martedì, 3 febbraio 2009
STRANE COPPIE: MARCEL PROUST, NATALIA GINZBURG
Mettiamo a confronto Marcel Proust e Natalia Ginzburg. Accostiamo la Recherche al Lessico famigliare. La possibilità ce la offre Antonella Cilento con una nuova puntata de L’ombra e la penna, nella quale illustrerà una bellissima iniziativa culturale portata avanti a Napoli.
Leggete il bel pezzo di Antonella che troverete di seguito!
Io vi invito a discutere sugli autori e sulle opere oggetto di questo post.
Cosa pensate di Marcel Proust? Avete mai letto la “Recherche”? Che effetto vi ha fatto?
E su Natalia Ginzburg e il suo “Lessico famigliare”… ?
A proposito… a vostro avviso, oggi, in Italia, esiste ancora un lessico famigliare?
A voi.
Massimo Maugeri
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Cari amici de L’ombra e la penna,
dal mese di gennaio fino a giugno 2009 Lalineascritta e gli Istituti di Cultura napoletani (Institut Français de Naples, Instituto Cervantes e Goethe Institut) lanciano un’iniziativa intitolata Strane Coppie.
Tutti ricorderete il film di Billy Wilder: qui la strana coppia non è costituita dai due meravigliosi inquilini forzati (Walter Matthau e Jack Lemmon), ma da scrittori contemporanei che si confrontano e dibattono su coppie di grandi classici.
Lo scorso anno Lalineascritta aveva offerto Strane Coppie ai suoi iscritti con ottimi e sorprendenti risultati: si erano incontrati/scontrati, fra gli altri, Anna Karenina e Madame Bovary, le sorelle Brönte, Stevenson e Dostoevski, Orgoglio e pregiudizio e Ritratto di signora, L’isola di Arturo e Gita al faro. Quest’anno l’iniziativa è pubblica e gratuita grazie alla collaborazione con gli Istituti, cosa fondamentale per Napoli e per questo tipo di incontri che vogliono portare quanti più lettori ad avvicinarsi o riavvicinarsi ai grandi libri con una prospettiva meno scolastica e certo anti-accademica.
L’altra novità è che, svolgendosi gli incontri presso le sedi degli Istituti stessi, ogni coppia prevede un confronto fra classici italiani e, di volta in volta, francesi, spagnoli, tedeschi.
A volte si tratta di capolavori assoluti noti ai più ma magari non letti abbastanza, come è capitato nel primo incontro che si è tenuto giovedì 22 gennaio presso l’Institut Français de Naples e dove io stessa (in sostituzione di Laura Bosio, che salutiamo affettuosamente) e Mariolina Bertini Bongiovanni, vicedirettrice dell’Indice dei Libri del Mese, studiosa di Proust e di Balzac (di cui sta curando da anni l’opera per i Meridiani) abbiamo raccontato a una sala gremitissima Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Di seguito, troverete una sintesi del mio intervento e nei prossimi mesi spero di potervi fornire altrettante brevi sintesi degli incontri che seguiranno.
Intanto, eccovi il calendario dei prossimi incontri:
Giovedì 19 febbraio 2009 – Goethe Insitut
Triangoli amorosi
Le affinità elettive vs Malombra
Goethe vs Fogazzaro
GIUSEPPE MONTESANO E FRANCESCO COSTA
Giovedì 19 marzo 2009 – Instituto Cervantes
Fantastico
Finzioni vs Le città invisibili
J.L. Borges e Italo Calvino
IVAN COTRONEO E ANTONIO PASCALE
Giovedì 23 aprile 2009 – Geothe Institut
Azzurrità
Il cardillo addolorato vs Il caso Franza
Anna Maria Ortese vs Ingeborg Bachmann
FRANZ HAAS E MARIA ATTANASIO
Giovedì 21 maggio 2009 – Instituto Cervantes
Rivoluzioni impossibili
Il secolo dei lumi vs Il resto di niente
Alejo Carpentier e Enzo Striano
DOMENICO STARNONE E MELANIA MAZZUCCO
Giovedì 4 giugno 2009 -Institut français de Naples
Ritratti di donna
Claudine vs Il paese di Cuccagna
Colette e Matilde Serao
DONATELLA TROTTA E SANDRA PETRIGNANI
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Il lessico famigliare di Natalia Ginzburg
di Antonella Cilento
Come vedete, alcuni classici sono assai noti e altri in Italia meno conosciuti o diffusi: la Bachmann, Carpentier, Colette che sono autori di assoluto rilievo nei rispettivi paesi, mentre in Italia sono tradotti ma non oggetto di attenzione continua, come meriterebbero. In altri casi, un grande classico come Malombra di Antonio Fogazzaro è spesso brevemente antologizzato a scuola ma di rado lo si legge integralmente. Quindi, sperando di avere anche gli amici di Letteratitudine fra il pubblico che affollerà i prossimi incontri, passo a raccontarvi un po’ del “mio” Lessico famigliare.
Dopo che Mariolina Bertini Bongiovanni ha raccontato magistralmente La Recherche, affrontando la sfida di concentrare in poco più di un’ora una storia critica lunga un secolo di un romanzo senza il quale molta della letteratura del Novecento non sarebbe concepibile e trattando, fra i molti temi che era possibile affrontare, anche la questione della traduzione di Proust in Italia, mi accingo a parlare di Lessico famigliare.
Il primo volume della Recherche fu tradotto per Einaudi proprio da Natalia Ginzburg: una traduzione imperfetta, fatta in condizioni particolari e senza un adeguato vocabolario, che però la Ginzburg non rinnegò mai, anche a distanza di anni. Quella traduzione era un pezzo della sua memoria, le ricordava un momento particolare della sua vita.
Proust compare in Lessico famigliare in moltissimi e spassosi punti:
“Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza. Disse mio padre: – Doveva essere un tanghero!”.
Ma anche quando La Recherche non viene evocata direttamente, Proust è nell’aria: è parte indispensabile, causa prima di Lessico famigliare.
Il mio personale ricordo di questo libro è scolastico: è capitato alla Ginzburg come a Calvino di diventare classici in vita, citatissimi e indispensabili per decenni, hanno parlato a intere generazioni e poi le antologie scolastiche, che prima li includevano sempre, hanno smesso di ospitarli. Non so, quindi, quanti oggi fra i più giovani abbiano mai letto la Ginzburg. Certamente, anche Proust, lettura indispensabile alla formazione intellettuale di intere genie di lettori, oggi è accostato con sempre maggiore difficoltà.
Lessico famigliare parlava a me, che avevo quattordici o quindici anni, in un dialetto che non era il mio, con un idioletto sconosciuto (potacci, sbrodeghezzi, fufignezzi) ma che mi entrava direttamente nel sangue: non c’è famiglia in Italia che non abbia il suo specifico lessico, quei modi di dire con cui si identificano nonne e zie, fratelli e sorelle.
Il secondo ricordo è invece più recente: all’Archivio di Stato, mentre preparavamo A.M.O., una serie di giornate dedicate all’Ortese, mi capitarono fra le mani alcune delle lettere intercorse fra queste due grandissime scrittrici. Puntuta e fitta la scrittura di Ortese, occupava anche gli spazi verticali del foglio, invadeva persino un pacchetto di sigarette (meravigliosa icona). Quella di Ginzburg era invece calma, scolastica, aperta, come i denti larghi dei bambini. E l’Ortese si disperava per i suoi libri (erano lettere editoriali del periodo in cui Ginzburg lavorava per Einaudi) e Ginzurg, molto discretamente, cercava di tranquillizzarla.
Questa serenità di Natalia che ce la rende ancor oggi vicina perché donna attraversata dalla Storia, soggetta a dolorose perdite (i due mariti, i suoi cari, la nascita di un figlio malato) ha forse offuscato per un po’ i suoi grandi meriti letterari. Lessico famigliare fa parte di quella grande famiglia di romanzi che esplorano le relazioni e la memoria nati in risposta, per filiazione o gemmazione dalla Recherche: guarda caso, però, a me sembra che queste filiazioni riguardano un numero assai maggiore di scrittrici piuttosto che di scrittori (penso, per fare giusto due nomi, ad Althénopis di Fabrizia Ramondino ma anche a scrittrici distanti dallo spazio europeo, all’autobiografia stupenda di Janet Frane, Un angelo alla mia tavola).
Probabilmente perché la Recherche tocca il tema della memoria attraversando il tempo, ma anche legandosi agli spazi, cosa che accomuna molte scrittrici, da Ginzburg a Ramondino, come scrive brillantemente Monica Farnetti nel suo bellissimo Tutte signore di mio gusto (ediz. La Tartaruga) a proposito di Dolores Prato:
“Per lei apprendere è stato ed è infatti nominare, e nominare è cartografare lo spazio (…) Che le donne non abbiano con il tempo, il tempo “classico” commerci efficaci e soddisfacenti sa bene la citata Maria Zambrano, che dice che così è perché le donne hanno di fatto con esso una relazione di grado più elevato: la relazione con l’istante, quello che ella chiama ‘il vaso minuscolo del tempo’. (…)”
Lessico famigliare vive dei luoghi che racconta, perché non solo gli appartamenti in cui vivono i Levi sono gli unici spazi del narrare, ma perché i familiari stessi di Natalia vengono guardati come luoghi esotici, benché piuttosto frequentati. Sono “spazi” in questo romanzo da esplorare, attraverso le parole, il magnifico professor Levi, detto Pomodoro per via dei capelli rossi, ovvero Pom, la mamma Lidia, le sorelle, i fratelli, gli amici, la tribù che si muove intorno a Natalia. E, come ha scritto mirabilmente Cesare Garbali, questa tribù è osservata con complicità ma anche con l’impercettibile senso di vendetta di chi è piccolo e assiste ai giochi fatti dagli adulti sui quali ha l’unico potere di riportarli con il linguaggio che più le aggrada. Ed ecco che i personaggi vengono sorpresi con le dita nel naso o nella marmellata, per così dire: fotografati nella loro unica frase storica, magari insignificante o buffa. Non importa dare loro profondità nell’immediato: meglio consegnarli al lettore per quel che hanno detto, ripresi di scorcio e a sorpresa nel loro momento ridicolo, epico ma infausto, insomma nella loro favolistica umanità. E’ il tempo, il tempo di questo stupefacente romanzo a restituire, poi, la melanconia dei Persi, dei Trapassati, di coloro che non esistono più se non per le parole che hanno detto. Lo scrittore, in questo caso, è un archeologo della memoria e le tracce, labili e confondibili, si prestano a effetti di senso e di humour.
Questo sguardo dell’infanzia è così forte, così ironico, umile ma feroce, che rileggendo ho pensato a quanto debba a questo libro, fra gli altri, il Guizzardi di Gianni Celati (Le avventure di Guizzardi): magari sbaglio o, al contrario, è già stato fatto notare da altri, ma con il suo lessico da folle, da stralunato Guizzardi è solo un pelo più in là della piccola Natalia, che, certo, non è stralunata, ma come Guizzardi guarda al mondo adulto con l’improvvisa saggezza sintetica del bambino che in noi non muore mai.
Altra filiazione, come si accennava, è Althénopis di Fabrizia Ramondino, capolavoro assoluto e poco letto: altra famiglia, questa volta non ebraica e torinese ma napoletana e assai pagana. Althénopis è tutto giocato sugli spazi familiari, sui luoghi della memorie (ville, case, persone, zii e zie, ecc…) e dallo spazio struggente e ironico della memoria si concentra sul dramma privato fra madre e figlia. Certo, la struttura di Lessico famigliare resta più inavvicinabile, meno identificabile di altre: il romanzo, che è scritto senza partizioni di capitolo, senza sottotitoli o sezioni è un continuum di ricordi dove è difficile stabilire il prima e il dopo. Difficile fare una sintesi degli eventi a beneficio dei nuovi lettori per la miriade di micro episodi che lo popolano e per l’impossibilità di stabilire confini.
Siamo immersi nel senso salvifico delle parole, delle lingue perse: in una sua prefazione, Garboli segnala che forse l’idea del lessico famigliare viene dal “continico” che parlano i ragazzi ne Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, dove, però, la ricca famiglia ebrea sembra quasi consegna allo sterminio (un destino simile a quello degli Etruschi, scrive Garboli), mentre qui l’idioletto familiare va oltre l’identità ebraica (anche se la contiene), è universale.
Meraviglioso, poi, e favolistico è il rapporto di questo romanzo con la Storia, quella con la maiuscola, che passa distratta dal salotto di casa Levi, dove appaiono Turati e Anna Kuliscioff, citati più per la pruderie delle donne di casa che non per la loro dimensione politica. Pajetta, Adriano Olivetti, lo stesso Leone Ginzburg, Pavese: tutta gente di famiglia, osservata senza epica, perfetti però nell’apparire al punto giusto della narrazione, ricordata per un soprannome o un’espressione: la Vandea, zia reazionaria, il povero Filippèt, come dice Pom di Turati, il “baco del calo del malo” che ripete ostinato Mario, fratello di Natalia, le poesiole (“la vecchia zitella senza mammella ha fatto un bambino tanto carino” o “salve ignoranza al tuo pensier mi cessa il mal di panza”), il Barbison e la puzza di acido solfidrico, “cotoletta madama bianca!”, il bir per indicare il laccio emostatico…
E’ sempre stato fondamentale per me quel passo delle Piccole virtù dove Ginzburg scrive dell’invenzione e della memoria: inventiamo quando siamo felici, ricordiamo quando siamo tristi, scrive all’incirca. Perché la nostra “condizione terrestre” influenza la nostra scrittura che è come “un padrone”, inflessibile.
Dunque, il ricordo nel momento dell’infelicità, ma sempre mescolato all’invenzione e alla fantasia, momento della felicità. In Lessico famigliare la piccola Natalia viene ricoverata in ospedale e la mamma le spiega che quella è la casa del medico, per non darle spavento. Natalia sa che quello è un ospedale ma fa finta anche lei: “…e quella volta, come anche più tardi, la verità e la menzogna si mescolarono in me”.
Cosa è vero e cosa è falso nel ricordo, cosa resta del nostro passato e cosa occorre scrivere: la verità, pur sapendo di mentire?
Antonella Cilento
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AGGIORNAMENTO DELL’8 febbraio 2009
Sono molto lieto di annunciarvi che (come ci aveva pronosticato Antonella Cilento) Mariolina Bertini ha fatto pervenire il suo ottimo contributo. Lo riporto qui di seguito. Vi invito a leggerlo con attenzione, perché è molto interessante.
Massimo Maugeri
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TRA MARCEL E NATALIA
di Mariolina Bertini
Per gli italiani della mia generazione, nata a ridosso della seconda guerra mondiale, i nomi di Marcel Proust e di Natalia Ginzburg sono molto strettamente legati.
Nel 1946 Natalia Ginzburg firma la sua traduzione, per Einaudi, del primo volume della “Ricerca”, “La strada di Swann”. Non è l’unica: nello stesso anno, presso Sansoni, esce anche la pregevole versione dello scrittore fiumano Bruno Schacherl, intitolata “Casa Swann”. Ma soltanto il volume einaudiano rappresenta il primo tassello di una traduzione integrale della “Recherche”; questo gli assicura maggior visibilità e maggior fortuna sul mercato editoriale. Tra il 1946 e il 1983, dunque, anno in cui comincia ad uscire la traduzione di Giovanni Raboni, la stragrande maggioranza dei lettori italiani di Proust si accosta alla “Ricerca” passando, per il primo volume, attraverso la mediazione della voce di Natalia Ginzburg, attraverso il filtro delle sue scelte lessicali e sintattiche, della sua scrittura, del suo stile.
La data cruciale della mia esperienza in proposito è il 1968: tra un corteo e un’assemblea, tra un intervento di Guido Viale e una discussione su don Milani, “La strada di Swann” einaudiana mi introduce, affascinata, nel mondo di Proust, dove resterò a lungo. Ma è per me importante anche un’altra data, precedente: quella del 1963, anno di apparizione di “Lessico famigliare”. Perché è leggendo, quindicenne, “Lessico famigliare” fresco di stampa che comincio ad intuire nella figura un po’ misteriosa di quel romanziere morto nel 1922 una presenza terribilmente viva e ingombrante, alla quale sarà difficile sfuggire. Nelle pagine di “Lessico famigliare” si avverte, si respira quello che fu il fascino esercitato da Proust sui lettori degli anni Venti, anche su quelli come Natalia Ginzburg che erano ancora troppo giovani per leggerlo direttamente. In “Lessico famigliare” Proust è presente come una sorta di mito. La protagonista-narratrice non l’ha ancora letto, ma sente sua sorella Paola, sua madre, Terni – il giovane assistente di suo padre, professore di medicina – che ne parlano continuamente. Ai suoi occhi, il mondo famigliare si divide in due zone contrapposte: da una parte c’è chi come il padre ama le scienze naturali e le gite in montagna, dall’altra chi, come la madre, ama la poesia, il teatro e il mondo ovattato dei romanzi.
” Da una parte c’erano Gino e Rasetti, con le montagne, le “rocce nere”, i cristalli, gl’insetti. Dall’altra parte c’erano Mario, mia sorella Paola e Terni, i quali detestavano la montagna, e amavano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffé. Amavano i quadri di Casorati, il teatro di Pirandello, le poesie di Verlaine, le edizioni di Gallimard, Proust. Erano due mondi incomunicabili.
Io non sapevo ancora se avrei scelto l’uno o l’altro. (…)
- Cos’ha Terni con Mario e Paola da ciuciottare? Diceva mio padre a mia madre. – Stanno sempre lì in un angolo a ciuciottare. Cosa sono tutti quei fufignezzi?
I fufignezzi erano, per mio padre, i segreti; e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano.
- Parleranno di Proust,- gli diceva mia madre.
Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza.
Disse mio padre:
-Doveva essere un tanghero!” (p. 53)
In questa pagina, Proust viene quasi a racchiudere, a simboleggiare la letteratura; ne rappresenta il mito e il prestigio. Nell’Italia di quegli anni aveva d’altronde un giovane profeta, il critico Giacomo Debenedetti, ritratto in “Lessico famigliare” senza che venga menzionato esplicitamente il suo nome:
“La Paola era innamorata di un suo compagno di università: giovane piccolo, delicato, gentile, con la voce suadente. Facevano insieme passeggiate sul Lungo Po, e nei giardini del Valentino; e parlavano di Proust, essendo quel giovane un proustiano fervente: anzi, era il primo che avesse scritto di Proust in Italia. Scriveva, quel giovane, racconti e saggi di critica letteraria.” (p.61)
Giacomo Debenedetti, contrariamente a quanto credeva Natalia, non era stato il primo a parlare di Proust in Italia, anche se a Proust aveva dedicato saggi pionieristici nel 1925 e nel 1928. Il primo a parlare di Proust in Italia era stato il giornalista Lucio D’Ambra che recensendo, nel dicembre del 1913, “Du côté de chez Swann” aveva scritto :
“Ricordate questo nome e questo titolo: Marcel Proust e “Du côté de chez Swann”. Tra cinquant’anni i nostri figlioli ritroveranno forse l’uno e l’altro accanto a Stendhal, a “le Rouge et le Noir” e alla “Chartreuse”. ”
Il nome di Stendhal, in questa fase aurorale della fortuna di Proust torna spesso, soprattutto in Italia. Nel 1919, ad esempio, quando “All’ombra delle fanciulle in fiore” riceve il premio Goncourt, è Giuseppe Ungaretti ad evocarlo, scrivendo dell’autore della Recherche :
“…questo scrittore dalle analisi minuziose a cui non sfugge la minima emozione, che fruga nelle più segrete e remote risonanze della vita sentimentale, è forse un nuovo Stendhal.”
All’epoca Stendhal è visto soprattutto come un maestro d’insuperata introspezione psicologica. Nel 1923 Giacomo Debenedetti, che leggerà Proust soltanto un anno dopo, scrive in una lettera all’amico Cesare Angelini:
“Sono più che mai innamorato di Stendhal e se sapessi farmi una bandiera io che, in fondo, sono spaventosamente timido, scriverei su quella la parola introspezione.”
Quando, nell’estate del 1924, durante una vacanza a Champoluc, ai piedi del Monterosa, Giacomo Debenedetti legge Proust per la prima volta, ha l’impressione che quel romanziere, morto due anni prima, abbia in qualche modo preceduto la sua generazione nella conoscenza di sé, nell’introspezione, nell’intuizione anticipata del proprio destino.
“Gli altri scrittori – scriverà più tardi- erano semplicemente scrittori, della stessa razza di quelli che avevamo studiato nelle storie letterarie (…); mentre Proust sembrava far parte direttamente del nostro destino, sembrava prendere la durata uniforme dell’esistenza e farne una fluida, stupenda, incessante calligrafia di luce.”
A livello europeo, è un’intera generazione di scrittori ad avere la stessa impressione di Giacomo Debenedetti. “Che cosa resta da scrivere dopo Proust?” si chiede nel suo diario Virginia Woolf. E Rilke scrive a Gide nel 1922: “Su moltissimi punti, Proust ci ha costretti a cambiare il nostro modo di vedere.” Cambiare il proprio modo di vedere dopo la lettura di Proust per molti significa identificarsi con la figura , fluida ed enigmatica, del narratore della Ricerca. In un saggio del 1946, Debenedetti lo scriverà esplicitamente:
“Per quanto singolare, per quanto differenziato, il protagonista di “A la recherche du temps perdu” era, tra tutti i personaggi che allora ci furono offerti, quello con cui si sentiva più forte la tentazione, più immediata e più ricca la possibilità di identificarsi.”
Si profila, attraverso il puzzle di queste citazioni, la storia di una filiazione, della trasmissione di un mito: dalle parole di Giacomo Debenedetti, l’amico di Paola “dalla voce suadente”, Natalia ricava la sua prima immagine di Proust, lo scrittore che non somiglia a nessun altro, che trasforma la nostra vita prosaica “in una calligrafia di luce”. Quell’immagine avrà per lei una tal forza che quando, nel 1937, Giulio Einaudi le chiederà di tradurre l’intera Ricerca, risponderà di sì, benché non ne abbia ancora intrapresa direttamente la lettura. La storia di quella traduzione è raccontata nelle pagine del bellissimo saggio del 1990 che accompagnò la ristampa della “Strada di Swann” nella collana degli “Scrittori tradotti da scrittori” e che da allora è stato più volte ristampato. Le prime pagine, ci racconta Natalia, furono tradotte e ritradotte sotto la guida affettuosa di Leone Ginzburg; la maggior parte del lavoro prese forma a Pizzoli, in Abruzzo, durante il confino, nel 1940-43. La morte di Leone, torturato e trucidato a Regina Coeli, nel febbraio del 1944, getta sull’opera un’ombra di tragedia: non è difficile capire perché la scrittrice si senta legata a quelle pagine in modo così stretto da non volerne, anni dopo, nemmeno correggere le imperfezioni. Quel Proust intravisto nella penombra dell’adolescenza, e poi affrontato, con strumenti inadeguati (un povero vocabolario scolastico), nella vita durissima del confino, tra i figli bambini e l’esperienza della resistenza, doveva restare tale e quale, così come era stato amato e interpretato negli anni atroci e fondamentali della guerra. Così Natalia l’ha trasmesso alla mia generazione, così la mia generazione l’ha letto negli anni Sessanta e Settanta, con la consapevolezza di appropriarsi di un lascito prezioso.
Avvicinandomi oggi a quel lascito, è forte la tentazione di rispettarne l’aura; di preservarne il fascino evitando di guardarlo troppo da vicino. Ma in realtà la traduzione di Natalia Ginzburg non è una reliquia, è una cosa viva e come tale merita di essere studiata e frequentata. La sua lingua colloquiale, asciutta, modernissima, prossima al parlato, anticipa la lingua dei dialoghi di Lessico famigliare. Vediamone due esempi, confrontando la traduzione di Natalia Ginzburg con quella di Giovanni Raboni:
“On ne pouvait pas remercier mon père .”
Raboni: “Non si poteva ringraziare mio padre.”
Ginzburg: “Mio padre, non era possibile dirgli grazie.”
Meno fedele di Raboni nella costruzione, con l’anacoluto che apre la frase Natalia Ginzburg rende straordinariamente la componente di oralità della scrittura proustiana.
“Moi je sais bien que cela me serait très désagréable de voir mon nom imprimé tout vif comme cela dans le journal…”
Raboni:”Io sono sicura (è una prozia del narratore che parla) che mi riuscirebbe molto sgradevole vedere il mio nome spiattellato così sul giornale…”
Ginzburg: “Io se vedessi il mio nome stampato bello caldo così sul giornale, sarei molto seccata.”
E’ davvero la naturalezza di “Lessico famigliare” che irrompe nel mondo di Proust. Lo comprese molto bene Giacomo Debenedetti, che del Proust tradotto da Natalia Ginzburg riassunse la modernità in una citazione con la quale vorrei concludere:
“Il connotato proustiano che la Ginzburg sembra aver voluto – consapevolmente, o no – cogliere con più coerenza, è forse quello a cui Proust deve la simpatia umana che egli esercita, la sua facoltà di non sopraffarci mai, anzi di farsi sentire vicino, confidenziale, fraterno, dovunque spinga – magari a un estremo che, a prima vista, potrebbe parere troppo sottile, prolisso, insaziato e farraginoso – la sua ricerca. Ed è il suo modo di continuamente “sliricare” un discorso che pure tocca di continuo, per tangenze luminosissime, di un radioso fulgore musicale, cantante e a volte perfino canoro – la sfera di una massima tensione lirica.”
Mariolina Bertini
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Scritto martedì, 3 febbraio 2009 alle 00:00 nella categoria L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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