giovedì, 17 maggio 2007
VITA SPEZZATA
Ho ricevuto poche ore fa una mail dal collega scrittore Adriano Petta (nella foto in basso), autore – tra l’altro – di questo articolo. Facendo affidamento alla sensibilità di tutti riporto il testo della mail di Adriano aggiungendo, di seguito, il contenuto del file word allegato.
Massimo Maugeri
Massimo carissimo,
sono tornato da poco da Barcellona dove ho partecipato alla Giornata Mondiale del Libro sia come cittadino che come autore: oltre un milione di persone per il centro storico della città, si sono venduti – solo a Barcellona – oltre un milione di libri e circa due milioni di rose. Non posso descrivere a parole l’arcobaleno di emozioni provate. Mai visto niente di simile per i libri… credimi.
Ma appena tornato, giovedì scorso il destino spietato si è portato via il mio coautore Antonino Colavito, 60 anni, per un infarto, di notte, come un fulmine a ciel sereno, senza che mai ci fosse stata una benché minima avvisaglia: con lui avevamo scritto e pubblicato il romanzo storico "Ipazia, scienziata alessandrina". Era un uomo speciale, la cui perdita impoverisce non solo chi aveva la fortuna di ricevere la sua amicizia, ma la società intera.
Alla mia mailing list ho inviato un allegato ("Vita spezzata"), e molti mi hanno risposto, e si è scatenato un dibattito serrato, sul problema più importante della vita: questa maledetta spietata ingiusta morte. Naturalmente i non razionalisti, i sognatori che si rifugiano nelle varie religioni, tentano di dare una giustificazione a questa sporca faccenda della morte… ma io credo che non esista alcuna spiegazione o giustificazione. Siamo venuti al mondo come delle foglie di un albero, e appena soffia un alito di vento ce ne andiamo. Stop. Niente altro. Unica differenza: forse le foglie non si rendono conto di questo… mentre noi esseri umani abbiamo sviluppato una coscienza così forte e sensibile che lo sappiamo, ce ne rendiamo conto.
Ti mando questo messaggio e l’allegato nel caso tu lo dovessi considerare adatto a "Letteratitudine": io mi sono proposto di fare di tutto per far conoscere il pensiero del mio amico scomparso, ma non perché era mio amico… ma perché era un grande scrittore e originale pensatore.
Ti abbraccio.
Adriano
Amici carissimi,
tocca a me questa triste parte di messaggero.
La vita del nostro amico Antonino Colavito è stata spezzata l’altro ieri notte da un infarto.
Perdonatemi per non essere riuscito ad avvertire tutti voi per il funerale che si è svolto ieri qui a Roma, al tempietto Egizio del Verano: il saluto tributato al corpo del nostro amico imprigionato nella bara della morte è stato così forte… che una nostra amica quasi ci scongiurava di tenere un po’ a freno il nostro dolore, così forse lui poteva andarsene in pace in quell’altra dimensione che lo aspettava. Ma non ci siamo riusciti, perché Tonino, il nostro Tonino… non era un uomo qualunque, era una creatura speciale, e noi tutti da oggi siamo più poveri perché abbiamo perso una voce pulita, profonda, dolce, educata, disponibile, proiettata verso confini che noi non riuscivamo nemmeno ad immaginare, innamorata del sole.
Io farò di tutto perché i suoi pensieri giungano a quanta più gente possibile: tutte le mie forze serviranno per promuovere il nostro «Ipazia, scienziata alessandrina» e il suo romanzo incompiuto. Tonino diceva che “vivere con sofferenza e morire non è buono o cattivo, giusto o sbagliato o inevitabile, come ripetono in modo incessante sovrani e sacerdoti, è soltanto semplicemente inutile. È andare contro la creazione di nuova materia, di nuovi spazi, è ostacolare l’aumento del numero incalcolabile delle stelle e delle galassie della volta celeste”.
Il mio saluto di ieri è stato quello di leggere l’ultimo suo “sogno” del nostro “Ipazia” («ma io sono in cammino»), sogno tristemente profetico, riflessioni provate da Tonino un giorno al funerale di un’altra vita spezzata.
Ve lo ripropongo per porgergli un ultimo saluto, così lo lasciamo libero affinché lui possa finalmente incamminarsi lungo la sua via del sole.
Adriano
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ULTIMO SOGNO
«ma io sono in cammino»
È giorno. Lentamente mi avvicino alla moderna facciata dell’anonima chiesa aggettante su una stradina, stretto passaggio che scorre a senso unico tra due file di palazzine che sembrano sparpagliate da una mano irriverente. Il cielo, opprimente con le sue basse e umide nubi, copre la pretenziosa scenografia di una moderna periferia romana. È agosto, un dì in piena estate che rimembra un autunno un po’ afoso, in un anno in cui le stagioni si susseguono in modo casuale, con siccità e maltempo che reciprocamente scambiano i ruoli, in un gioco pazzo e irrispettoso delle altrui umane ragioni. L’auto con il lungo cofano manovra faticosamente per potersi liberare del carico ingombrante, la pesante cassa di legno che nasconde il corpo di una giovane donna, uccisa da una malattia rapida e indifferente. Emozioni, storie, sorrisi, sguardi sornioni da gatto ronfante e con gli artigli a portata di mano, intelligenza, progetti, bimbi da accompagnare nel loro cammino, ecco tutto ciò ch’è stato spento dalla morte, evento indubitabile di tutte le vite.
Ma ecco, nel momento stesso che il carro funebre si ferma dinanzi alla porta della chiesa, grosse gocce bagnano la terra asciutta ormai da molti giorni, e l’autista che è sceso per aprire il portello posteriore, e i parenti e gli amici in attesa, e la mia giacca scura e il mio viso imbronciato, calde e pesanti gocce che come lacrime bagnano di un dolce saluto l’appuntamento della giovane donna con coloro che son venuti a incontrarla: il cielo e le nubi piangono per lei, amata mia, essi dicono, sei tra noi e con noi, corpo e pensieri e passioni e idee e amore… E le gocce di pioggia smettono di cadere quando la bara viene trasportata dall’auto nell’interno della chiesa, e non bagnano di lacrime un corpo già consunto da troppe lacrime. E durante la funzione, e dopo gli ultimi saluti, e ancora con il carro funebre che riprende la sua marcia verso l’ultimo riposo, e io, povero spettatore, sono sicuro che gli occhi del cielo hanno asciugato le proprie lacrime, per permettere ad una giovane donna di non soffrire più e di addormentarsi finalmente per sognare il suo destino.
È notte. Dolce come seno di donna, amara per un bacio perduto. E il cuore, ucciso da un sospiro d’amore, e la nostalgia di un mondo che non è più, e la solitudine nell’immensità dello spazio, e la luna bianca di luce che narra a colui che la mira una storia di tanto tempo prima… Vagando nel buio, io chiedo alle tenebre, dov’è il mio amore perduto? Forse è negli occhi e tra i bruni capelli di una donna un giorno incontrata, di passione piena e di sogni, che chiamava, voleva e bruciava. Io le parlai in una vita trascorsa, le dissi, dove vai, fermati e parlami del cielo e delle stelle, il mondo è un’immagine di quello che siamo, e se tu lo vorrai la tua strada sarà la mia strada.
Tu andasti invece a morire in un giorno di primavera, a seguire il corso di una vita impetuosa. La violenza senza speranza degli uomini fu l’ultima visione dei tuoi occhi, adusi ad osservare le stelle e le lontane galassie, le grida roche e inumane di esseri che non sono mai stati vivi furono l’estremo suono che percosse le tue orecchie, avvezze ad ascoltare e misurare nuove e complesse combinazioni musicali. E tu divenisti vento e sabbia e acqua, seme di coscienza sparso sulla terra. E io rimasi e attesi, per anni, per secoli, avvinto al muro della mia solitudine, corroso dal sole e dal gelo, mentre la grande menzogna della morte si impadroniva implacabile, ormai senza più remore, del mondo intero.
È l’alba. E il grande tempio che vedo sfumare nel lento tralucere dell’aurora ha sembianza intensa e drammatica ai miei occhi, al mio corpo stanco, alle lacere vesti, alla mano ferma che stringe una corta spada rossa del sangue nemico, in quanto le sue innumerevoli pietre ricordano, devono ricordare l’efferata uccisione del mio amore. Io, compagno nella ricerca e vano guerriero, ho assistito impotente alla morte della mia maestra, di Ipazia, della mia donna, di una scienziata protesa verso lontani e palpitanti confini, io sono parte di un piccolo pubblico che esce dal teatro perché la commedia è finita e non verrà più replicata.
Il sole precipita bruscamente verso l’alto, ed io, Shalim, figlio di Isidoro fabbricante di papiri, uno tra gli ultimi della Scuola alessandrina, lascio cadere il pugnale, e mentre la porta della vita si chiude alle
mie spalle, lentamente scendo verso la valle dove dimorano gli uomini alla ricerca della mia verità.
Adesso corro terre e oceani, la tagliente luce del sole non navera la tenebra che avvolge la mia mente come nero sudario, il tempo è una strada infinita, che porta lontano, ad un mondo impossibile. Dove sei, mio sogno perduto, forse un giorno tra infiniti altri sentirai uno stanco passo sulla polvere arida di un sentiero nascosto. Chiama, che il nome mio risuoni una volta nel silenzio che tutto invade, o voce mia, afferra il suono e rimanda l’eco a lei, al suo corpo mio da sempre, allo sguardo velato da lunghi capelli, allo spolverìo d’oro che ammanta le bianche e sensuali membra, di atomi, materia, forza, fuoco, freddo, vulcanica voluttà da sterminati universi.
Fermati allora, e parlami del cielo e delle stelle, fa che la polvere si levi verso l’alto, che il mio cuore riprenda a pulsare, che il mio corpo diventi luce.
L’attesa è infinita, ma io sono in cammino.
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