mercoledì, 30 maggio 2007
CENTOCHIODI: LA SILENZIOSA NARRAZIONE DELLE IMMAGINI (di Gabriele Montemagno)
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Può sembrare alquanto contraddittorio scrivere su Centochiodi, l’ultimo film di Ermanno Olmi, in un blog letterario. Il motivo è ben presente a chi ha visto la pellicola. L’immagine di questo film che colpisce maggiormente lo spettatore è proprio quella dei tanti libri aperti e inchiodati al suolo di una biblioteca da grossi chiodi. A realizzare questo “sacrilego” gesto è un giovane e brillante docente universitario, protagonista del film. Egli ha compiuto tale atto simbolico dopo essere giunto alla conclusione che i libri sono stati incapaci di togliere il male dal mondo, pur essendo detentori di culture e saggezze millenarie. “Tutti i libri di questo mondo non valgono un caffé con un amico”, affermerà poi verso la fine del film, quasi a volere suggellare il suo gesto compiuto contro i libri. A cui segue la sua decisione di fuggire via dall’università e dalla sua città. Una fuga che ha termine in un piccolo paese alle rive del Po, abitato da gente semplice con cui il docente stringe profonda amicizia, divenendo solidale con loro e con i loro piccoli problemi. Proprio per questo verrà da loro ritenuto un novello Cristo. Di fronte a tutto ciò, quanti amano i libri (compreso chi scrive) potrebbero giustamente insorgere.
Eppure non sembra essere il rifiuto dei libri, tout court, ciò che il regista ha voluto comunicarci attraverso la sua ultima pellicola. Olmi, infatti, ha affermato di non essersi voluto scagliare contro i libri, che ama, bensì contro quella cultura (anche religiosa) che, esclusivamente libresca, può imprigionare, “inchiodare”, ciascun uomo, incasellandolo in codici precostituiti e privandolo della mutevolezza e sacralità della sua vita vissuta. E tuttavia tale affermazione può costituire motivo di riflessione (e di turbamento) ogni qual volta ci si accosta ai libri ed al loro mondo.
Ad un esame più attento, però, in questo film Olmi pare volerci principalmente narrare la storia di un profondo cambiamento, di una “conversione”, che scaturisce da una crisi interiore. E lo fa partendo dal contatto col buio esistenziale del suo protagonista. Ad un certo punto del film, un primo piano dal basso racchiude il volto del giovane professore mentre, in silenzio, osserva da un ponte l’acqua del Po fluire di sotto: il suo volto è profondamente serio e intento, ed è illuminato dalla fioca luce crepuscolare che richiama la fioca luce del suo animo. Sembra la scena di un suicidio. Eppure, dopo qualche istante di silenzio, il professore getta la sua carta d’identità nel fiume insieme al suo lussuoso giubbotto e li osserva allontanarsi, trascinati dalla corrente. Abbandona poi ogni altro suo avere e, dopo aver trovato una piccola casetta diroccata posta sulla riva, in mezzo alla vegetazione, la elegge a sua dimora, ristrutturandola. Inizierà così la sua nuova esistenza in una solitudine agreste alternata dal contatto con gli abitanti del piccolo borgo della Bassa mantovana. Però da qui la trama sembra proseguire verso sviluppi scarsamente efficaci, perché la “morale” diviene didascalica e un po’ di maniera. A conclusione del film si ha l’impressione che quanto era stato promesso non sia stato mantenuto e sia ancora lì, irrisolto. Peccato. Eppure restano le immagini. Il fiume, la campagna, i tramonti, la vita quotidiana del borgo, i balli nella balera al fresco della sera: tutto questo è osservato e narrato con cura, attenzione e rispetto dall’obiettivo della macchina da presa. Non semplice “sfondo” scenografico o esercizio calligrafico, bensì –appunto- narrazione. Narrazione silenziosa. Giacché silenziose sono le immagini che raccontano questo piccolo mondo osservato e vissuto dal giovane professore. Viene da pensare ai film di Terrence Malick. Viene anche da pensare che, forse, quanto c’è di poco convincente ed irrisolto in questo film, troverà una sua continuazione nelle realtà raccontate dai futuri documentari a cui Olmi vuole interamente dedicarsi, avendo deciso di abbandonare il cinema di finzione. Non resta, allora, che augurargli di mantenere quel suo sguardo carico di sensibilità verso la realtà profonda delle cose.
Gabriele Montemagno
Scritto mercoledì, 30 maggio 2007 alle 21:31 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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