Gli altri nove che hanno ricevuto analoghi dispacci dallo stesso individuo – e le assicuro che è lo stesso, ché di scrittura autografa ne so qualcosa – non sono stati ancora avvicinati. E la prima lettera risale addirittura a due anni e tre mesi fa. Il maniaco è più paziente del suo ex fidanzato, signorina.»
«Lei sta dalla sua parte. Solidarietà maschile.»
«Non sono sicuro che si tratti di un uomo.»
«Meno male che lei è esperto di scrittura corsiva.»
«Un navigato grafologo le confermerà la mia incertezza: l’anonimo potrebbe tranquillamente essere una donna.»
Dio, che nervi. Ripresi subito senza lasciarmi irretire dal gesto di sfida che mi fece (una rigida manina agitata nell’aria, come a dire: ”tu sei fuori”): «Il contenuto di una, fra quelle lettere, mi ha stupito.»
«A me invece tutte, mi hanno stupito. Ma finisca il suo discorso. Dica perché non cercherà il maniaco, su. Così lo potrò riferire a mio zio, il generale Aulenti.»
«Ossequi al signor generale. L’ho incontrato al comando regionale l’altro ieri. La lettera, però, è quella dove l’anonimo paragona una aurora sul Carso triestino alla solitudine di un granchio fra i neri scogli dalmati. Bellissima immagine.»
Attento ancora. Santonastasio, la subdola mano dell’aerea fantasia ti sta nuovamente arpionando, per sottrarti al dominio della razionalità mediterranea!
«Bellissima immagine,» continuò a ricordare nel salotto liberty, «che egli ottimamente precisa, considerando il crostaceo ”un brutto anatroccolo del nostro semisoffocato pelago adriatico”. L’alba, così, viene ad assumere la valenza di ‘’sole triste fra desolati anfratti carsici”, se non ricordo male.»
La ventisettenne tacque. Socchiuse gli irrequieti occhi. Credevo che stesse proprio, addirittura, riflettendo.
«Il maniaco, secondo lei, la desidera carnalmente, signorina?»
«No.»
«E questo… cosa le fa pensare?»
«Che la sua maniacalità sia ancora più spaventosa di quella che muove i violentatori, i bruti.»
«E perché lo dovrebbe essere?»
«Perché vuole scavare dentro di me.»
«E… ci riesce.»
Marialisa Cosulich così lasciò il mio ufficio, cinque giorni or sono che mi sembrano una vita. Questa indagine mi piaceva sempre di più, respingendomi al contempo: pioggerella salutare dopo l’afa, che diventa bufera, grandine, poi ancora nevischio, bailamme.
Dopo vennero la quarantenne Rosa Ortolano, vedova da un decennio, negoziante in centro. Il trentatreenne Goran Colarich, impiegato in una ditta di importazione alimentari che lavora al Molo Settimo. Agata Vascotto, trentacinque anni, dipendente sovraffaticata di un’azienda di intermediazione finanziaria – boh, chissà di cosa si occupa? Ed ancora: Sergio Tosi, quarantuno anni, impiegato portuale; Giovanna Servi, cinquantatré anni, insegnante con la mini-penzion, divorziata; Elsa D’Ambrosio, trent’anni esatti, piccola industriale della Zona Est; Catia Pannese, disoccupata laureata in Lettere Moderne, trentadue anni; Giulia Corsani, quarantuno anni, buona carriera fra tante ditte, libera professionista, cioè consulente aziendale.
Tutti apprezzavano il persecutore, l’ossessivo grafomane alfabeticodepresso, nonché mascherato. Eroe o eroina da ingabbiare quanto prima.
Fuorilegge? Questo spetterà ad un uomo dal nome femminile deciderlo. Intanto nessuno dei dieci aveva manifestato a chiare lettere la volontà di lasciar cadere tutto nel dimenticatoio. L’iter era libero di iterare.
Quinto capitolo
Sospettati zero. Inutile scavare sulle conoscenze dei dieci soggetti. In circostanze simili, abitualmente interveniva Euterpe III (”l’Astuto”). Ne sarebbe stato propriamente il caso? Se Euterpe Santonastasio lo avesse desiderato, Euterpe III si sarebbe posto sull’attenti in un battibaleno, certo. Ma dopo… vàllo a fermare! Quello si sa dove comincia e non si sa dove né come finisce: tre anni prima era riuscito a sbattere dentro una ghenga di contrabbandieri specializzati in mandarini extracomunitari e tuberi vari (eccetto i tartufi) privi di documenti. Euterpe II (”il Dialogante Solitario”) ricordò ad Euterpe I (”il Capitano Filantropo”), quanto dispiacque a tutti e tre mettere in gattabuia quelle famiglie di poveracci – tre italiane, due bosniache, una albanese ed una cinese. Era gente così sana che neanche fumava o beveva alcolici. Avevano solo il vizio di masticare e vivere sotto un tetto triestino.
Un’alternativa ci sarebbe… Vediamo. Il quattordici settembre del Duemilaedue, Euterpe Santonastasio prese dall’agenda mentale di Euterpe III solamente un numero telefonico che nessuno chiamava da tempo. Poi lasciò l’Astuto nel cantuccio a sonnecchiare intorpidito e mosse l’indice sulla tastiera dell’apparecchio di casa.
«Buonasera, professore. Mi riconosce?»
Dall’altro capo della linea giunse un farfuglio. Poi la rauca voce dell’interpellato:
«All’una di notte, o è san Dionigi o un suo adepto. Salve capitano… ha finito di leggere le Onoranze postume di Pandurovič?»
«Un paio di semestri or sono.»
«E adesso è in procinto di scusarsi per l’ora. Non lo faccia o abbasso la cornetta.»
«Lungi da me. Peccarità!»
«Continua a dare gli esami?»
«Ehm.»
«Le ho consigliato spesso di lasciar stare i titoli, capitano. Alla sua età… eh, eh, eh…»
«Alla nostra età, lei fa conferenze ed io carcero.»
«Con la laurea in Lettere, continuerà a carcerare come prima. A cosa debbo il piacere? Ne avrei una mezza idea.»
«Allora io le svelo l’altra metà, la prima: se il professor Ernesto Spitella ricevesse una serie di lettere anonime, contenenti poesie, elucubrazioni filosofico-morali, opinioni, eccetera, dopo un anno, cosa farebbe?»
«Andrei da lei e denuncerei il fatto.»
«Veramente l’hanno denunciato direttamente in Procura, poi il maggiore Novak mi ha passato il fardello. Come fa a saperlo, professore?»
«Verba volant. Ne parlano anche nei bar. Ma io non denuncerei nessuno, Santonastasio.»
«Già: lei fa le conferenze. Io regolo i tragitti delle manette sulle strade di Trieste.»
«Come fa a carcerare se non sa chi sia il colpevole?»
«Tra le varie mezze idee che ho, Spitella, qualcuna potrebbe farmi arrivare a quel tizio. Basterebbe… non so se mi spiego… farle camminare, svilupparle.»
«Oh… finis coronat opus! Dunque le sviluppi, esimio.»
«Devo prima decidere se c’è il reato.»
«E c’è?»
«Le segnalazioni giunte in Procura dicono di sì. Io…»
«Lei dice di no.» Spitella lasciò uscire in un sospiro, fra i denti, qualcosa di simile ad un sorriso: «Ecco. Scrive bene?»
«A volte. Provoca riflessioni utili: sulla natura dell’infanzia sostiene che i genitori trattano da deficienti i bambini, li viziano senza dar loro un vero aiuto per risolvere i propri enigmi. E tutti i destinatari, eccetto uno, hanno prole.»
«Ah… Sai che fastidio!»
«Ovviamente. Però le vittime sono ormai dipendenti dal carnefice. Quindi tocca a me decidere se acchiapparlo. Posso anche far scivolare il fascicolo nel limbo dei casi insoluti: nessuno si scandalizzerebbe, visto che una persecuzione postale raramente fornisce indizi validi.»
«Però lei, se ci si mette proprio di buona lena, lo becca nel giro di una settimana, vero?»
«Sì. Dopo due anni, saranno in molti a sapere; basta ungere le ruote dei miei migliori informatori.»
«Capìto. Continui a parlarmi di lui, non ho sonno.»
«Un’epistola contiene esclusivamente la descrizione del monologo interiore di un bambino immaginario. È dolcissima, struggente: il movimento del nascituro, visto nel corpo della madre quando inizia appena, rappresenta il suo chiedersi se vorrà effettivamente nascere. I movimenti di questo essere privo di nome sostituiscono la sua voce. Non è un embrione, un feto, ma un essere completo, perfetto, cosciente, che teme di sporcarsi col mondo esterno. L’anonimo presta alle movenze tutta la potenza dei suoni. Un’intuizione spiritualmente paragonabile al puer aeternus.»
«Lasciamo perdere i classici, capitano. A mio avviso lei dovrà prima rintracciare questo scrittore, con molta discrezione. In secondo luogo…»
Verso le tre, Santonastasio si rimise a studiare le lettere. Non avrebbe dovuto portarsi le incriminande fotocopie a casa. E ora non dovrebbe esaminarle nello studiolo, immagina, però…
Euterpe Santonastasio raramente ha visto i suoi tre gemellini interiori collaborare tanto proficuamente: il filantropo seleziona quel che i dialoghi propongono, mentre l’astuzia sbirresca si prodiga per scansare problemi d’ordine professionale. Come una troica fra i coriacei ghiacci moscoviti, egli approfondisce gli autografi passando, anzi sgusciando, fra le nervose mani dell’opinione pubblica. Ostinato a non darla vinta ad altrui convinzioni.
Quanto amore esiste, sparso, perduto, inclassificabile per la moltitudine! L’organizzazione umana demolisce quanto ogni singolo vorrebbe edificare. Sforza gli stanchi occhi, Euterpe, e si ferma con l’indice sopra delle frasi:
”Il silenzio dètta alla parola usando caratteri eterni. La parola, se non naufragherà nella propria abissale indecisione, saprà scegliere i più armoniosi vestiti per evitare all’uomo i lutti infiniti del silenzio. Ma senza silenzio non v’è parola che tenga. Ed io avverto quel primo linguaggio tacere: è fuoco sotto la cenere, covo di animali errabondi e selvatici, imprevedibilità dell’empireo. La parola resiste solo se c’è un solido tacere alle sue spalle.”
In trent’anni di carriera nessuno mi ha consolato mai quanto costui: che sia eruttato direttamente dalle fiamme dell’Etna? Quanto dignitose siete, pagine, laddove vi curviate alla tremula fiamma di una necessità:
”…Sempre il silenzio ha bisogno di qualcuno che parli per suo conto.”
E tu, anonimo, riesci a dargli voce, a questo pericoloso, incontrollabile animale mitologico? Non starai mica tentando di dominare il silenzio? E… come io so che tu esisti, forse anche tu saprai di me, sulle tue tracce.
”Tutto esiste perché esiste. Solo l’uomo esiste se qualcun altro lo fa esistere.”
Crollando addormentato sulla seggiola dello studiolo, Euterpe trae il suo dado:
Anche se fosse l’ultima scelta della mia vita, lo identificherò.
Ma nel corso della notte – questa breve notte di fine settembre ancora tormentata dall’afa estiva – un sogno giunge al suo capezzale. Sembra aver le fattezze del vecchio pieno di dubbi che gli appariva a Siracusa, quando aveva sedici, diciassette anni. Un pazzoide mezzo sdentato, canuto, quattr’ossa appena vestite di tunica logora e giallastra. È in piedi, fra le alte gramigne di un campo di ghiaie, argilla e pozzanghere, fra le lievi ondulazioni. Il cielo non si mostra, probabilmente farcito di cirri o nembi, chissà. Quanto parla, sghignazzando, e gesticola semiartritico, curvo, eccitato per oscuri motivi! È frenetico come un burattino:
«E dàgli, dàgli! Eeeeh. Scemo, illuso. Fatti gli affari tuoi, cosa ti manca? Lasciami scrivere, no? Cosa ti manca, che cerchi di incastrarmi?!»
Te ne stai approfittando perché non riesco a parlare, adesso, gobbaccio.
«Va be’ che sei solo come una serpe, come – ah ah – un sasso di fiume fra i sassi. Ma lasciami parlare, no? Ho capito, mi vuoi mettere nel sepolcro. Ti sono scomodo. Giovinastro aguzzino; perbenista che senza regolette scialbe e sociali crepa. E crepa, vaffanculo! Intanto io continuo a cantare nella palude. La vedi, la palude? Mi ci hai infilato proprio tu.»
Non è vero, brutto rimbamb…
«Ma io, qui, ci sguazzo. Vedi come sto bene? Canto come un grillo, un’allodola, un…»
Un pazzo.
«Un flutto del Tevere!»
Bevi meno.
«Volevi crearmi una solitudine soffocante e invece: tié! Faccio le corna alla facciaccia tua! Fra le rane ed i coleotteri, i girini, qualche gatto selvatico, sto bene: canto, io! La-so-li-tu-di-ne-è-un’in-ven-zio-ne-bor-ghe-se. Scialalalalà! La-so-li-tu-di-ne-ti-ren-de-caccia-to-re, scialalalalà! Sogna-sem-pre-e-non-ti-svegliare, scialalalalà! Lasciami predicare, scrivere e amare, sciallalà!»
Eppure anche le notti agitate scorrono via. Lo si constata il giorno successivo, quando la fisica assurdità delle cose torna.
Sesto capitolo
Egregio capitano Euterpe Santonastasio,
Alleluia: mi sta cercando! Non c’è problema. Chi si voleva nascondere? Le scrivo qui sotto il mio indirizzo (spiacente, ma non ho telefono, lo odio). Mi trova in casa tutti i giorni tra le nove e le dodici. Sono convinto che non chiamerà i paparazzi… o almeno hoc est in votis (scriptoris).
Cordiali saluti
Romolo Testa.
Sì… (uffa: ’ste sentenze latine iniziano a farmi degenerare la pressione!) e la mamma si chiamerà Capitolina. Il babbo Ascanio.
Come girano le voci, in questa città! O forse è la città che gira e le voci stanno ferme, considerando la Storia. Meno male che non mi ha scritto addirittura a casa, Romoletto. Speravo almeno di far in tempo a ricevere un paio di rapporti dagli informatori… Va be’, questi si tratterà di utilizzarli per altre faccende, chissenefotte degli informatori: la pappa è pronta ed io vado a servirmi direttamente nella cucina dello chef.
Alle dieci del mattino, il capitanaccio (capelli scarruffati per via della notte passata con il vetusto anarchico onirico, lingua a mo’ di pastafrolla, cravatta d’ordinanza stortina) richiude la missiva dell’ex anonimo carnefice-gentiluomo. Alza la cornetta e seleziona la linea dell’autorimessa. Il cielo pregno di pioggia non lo conforta come dovrebbe, ed un mutismo tutto siciliano s’è impossessato del vecchio feudo; quando Euterpe tace e non si rallegra nemmeno per la pioggia vuol dire che sta succedendo qualcosa di più importante: qualcosa tipo un dialogo fitto fitto bloccato a livello di cervice:
”E adesso che je dico a iddu, a quello?”
”Digli che sei un suo affezionato lettore.”
”Stolto e bestia: si vede che non studiasti. Sbrigati a parlare seriamente, che fra due minuti arrivo a casa sua.”
”Stanotte, parlai, no?”
”Parlasti.”
”E tu, caruso che non sei attro, nulla capisti?”
”Caruso dillo a… Insomma… pochino, capii.”
”Bogghese, sei, non studioso! Devi rrinsavire, sennò è inutile che io parli e palli, e palli sempre! Anzi ammo’ taccio e te lascio alle tue rrogne. Ciao, pronipote ddeficiente. Lo stagno m’attende.”
”Ma…! Aspetta! Scusa nonnuccio! Ecco s’è arraggiato e dde sicuro non lo vedrò più fino a stanotte. Lui sta lì a parlare in dorico coi rramarri ed io… ”
Quasi non s’accorge dello scrostato palazzo di via Trissino, ovverosia la meta. Meno male che almeno ha cominciato a piovere e non c’è un filo di vento, pensa, mentre, lasciato l’autista in un baretto nei dintorni, si sta pressando il cappello flàmmeo sul capoccione crucciatissimo.
Che zucca che ho stamattina: sembro una testuggine… testa… caput… Cinque rampe di scale… Eccolo lì, Testa: nomen omen?
I saluti durano poco, in certe occasioni, come sovrabbondanti fronzoli rococò. Corta capigliatura con scrimo a destra e frangetta appena accennata, naso vittimisticamente penzoloni, statura alquanto elevata e corpo plastico ma non longilineo, Romolo Testa vanta una cravatta…
…non troppo estesa, che è un bigiù: ornata alla pompeiana, stile architettonico con quadrati che sembrano stanze vermiglie. Una figurina maschile in peplo appena accennata vicino all’orlo. Seta pura. Sei elegante, criminale! Sei una Citazione antropomorfa! Sei un…
«È stato un vero piacere per me, signor Testa, leggere quanto ha fatto avere a quei signori.»
«Spedito, preciserei. Sessanta lettere in due anni e tre mesi. Tutte con la postacelere.»
Bella voce, hai, criminale letterato, italianista di sicuro: morbida voce. Ettidicocriminale pecché altrimenti te ne approfitteresti.
«Ma, scusi, perché le ha spedite in forma anonima?»
Occhi color dell’uva passa, Romolo.
«Secondo lei, capitano?»
Dignitoso, Romolo Testa.
«Non lo so proprio. Una domanda è una domanda.»
«Per non mettermi a declamare mostrando la faccia. Anche per questo.»
«Così ha provocato vomiti di angoscia a mezza Trieste.»
«Più angoscia di quella che già c’è? I mali di Pandora prima o poi si esauriscono: è umanamente impossibile aggiungerne altri, a meno che lei non creda che io sia Mefistofele.»
Oddio, mi sta scappando da ridere. Autocontrollo, Euterpe.
«Sp… spiritoso, signor Testa. Le conosce personalmente le vitt… i destinatari?»
«Vittime va bene. No: mai mangiato il brodin con loro.»
Deciso e caustico. È proprio autoctono.
«Ed io la arresto immantinente.»
«Dura lex.»
«Fuma?»
«Favorisce?»
Bisogna ammettere che in questa città – benedetto il Millenovecentottantanove quando arrivai – ci si prodiga meglio nel condensare il brodin di manzo che sulle elaborate variazioni maccheroniche. Niente di scotto, sciatto, anonimo… il brodin xe propio una delle cose che lori fanno ben e bon:
«Scusi, Testa, ma il vinello bianco dove lo ha preso?»
«Mio cugino, che el ga un campisel fora città.»
«…Ed il soffritto per il brodo…»
«Ghe go meso anche el batudin finofino. Le piaxe?»
«Quasi quasi chiamo anche l’autista. Posso permettermi… professore?»
«Go la matura media, mi. La terza media e stop.»
«No!»
«Certo, leggo in biblioteca, ogni tanto… quasi un paio di volte all’anno un libretto: a Natale e a Pasqua; però a volte salto Pasqua. E chiami il suo commilitone, chiami prima che si freddi tutto quanto. Ma, scusi… volevo dire… sa… avrei un appuntamento e forse sarebbe meglio che ci sbrigassimo. Così lo rimando a data da destinarsi.»
«Ha fretta? Vada, vada. Tanto io devo tornare in caserma verso le tre. E sono già le due.»
«Come vada vada, capitan.»
«Ah, già, l’arresto. Magari domani.»
«E se fuggo?»
«Lasciamo stare. Piuttosto: come fa a scrivere lettere come quelle?»
«Penso.»
«E le citazioni?»
«Vocabolario Campanini e Carboni. Ne ho uno ch’era di mio nonno.»
«Perbacco… E le figure retoriche, le parafrasi, le forme ellittiche, eccetera?»
«Che roba sarìa, questa, capitan?»
«Sarìa… sarebbe il parlar forbito, l’eloquio ricco e significativo.»
«Che ne so: mi, scrivo quel che go dentro.»
Santonastasio fece un fischio dalla finestra al sottoposto guidatore, alzandosi piuttosto frastornato dalla comoda seggioletta di casa Testa. E non era in quelle condizioni per effetto del vinello.
«Rimanga reperibile. Se non le dò fastidio torno domani verso la stessa ora. Forse. E… volevo prima chiederle (pausa e grattata di cervice): gli indirizzi dei destinatari, come li ha avuti?»
«Elenco telefonico, sior capitan. A caso.»
Naturalmente. Domanda stupida. Addio, caro.
Santonastasio, tirando giù il finestrino per accendere una sigaretta senza procurare smorfie all’attendente, si sente chiamare. Preferirebbe restare in assoluto silenzio fino alla caserma, ma la voce non ammette dinieghi:
«Cogghjone e bborghese sei, fosti e rramarrai pe’ ssempre, figghiu. Però io parlo e pallo. Pallo sempre, così li dubbi tuoi almeno fugghiono. E dopo, senza dubbi stupidi, tu cerchi de vivere cchiù serenamente. E ascolta anche queddu llì, RRomolo, pecché co’ iddu io ci parlo tutte le notti da quando nascette.»
P.S. E nessuno diede a qualcuno una medaglia, bisbigliano le anonime oralità triestine.
Scritto venerdì, 18 maggio 2007 alle 18:42 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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