venerdì, 2 ottobre 2015
RICORDANDO ALBERTO MORAVIA
25 ANNI DALLA MORTE DI ALBERTO MORAVIA
Nel novembre del 2007 pubblicai un post dedicato a Alberto Moravia in occasione del centenario della sua nascita (avvenuta a Roma, il 28 novembre 1907). Nei giorni scorsi è stata celebrata un’altra ricorrenza: il venticinquesimo anno dalla morte (avvenuta a Roma, il 26 settembre 1990). Per l’occasione vorrei riproporre quel vecchio post del 2007 (contenente anche un contributo di Massimo Onofri tratto dal volume “Tre scrittori borghesi. Soldati, Moravia, Piovene” – Gaffi, 2007).
Ne approfitto altresì per proporvi questo video che contiene:
- uno “scherzoso” scambio tra Indro Montanelli e Alberto Moravia (1959)
-un’intervista di Pasolini a Moravia sul tema dello “scandalo amoroso” (1965)
- una trasmissione dedicata a Moravia, condotta da Mirella Serri con il contributo critico di Antonio De Benedetti (incentrata sui “gusti letterari”)
- una trasmissione dedicata interamente al profilo dello scrittore (con una serie di interviste molto interessanti)
Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Alberto Moravia con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questo nostro grande scrittore a chi non avesse ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Sono graditi (e ringrazio anticipatamente i partecipanti) interventi, contributi vari e la segnalazione di link attinenti ai contenuti di questo post.
Di seguito, il post pubblicato nel novembre del 2007.
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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI ALBERTO MORAVIA
(post del 25 novembre 2007)
Cent’anni fa nasceva Alberto Pincherle, in arte Alberto Moravia. Per l’esattezza il 28 novembre 1907.
Mi piacerebbe che ne parlassimo qui a Letteratitudine, ricordando la sua figura di grande scrittore e i suoi libri.
Vi fornisco uno spunto avvalendomi di un testo di Massimo Onofri, estratto dall’ottimo saggio “Tre scrittori borghesi. Soldati, Moravia, Piovene” appena edito da Gaffi editore.
Si tratta della raccolta di alcuni scritti nati in circostanze differenti per “celebrare tre scrittori – tre uomini – sorprendentemente affini ed in concorrenza, nella diversa declinazione d’una borghesia che fu anche il loro modo di vivere ed interpretare una vicenda fin troppo italiana. Borghesia come condizione storica e proposta metafisica: a definire il rapporto che intrattennerò con se stessi e il mondo”.
Aspetto i vostri contributi.
Massimo Maugeri
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Un borghese contro se stesso: Moravia 1927-1951
di Massimo Onofri
Non mi fa fatica affermare che la pubblicazione dei Racconti (1927-1951), nel 1952, felicissima antologia d’autore, rappresenta un evento capitale, tanto nella già molto folta vicenda editoriale di Moravia, quanto nella storia della cultura letteraria italiana di quegli anni. Ma molto folta, vorrei aggiungere, è dire in fondo poco: se è vero che, come scrivono Simone Casini e Francesca Serra nell’Introduzione al notevole Racconti dispersi (1928-1951), stampato da Bompiani nel 2000, Moravia, a quell’altezza cronologica, ha già pubblicato otto romanzi, da Gli indifferenti (1929) al Conformista (1951), e scritto «ben duecentotrenta racconti più o meno lunghi». Lascio ancora, e volentieri, la parola ai due giovani filologi: «Certo, non tutti i racconti esclusi nel 1952 vanno considerati tra i dispersi, abbandonati cioè dallo scrittore dopo la loro prima comparsa su questo o quel periodico. Una cinquantina, per esempio, di carattere allegorico o fantastico, confluirà nei Racconti surrealisti e satirici del 1956; qualcun altro verrà recuperato in raccolte posteriori come L’automa; e ben trentaquattro, comparsi sul “Corriere della Sera” dall’inizio del 1949, inauguravano la lunghissima e fortunata serie dei Racconti romani (1954). Dopo aver fatto tutti i conti del caso e verificato di non incorrere in errori per via delle ingannevoli metamorfosi di titolo o di forma, rimane tuttavia un dato sorprendente di cui prendere atto: i racconti scritti da Moravia tra il 1927 e il 1951 che rimasero sepolti nelle pagine dei quotidiani o delle riviste sono più di cento».
Da queste non molte ma assai precise parole si possono ricavare almeno due notizie fondamentali. Che i due volumi antologici del 1952 hanno un valore davvero quintessenziale – ventiquattro antologizzati (alcuni molto lunghi) su duecentotrenta scritti – nella produzione moraviana. Che, nella loro quintessenzialità, essi vanno a toccare solo il versante borghese, certamente e di gran lunga il più importante, di un’opera sterminata:distinguendosi, appunto, non solo dai racconti di tematica popolare o romana (nati dentro la specialissima esperienza che lo scrittore fece del Neorealismo), ma anche da quelli di disposizione fantastica o allegorica. Ho detto borghese: che è un aggettivo, oggi, disusato, se non screditato, e carico di troppe implicazioni, ma che s’impiega qui in un’accezione storica e di minima sociologia: quando è vero che, di questi ventiquattro racconti, borghese è esattamente l’ambientazione delle vicende e l’anagrafe dei personaggi: d’una riconoscibilissima borghesia italiana, sostanzialmente, neghittosamente, impolitica, silenziosamente fascista prima, perbenista poi. Non è un mistero per nessuno: negli Indifferenti Moravia non usa mai la parola fascismo, ma noi non ci dimentichiamo nemmeno per un solo istante, durante la lettura, che gli anni sono quelli delle domenicali adunate in orbace, del fascio littorio e del fez. Ma, dire borghesi questi racconti, significa nominare anche la provenienza sociale di chi li ha scritti: e che, pur nella spietatezza d’una narrazione oggettiva, non riesce a non trasferire, sulla pagina, le componenti di un’inquieta, insoddisfatta, se non guasta autobiografia. Come avviene nel caso di uno dei più bei racconti del Novecento italiano: Inverno di malato. Ma andiamo con ordine.
Articolo, novella, racconto, saggio, racconto lungo, romanzo breve, romanzo, romanzo-saggio, teatro, in perenne osmosi l’uno con l’altro genere: non v’è pratica della scrittura che Moravia, nella sua lunga vita, non abbia frequentato. E che testimonia d’una necessità biologica e d’un impegno quotidianamente imprescindibile che hanno però dello straordinario: a testimonianza d’una fede, non dico d’una religione, che è stata l’unica, forse, a non abbandonarlo mai, ed esercitata con puntualità inesorabile nelle prime ore della mattina. Ogni giorno un segno inciso nel legno storto della propria umanità: perché, per Moravia, l’uomo è innanzi tutto – vichianamente, crocianamente – ciò che fa. Un’operosità straordinaria ed in polemica implicita, direi naturale, con ogni idea di vita eccezionale, eroica.Contro D’Annunzio, insomma, letterato e vate sempre sopra le righe: il quale ancora rappresentava molto, e non soltanto per la patria letteraria, in quegli anni Trenta e Quaranta, quando Moravia scriveva la più parte dei racconti inclusi nel 1952: spunti d’un dannunzianesimo d’interni e sentimenti non mancano, del resto, nelle pagine più antiche della raccolta, per esempio quelle di Cortigiana stanca (1927). Un’operosità straordinaria, ripeto: come virtù, appunto, eminentemente borghese, di quella borghesia, però, subito disprezzata e deprecata. In effetti, come il borghesissimo Croce, rimasto sepolto per molteore nel 1883, giovanissimo, sotto le macerie di Casamicciola, nell’isola d’Ischia, accanto ai propri famigliari morti, anche Moravia ebbe, negli anni decisivi dell’adolescenza, il suo privato terremoto, e nemmeno troppo simbolico. E come Croce ne ricavò, precocemente, imperativi inderogabili per la sua implacabile etica del lavoro.Ecco: il 1916 volge alla fine quando, a soli nove anni, mentre il padre lo accompagna a scuola, cade a terra per un fortissimo dolore alle gambe. La diagnosi è spietata: una tubercolosi ossea all’anca, la malattia che segnerà tutta la sua giovinezza sino ai diciott’anni. Cominciano così i lunghi periodi d’immobilità a letto, gli studi irregolari affidati perlopiù ad insegnanti privati, se non a governanti, le letture disordinate, ma matte e disperatissime (da Dante e Ariosto a Goldoni e Manzoni, da Shakespeare e Molière a Rimbaud e D’Annunzio, al fondamentale Dostoevskij): sino al ricovero nel sanatorio di Cortina d’Ampezzo, tra il marzo 1924 e il settembre 1925, ed alla convalescenza a Bressanone, in un Kurhaus, un albergo con assistenza medica. Moravia lo definirà più volte come il fatto più importante della sua vita: bisognerà prenderlo alla lettera. Non per niente, il già citato Inverno di malato, che trasporrà sulla pagina proprio questa esperienza in sanatorio, può essere letto come un racconto aurorale e fondativo, di larga parte della sua opera e di tutto un atteggiamento: quello conflittuale e risentito con la propria classe d’appartenenza, e magari letto anche col valore di un’autogiustificazione a posteriori, quanto alla luce feroce che illumina i personaggi e gli eventi che s’accampano negli Indifferenti, autogiustificazione che Edoardo Sanguineti, nel 1962, in chiave rigorosamente (e limitativamente) marxista, ha preferito tradurre coi termini di «coscienza» e «ideologia».
Scritto presumibilmente nell’estate del 1929 a Divonne-les-Bains, come confidò ad Alain Elkann nel 1990 (altrove, però, parlerà anche dell’autunno del 1925, collocandolo dunque a ridosso della stesura del romanzo d’esordio), Inverno di malato, terzo testo antologizzato nei Racconti, fu pubblicato da Pietro Pancrazi su «Pegaso» nel 1930, quindi incluso nella prima raccolta del 1935, La bella vita, poi ristampato nell’Amante infelice (1943). Ilperno attorno a cui ruota tutto il racconto è il rapporto tra il giovane protagonista (che ha più o meno l’età di Moravia quando entra in sanatorio), «di famiglia una volta ricca e ora impoverita», e il suo compagno di stanza, il Brambilla, «viaggiatore di commercio e figlio di un capomastro», personaggio che nasce dalla condensazione di due ospiti dell’Istituto Coldivilla di Cortina d’Ampezzo conosciuti da Moravia: il primo e momentaneo compagno di stanza, appunto un volgare rappresentante di commercio, e il più che ventenne e triestino Faloria, figlio d’un sarto, giovine leggero e non problematico, don Giovanni al naturale, per il quale lo scrittore in erba prova una vera e propria infatuazione.
C’è da domandarselo, inseguendo indebitamente la biografia fin dentro la letteratura, braccando quell’io che vive sotto le mentite spoglie dell’io che scrive: che cosa sarebbe stato il rapporto di Moravia con la sua classe se non fosse passato al vaglio feroce d’uno sguardo “altro”, non borghese, epperò classista e risentito, come quello che ci restituisce qui il Brambilla, il quale non avrebbe forse ragioni da accampare – e il giovanissimo Girolamo lo sa bene nei rari momenti di lucidità -, se non quelle dell’azione, meglio: dell’attivismo e del vitalismo, e d’una certa braveria, d’una facilità di vivere, che a Girolamo, dal fondo della malattia e della sua paralisi, delle sue velleità, possono parere addirittura le ragioni stesse della salute e della virtù. Lo veniamo a sapere sin dalle prime righe: il Brambilla «l’aveva a poco a poco convinto, in otto mesi di convivenza forzata, che un’origine borghese o, comunque, non popolare fosse poco meno che un disonore ». Sia detto per inciso: proprio il primevo e positivo sentimento del popolo può dirsi alla base, dunque antica e dissimulata, di quelle cautissime illusioni populiste che Moravia vivrà tra i Racconti romani e i Nuovi racconti romani (1959).
Intendiamoci: se abbiamo scavato nel racconto in direzione della vita, se abbiamo finto un’identità tra le verità del testo e quelle dell’autore, non è per il fatto che vogliamo sottovalutarne la letterarietà.Quella che già nel 1938, molto tempestivamente, e come a rimproverargliela, Eurialo De Michelis sottolineava vigorosamente: magari segnalando calchi di Dostoevskij e Manzoni.
Epperò il fatto d’una sintassi dello sguardo che trapassa dalla vita all’opera – se inteso, diciamo, in senso trascendentale, come a fornirci una delle condizioni di possibilità del mondo moraviano, una sua chiave d’accesso – ci pare sia da privilegiare: a motivare meglio anche la qualità eccezionale dei racconti più lontani: non solo di Inverno di malato, ma anche di Cortigiana stanca, Delitto al circolo di tennis (1927), Fine di una relazione (1933). Insomma: il giovanissimo Moravia presta molto di sé al Girolamo di Inverno di malato, che è poi, in versione adolescente (o poco più), il Michele degli Indifferenti, o, per pescare a caso anche in questi Racconti (1927-1951), il Gianmaria dell’Imbroglio (1937), il Giacomo di Luna di miele, sole di fiele (1951), inserito però a partire dalla ristampa del libro del 1953, col suo amore «fatto più della volontà di amare che di sentimento vero»: inetto, velleitario, dilemmatico e inadeguato alla vita. Il giovanissimo Moravia, ripeto, presta molto di sé a Girolamo: ma sospingendolo subito dentro una luce che è già, insieme, di pietà e di condanna. Ecco: ricerca morale della verità o pregiudizio immoralistico? Distacco moralistico dalla propria materia autobiografica e di classe o adesione senza riserve? Furono proprio queste le domande che impegnarono e divisero i primi recensori degli Indifferenti, che oggi ci appaiono, quasi tutti, con le armi spuntate di fronte a quell’aggressività implacata ma fredda di Moravia, a quel fuoco sempre bagnato, però, dalle ragioni d’una strana pietà.Pietà e rifiuto, insomma: laddove, in Inverno di malato, nel serrato confronto tra Girolamo e Brambilla, tra un borghese inconsapevole di sé (e delle sue radici di classe) e un giovane del popolo, finisce per esplicitarsi, e per chiarirsi a se stessa, quella dialettica che, invece, negli Indifferenti resta muta, nel cerchio conchiuso e strozzato d’un interno pariolino dove, come notava Pancrazi recensendo il romanzo, manca davvero l’aria, sicché verrebbe la voglia d’aprire subito una finestra o scambiare due parole con la serva di casa. In Inverno di malato Moravia si serve d’un Brambilla insolente, sadico e persecutorio, anche un po’ mascalzone – quel Brambilla che giganteggia dentro la coscienza larvale di Girolamo -, per fare subito i conti con la sua classe sociale d’origine. Ma, dentro quel conto, saranno proprio le ragioni della pietà a impedirgli di riconoscersi positivamente in Brambilla, nel suo vitalismo, insomma in tutte le mitologie piccolo-borghesi con cui la malata borghesia italiana s’illuse di rivitalizzare se stessa e che culminarono nella barbarie del fascismo.
Ho parlato dello sguardo, della sua peculiare disposizione, che, da questo racconto aurorale, trasmigra, fondandola, dentro larga parte dell’opera moraviana, fino al suo punto terminale, passando, ovviamente, per tutte le metamorfosi che la borghesia italiana, con la sua realtà di riferimento e d’espressione, conoscerà nei decenni del secolo scorso, arrestandosi al principio degli anni Novanta, con la morte dello scrittore. Dovrei parlare ora – e sempre in termini trascendentali – del sesso e delle donne.
Perché, affrontare la questione del sesso in Moravia, significa, inevitabilmente, entrare nel merito di quell’aggressione in cui consiste il movimento del personaggio uomo, quando si rapporta, eroticamente, al personaggio donna. Un’aggressione che sta sempre nella lente ferocemente millimetrica d’un uomo che guarda: e che, non di rado, si traduce anche in violenza reale ed omicidio, come accade in Delitto al circolo di tennis. Partiamo, ancora una volta, da Inverno di malato: Girolamo, per ottenere da Brambilla una patente di virilità, studia di sedurre Polly, la paziente inglese quattordicenne con cui, per volontà dei genitori di lei, è solito conversare. Quella di Polly è, sin da subito un’«intorpidita» e «ritardata infantilità», che la fa terrorizzata e atona alle goffe avances del ragazzo, il quale, in quei rapporti voluti con tutto se stesso, e contro la sua stessa inadeguatezza, non s’impedisce di avvertire subito un che di «illecito, triste, torbido», fino alla convinzione «di essere guasto, senza rimedio».Ecco: il sesso è in Moravia, e sin da subito, qualcosa di agognato e ineludibile, ma anche di irreparabile, e che ha a che fare con la mortificazione e la perdita di sé.Il personaggio di Polly, poco più che una bambina, induce meno lo scrittore a quel moto aggressivo di cui s’è detto, rivolto più a se stesso, in questo caso, al suo io vicario. Tutto risulta più chiaro quando, sulla scena, campeggiano donne mature.Prendete Cortigiana stanca: «Per strada, la sua fantasia si era accanita con una specie di rabbiosa volontà a immaginare una Maria Teresa carica di autunni, dai seni pesanti, dal ventre grasso tremolante sulle giunture allentate dell’inguine, dai fianchi impastati e disfatti». Laddove, però, la logica stessa del desiderio nei suoi momenti più accesi, se non addirittura quella stessa dell’amore, si alimenta proprio di quanto c’è di più penoso nel commercio della carne: «Non se lo confessava, ma l’avrebbe amata di più, mille volte di più, […] se avesse sentito sotto le sue mani irrequiete una carne ancora più stanca di quella, una pelle ancora più vizza e sfiorita. Tutto il suo amore avrebbe dato ad una povera donna matura che non senza disgusto avrebbe tenuto sopra le sue ginocchia e stretta contro il proprio petto». Anche alla donna di Fine di una relazione – che non si trova nell’incipiente autunno della vita come Maria Teresa, ma nella pienezza della sua fresca maturità – il suo infastidito amante non riserva premure migliori. E nello sguardo feroce e disturbato di lui, i suoi sono «occhi neri e inespressivi», per «una serenità indolente e un po’ bovina», di «animale inabile».
Il culmine di questa aggressività maschile, però, s’era già toccato dall’inizio, in Delitto al circolo di tennis, dove la «principessa», una donna invecchiata male, ma di ancor vive ambizioni, viene invitata al ballo di gala al Circolo, corteggiata e illusa, sbeffeggiata e umiliata, denudata e stuprata collettivamente, sino all’omicidio. Ecco: «lo scolorimento della carne ingiallita e grinzosa rivelava il disfacimento dell’età». E ancora, nei modi d’un dileggio che arriva al linciaggio: «La trascinarono daccapo alla tavola, quella resistenza li aveva imbestialiti, provavano un desiderio crudele di batterla, di punzecchiarla, di tormentarla». Si tratta di una modalità di rappresentazione che resisterà negli anni: ed I racconti ne danno continua e prolungata testimonianza.
Prendete L’imbroglio (1937), là dove compare in scena Santina, la fanciulla tutt’altro che sprovveduta da cui il protagonista maschile sarà prima irretito e poi ingannato: «Attonito e tuttavia incuriosito, Gianmaria notò soprattutto il singolare contrasto tra la gracilità infantile di questo corpo e le due macchie rotonde dei capezzoli che trasparivano sotto il velo verdognolo della sottoveste, anormalmente larghe, quasi mostruose, grandi e scure come due soldoni; e i peli lunghi, folti e molli che nereggiavano sotto le ascelle di quelle magre braccia alzate».
All’avvenente Gemma della Provinciale (1937) non tocca migliore destino: «Aveva il naso aquilino, la bocca grande e sdegnosa e, sotto capelli crespi, la carnagione delicata e malsana, ora diafana ora chiazzata di macchie di rossore. Certa peluria, che le adombravale braccia e la nuca, faceva pensare ad un corpo villoso ed infuocato pur nella sua sgraziata magrezza». Ma anche in Luna di miele, sole di fiele (che chiude la raccolta del 1952), il protagonista in questi termini s’esprime sulla moglie, all’indomani delle nozze: «Ella non era alta, ma aveva le gambe lunghe, di fanciulla, e magre, soprattutto nelle cosce che, nei calzoncini corti, mostravano sotto l’inguine quasi una fessura. Erano bianche, queste gambe, di una bianchezza fredda, casta, lucida. Ella aveva i fianchi stretti, la vita snella e poi, solo tratto muliebre, se si girava a parlargli, si profilava sotto la maglia il petto gonfio e basso, simile, sul busto esile, ad un peso aggiunto ed estraneo, penoso a portarsi».
Penoso a portarsi quel seno gonfio e basso: come sempre, in questi racconti, penoso è fare all’amore. Già, fare all’amore: tutto ciò che abbiamo per incontrarci e conoscerci in quanto essere umani, ma anche tutto quello che dobbiamo sopportare e soffrire.Aveva ragione Enzo Siciliano nel 1998: «In Moravia la sessualità diventa il segno tangibile della crisi del personaggio uomo – e lo stile, il lessico lo documentano». E ancora: «C’è in Moravia il torbido languore che segue al coito, una felicità offuscata da un rimorso senza nome, o la consapevolezza che si è vittime di noi stessi – la nostra persona è soltanto il risultato di un conflitto mal domato». Parlando di Agostino (1944), Umberto Saba disse che Moravia «sporcava l’amore». E Siciliano, molto giustamente commentò: «Voleva dire che Moravia piegava il sesso sul versante della tenebra piuttosto che su quello della luce». Il sesso e la sua natura di tenebra: parrebbe, il fare all’amore, l’unica declinazione dell’esistenza che abbia a che fare con una qualche idea di felicità, mentre invece si nutre, «oltre che di torbidi desideri, di sentimenti così poco amorosi come il disgusto, la crudeltà e il disprezzo», per usare le parole con cui Paolo, nella Provinciale, giustifica la sua «passione grossa e furtiva» per Gemma. Il giovane Moravia ha già capito tutto quello che c’era da capire, e continuerà a ribadirlo per tutta la sua vita di scrittore: la natura dell’uomoè ignota a se stessa, nonostante tutta la scienza che su tale natura è stata costruita, psicanalisi compresa. Il sesso è esattamente la dimensione in cui l’inconoscibilità della nostra natura arriva a palesarsi fulmineamente in quanto tale: disperatamente inattingibile.
Quale atto sostanzialmente aggressivo, il sesso è, così, anche un’aggressione alla stessa verità: per come ci appare, identica a se stessa, integra eppure incomprensibile. Fateci caso: che cosa rimane, a tutti i personaggi maschili, al termine dell’inappagata espugnazione che finisce per essere, ogni volta, il rapporto sessuale con una donna? Nient’altro che la proclamazione spazientita e insoddisfatta d’un mistero. Prendete Cortigiana stanca. Dopo l’amore, appena il suo amante s’è liberato dal viluppo delle coperte per andarsene via, Maria Teresa comincia a piangere «senza rumore, senza scosse, silenziosamente, come scorre il sangue da un corpo ferito a morte». L’amante ne ascolta le disperate parole – «è duro essere costretti per la prima volta a mendicare la vita» – quindi assiste a quella sorta di riflusso per cui Maria Teresa si richiude nell’impenetrabilità del sonno: «Gli pareva, di fronte a questa immobilità, che ella non avesse mai parlato; dubitava dei suoi occhi e delle sue orecchie; avrebbe voluto rivedere la smorfia lacrimosa, riudire la voce piangevole. La guardava e gli pareva di vedere la faccia stessa dell’esistenza, un momento rivelata e parlante, ora di nuovo muta e immobile». Già, la faccia stessa dell’esistenza che si rivela alla luce, per ritornare nella tenebra muta della sua immobilità. Siamo agli esordi: ma questa epifania del mistero della vita attraverso la donna è già un patrimonio morale ed esistenziale conquistato dal giovane scrittore. Inesorabile il suo giuoco di diastole e sistole, nella sua intera opera, attraverso personaggi femminili sempre più enigmatici: da Cortigiana stanca, appunto, a L’amore coniugale (1949), al postumo La donna leopardo (1991), per attenerci a tre diverse altezze cronologiche, per sottolinearne la prodigiosa continuità, anche di tenuta letteraria. Epifania del mistero della vita attraverso la donna che, guarda il caso, si realizzaanche nelle ultime righe dell’ultimo racconto della raccolta, così come Moravia ha perentoriamente voluto a partire dall’edizione del 1953, Luna di miele, sole di fiele: «Giacomo la strinse a sé e quasi subito, mentre lei cercava, sempre piangendo, il suo abbraccio, penetrò dentro di lei, facilmente e agevolmente. Ebbe la sensazione come di un fiore segreto, formato di due soli petali, che si schiudesse, pur rimanendo sepolto e invisibile, a qualche cosa che era il sole per la buia notte carnale. Nulla era risolto, pensò più tardi, ma per ora, gli bastava sapere che ella si sarebbe uccisa per lui».
Massimo Onofri
(Copyright Alberto Gaffi Editore)
TRE SCRITTORI BORGHESI di Massimo Onofri
Alberto Gaffi Editore in Roma, 2007
pagg. 112, euro 10
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Scritto venerdì, 2 ottobre 2015 alle 16:15 nella categoria A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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