sabato, 21 marzo 2009
FIABE, FAVOLE E LO SCIOPERO DEI PESCI
Quando si parla di fiabe e favole è abbastanza diffusa la convinzione che esse siano rivolte in via esclusiva ai bambini e che, dunque, rientrino nel genere della letteratura dell’infanzia. Questa convinzione, naturalmente, ha un suo fondamento giacché fiabe e favole sono principalmente rivolte a un pubblico di giovanissimi, di bambini appunto. Del resto, proprio nei confronti dei più piccoli, la fiaba (così come la favola) svolge una importante funzione di intrattenimento e talvolta (più nella favola che nella fiaba) anche di formazione, laddove troviamo – come spesso accade – una morale. Tuttavia pensare che fiabe e favole siano un prodotto letterario rivolto esclusivamente all’infanzia è un errore. Così come sarebbe un errore pensare che fiabe e favole siano la stessa cosa. Nella lingua italiana le favole vengono distinte dalle fiabe (anche se entrambi i termini derivano dalla radice latina “fabula” – “racconto” – e i due generi hanno molti punti di contatto): la fiaba è caratterizzata dalla presenza di personaggi e ambienti fantastici; mentre la favola – di norma – è popolata da animali i cui vizi e virtù rappresentano quelli degli uomini.
Come ho già evidenziato, considerare fiabe e favole come prodotti letterari rivolti esclusivamente all’infanzia non è del tutto condivisibile. Di recente mi è capitato di ri-leggere testi di saggistica letteraria che, in un modo o nell’altro, confermano questa mia tesi. Mi viene in mente, per esempio, il saggio di Umberto Eco (costituito da una raccolta di interventi) intitolato “Sulla letteratura”. Nel primo capitolo (ovvero il testo di un intervento nel festival della letteratura di Mantova del 2000) Eco parla della letteratura e della trasmigrazione dei personaggi letterari. In questo contesto (accanto a titoli celeberrimi) Eco, a un certo punto, cita come esempio la nota fiaba “Cappuccetto rosso” analizzando in particolare le differenze tra la versione di Perrault e quella dei fratelli Grimm e il diverso destino del personaggio della fiaba.
E, naturalmente, non si può non citare il grande Italo Calvino che nel 1954 iniziò a svolgere, per la casa editrice Einaudi, un lavoro simile a quello intrapreso nel secolo precedente, in Germania, dai fratelli Grimm. Calvino scelse e trascrisse, in una raccolta intitolata appunto “Fiabe italiane”, ben 200 racconti popolari delle varie regioni italiane dalle raccolte folkloristiche ottocentesche. Peraltro, l’amore di Calvino per le fiabe è ravvisabile anche nel saggio “Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millennio”. Troviamo riferimenti alle fiabe nelle prime due lezioni: quelle relative, rispettivamente alla “Leggerezza” (dove vengono citati i lavori dell’antropologo russo Propp e la nota raccolta di fiabe araba “Le mille e una notte”) e alla “Rapidità” (in riferimento a una delle caratteristiche della fiaba, ovvero alla rapidità intesa come essenzialità); in Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o anni; oppure “Cuntu ‘un porta tempu”, o ancora “’Ntra li cunti nun cc’è tempu”. (Pare che queste siano espressioni di Agatuzza Messia l’anziana donna analfabeta che dettò le fiabe popolari al palermitano Giuseppe Pitré, che le trascrisse). E comunque nella lezione dedicata alla “Rapidità” Calvino ribadisce che ad attrarlo verso la fiaba è stato un “interesse stilistico e strutturale per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate.”
Naturalmente esistono altre motivazione che hanno spinto intellettuali e studiosi a considerare l’importanza di fiaba e favola. Intanto perché, proprio in riferimento alla sua oralità (“fabula” deriva dal verbo “fari = parlare”), si è ritenuto necessario (da parte dei cosiddetti trascrittori di fiabe) recuperare una tradizione che correva il rischio di andare perduta. Per esempio, i fratelli Grimm partono dall’idea che ogni popolo ha una sua anima che si esprime con la massima purezza nella lingua e nella poesia, nelle canzoni e nei racconti. Essi però sostengono che, con il trascorrere del tempo, i popoli hanno perduto in parte la propria lingua e la propria poesia, soprattutto nei ceti più elevati e può, quindi, essere ritrovata solamente negli strati sociali inferiori. In questa ottica, le fiabe sono i resti dell’antica cultura unitaria del popolo e costituiscono una fonte preziosa per la ricostruzione di quella cultura più antica.
Poi si sono avvicendate diverse teorie sulle fiabe. Secondo l’antropologo russo Vladimir Propp, per esempio, le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sono il ricordo di una antica cerimonia chiamata “rito d’iniziazione” che veniva celebrata presso le comunità primitive. Durante questo rito veniva festeggiato in modo solenne il passaggio dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta. Essi venivano sottoposti a numerose prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le avversità dell’ambiente e di essere pertanto maturi per iniziare a far parte della comunità degli adulti.
Questa premessa è finalizzata a evidenziare l’importanza della fiaba e della favola e la loro valenza letteraria. Quando parliamo di fiabe e favole, dunque, parliamo di letteratura. E non di letteratura secondaria.
Ciò premesso, ne approfitto per presentare una favola appena arrivata in libreria per i tipi di Il pozzo di Giacobbe. Il titolo è “Lo sciopero dei pesci”. L’autore del testo è Salvo Zappulla. Le illustrazioni sono di Carla Manea.
Di seguito leggerete le recensioni di Roberta Murgia (che mi aiuterà ad animare e a coordinare il dibattito) e di Simona Lo Iacono. Infine, in fondo al post, troverete un bel pezzo di Pietro Citati (uscito giorni fa su Repubblica) dedicato ad Alice nel paese delle meraviglie e a Peter Pan (e poi un video “in tema”).
Come sempre, oltre a invitarvi a discutere sul libro presentato, propongo una discussione “generale” partendo da alcune domande:
- che rapporti avete con fiabe e favole?
- quali sono quelle che preferite? E perché?
- quali sono, a vostro avviso, le favole e le fiabe con il più alto valore formativo?
A voi…
Massimo Maugeri
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LO SCIOPERO DEI PESCI – Salvo Zappulla, Carla Manea – Il Pozzo di Giacobbe – pagg. 32 – € 11,90
recensione di Roberta Murgia
Questo pregiato volumetto dalla veste grafica elegantissima, con la copertina cartonata, edito da “Il pozzo di Giacobbe”, ha nei colori dominanti tutte le tonalità dell’azzurro, del blu e del verde. Le stesse tonalità di azzurro e di blu del mare in cui amiamo tuffarci. Ed è l’amore per questo mare limpido che ha spinto Salvo Zappulla a parlare ai piccini della salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, attraverso un racconto in cui i protagonisti sono il mare e i suoi abitanti. Non a caso essi “parlano” e possono finalmente esprimere il proprio disappunto: ecco… è il fascino surreale di questa favola che incanta i bambini, anche e soprattutto per i discorsi tenuti dai suoi stravaganti protagonisti.
L’espressione visiva e l’espressione verbale di ciascun personaggio della fiaba sono in perfetta armonia. La prima apparizione, infatti, è quella di un essere umano: una madre, la quale con indifferenza e con lo sguardo di chi poco si preoccupa delle conseguenze delle proprie parole, suggerisce al suo piccolino di allontanarsi da lei e dalla spiaggia ed immergersi nel mare, se vuol fare pipì. Il mare, sullo sfondo e in lontananza, con uno svolazzante ciuffo azzurro spinto dal vento, già manifesta la sua disapprovazione. Fatto sta che all’udire quelle parole si “risente” e decide che ogni mancanza di rispetto nei suoi confronti è diventata “insopportabile”. In questa prima parte della favola l’autore spinge sapientemente i giovani lettori ad immedesimarsi con i pensieri e i sentimenti del mare e quindi a “parteggiare” per lui, “se non altro per ragioni d’età”. Dal risentimento il mare passa immediatamente ad un’azione: travolge con una piccola onda “la signora in costume da bagno, sdraiata pigramente al sole”. E a questo punto del racconto la complicità tra il mare e i piccoli lettori della favola diventa totale: il mare SEMBRA aver “spruzzato” un po’ d’acqua sulla signora “in modo del tutto involontario, ci mancherebbe”; in realtà è scattato un meccanismo di ribellione che di involontario non ha nulla, e chi legge lo sa. I disegni accompagnano anche qui il sottile umorismo del linguaggio: i pesci, “stravolti” anche loro dall’innocente ondina, si ritrovano capovolti e attoniti all’interno di una nuvoletta che traduce in immagine tutto lo sdegno verbalmente inespresso della signora investita dall’ondina.
In seguito, e prima della rivolta vera e propria, il mare riprende il suo monologo interiore: pensa al suo passato, alla sua importanza nella vita degli esseri umani nel corso dei secoli, al suo eterno ruolo di “ispiratore dei poeti”, di “protagonista di avventure” e di “spettatore immortale della storia degli uomini”. Com’è possibile che sia trattato in modo così irrispettoso? La rivolta è dunque l’immediata, inevitabile conseguenza dello sdegno marino… Il mare convoca un’ “assemblea” radunando tutti i pesci: si entra in “sciopero a tempo indeterminato”. Anche in queste pagine i dialoghi sono mirabilmente in sintonia con i disegni: i pesci mostrano sgranati occhioni bianchi e il mare una bocca spalancata ad esprimere il suo risentimento.
Dietro la proposta del pesce-martello, lo sciopero viene tramutato in vacanza: così il mare e i suoi abitanti partono per la montagna. L’inverosimiglianza della proposta non turba i protagonisti, né i giovani lettori che, avvolti dal linguaggio familiare e dall’umorismo del racconto unito a quello dei dialoghi, anche in questa seconda parte della favola, accompagnano il mare nella sua strepitosa avventura.
L’incontro tra i due ambienti, mare e montagna, tranne lo spavento iniziale delle lepri, è oltremodo cordiale: l’umanizzazione degli incontri si manifesta, come sempre, attraverso l’uso del linguaggio: “Come sta la vecchia carpa?” –“Bene, bene”- “E la famiglia Scorfano?” – “Ottimamente”. Insomma la vacanza ristabilisce contatti dimenticati da millenni e la fratellanza tra popoli diversi è ribadita.
Nella terza parte il mare e i pesci trascorrono felicemente la loro vacanza in montagna, fino al giorno in cui tutti i pesci, essendosi a lungo riposati e svagati, cominciano a stancarsi di star là. Nel frattempo il mare ha mandato una delegazione sindacale a trattare col governo circa il riconoscimento dei propri diritti e quelli dei suoi abitanti. L’animale inviato in delegazione, la piovra, al suo rientro, riferisce gli innumerevoli disguidi causati agli umani dall’assenza del mare: nessuno riesce a vivere senza il mare. Il governo ha deciso di tutelare l’ambiente marino, perché “l’ecologia viene prima delle industrie”. Una gran festa apre la quarta ed ultima parte del racconto: la fauna marina si unisce a quella terrestre in una grande “danza per la fratellanza” che coinvolge anche le stelle, fino a “farle brillare di commozione”.
Questa favola di Salvo Zappulla è davvero una favola che fa sognare, una favola che spiega ai piccini quanto è importante rispettare l’ambiente, amarlo, capirlo e osservarlo sotto una prospettiva diversa: per la prima volta essi scoprono che il mare e la montagna sono abitati da “esseri pensanti”, con sentimenti, paure, timori, gioie, preoccupazioni e ansie. L’umanizzazione della fauna marina è finalizzata all’immedesimazione dei piccoli lettori, i quali vengono letteralmente catturati dalla simpatia del mare, dei suoi colorati e buffi abitanti, del suo linguaggio ironico e talvolta beffardo. E i piccoli lettori si immedesimano perfettamente, si divertono; e divertendosi, imparano. Salvo Zappulla e Carla Manea (mirabile interprete del pensiero dell’autore) ci suggeriscono di proporre ai nostri giovani figli, ai nipoti, agli allievi un nuovo orizzonte di pensiero: quello dell’amore ANCHE per tutto ciò che vive e che non è esclusivamente umano: è un’incredibile, affascinante sfida.
Questo autore, la cui fervida inventiva “burlesca” nasconde una vena di malinconia lascia intendere che il futuro del pianeta non è più esclusivamente nelle mani degli adulti, ormai; il futuro del nostro pianeta, il “futuro migliore di cui tutti sognano” alla fine della fiaba, è nelle mani di coloro che potranno salvarlo solamente prendendo coscienza del suo stato di perenne sofferenza. Che la salvezza del pianeta sia strettamente legata a princìpi quali la comprensione reciproca, l’ascolto, il rispetto, la buona educazione, la solidarietà, la cordialità tra simili e tra dissimili; e infine la fratellanza è un concetto che attraversa l’intero racconto in modo implicito e leggero, come un sottile filo azzurro.
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recensione di Simona Lo Iacono
Tutti i bambini crescono, eccetto uno…leggevo ad alta voce a mio figlio quella sera in cui mi chiese di Peter Pan.
Ma forse avrei dovuto dire: tutti i bambini crescono, tranne gli scrittori. Tranne chi – con la penna -allunga uno sguardo oltre, dove lo smacco della quotidianità si stempera in gioco, dove le regole dell’ordinario rispondono a una sovversione segreta: l’avventura, il magico che s’intesse negli oggetti, nelle forme, negli animali. Il mondo che parla con le voci che gli uomini non possono udire e che – forse – catturano e riproducono quelle degli angeli.
Ecco. Nello “Sciopero dei pesci” di Salvo Zappulla (corredato dalle immaginifiche visioni di Carla Manea, ed. Il pozzo di Giacobbe, € 11,90), lo scrittore è quel bambino che conserva la logica del contrario e che la fa assurgere – anche – a grido di giustizia, perché niente come l’infanzia è giusto, niente come l’innocenza sovverte l’ordine del mondo.
E allora non stupirà che i pesci si diano convitto misterioso nel cuore del mare, che il mare stesso li inciti alla rivolta, che l’odioso reflusso di rifiuti e scarichi li convinca, infine, a uno sciopero ad oltranza…in zona di montagna. Le acque salate che scalano vette, i pesci che si bardano da alpinisti, i salmoni che fendono i fiumi facendo da apripista.
Il mondo capovolto o, forse, il mondo come dovrebbe essere se davvero potesse scioperare, prendere tempo, spezzare la marcia della velocità e concedersi una tregua.
Il mondo bambino o come lo vedrebbe un bambino. Colorato, acquoso.
Vivo.
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da REPUBBLICA del 6 marzo 2009
Peter Pan il bambino magico figlio di Alice
di Pietro Citati
IL NOSTRO universo, dove regnano il Peso ed il Numero, dove il tempo è rettilineo e gli oggetti impenetrabili, dove i libri si leggono da sinistra a destra e dal principio alla fine, affida il compito di conoscere l’ “altro” universo al più amabile dei suoi messaggeri, nei due capolavori di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. I grandi, limpidi occhi infantili di Alice rispecchiano fedelmente ogni minima notizia nel lago serio e incuriosito delle pupille. Ma, sebbene Carroll la credesse una “creatura di sogno”, Alice appartiene saldamente e interamente al mondo che noi abitiamo. Nessuna creatura è più terrestre di lei, e possiede come lei lo “spirito della realtà”: ragionevolezza, buon senso, buona educazione, cortesia, diplomazia innata, capacità di giudizio, istinto pratico, tutte le qualità che ci aiutano a vivere sulla terra si combinano nella figura di questa deliziosa bambina vittoriana. Lewis Carroll comprese che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria, come diceva de Saussure. Da un lato, sta la “cosa” – questo pezzo di pane, q u e s t a p i e t r a , questo paesaggio sul quale si posano indolentemente i miei occhi , che, a rigore, non può essere nominata: dall’ altra, il “nome”; e fra loro si apre un abisso incolmabile. Se egli avesse spiato attentamente nella dissonanza tra l’ oggetto e la parola, se avesse scrutato nella fessura apertasi nel blocco compatto della realtà, forse sarebbe riuscito a descrivere l’ “altro mondo”. Giacché la lingua è arbitraria, egli poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non facciamo: intendere alla lettera i suoi suggerimenti; ricordare che i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi. Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano bau essi abbaieranno “dietro lo specchio”: i fiori sonnecchieranno pigramente perché “aiuola” vale, in inglese, “letto di fiori”; e se la farfalla si chiama butterfly, essa aprirà delle sottili ali di pane e di burro. In questo modo, egli poteva scivolare dolcemente “di là” senza violare leggi di nessuna specie, senza sconvolgere la convenzione della sintassi, senza nemmeno crearsi una lingua personale, c o m e s u g g e r i v a H u m p t y Dumpty, questo grottesco precursore di ogni avanguardia. Egli non era disceso sulla terra per infrangere delle leggi, ma per aggiungere nuove regole, tanto convenzionali quanto assurde, a quelle che già conosciamo. Soccorso dalla logica della lingua, Carroll cominciò dunque a descrivere il mondo che costeggia il nostro. Senza affidarsi mai alle pericolose invenzioni della fantasia pura, partiva da un dato della lingua e della tradizione; e poi, via via, tesseva intorno a questi dati variazioni sempre più vaste, combinazioni sempre più ricche, rivelando una immaginazione rigogliosissima, seconda soltanto, nel suo tempo, a quella di Dickens. Mentre scriveva, dimenticava se stesso. Sacrificava i suoi sogni, le sue nostalgie amorose, la sua dolorosae traboccante morbidezza. La mano impeccabile segnava sulla carta linee esatte, parole senz’ ombra, ambiguità in piena luce, mosse di scacchi:i prodigi continuamente rinnovati di una mente malinconica abitata dalle bizzarre chiarezze della matematica. Come i filosofi di ogni tempo, speculava arditamente intorno ai grandi problemi della metafisica e della conoscenza. Quanto più il pensiero toccava la vertigine della complicazione, tanto più egli amava nasconderlo dietro piccole farse, giochi, guizzi allusivi infinitamente delicati. Il massimo della concentrazione nel contenuto si alleava col massimo di futilità nella forma: la ricchezza filosofica con l’ amore per gli indovinelli, la gravità con la leggerezza. Come i Vangeli e le parabole buddiste, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio sono insieme dei libri esoterici e dei libri popolari. Ogni bambino continua a leggerli, abbandonandosi perdutamente alle vicende di Alice e del Coniglio Bianco; e ognuno di noi deve riprenderli, sfogliarli, consultarli, tornare a rileggerli, se vuole orientarsi negli spazi troppo vasti tra la terra ed il cielo. “Di là”, Alice incontra delle leggi, interamente diverse dalle nostre. Non esiste il Peso: né il Numero, e la tavola pitagorica impazzisce. L’ “io”, del quale noi siamo tanto fieri, si perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria. Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle: per restare fermi, dobbiamo correre: per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all’ indietro, – prima il futuro, quindi il presente, infine il passato. Quando Alice recita una poesia, le parole si trasformano sulla sua bocca: sapeva a memoria dei versi edificanti; ed ecco che il suo inconscio, governato tirannicamente dalle leggi “di là”, le impone di pronunciare parodie, nonsensi, parole stravolte. Così non ci meravigliamo se finisca per tramontare lo stesso principio di contraddizione, sul quale è fondata l’ esistenza terrestre: se il sì e il no, il negativo e il positivo, il più e il meno, l’ “importante” e il “non-importante” significhino la medesima cosa. Ora il tempo corre all’ indietro, ora avanti: ora l’ anarchica lingua individuale di Humpty Dumpty abolisce ogni convenzione linguistica, ora tutti parlano con le parole dell’ uso quotidiano. L’ unica, grande legge, che regge senza eccezione sia Alice sia Attraverso lo specchio è quella della Metamorfosi, che trasforma le persone e le cose, dissolvendole nella fantastica pantomima della possibilità. Nel primo libro, Alice cresce mostruosamente e snoda il collo come un serpente tra le cime degli alberi: poi rimpicciolisce fino alle dimensioni di un topo, rischiando di annegare nel lago delle proprie lacrime. Nel secondo libro, la Metamorfosi diventa il principio stesso della narrazione. Non sappiamo chi muova gli scacchi sopra l’ immensa scacchiera, distinta, come la terra, da siepi, ruscelli, prati, stagni, boschi e campagne. Ogni volta che uno dei giocatori sposta una pedina, la narrazione si interrompe di scatto, e il paesaggio e i personaggi si dissolvono. Entriamo in un nuovo spazio-tempo: un treno nasce dal bianco tipograficoe vi scompare, una bottega diventa una barca e un gruppo d’ alberi, un uovo si trasforma in Humpty Dumpty, il russare della Regina Rossa e della Regina Bianca cede a un’ aria musicale… Così l’ altro mondo rivela finalmente la propria essenza. Mentre la struttura superficiale del nostro mondo è compatta e continua, quella dell’ universo dietro lo specchio è discontinua e frammentaria: briciole, pezzettini, tessere di mosaico, caselle di scacchi, atomi, tenuti insieme da una forza che non conosciamo.
Peter Pan nei giardini di Kensington e Peter e Wendy, (ripubblicati da Einaudi con uno scritto di Giorgio Manganelli, un’ introduzione di Luca Scarlini e la traduzione di Milli Dandolo, pagg. 248, 16 euro), non sarebbero mai stati scritti senza i libri di Carroll, ma il loro significato è esattamente opposto. Qui i protagonisti non sono una bambina vittoriana, ma gli uccelli, i bambini-uccelli, oppure un giovanissimo-vecchissimo bambinouccello. Prima di diventare esseri umani, i bambini sono stati uccelli, lo sono rimasti per sette giorni,e nelle prime settimane di vita sentono un lieve pizzicore alle spalle, dove prima erano attaccate le ali. Come gli uccelli, sono allegri, innocenti e senza cuore, e volano appunto perché sono allegri, innocenti e senza cuore. Quando non lo sono più quando hanno ceduto alla maturitàe normalità che li minaccia da ogni parte – dimenticano di volare. Con le fate hanno rapporti molto stretti. Quando ridono per la prima volta, il loro riso si spezza in mille frantumi ghiacciati che si spargono saltellando; e in quel momento nasce una nuova fata. Peter Pan è un bambino-uccello: come dicono nei giardini di Kensington, è un mezzo-emezzo. Vola come un uccello, ma in parte si comporta come un bambino: tenta di afferrare le mosche con le mani invece che con il becco; ma, al tempo stesso, non è un vero bambino perché gioca in modo sbagliato, ignora cosa siano i secchielli o i palloncini colorati o cosa siano i baci. Vive sempre sul margine, sul limite, senza appartenere ad un mondo. È velocissimo, perché è molteplice e stravagante: è onnipresente e nascosto. Detesta gli adulti, le persone normali, la scuola, le abitudini e le istituzioni. Sta sempre da un’ altra parte. Non vuole crescere e abbandonare le ali: ma, qualche volta, sembra stranamente senile. Non finisce mai di tentare i bambini, portandoli via con sé, in un eterno volo. La madre l’ ha abbandonato: Peter Pan non riesce a ritornare da lei, varcando le finestre chiuse: e questa acutissima nostalgia è l’ unica cosa che egli possegga di veramente umano. Nei giardini di Kensington, vivono le fate: tra loro e il mondo umano non esiste nessuna vera distinzione; un antropomorfismo possente come quello di Carroll si insinua in tutto ciò che è feerico e lo trasforma. Le fate preparano la colazione, mungono le vacche, segano i funghi, tirano su l’ acqua. Sono sempre indaffarate, come se non avessero un momento da perdere, ma non fanno mai niente di utile. Stanno in piedi quando dovrebbero sedere, e siedono quando dovrebbero stare in piedi: sono sveglie quando dovrebbero dormire, e dormono quando dovrebbero andare alla festa. Spesso si comportano male: mettono le dita nel burroo bevono troppo vino; sono dispettose, eccentriche, stravaganti. Qualche volta, avere rapporti con loro, come con tutto ciò che è feerico, è rischioso: senza accorgersene, ti fanno diventare una quercia sempreverde. Se escludiamo l’ Elogio degli uccelli di Leopardi, Peter Pan è il più bel testo uccellesco che abbia mai letto: per questo piace tanto ai bambini. James Barrie chiacchera, chiacchera, anzi cinguetta, vola, fa il nido, si nutre di vermi, ci becchetta, si dimentica, deride le fate, gli adulti, i bambini e i pirati; e il suo cinguettio brilla come una conversazione mondana. Non conosce l’ assoluto rigore matematico di Alice e di Attraverso lo specchio: pare sempre lievemente ebbro, come si fosse ubriacato con un liquore di corniole, distillato dalle fate. La sua è una fiaba, un vaudeville, un’ avventura fantastica, una farsa, un racconto piratesco, un racconto filosofico, una fantasticheria, un arcobaleno, un gioco funambolico, una sonata di flauto – che deve assolutamente venire eseguita nel paese che non c’ è.
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Scritto sabato, 21 marzo 2009 alle 02:02 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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