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lunedì, 9 marzo 2009

UN ANGELO CLANDESTINO

mano-tesa.JPGNon sempre capita di avere intuizioni giuste. A volte accade.
Accadde quella volta che, parlando con Simona Lo Iacono – scrittrice e magistrato – le accennai alla possibilità di elaborare una nuova poetica capace di unire letteratura e diritto, parola e processo. Leggendo le sue pagine ebbi la chiara percezione che quelle due identità di giurista e amante della letteratura potessero confluire dando vita a una voce ulteriore. Così mi venne in mente la frase: letteratura è diritto, letteratura è vita. Le proposi uno spazio, su questo blog, utilizzando quella frase come titolo. Accettò con entusiasmo.
Con altrettanto entusiasmo introduco la nuova puntata di questa rubrica a metà tra diritto e letteratura. Il tema trattato è attualissimo. Parliamo di clandestini.
Simona Lo Iacono ci racconterà, da par suo, una storia nata in un’aula del tribunale che dirige. Una storia che ha come protagonisti un ragazzo – un clandestino – e il potere taumaturgico della parola. Il ragazzo si chiamerà Angelo, anche se non è il suo vero nome. Un nome fittizio, ma evocativo, che forse sarebbe giusto tributare anche all’avvocato che ha seguito questo caso a titolo gratuito (e che parteciperà alla discussione con un nome altrettanto inventato).
La storia di Angelo è una storia forte, dura. Vedrete.
Ma vorrei andare oltre…
Vorrei tentare di moltiplicare le voci, alternare i punti di vista, mischiare storie vere a storie letterarie. Perché letteratura è diritto, letteratura è vita.
E allora mi viene in mente che la storia di Angelo è la storia di un senzaterra. Chi è più senzaterra di un clandestino? Un clandestino fugge dalla propria terra d’origine, dunque la perde; mette piede in una terra che non può accoglierlo in maniera regolare, dunque non la trova. Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.
Senzaterra è anche il titolo di un romanzo di Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice ed editor della Einaudi. Questo di Evelina è “un libro durissimo sul nostro Sud e su tutti i Sud: una storia di spaesati in cerca di una terra” che racconta – tra le altre cose – le vicende di clandestini che arrivano su barconi, si disperdono nelle campagne, si acconciano a lavorare per una mancia di euro nelle serre che, come «un mare finto», dilagano nel paesaggio. Così è stato anche per Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l’anonimato di quei tunnel di plastica. E proprio in un’azienda che produce ortaggi in serra s’incrociano i destini di Gaetano (un ragazzo di un remoto paese della Sicilia) e Alì. Una serra gestita da un boss della zone, don Michele, che apprezza i «bravi lavoratori» che non «parrano ammatula», che sanno cioè tenere la bocca chiusa. Le due vicende umane, quella di Alì e quella di Gaetano, finiscono così quasi per sovrapporsi, diventare una lo specchio dell’altra. Alì è un «senzaterra», in balìa del suo destino d’immigrato. Gaetano è uno che crede di averla, una terra, solo che, a poco a poco, sarà costretto a vedersela sfarinare sotto i piedi.
Ho invitato Evelina Santangelo a partecipare al dibattito per raccontarci la storia di questo suo libro, confrontarla con quella di Angelo e interagire con Simona e l’avvocato che tutela il ragazzo.
Un’altra voce di questo post sarà quella di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma. Ha iniziato a scrivere in Italia grazie al Concorso Eks&Tra. In antologie e on line ha pubblicato racconti e saggi. Da due anni svolge insieme a Livia Bazu, il laboratorio di scrittura con partecipanti italiani, romeni e francesi all’interno del progetto Grundtvig European Programme – Arte Terapia Sociale.
Queste voci, naturalmente, si mischieranno alle vostre. Il tema – dicevo – è quello della clandestinità e del potere della parola.
La parola è diritto, la parola è vita.
Di seguito potrete leggere il bel racconto di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

—-

LO CHIAMERÒ ANGELO
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGLo chiamerò Angelo.
Gli darò un nome di ali e di cielo.
Ma è l’unica cosa che gli presterò. I suoi occhi rimarranno quelli con cui mi guardò quel giorno: acquosi. Sgranati come acini pesti. Le sue mani scure. Più bianche nei palmi. Addomesticate a trattenersi.
I denti perfettamente allineati sulle gengive nere. Sul sorriso perplesso.
Le parole a sillabe e a tratti. Poi un fiume. Come inabissate e affiorate da una feritoia imprevista. Balzate da un’ impensabile via.
Il giorno in cui conobbi Angelo l’udienza fermentava di voci. Sudore. Avvocati annoiati. Testi reticenti.
Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Il cancelliere non mi annunciò Angelo. Mi disse solo: dottoressa, quel ricorso.
Quale ricorso?
Quello del clandestino.
Ah, lo faccia entrare. E chiuda la porta.
Angelo entrò col suo avvocato nella stanza mezza scurata dalle tende pesanti. In una penombra creata per accecare il sole. Per rimediare alla controra di un martedì di fuoco in un precocissimo Maggio siciliano.
Mi si sedette davanti solo quando lo invitai a farlo.
Solite domande di rito: come ti chiami, da dove vieni, da quanto tempo sei sbarcato in Sicilia.
Angelo rispose senza interprete, in un italiano già ben scandito. Studiato.
Lo incoraggiai. Bravissimo, dissi. Parli bene l’italiano.
Ho fatto la scuola serale, dottoressa.
Allora raccontami la tua storia.
Abbiamo tempo? Si stupì Angelo.
Io ascoltai il tramestìo dietro la porta chiusa. Il cicaleccio crescente e spazientito. Pensai: no. Non abbiamo tempo. Ma risposi: tutto quello che vuoi.
Angelo sorrise per la prima volta.
Quando mi raccontò di come andò a scuola quel giorno, di come rientrò a casa, di come la trovò crivellata dalle bombe, ammassata in resti sui corpi dei genitori, non fece una piega.
Con uno sguardo asciutto mi spiegò che in Afganistan accade. Può accadere.
Quanti anni avevi?
Otto, dottoressa.
Abbasso gli occhi sul rapporto della questura. Leggo: rifugiato politico. Fuga in Iran senza permesso di soggiorno. Tre mesi di reclusione in un carcere iraniano per aver lavorato in nero. Perseguitato dai Talebani. Rimpatriato in Afganistan dall’Iran. Imbarcato. Approdato nei pressi di Portopalo di Capopassero.
E ora quanti anni hai?
Sedici, dottoressa.
Ce l’hai un sogno?
Come?
Un sogno. Cosa vuoi fare in Italia? Studiare, lavorare?
Voglio studiare.
Bravo. Ma cosa desideri veramente?
Non glielo posso dire , dottoressa.
Dimmelo.
Non può capire.
Tu dimmelo.
Voglio scrivere.
Mi illumino. Il cuore in galoppo. Chiedo: Scrivere cosa?
La mia storia.
Ecco. Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Era una di quelle giornate.
Ma quando dissi ad Angelo che anche io scrivevo, quando lo incoraggiai a iniziare la sua storia, a farmela leggere, a continuare a sognare, quando gli diedi il numero di telefono di un corso di scrittura, quando gli dissi: Angelo, scrivila per me, pensai no. No, l’umanità non stanca.
E no, non sono stanca.
L’avvocato della causa successiva a quella di Angelo entrò in udienza sbuffando. Imprecando. Facendomi capire che avevo dedicato troppo tempo al “clandestino”.
Sorrisi persino a lui.

——

NOTE SULLE RECENTI DISPOSIZIONI NORMATIVE IN TEMA DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA:

Questo Gennaio è stato approvato dal Senato l’articolo 19 del disegno di legge sulla sicurezza che considera reato l’ingresso e il soggiorno illegale in Italia. Secondo la nuova norma, il clandestino che entra e risiede senza permesso di soggiorno in Italia non rischia il carcere, come stabilito inizialmente, ma sarà soggetto ad una sanzione amministrativa, compresa tra i 5mila e i 10mila euro.
Nella sua stesura iniziale, il testo prevedeva la reclusione da sei mesi a quattro anni e poneva, tra gli altri problemi, il rischio del sovraffollamento delle carceri, oltre a quello della mole di processi da tenere. Oltre alla trasformazione dell’immigrazione clandestina in reato, l’articolo 19 stabilisce ora anche la pena accessoria dell’espulsione che dovrà essere decisa dal giudice di pace. Se il clandestino non pagherà l’ammenda dovrà essere espulso.
Il reato di clandestinità era già stato inserito nel maggio scorso nel “pacchetto sicurezza”, ossia in quell’insieme di norme che hanno toccato diversi aspetti della sicurezza dei cittadini anche in altri campi (per esempio in materia di circolazione stradale e lavoro tra i più importanti). Ma la figura si era prestata a critiche dell’Unione Europea anche per l’aggravio del sistema carcerario e degli uffici giudiziari del Sud, più esposti geograficamente alla ricezione degli stranieri.

———

AGGIORNAMENTO del 13 marzo 2009

Aggiorno il post annunciando la partecipazione al dibattito di Cristina Ali Farah, scrittrice e poetessa.
Nata nel 1973 da padre somalo e madre italiana, Cristina Ali Farah ha vissuto a Mogadiscio dall’età di tre anni fino al 1991, anno dello scoppio della guerra civile, in seguito alla quale scappa dal suo paese con il suo primogenito; rifugiatasi in un primo momento a Pécs (Ungheria), rientra in Italia nella sua città natale (Verona) e in seguito si trasferisce definitivamente a Roma, nel 1997, dove ha altri due figli e si laurea in Lettere.
Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola (Premio Vittorini – opera prima – 2008) il suo primo romanzo, edito da Frassinelli. Il libro narra la storia di due cugine (Barni e Domenica) in esilio da una Somalia spezzata dalla guerra civile. Allo scoppio della guerra, le cugine sono costrette a separarsi. Barni trova a Roma un faticoso equilibrio grazie al lavoro di ostetrica. Domenica, invece, sradicata e trapiantata in un nuovo contesto, inizia un peregrinare senza meta e solo dopo un decennio di vagabondaggio sente il desiderio di raggiungere l’amata cugina, proprio mentre è in attesa di un figlio. Barni, soprannominata “madre piccola”, le starà accanto mentre affronta questo delicato momento. Sarà proprio la nascita del bambino a far ritrovare ai personaggi quelle radici preziose che sembravano spezzate per sempre.


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Scritto lunedì, 9 marzo 2009 alle 22:59 nella categoria LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

145 commenti a “UN ANGELO CLANDESTINO”

Credo che questo sia un post davvero bello, ma al tempo stesso delicato.
Faccio affidamento, di conseguenza, alla delicatezza dei vostri commenti.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:06 da Massimo Maugeri


Il tema, come dicevo, è quello della clandestinità e del potere della parola.
Tema attualissimo…
Vi invito a esprimere vostre riflessioni e considerazioni.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:07 da Massimo Maugeri


Intanto ne approfitto subito per ringraziare Simona per averci donato questo racconto. Si tratta, dicevamo, di una storia vera… vissuta nell’aula del Tribunale diretto da Simona (dove esercita la professione di magistrato).

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:10 da Massimo Maugeri


Anticipo che Simona, in quanto magistrato, non potrà rispondere a considerazioni di carattere politico.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:11 da Massimo Maugeri


Un’altra voce di questo post sarà quella dell’avvocato difensore del giovane “clandestino” che ha prestato in forma di volontariato (e dunque a titolo gratuito) la propria professionalità. Il suddetto avvocato – per questioni di opportunità – parteciperà alla discussione con un nome fittizio.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:13 da Massimo Maugeri


Altra ospite di questo post sarà Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice, editor della Einaudi.
Evelina ci parlerà di (e dei) Senzaterra.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:15 da Massimo Maugeri


Oltre a quelli di Evelina, attendiamo gli interventi di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:15 da Massimo Maugeri


Dividerò la conduzione e la moderazione di questo post con Simona Lo Iacono, titolare di questo spazio.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:16 da Massimo Maugeri


Cara Simona, l’angelo sei tu ed io vorrei essere stato nei panni del clandestino.
Il tema da trattare è sensibilissimo, perché traccia il destino di persone umane bisognose.
Nel contesto è necessario possedere molta sensibilità, fede nella vita e una ragione chiara, perché senza di lei non si risolverebbe nessun problema.
Il mondo non può essere cristiano, quando è soggetto a necessità di profitto, quel profitto che mai può bastare per tutti.
Fa male al cuore, respingere ognuno che viene per tentare la sua fortuna e lo fa rischiando tantissimi pericoli, ma lo fa perché a casa sua ha spesso una famiglia che ha posto ogni speranza sul suo riuscire.
Dall’altra part, è impensabile accoglierli tutti, perché diventerebbero un fiume in piena che travolgerebbe tutto il paese destabilizzandolo.
Nella misura sta il giusto, ma dove fissarla, davanti a tanta miseria esistente che abbisogna di una decisione immediata?
In tempi, come oggi, di globalizzazione dei mercati, dovrebbe essere possibile elaborare un piano internazionale di assistenza immediata nei paesi d’origine, affinché il flusso diminuisca e la gente possa rimanere a casa sua, invece che espatriare, in terre straniere di linguaggio e cultura, dove vengono trattati spesso come merce scomoda da sfruttare e buttar via.
Cari saluti
Lorenzo

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:38 da lorenzerrimo


Ne approfitto per salutare Lorenzo e augurare a tutti voi una serena notte.

Postato lunedì, 9 marzo 2009 alle 23:58 da Massimo Maugeri


Caro Lorenzo, mi permetto di darti del tu. La tua proposta di assistenza immediata nei paesi d’ origine dei clandestini è una proposta logica ma improponibile in un mondo governato dalla cinica logica del neoliberismo.
I clandestini provengono da paesi da secoli colonizzati, rapinati delle loro abbondanti e preziose risorse. I paesi ricchi stanno diminuendo l’ obolo, bontà loro, destinato ai paesi “in via di sviluppo”. Che ipocrisia definirli così! La Banca mondiale fa prestiti, consapevole che i paesi impoveriti da noi, ricchi e bulemici Occidentali, non ce la faranno mai a pagare nemmeno gli interessi. In Brasile il debito pubblico lo chiamano il debito eterno. E la forbice dello squilibrio tra Nord e Sud del mondo si allarga sempre di più. 40 milioni di esseri umani muoiono ogni anno. Il numero crescerà perché , con la privatizzazione dell’ acqua gli impoveriti del Sud del mondo moriranno anche di sete. Credo che per cambiare il mondo ci vorranno molti anni di rivoluzioni politiche, sociali, culturali.
C’ è solo da augurarsi che non scada il tempo prima che il mondo si umanizzi. Intanto non stiamo fermi. Boicottiamo, informandoci dei comportamenti delle multinazionali. riduciamo i nostri consumi, educhiamo i nostri giovani alla sobrietà, esortiamoli a informarsi sui meccanismi economici che rendono il mondo tanto ingiusto. Inventiamoci forme di contestazioni nonviolente. La società civile si organizzi superando differenze ideologiche, religiose, culturali. Coltiviamo una speranza attiva e creativa. Disobbediamo le leggi ingiuste, magari spingendoci ad accogliere nelle nostre case clandestini a cui cercare un lavoro, bianco, ben pagato e tutelato. Forse, forse, ce la faremo a dare al Pianeta Terra un volto umano. Un saluto a tutti. Franca.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 00:49 da Franca Maria Bagnoli


Grazie, Massimo, per questo post.
E grazie sia a Evelina Santangelo per aver scritto Senzaterra, incentrato sulla brutale, atroce sorte dei clandestini, e grazie a Simona Lo Iacono per il vivido, tenero, commovente racconto sul piccolo Angelo.
Mi hanno fatto nuovamente riflettere sulle ineguaglianze, le ingiustizie, le violenze che l’umanità “progredita” commina ogni giorno all’altra parte dell’umanità. Che è poi la gran parte dell’umanità. Perché la gran parte degli abitanti della terra non sa cosa sia – per dire – l’aspirina, la bicicletta, un piatto di pastasciutta, le parole scritte, l’aritmetica.
La gran parte dell’umanità vive – bisogna sottolinearlo – pensando esclusivamente a come impossessarsi, sfidando gli animali, degli avanzi di cibo, o altre sostanze, ammucchiati dai ricchi o dai potenti lungo le strade o gli sterrati delle città o dei sobborghi non soltanto del Terzo e del Quarto Mondo.
Sto scrivendo un libro sull’opera dei volontari che dedicano se stessi ai giovani dei continenti più poveri affinché non fuggano in giro per il mondo. Io sono stato in Africa, ma lì non ho potuto addentrarmi nei villaggi, me l’hanno impedito i guerriglieri. Ho letto però racconti, testimonianze e reportage e visto filmati e fotografie “segreti”. Comunque, pochissimi. Rari. Ne sono rimasto sconvolto. E deluso anzitutto da Madre Natura e poi da noi umani progrediti. Da Madre Natura e dalla violenza delle sue leggi, e da noi “progrediti”, che tutto facciamo per tenerci stretto il nostro progresso, difendendolo con ogni mezzo, guerre comprese.
Ovvio, quindi, che i componenti l’umanità “non progredita” in grado di resistere alle malattie, alla fatica e alla disperazione più grevi fuggano dal proprio villaggio o dalla propria città per salvare la pelle, assecondando l’istinto naturale di conservazione, approdando così in nazioni sconosciute ma ricche o progredite. Confidando che i loro abitanti gli permettano – come forse gli permettevano gli animali dei loro villaggi – di sfamarsi e sfamare i loro cari.
Se leggessimo determinati libri (e penso al romanzo di Evelina Santangelo) c’imbatteremmo di sicuro in mondi che non credevamo esistessero, frastornati come siamo dalla miriade di notizie e ideologie o dogmi i più assurdi, che ci vengono propinati soprattutto dai mass-media, quasi fossero d’importanza capitale per la specie umana. Quasi che servissero davvero a placare l’angoscia del vivere – o del tirare a vivere – di miliardi di esseri venuti al mondo magari loro malgrado e certamente senza aver potuto scegliere genitori, tempi e luoghi.
Ma la vita è questa, lo si voglia o no.
Concludo riportando i versi – composti da Barbara Hofmann – che rispecchiano i sentimenti di molti ragazzi africani (la signora Hofmann ha fondato l’Association en faveur de l’Enfance Mozambicaine, organizzazione non governativa no profit) su cui meditare e capire …

Puttana guerra, che cosa mi hai fatto
Puttana guerra, perché mi hai rubato

Hai rubato il più caro che avevo

Puttana guerra, perché mi hai generato
Puttana guerra, che cosa mi hai rubato
Mi hai rubato la Madre
Mi hai rubato il Padre

Ora la guerra è finita
E’ stata sostituita dalla
Puttana di vita che devo vivere
Puttana di spazzatura che devo mangiare
La Puttana di Pace che mi fotterà
… affinché io possa … sopravvivere!

Grazie di cuore, Ausilio Bertoli

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 05:15 da giuseppe ausilio bertoli


Argomento toccante e scabroso. Franca Maria Bagnoli ne fa un’ulteriore analisi cui mi associo.
Simona è il magistrato che si augurano tutti coloro che subiscono ingiustizie, l’attenzione che ha dedicato al ragazzo le rende merito, soprattutto se pensiamo in quale ambito si muove.
Qui c’è un ragazzo che la vita ha già talmente penalizzato che viene da chiedersi come mai non sia impazzito.
Ha voglia di scrivere, poi, testimoniare la fallacia di un sistema occidentale che ad ogni boccone ingurgitato fa corrispondere inedia e morte per intere popolazioni. E sangue e dolore, atrocità che ai nostri palati non hanno sapore.
Sono loro, i disperati che, pur di avere un suolo su cui posare il piede e il cuore, rischiano l’annegamento, lo sfruttamento bieco e brutale, il rimpatrio in una terra che fu il teatro della loro desolazione.
E della nostra vergogna.
Il coraggio di Simona, mi viene da riconoscerlo, così, di primo acchito, perchè ce ne vuole davvero a far emergere lo stato di diritto in un paese che copre scelleratezze mafiose e di ogni altro genere.
Come battersi in una palude infestata da sanguisughe.
Eppure il coraggio di questa donna magistrato è grande, come lo è la sua sensibilità di scrittrice.
Lorenzo parla di un mondo cristiano,quello che dovrebbe essere, non quello vergognoso di uno schieramento -ingerimento negli affari di stato, quello che fomenta “dagli allo straniero”.
Se fosse davvero cristiano, il mondo occidentale non siederebbe sui cuori dei diseredati, nè contribuirebbe alla depauperizzazione di paesi sfruttati fino farne teatri di guerra e deserti di morte.
“SE”…
Ma non è.
E ogni voce atta a contrastare questo addormentamento delle coscienze è ammirevole e coraggioso.
Buona giornata a Massimo e a tutti gli amici di Letteratitudine.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 06:20 da cristina bove


Carissimi,
qualche notizia attuale su Angelo.
Quando Angelo arrivò in tribunale la prefettura aveva appena rigettato la sua istanza di asilo politico.
Angelo (attraverso la sua avvocatessa, che presta volontariamente assistenza agli immigrati in uno dei tanti campi profughi sparsi sulla costa sud orientale della Sicilia) impugnò il decreto di esplusione appellandosi alla convenzione di Ginevra che garantisce asilo politico ai perseguitati a causa della guerra.
Angelo rientrava perfettamente nello status di “perseguitato” (avendo subito una detenzione carceraria ingiusta in Iran, una persecuzione ad opera dei talebani, un innocente martirio e un lungo peregrinare tra stato e stato in cerca di lavoro), ma la prefettura a causa della mole di sbarchi e della massiccia entrata di migliaia di persone provenienti dall’Africa, dal’Afganistan, dall’Iran, aveva emesso un provvedimento di routine rigettando la sua istanza di ricovero nel nostro paese.
Era quasi estate, e la Siclia veniva presa d’assalto.
Ogni notte il mare portava resti di speranze. Voci assiepate su barconi stretti. Lampare spente, scafi silenziosi, per non incrociare le pattuglie.
Toccavano terra a fiato basso, con occhi in giù, senza volto e senza parole.
Scivolavano sulla riva scivolando come ombre, sperando di non essere notati. Di scavarsi un loculo, una feritoia tra le vite degli altri.
Sanno che il loro nemico è la normalità.
Angelo sarebbe rientrato in Afganistan e avrebbe continuato il suo esilio se l’avvocatessa di cui vi ho parlato non avesse preso a cuore il suo caso.
Se non lo avesse portato a me, se non avesse fatto anticamera per parlarmi, per segnalarmi l’urgenza, per far emergere – tra le tante – almeno la sua voce.
Ecco.
Non c’è normativa senza l’ascolto della voce.
Oggi Angelo studia. Frequenta la scuola serale. Scrive. Continua a vivere nel campo profughi dove l’avvocatessa lo segue e lo assiste regolarmente.
La sentenza ha accolto la sua istanza. La prefettura ha revocato il decreto.
Angelo può restare in Italia altri cinque anni, poi vedremo, ma intanto è qui.
I suoi cinque anni sono tutto il suo futuro.
E sono il tempo della sua scrittura.
Il giorno in cui ho letto il dispositivo della sentenza che accoglieva la domanda di Angelo, lui e il suo avvocato sono venuti a trovarmi in ufficio.
Angelo mi ha portato un disegno enorme, verde, con immagini di fiori.
Mi ha colpito il bagliore accecante dei colori, la festa che vi si celebrava.
Tornerà a trovarmi. Sa che voglio che studi. Che scriva.
Sa che è qui perchè ha saputo sognare.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 08:12 da simona lo iacono


Qualche elemento di DIRITTO e LETTERATURA:
Pochi sanno che le convenzioni di Ginevra (alle quali si è appellato Angelo) hanno un’origine LETTERARIA.

Esse consistono in una serie di trattati sottoscritti per la maggior parte a Ginevra e costituiscono, nel loro complesso, un corpo giuridico di diritto internazionale, noto anche sotto i nomi di diritto di Ginevra, diritto delle vittime di guerra e diritto internazionale umanitario.
Ebbero inizio dallo sforzo di Henri Dunant, motivato dagli orrori di guerra da lui osservati durante la battaglia di Solforino e descritte nell’opera “Souvenire de Solferino”destinata ai sovrani di tutta Europa.
Questo libro appassionato, pietoso, che ha raccolto lamenti, è l’opera letteraria che sta alla base di tutto il nostro attuale sistema di norme di diritto internazionale.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 08:23 da simona lo iacono


di primo acchito mi viene da pensare che si potrebbe fare uno scambio. spedire via tanti “inutili” italiani e prenderci alcuni “angeli”, perché di gente simile al protagonista della storia di Simona ce n’è parecchia.
Capita anche a me, pur facendo un altro lavoro, di conoscere ragazzi come lui. Sarebbe bello che scrivessero le loro storie. Presumo, chissà perché, che potrebbero essere vagamente più interessanti dell’autobiografia di una velina.
Brava Simo

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 09:33 da enrico.gregori


Quel “Voglio scrivere” è il cuore del pezzo. Non è urlato come molti fanno dai molti blog, non è esasperato e presuntuoso come esce da certi forum. O anche da certe pubblicazione cartacee. E’ propositivo, è convinto. E’ nel suo cuore come un tatuaggio. Quel “Voglio scrivere” è un romanzo a se stante, una storia infinita come infinita di bellezza è Letteratura. “Voglio scrivere”= Voglio vivere. Di nuovo.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 09:45 da renata maccheroni


Dolcissima Simona. Impareggiabile Simona. Ineguagliabile simona. Riesci a trasformare in poesia qualsiasi argomento tratti. Con la forza delle parole. E del cuore. Riusciresti a rendere gradevole e romantica persino la vista di un casermone di cemento. Sempre con la forza delle parole.
Il fenomeno della immigrazione in Italia, così come negli altri Paesi europei, è diventato di proporzioni vastissime e (temo) incontrollabile: interessa tutti i settori della vita sociale, a causa dell’espandersi di un tessuto molecolare che fatica a integrarsi e a convivere con quello del territorio. Il consolidarsi della presenza degli immigrati nel nostro Paese pone interrogativi ed esigenze concernenti proprio tale rapporto di convivenza, soprattutto con la popolazione dominata dalle tradizioni sociali e religiose islamiche. Tu che conosci bene il Diritto, sai che tutto ciò comporta difficoltà non indifferenti nel processo di integrazione sociale degli immigrati quando si tratta di dar loro configurazione giuridica, a causa della peculiarità della loro religione, che si scontra spesso con quella cattolica. Io credo che una società multirazziale, di pacifica convivenza, sia ancora lontana da raggiungere e i Governi dovrebbero attivarsi concretamente( offrendo alternative di sviluppo nelle loro terre) affinchè si argini il fenomeno dello sbarco clandestino di diseredati, che spesso vanno a incrementare la delinquenza locale, o nel migliore dei casi il lavoro nero, poichè altra scelta non hanno e devono pur mangiare. Quel bambino è un bambino fortunato perchè ha incontrato una dolce fatina nel suo cammino

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 09:47 da Salvo zappulla


Un post da sogno direi, da tutti i punti di vista.
Interverrò dopo.intanto sottolineo questo “Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.”

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:02 da Vale


Gregori e qualche altro letteratitudiniano spediti in Iran valgono come minimo lo scambio con 100 telebani in Italia. Immagino già i casini che riuscirebbero a combinare in quelle terre. Non oso pensarci.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:06 da Salvo zappulla


talebani

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:07 da Salvo zappulla


Vorrei intanto specificare la natura del mio romanzo e il mondo cui mi sono ispirata per scrivere la storia di Alì e quella di Gaetano. Un mondo, che ha un nome (Palma di Montechiaro), una provincia profonda del Sud Italia dove, drammaticamente, convivono due movimenti uguali e contrari. Lì approdano molti dei barconi partiti dal Nord Africa, da lì (come da molte province del nostro Sud) continuano a partire i pullman che portano molti siciliani in Germania alla ricerca di un lavoro. Prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura del film («La Terramadre» per la regia di Nello La Marca) e poi il romanzo («Senzaterra»), che da quella sceneggiatura ha preso le mosse, sapevo tutto ciò, ma non avevo visto ad esempio cosa rimane su una spiaggia dopo uno sbarco (brandelli di vite mineralizzate in cumuli di stracci, scarpe, libri di preghiera…) né avevo mai visto da vicino un paese così svuotato di braccia da lavoro come Palma, così drammaticamente ricco di memorie eppure sconciato da una sorta di disamore per la terra o di amore rabioso… Da esperienze e considerazioni di questo tipo, da un inatteso prolificare di altre riflessioni sul nostro Sud, sui Sud che approdano nelle nostre coste, sui Sud umani ed esistenziali annidati in tanti Nord (e non solo popolati da stranieri…) è nata questa storia, che non caso, credo, mi è costata diversi anni di lavoro, prima sulla sceneggiatura del film e poi sul romanzo…
Evelina

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:37 da Evelina Santangelo


Cara Simona, col tuo racconto mi hai commossa e anche riempita di speranza, per la tua lungimiranza, per la capacità di affrontare una situazione non facile e darle l’esito migliore.
Ora, a causa del mio lavoro, sono spesso nelle serre sia di Pachino che di Vittoria e anche Niscemi. Posso dire che nella maggior parte delle serre lavorano gli extracomunitari, è vero, ma non ho assistito a episodi di caporalato né di trattamenti disumani. Anzi, ho visto comunità di indiani e cingalesi ben organizzate, serre e impianti agricoli moderni, insomma, luoghi di cui ci farebbe anche bene vantarci, ogni tanto. Di sicuro non ho un quadro completo della situazione, ma non credo che sia giusto far pensare che in ogni serra, in ogni azienda agricola ci sia la mano della mafia e gli operai vengano schiavizzati. Frutta e ortaggi forse non saranno totalmente biologici, ma non crescono innaffiati col sangue, almeno, la maggior parte. E gli imprenditori agricoli combattono una durissima battaglia praticamente da soli, per imporre sul mercato i propri prodotti.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:38 da Barbara Becheroni


Aggiungo anche dei versi che ho messo in calce al mio precedente romanzo («Il giorno degli orsi volanti», storia di un ragazzo dell’Est in fuga da un passato di affetti devastati dalla guerra, ma animato da un sogno assurdo e meraviglioso…).

Chi ti dice che il sud è amaro
non ti dice la verità
chi ti dice che il sud è ricco
ti dice cose che non sa
solo chi dice di venirlo a vedere
è persona di cui ti devi fidare.
le cose che stanno lontano non hanno senso
non hanno un peso le pene non viste
non hanno occhi gli estranei.
io ti dico che devi venire
se vuoi parlare del sud.
se non sei cieco
se non sei nemico
se non sei lontano
ti basterà guardare
per non tacere
(Vincenzo Santangelo)

Ecco, gli scrittori cercano di fare questo, a volte, quando ci riescono, portano i lettori (e prima di tutto se stessi) a vedere (a guardare) delle cose lontane, per trovare un senso, per sentirne il peso, o sperimentarne tutto il nonsenso…
Evelina

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 10:50 da Evelina Santangelo


“…ma non avevo visto ad esempio cosa rimane su una spiaggia dopo uno sbarco…”

Considerazione che mi colpisce come uno schiaffo e dovrebbe (deve)
un senso non solo metaforico. Io non ho mai visto cosa rimane, chi ha toccato con mani (e occhi e anima) riflette diversamente da me che penso per sentito dire e quindi mi sento più estranea. Toccare è essenziale, sennò si tende ad estraniarsi, appunto.

Ecco, allora:

“Chi ti dice che il sud è amaro
non ti dice la verità
chi ti dice che il sud è ricco
ti dice cose che non sa
solo chi dice di venirlo a vedere
è persona di cui ti devi fidare.”

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:03 da renata maccheroni


Carissima Evelina,
grazie. E grazie a Massimo che ha raccolto gli occhi di Angelo non appena gliene ho parlato. Sovrapponendoli ai suoi. A quelli di uno scrittore.
Non crede, Evelina, che la scrittura restituisca una terra?
E che forse, il senso della clandestinità (di ogni clandestinità) è trovare un approdo dove non si pensava?
Non è detto che sia una spiaggia. Un porto. Uno status giuridico.
Persino una sentenza non veste l’appartenenza.
“Terra in vista” è quando la parola fa trasalire il nostro dolore. Quando ce lo fa dire.
E’ vero quello che è stato più sopra scritto.
“Voglio scrivere” vuol dire “voglio vivere”.
Terra e vita si intrecciano, ma non sugli scogli. Sulla materia. Sulle strade poleverose che noi tutti sappiamo setacciare con indifferenza.
Terra è quando l’indifferenza viene trafitta.
Quando lascia trapelare una flebile voce.
Allora, credo, è il caso di dire: sono tornato a casa.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:05 da simona lo iacono


@Massimo carissimo,
ancora un volta ci induci a riflettere e mi sembra importante ringraziarti.
Ricordo che secoli scorsi la mia professoressa di italiano ci dette un tema da svolgere:- “L’uomo è buono, gli uomini sono cattivi”, nel corso degli anni ho sempre meditato questa frase. Oltre allo sterminato potere della parola, direi che sarebbe auspicabile e determinante, la gentilezza dell’ascolto e della comprensione. Ritengo che questi due elementi conditi con una buona dose di pazienza, siano degli ottimi grimaldelli per
penetrare nell’animo di popoli diversi per tradizioni e costumi, ma tutti
desiderosi di amare e di essere amati e capiti. Non ho mai fatto – di tutta l’erba un fascio – . Alla luce degli ultimi fatti che giorno dopo giorno
le teledisgrazie…. ci propinano invoco il Signore che non pietrifichi il mio cuore e quello dei miei concittadini. E’ difficile lo capisco, ma dobbiamo
comunque tentare un dialogo, possibilmente non urlato! Potrei raccontare tante storie di amicizia e di solidarietà data e ricevuta, segnalerò quella col mio amico Abram , al quale ho voluto e voglio bene come un figlio. In me ha trovato un punto fermo, sul quale poteva sempre contare, per un materno consiglio o per un impellente sfogo.
Un tempo, facevo parte del “Rinnovamento dello Spirito”, il gruppo senese fra gli altri impegni sociali, si occupò di un ragazzo che veniva dalla Costa d’ Avorio. Abram oltre alla lingua natale, parlava solo francese. Ero tornata da qualche mese da Marsiglia, toccò quindi a me il delicato compito di avvicinarlo e assisterlo nei suoi studi e nella prime difficoltà della lingua italiana. Abram era un ragazzo d’oro, intelligente, sveglio, pulito nell’anima e nel corpo. Lui ha accettato qualsiasi umile lavoro pur di non pesare troppo su di noi. La nostra Comunità ha pagato gli studi universitari e tutte le altre necessità per una vita dignitosa. Abram si è laureato brillantemente in Farmacia. E’ stata una gioia di tutti
fargli una bella festa. Poi dopo enormi sacrifici ha trovato il lavoro inerente ai suoi studi. E’ ritornato per alcuni mesi al suo Paese per rivedere l’anziano genitore. Lì ha trovato uno stuolo numeroso di fratelli e parenti che doveva aiutare, senza averne ancora i mezzi.
In Italia ha portato la fidanzata e abbiamo cercato un lavoro di badante anche lei. Dalla Costa d Avorio, mi portò in regalo una Bibbia in francese e alcuni elefantini per la mia minuscola collezione in onore della Contrada della Torre, alla quale appartengo. Poi, Abram sollecitato dalla ragazza decise di ritornare nella sua patria. Nei primi anni, più volte mi ha telefonato per avvertire il nostro Gruppo delle notevoli difficoltà che aveva dovuto affrontare al suo rientro. Per noi però, era divenuto più difficile poterlo aiutare finanziariamente.
Alcune somme inviate non gli erano mai pervenute. E a malicuore non gli spedimmo più nulla per timore che le intecettasero i guerriglieri
Non sappiamo più che fine abbia fatto Abram e siamo in pensiero per la sua vita e per i suoi cari.
@ Simona cara, il tuo impegno, il tuo lavoro il tuo cuore indomito, coraggioso, sono vigili sentinelle per chi si affida a te.
Come è andata la presentazione del libro a Catania?
Ti penso e ti voglio bene.
Al Commendatore Massimo,abile pensatore notturno e magistrale Puparo che tira i fili di noi italioti e tosco-siculi.
Alle amiche e conoscenti ed amici del blog, un fraterno abbraccio
Tessy

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:09 da M. Teresa Santalucia Scibona


O cose che… «sembrano lontane»… e che, come dimostra anche la vicenda raccontata e vissuta da Simona Lo Iacono, sono vicinissime e ci riguardano… se non altro, perché sono un pezzo della nostra stessa umanità.
Evelina

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:11 da Evelina Santangelo


Carissima Simona,
la «scrittura» può essere tante cose, può avere tante forme, tante ragioni, tante finalità… nessuna esclude le altre… Il racconto di una vita può essere un modo per riappropriarsi di un’dentità perduta (poco importa se sia sostenuta da ragioni artistiche o meno, da un’idea di «scrittura d’invenzione» o meno). Anzi, direi di più, provare anche semplicemente a riordinare degli eventi e a dar loro una forma può benissimo essere un modo per «riconoscersi», per «esistere»… Probabilmente il senso fondamentale del gesto che Angelo ha il bisogno di compiere in questo momento è proprio questo: cercare una «terra» cui approdare attraverso la scrittura della propria vita…
Il che non esclude che la scrittura possa (e debba) essere mille diverse cose… anche, ad esempio, la traccia più evidente di un senso di estraneità… (Nel «Giorno degli orsi volanti» ho cercato di raccontare un modo di «tornare a casa», in quest’ultimo romanzo invece ho provato a raccontare un senso di «sradicamento» radicale, che riguarda anche molti di noi, oggi).

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:39 da Evelina Santangelo


Un pezzo della nostra stessa umanità che spesso, non guardando (in tutti i sensi) si contribuisce a fare a pezzi. Ed ecco che lo scrittore assolve uno dei suoi principali compiti: mettere (in senso fisico, perché lui così lo avverte) le mani ove non è piacevole metterle, per indicare un cammino, per sbattere in faccia a me che non ho visto ciò che è. E’. Senza fronzoli, retorica o strumentalizzazioni varie. Soltanto l’essenziale. E’. E affiora poesia, quindi non tutto è perso. Afferriamo quel pezzo della nostra umanità e mettiamoci a cercare gli altri pezzi: il miracolo (sono atea, ma adopero il termine) della scrittura si compie. Là dove scrittura diventa vita e non inutile accumulo di parole.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:42 da renata maccheroni


Carissima Evelina,
è vero.
La scrittura è traccia. Ed è anche una scoperta.
Si inizia il viaggio senza valigie. Si approda carichi di bagagli che non avresti mai creduto di riempire.
E poi è memoria. Sacralità. Scempio.
Vita.
Può raccontarmi della prima suggestione che ha dato origine a “senzaterra”?
Un’immagine, un resto, un ricordo?

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:47 da simona lo iacono


@Maria Teresa: un abbraccio a te, mia cara.
La presentazione è stata un dono. Ne abbiamo parlato nella camera accanto n. 9!
@tutti: grazie per questa partecipazione che sento commossa. Forte. Alata.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 11:51 da simona lo iacono


Cara Simone,
come dicevo all’inizio, proprio nel primo intervento, tutto è cominciato quando ho visto a Palma di Montechiaro quel che era rimasto sulla spiaggia dopo uno sbarco di clandestini… quell’immagine si è andata a saldare a quella del «paese fantasma» che mi sembrava di vedere, mentre guardavo le case di Palma, grige, prive di intonaco e ammassate le une alle altre come a reggersi a vicenda… Da lì, a poco a poco, si è articolato tutto un mondo di suggestioni, di scoperte, di riflessioni che hanno trovato man mano la via delle parole…
Sai, non credo che si parta «senza valigie»… si parte con poche o molte valigie, dipende… Di alcune, ci se ne libera, man mano che si va; di altre, invece, si fa tesoro… perché ci aiutano a capire dove vogliamo andare.
Evelina

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 12:03 da Evelina Santangelo


Un paese fantasma….
In effetti sembra che chi approda da noi non trovi che questo.
Ombre.
Ma poi nel suo belissimo romanzo , lei ha “raddoppiato” lo sguardo. Le voci narranti.
Chi viene da fuori e chi vuole rimanere dentro.
Chi se ne deve andare e chi vuole restare.
La percezione è quasi sensoriale, uditiva. Come le parole che cacciamo dentro una conchiglia, e che la conchiglia ci rimanda.
Le due posizioni sono affidate ai due personaggi. Alì e Gaetano.
Cos’hanno in comune? Chi dei due è “il clandestino”?

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 12:21 da simona lo iacono


Carissimo Massimo, intanto grazie per la bellezza e la necessità profonda di questo post. Un grazie di cuore a Simona Lo Iacono per il suo racconto appassionato e toccante, e ad Evelina Santangelo per la verità e l’impegno del suo libro: entrambe ci regalate testimonianza, ci regalate amore, ci offrite una comprensione di cui abbiamo impellente bisogno. Negli occhi di Angelo, come in quelli di Alì e forse in quelli Gaetano la richiesta è la stessa. Si fa strada, e sa attendere. Ha dita leggere ma tenaci. Non è una supplica, ma un interrogativo, che conserva la sua dignità, il miracolo di una sensibilità, di una consapevolezza del mondo. Quegli occhi entrano dentro di noi, come laser. Ci domandano di prender parte a dei destini. Ma ci chiedono soprattutto di CAPIRE, qualcosa che non sappiamo più fare, che questo paese sta rischiando di dimenticare, preso com’è dai facili luoghi comuni urlati della cronaca quotidiana e dai razzismi striscianti che sempre più serpeggiano nel pensiero di tantissime persone. A volte ti stupisci e ti dici: ma come, sembrava una persona colta… sembrava una persona disponibile, libera… sembrava una persona speciale… per renderti drammaticamente conto di come anche la persona di cui ti fidavi ciecamente, al momento opportuno, è pronta a tirare fuori le sue barriere di diffidenza e pregiudizio. E queste barriere costruiscono ponti alti quanto grattacieli. Ponti che non basta la buona volontà ad abbattere. Ponti che ci isolano, che ci chiudono dentro prigioni di sconforto e cupo malessere. Le testimonianze di Simona e di Evelina abbattono questi ponti, ci consentono di evadere da queste orrende prigioni, per restiturci l’ascolto, che è ciò che stiamo davvero perdendo. La capacità, la possibilità, l’opportunità di arricchirci ascoltando le verità dell’altro e delle sue storie. Grazie a tutti per questi contributi, e bravo Massimo. E’ questo che la letteratura deve restituirci. La possibilità di cogliere ciò che gli altri hanno da insegnarci, tanto sul piano intellettuale che su quello umano. Sono certo che il romanzo di Angelo sarà fantastico, perché ci sarà dentro la vita vera. La sua. La mia. La vostra. Quella di tutti gli esseri di questo mondo. Lo sfoglieremo ripercorrendola insieme a lui, cui auguro una vita felice. La merita proprio. Un saluto a tutti,

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 12:35 da Luigi La Rosa


Rileggendo quel che ho scritto ci tengo ad aggiungere un piccolo chiarimento: quando utilizzo il termine “ponti” del pregiudizio intendo dire quella capacità che ha il pregiudizio di un individuo di passare, di fluire, di confluire nel pensiero degli altri, rafforzando gli stereotipi, i facili luoghi comuni, i razzismi: una sorta di contagio, che agisce a livello profondo e a volte persino inconscio. L’intellettuale deve lottare contro questa tendenza del pregiudizio a radicarsi, e deve ridare alla società la sua lucidità di giudizio. Di apertura. Di accoglienza. Il rispetto dell’altro è un presupposto per dirci persone civili. Ci tenevo a questa precisazione. Un caro saluto…

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 12:42 da Luigi La Rosa


Angelo è un bambino. E come tale è un essere indifeso, a rischio di soprusi da parte di individui adulti. Angelo è un bambino del mondo, come tutti i bambini. Così come può essere a rischio un bambino del San Cristoforo di Catania cresciuto in un ambiente di degrado, cui spesso per ignoranza o per miseria viene inculcato a guadagnarsi la vita attraverso uno scippo o una coltellata. Io ho timore di questa società che tende a massificare tutto, a pontificare senza agire di concreto. L’intellettuale non può e non deve limitarsi – a mio parere- a sfoggiare princìpi interessanti, di fratellanza, di amore per il prossimo, per le cose belle che poi nella realtà tanto belle non sono. Altrimenti rimane intellettuale da salotto, il quale tra un dolcino e un sorso di vinello buono, si limita a fare belle enunciazioni. In poche parole deve avere il coraggio di prendere posizioni. Nette. Decise. Penso a Pasolini, a Sciascia, a Vittorini. A quelli che non hanno esitato a schierarsi contro il fascismo, a rischio della propria carriera. Sarà il mio passato di sindacalista che mi porta a vedere il lato concreto e materiale delle cose, sarà la realtà che vivo ogni giorno girando in lungo e in largo la Sicilia, sta di fatto che conosco la realtà delle serre ragusane, e la situazione non mi pare così idilliaca come descritta in precedenza da Barbara. Esiste grande conflittualità tra gli immigrati e i contadini locali, che sfocia in risse e veri pestaggi; qualche volta ci scappa anche il morto. Tutto ciò a causa delle istituzioni che non funzionano, non vigilano sulle corrette normative che regolano i contratti di lavoro. E quindi è in atto una vera e propria guerra tra poveri per la sopravvivenza. Lungi da me qualsiasi principio razzista. Per me gli esseri umani hanno tutti il diritto di consumare la loro breve esistenza nella maniera più decente possibile. Allo stesso modo conosco la realtà di Palma di Montechiaro, una realtà estremamente desolante, un paese che si svuota, giovani costretti a emigrare al nord in cerca di lavoro. La mafia che impera, strozza l’imprenditoria, strozza le aspirazioni di crescita. Grosso modo questo è il quadro che ho io della Sicilia, una terra sempre più abbandonata a se stessa, per la quale si progettano strutture faraoniche (vedi il ponte sullo stretto) e si dimenticano le esigenze del quotidiano.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 14:05 da Salvo zappulla


Prima di tutto, ringrazio Simona e Massimo per avermi invitata al dibattito sulla clandestinità e il potere delle parole.
Simona, che bello se tutti i magistrati riuscissero ad entrare in contatto con i sogni delle persone che vedono nelle sale dei tribunali. Ho riflettuto, dopo aver letto il tuo bel racconto, che non si conosce veramente una persona finché non si entra in contatto con il suo sogno. Credo che sia fondamentale per te, Simona (e ti do del “tu” perché non potrebbe essere diversamente, dopo aver letto il tuo racconto) in quanto magistrato e in quanto scrittrice, come lo è per me, in quanto scrittrice e psicoterapeuta, saper ascoltare le persone nell’esercizio delle nostre attività. Psicoterapeuti e magistrati si incontrano con esseri umani in concrete situazione di disagio. La domanda posta da te, Simona, “Qual è i tuo sogno?” ha messo Angelo in condizione di parlare di sé, di entrare in contatto con quella parte sua che lo spinge a lottare. Difatti, si lotta solo quando il proprio sogno si mantiene vivo.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 14:26 da christiana de caldas brito


Carissima Christiana,
che bello ciò che scrivi!
Sì. Io credo – ho sempre creduto – che si entri in contatto con gli esseri umani attraverso i sogni. E che uccidere un sogno equivalga a stillare una silenziosa fine. Un congedo da ciò che vive.
Per questo ho posto quella domanda ad Angelo. Perchè conosco bene la differenza tra un “progetto”, un “obiettivo” per quanto edificante (scuola, lavoro), e il sogno.
Il sogno è la nostra essenza più reale. La nostra identità che cerca. L’assillo di un cielo, di una potenza risanatrice che ci ponga in contatto con quella parte di noi che è altro.
Che è bellezza.
Dimmi, cara Christiana, in che modo l’arte della parola , nella tua esperienza di psicoterapeuta, risana una ferita?
In che modo i nostri sogni ci salvano? Quali sono le metodologie che utilizzate? E chi sono i vostri referenti?
Un grande, grandissimo abbraccio

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 14:39 da simona lo iacono


Ecco Simona.
Nelle poche righe dedicate ad Angelo ci sono lo spirito e l’attenzione che sempre dovrebbero animarci. Non una parola di troppo, perché quando la vita è davanti a noi, l’essenziale riassume i pensieri nella sintesi più vera. Come a scuola, quando occhi nuovi ti guardano per capire quello l’udito non riesce a decifrare. Sono molti gli Angeli che popolano la penisola; anche qui. La loro presenza disturba, per un po’, l’armonia dei gruppi, incrina la sicurezza degli insegnanti e le ore scorrono faticose. Poi vince il sorriso, prevale l’umano e quel bambino che considera, una cosa da scemi perdere tempo con i colori, si applica, più degli altri. Superando il ridicolo dell’effetto, per questa loro prima volta, alla fine sorridendo, presentano il lavoro.
Anche gli amici degli Angeli sono numerosi, stanchi (forse) di essere stancanti.
Ciao, Miriam

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 15:07 da miriam ravasio


sono Carla, l’avvocato di Angelo, ovviamente il mio è un nome fittizio, volevo lasciare poche righe di commento.
la vita di Angelo mi ha letteralmente investita, urtata, sconvolta. Da quando il Tribunale dei Minorenni decise con un decreto di nominarmi suo tutore, insieme ad altri suoi amici, le nostre vite si sono incontrate e si sono unite, se così si può dire. dall’incontro, lo scontro, la diffidenza, e poi di nuovo l’incontro, le nostre mani che si stringono e poi si allontanano, e poi ancora la fiducia, la non fiducia nello stato, nelle leggi, lei tempi lunghi, ” voglio parlare con il Giudice”, e tutto è stato concesso ad Angelo solo perchè è lui, ed è così.
mi chiama mami, e poi se la prende con me, ritorna sui suoi passi e poi mi regala un disegno, e poi ancora, mi chiede, non ci crede, non può essere così la giustizia. eppure lui è fortunato. lui è un Angelo. vuole studiare e si arrabbia quando gli insegnanti lo valutano ” sufficiente”, ha preso la licenza media serale, e per un periodo lo accompanavo io perchè al centro non avevano il mezzo, ha frequentato un corso di inglese e questo anno frequenta il primo superiore, ma contunua ad avere sempre alti e bassi, è stato male perchè l’esperienza disatrosa della sua terra lo ha segnato dal punto di vista psicologico.
ha aspettato con ansia il provvedimento della prefettura che tardava ad arrivare dopo l’accoglimento del ricorso presentato e accolto dal Tribunale da parte della dott.ssa Lo Iacono, e quindi si è scoraggiato, veniva a trovarmi e mi chiedeva perchè, perchè lui no, perchè non ancora, ed io ripetevo che bisognava aspettare , avere pazienza.
è difficile per loro comprendere questo, capire le leggi, perchè per loro è tutto più semplice, e poi fanno paragoni con il nord Italia, e decidono
di andare via, ho dovuto lottare molto perchè non andasse via a Milano, e poi finalmente il provvedimento della Prefettura che gli concede lo status di rifugiato politico per un periodo di 5 anni. grazie alla dott.ssa Lo Iacono, alla sua sensibilità, alla sua disponibilità, alla sua gentilezza, ed alla sua competenza, grazie per averlo sentito, ascoltato, lui lo ha apprezzato molto, ha capito che alla fine si poteva fidare di noi, che volevamo solo il suo bene.
lui disegna benissimo, ed haun sogno scrivere…. scrivere la sua vita… che è una vita vera e piena di colori, di sogni, di terre, di sapori, di persone.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 15:41 da carla


@ Scusate
non ha mai pensato nessuno che non avremmo percezione di nulla, se il nostro mondo fosse perfetto. È nella sua limitatezza, che il bene si mette in evidenza per migliorare una situazione che diventerebbe troppo malefica, fino a distruggere ogni forma di vita.
In questa situazione, sorgono persone sensibili di cuore, propensi a divulgare tutte le immondezze della vita, portandole alla luce, e contribuire a creare qua e là un esempio di amore incondizionato verso il prossimo.
In un mondo dominato dalla limitatezza (da noi assunta come male) sono questi gli angeli della speranza.
Si traccia, in senso percettivo, un continuo contrasto tra ciò che si vorrebbe realizzare nel bene e la realtà che continuamente gli si oppone.
Il merito è non solo delle persone che con coraggio e perseveranza s’impegnano a renderlo migliore, ma anche di quella forza superiore e quindi evolutiva che ci permette di alimentare la speranza, che un giorno si possa migliorarlo definitivamente. Io la chiamo forza della sopravvivenza, il cui fine spero che sia solo la salvezza del genere umano.
In questo impegnarsi, si nota l’agire umano su un principio che noi denominiamo fede, un insieme di forze identificatori che hanno preso possesso dell’individuo e gli impongono di perseverare nei propri propositi, per i quali è disposto a rischiare molto, fino a tutto.
Da questo processo ne sorgono i martiri di cui la storia è piena, cioè di persone forti, decise e carismatiche che hanno fatto della loro vita un impegno personale da svolgere fino alla fine.
Non illudiamoci, di poter mutare del tutto questo mondo, che sembra essere dominato da altri propositi che dai nostri, di volerlo riunire e trasformare in un giardino di fiori profumati e variopinti.
Chi s’impegna a renderlo così, sarà presto confrontato con la realtà opposta, nella quale dover mettere alla prova dimostrare tutte le sue forze identificatori, perseveranza e coraggio ad ogni rischio.
Sono per natura un essere propenso alla trascendenza spirituale, passionale e romantico, caratteristiche che farebbero di me un martire, ma sono anche un realista che mi spinge a riconoscere la realtà opposta.
In questo continuo conflitto, sono preso a volte dal coraggio di rischiare tutto per il bene e altre volte a riflettere come ottenere lo stesso risultato senza sacrificarmi del tutto.
Cari saluti
Lorenzo

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 16:10 da lorenzerrimo


Cara Carla,
grazie a te.
E ad Angelo.
L’ultima volta che sei venuta a trovarmi mi hai detto: “sai, sono stanca. E’ tutto difficile”.
Io ho guardato il solito via vai nei corridoi del palazzo di giustizia. La pila di fascicoli che ondeggiava sulla mia scrivania. Ho colto in lontananza brevi scaglie di mare, perchè ad Avola il tribunale è a un passo dalla spiaggia e quando la sabbia brilla è come se infestasse anche le nostre finestre.
Ho pensato:lo so. Ho sospirato: lo so.
Conosco la fatica. Le mani sulla tastiera a ticchettare mille provvedimenti, il tempo da rincorrere. La pressione dei volti che chiedono.
Lo so.
Poi però mi dico che se non hanno forza le madri, chi altri può averla.
Perchè la diversità è cosa di madri. Di sonni mancati. Di notti e ninne, veglie , pensieri.
L’accoglienza, il sorriso che dilata nonostante lo sfinimento, la parola incantatrice, il sogno offerto, mai negato, è cosa nostra, Carla.
Di noi che li abbiamo avuti dentro.
E non importa che la maternità sia fisica. Di sangue. Di dolore.
Può essere anche letteraria. Di inchiostro.
O , come nel tuo caso, venuta dal mare.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 16:11 da simona lo iacono


Carissima Simona, questa è una storia molto delicata e piena di speranza e di umanità:
la speranza che per ognuno di questi ‘bamibini’ (come dicevi tu, a 15-16 anni sono teneramente definiti bambini) possano costruire il loro futuro ripartendo dalle macerie del loro passato. L’umanità è quella di figure giuridixo istituzionali come te, capaci di saper fondere insieme comprensione, ascolto e competenza e correttezza giuridica.
Ginevra, lo ricrodavi tu, è sempre stata un luogo da cui sono partite le più grandi organizzazioni internazionali che hanno portato avanti cause sociali di ampio respiro: la richiesta dell’equità, del lavoro tutelato per tutti, la coscienza dell’uomo che fatica in condizioni dignitose, provengono proprio da lì.
Questo ragazzo ha trovato il suo angelo qui in Sicilia… (in qualche modo è stato detto anche in qualche post precedente e lo condivido).

Sul forum di facoltà c’è uno spazio dove si parla del rapporto tra facotlà e territorio (con un’intervista al Preside sull’immigrazione: credo sia il luogo perfetto per inserire una parte di questo racconto, che ne dite Simona e Massimo?

Un abbraccio

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 16:32 da Sabina Corsaro


Simona cara, comincio proprio dai bambini. Quando un bambino ha paura e si sente minacciato, lo aiutiamo a disegnare la su paura (il disegno come parola). Gli adulti, volendo, possono anche disegnare, ma di solito scelgono la comunicazione verbale (come quando raccontano i loro sogni). La paura è dentro ma se è comunicata attraverso le parole, comincia a esistere diversamente: è con-divisa. Nelle terapie verbali, parlare delle proprie paure e dei propri desideri(e di solito paure e desideri sono mescolati) è l’inizio della cura.
È bello quello che dici: “Il sogno è la nostra essenza più reale”. Mi ricorda James Hillman in Il Codice dell’Anima (edito da Adelphi, non mi ricordo l’anno, un libro sul carattere, la vocazione e il destino).
Credo che i nostri sogni debbano essere ascoltati per salvarci. Non ci si salva da soli!

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:06 da christiana de caldas brito


cara simona,come dire che questa storia non ci tocchi nell’anima?guardando quella fotografia di una piccola mano tesa penso a quante mani in cerca di aiuto non riusciamo più a vedere presi dalla fretta di corse frenetiche,avvolti da paure diffidenze e pregiudizi.Quante mani resteranno tese senza avere la fortuna di Angelo di trovare una mano materna come la tua che lo ha accolto ed aiutato?Magari perchè è più facile dare spazio alla rabbia,alla paura e all’indifferenza o semplicemente alla stanchezza.Io ti ringrazio come madre perchè hai ben compreso e riassunto nelle parole e nei tuoi comportamenti lo sforzo d’amore che facciamo con i figli.Questi figli non sono sempre soltanto i nostri,quelli che Dio ci ha donato,ma possono essere nello sguardo sconosciuto di chi ha perduto tutto,la terra,la madre e il diritto di sperare.Perciò clandestini sono tutti coloro che non hanno più passato nè ricordi a cui la durezza degli eventi ha strappato il futuro, a cui la speranza coltivata e supportata dal senso di giustizia deve ridare la vita,magari proprio attraverso l’uso della parola scritta così come la parola accennata gliela aveva promessa quando si sono affacciati alla vita.Speriamo che la tua testimonianza sia un monito d’amore per chi spesso dimentica o fa finta di non vederle quelle mani tese attorno a noi.
un abbraccio

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:07 da francesca giulia


@Sabina: Ma certo! Che bello!
E a proposito dell’importante rilievo che sollevi ( l’impatto col territorio) ecco alcuni dati statistici tratti dalla casistica anche in riferimento alle maggiori difficoltà della popolazione profuga femminile rispetto a quella maschile:

In data 1 gennaio 1999, la popolazione di competenza dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) raggiungeva i 21,5 milioni di persone, compresi 11,5 milioni di profughi e rifugiati (vedi il trafiletto laterale sulla classificazione delle popolazioni di competenza dell’ACNUR). I dati disponibili in base al sesso riguardano un totale di 4,2 milioni di rifugiati assistiti dall’ACNUR, cioè circa un terzo della popolazione complessiva di profughi e rifugiati. Le donne costituiscono il 50 per cento del gruppo .
Secondo i dati a disposizione, le donne rappresentano il 53 per cento della popolazione di profughi e rifugiati in Europa orientale, il 51 per cento in Asia, e il 50 per cento in Africa. In America Latina e Caraibi, le donne rappresentano il 47 per cento della popolazione di profughi e rifugiati.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:12 da simona lo iacono


@Christiana…condivido quello che dici. Che quando si usa la parola la paura, il desiderio, cominciano a vivere diversamente.
Anzi, io dico che iniziano ad esistere per la prima volta.
E da quel momento possono essere scrutate dall’esterno. Parlarci di noi. Sdoppiarci.
Guarirci.
Grazie della tua preziosa testimonianza!

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:17 da simona lo iacono


@Francesca Giulia: mia cara, è bellissimo parlare di una maternità che riguarda tutti, anche gli uomini.
E che attinge ovunque. Senza barriere di seme o di ventre.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:23 da simona lo iacono


…E però, parlando di donne, ecco qualche altro dato statistico sulla difficile condizione di “rifugiate”:
—-
Le informazioni contenute nei registri di profughi e rifugiati suggeriscono che le dimensioni della popolazione di profughe e rifugiate mutino a seconda delle ragioni che innestano i vari flussi migratori. In caso di esodo di grandi masse umane a causa di un conflitto, le donne rappresentano il 50 per cento della popolazione di profughi e rifugiati. Ad esempio, nel 1996 dai censimenti a tappeto della popolazione di profughi in Georgia e nella Repubblica Federale di Jugoslavia, risultava una popolazione femminile pari rispettivamente al 56 ed al 53 per cento.
La percentuale di donne che presentano richiesta di asilo è invece minoritaria — il 15 per cento in Italia nel 1992, e un terzo nella Repubblica Ceca, in Svizzera e nei Paesi Bassi nel 1995\1996. In Canada nel 1993 ed in Svezia nel 1997, un po’ più di un terzo — il 38 per cento — delle persone in cerca di asilo erano donne. La maggioranza dei richiedenti asilo sono giovani maschi provenienti dai campi profughi o dai loro paesi d’origine, e che generalmente sono in cerca di lavoro; in molti casi, le donne li raggiungono in un secondo momento.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:26 da simona lo iacono


Altri dati statistici riguardanti profughi donne e bambini:

L’Europa è l’unica regione che vede una presenza maggioritaria di donne e ragazze tra profughi e rifugiati urbani; tuttavia, questa media regionale dipende dall’elevata percentuale di donne e ragazze tra i profughi e i rifugiati urbani in Croazia (61 per cento).
I bambini e le bambine di età inferiore ai 5 anni costituiscono un’altra fetta minoritaria delle popolazioni urbane di profughi e rifugiati – il 9 per cento, in confronto al 14 per cento della popolazione generale di profughi e rifugiati.
Al contrario, i campi profughi sono tipicamente popolati da famiglie, e le donne raggiungono il 50 per cento della popolazione totale. La percentuale di bambini e bambine di età inferiore ai 5 anni è superiore nei campi profughi rispetto alle aree urbane. La convinzione diffusa che tali campi siano unicamente popolati da donne e bambini non è tuttavia avvalorata dai dati disponibili. Le percentuali di donne ed uomini al di sopra dei 18 anni nei campi profughi sono approssimativamente le stesse.
Le statistiche dicono con certezza che le donne e le ragazze diventano spesso profughe o rifugiate come conseguenza di una violenza subìta, compresa la violenza sessuale. Esse continuano ad essere esposte al pericolo di violenza sessuale durante l’esodo, la permanenza nei campi profughi, la permanenza nel paese di asilo e di nuova residenza, nonché durante e dopo il rimpatrio. Alcuni studi rivelano che le donne e le ragazze sono troppo spesso costrette ad intraprendere attività sessuali in cambio di cibo e di altri beni di prima necessità.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:30 da simona lo iacono


Cara Simona, la tua storia riscalda il cuore nella sua dolcezza. Malinconica, ma velata di speranza. Quella che davvero le storie di questi “angeli” abbiano voce, pezzi di carta, parole da urlare al mondo. Che tutti le leggano e sappiano, che nessuno dimentichi e che nessuno giudichi. Brava. E grazie.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 17:38 da Silvia Leonardi


Questa discussione ha il calore d’un grande abbraccio e fa apparire un’Italia che sembra non esistere, ma che per fortuna è qui, tenera e coraggiosa. Grazie.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 18:40 da Subhaga Gaetano Failla


@ Simona
rinvio questo racconto che credo passi bene sul tema da te magicamente presentato.

La solidarietà è tutto.
Come sia facile di credere di essere sufficienti a se stessi
e alla fine dover sopperire per la propria ignoranza, ovvero la necessità della solidarietà con gli altri, ovvero i pericoli che si ignorano nel credo che possano colpire solo gli altri, ma che infine colpiscono anche noi.

L’episodio si avvera in una cascina di campagna, là dove la natura detta ancora le sue leggi e tutti gli esseri conservano, forse per questo, una mente ristretta.
Un topolino cauto ed attento scopre sul suo percorso giornaliero una trappola. Cosa deve pensare, se non che l’uomo, suo nemico, gliela abbia posta perché preso dal timore che un piccolo topolino gli potesse rovinare la sua esistenza.
Cosciente delle sue incapacità di difendersi da solo e del pericolo che potrebbe sorgere anche per gli altri animali, il topolino cerca di avvisarli e di essere aiutato.
Per prima, si reca dal gallo avvertendolo dell’insidia. Il gallo non esita a rispondere che la trappola non lo riguarda, dato che l’uomo gli ha affidato altri compiti e di certo non vorrebbe mai la sua fine.
Deluso, ma non sconfitto, si reca dal maiale che proprio in quel momento era intento a leccare i resti di una zuppa da una ciotola appena offertagli dall’uomo, suo custode e amico.
Caro amico gli sussurra il maiale, ora ho ben altro da fare, come vedi, lasciami in pace con le tue richieste fasulle.
Cosa fare, pensa il topolino? Forse il coniglio capisce la mia situazione ed è disposto ad aiutarmi.
Si reca, quindi, dalla conigliera dove una famiglia già numerosa di conigli è intenta a
mangiare l’erba e pensa solo alla sua prolificazione.
Il coniglio non tarda a rispondergli che è contento della vita che conduce e una migliore non possa esistere per lui e i suoi.
Che mondo è questo, si domanda, è possibile che nessuno si accorga di essere mantenuto dall’uomo al solo scopo di servire al suo nutrimento?
Un bagliore di speranza sorge nel topolino al pensiero che la mucca forse potrebbe reagire diversamente e si reca quindi nella stalla dove una mucca appena munta sta godendo il meritato riposo della sera.
Una trappola, dici tu, ma hai mai visto una mucca morire perché presa da una trappola per topi?
Senza speranza e disfatto dall’egoismo ed ignoranza degli altri, il topolino si reca in casa e si nasconde nel suo buco dove per tutta la notte non riesce a chiudere un occhio per la paura di essere scoperto.
Ora, accade che la moglie del contadino, richiamata da rumori dal fuori, si alza e si reca nel cortile, già pensando di trovare il topolino morto nella trappola.
Nell’oscurità, non si accorge di un serpente velenoso, preso dai morsi della trappola alla coda, e viene morsicata. Viene così ricoverata urgentemente all’ospedale.
Il contadino, ben sapendo dai suoi antenati che un brodo fresco di carne di pollo sia la migliore medicina contro il veleno, sgozza il gallo e lo cuoce in una pentola che mette sul fornello.
Dopo, consegna la mucca alla macelleria per saldare il conto dell’ospedale e dei medicamenti e sgozza i conigli e il maiale per saziare i vicini e ringraziarli della loro premurosità e solidarietà mostrata verso la moglie infortunata.
Qui finisce il racconto che c’insegna quanto valore abbia la solidarietà tra tutti gli esseri di questo mondo.
La sua mancanza può causare la sfortuna anche di quelli che per egoismo e presuntuosità si credono esenti da un destino crudele e pensano che possa colpire solo gli altri.
Trasmesso nella nostra realtà, significa che dovremmo smetterla di credere di essere sempre i fortunati e occuparci meglio degli altri che non lo sono, affinché un giorno non più lontano non ricada anche su di noi.
L’economia, del consumo dannoso solo per fare utili, della tecnica sempre più avanzata e dominante ogni aspetto della vita umana bloccano la spiritualità dell’anima, l’unica forza capace di fronteggiare l’eccessivo materialismo distruggente.
La materia, così come la percepiamo, è composta di almeno due forme d’energia.
L’una è solida come il fisico, gli elementi, il denaro che vediamo e tocchiamo e l’altra la spirituale (forza della sopravvivenza che ci sprona a superare le difficoltà innate in noi ed esistenti nella nostra dimensione) il cui compito è quello di non lasciarci distruggere dalla prima. È nostro compito mantenere l’equilibrio tra loro, per il nostro bene.
Non possiamo dividerle e neppure escluderne anche una sola, perché sono un’entità che noi nella nostra limitatezza assumiamo divise e contrapposte.

Saluti cari,
Lorenzo

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 18:47 da lorenzerrimo


Ero sicura che il racconto narrato alla presentazione di Cavallotto, sere fa, avesse necessità di venire tramutato in inchiostro. L’autrice di “Tu non dici parole” sa qual è il potere salvifico della parola, che per Angelo sarà rivincita, riscatto o semplicemente pretesa di vita. Di una vita nuova, tra gente che accoglie e non distoglie lo sguardo.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 18:52 da gabriella rossitto


Come ti chiami?
Uomo
Da dove vieni?
Da un punto di questa terra
Come si chiama?
un punto qualsiasi
Perché sei qui?
Per vivere
Di che cosa?
Di lavoro
E se non ci fosse lavoro?
Allora morirò
Allora era meglio rimanere al tuo punto di partenza?
No, perché là sarei già morto
Sei solo?

Hai famiglia?
L’avevo, ma i terroristi…….
Hai fame?
Sì, ma sono abituato a non mangiare
E, di che cosa vivi?
Della speranza
In che cosa?
Che qualcuno mi aiuti.

Lo prendo per mano e decido di portarmelo a casa. Il giorno dopo, la polizia arriva e me lo porta via, dove, non so.

In quanti paesi potrebbe avverarsi questa procedura? Di certo in molti.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 19:49 da lorenzerrimo


Caro Massimo, grazie per questo post, per l’opportunità di avere contattato un pezzetto d’Italia ancora capace di solidarietà, di attenzione e di comprensione, anche nella veste istituzionale della così detta “giustizia”
A propositò di clandestinità vorrei segnalare un bellissimo film italiano:
RIPARO, il nome del regista, purtroppo non lo ricordo.
E’ un film che parla del problema della clandestinità in modo crudo e profondamente vero, un film che fa riflettere sulla reale capacità di ognuno di noi all’accoglienza e alla tolleranza.
Un saluto a Angelo, e a tuti voi
Rosalia

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 20:00 da rosalia catapano


simona, come è bello leggerti e sentire la complessità della tua personalità. Verrebbe da dire, parafrasando una tua frase: la giustizia è “cosa di madri”. Un’altra frase mi ha colpito e mi ha rassicurato circa il lavoro (spesso automatico, talvolta cieco) della giustizia. E’ là dove scrivi e ribadisci:”non c’è normativa senza ascolto della voce”. E’ quell’ultima espressione, che rimanda alla fisicità, che mi sembra molto importante. La voce, molto meglio, più umanamente di un’impronta digitale, individua una persona e ne rispetta l’unicità. Grazie a te, a massimo e agli altri partecipanti per questo dibattito i che ci coinvolge tutti.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 20:57 da piera mattei


Cari amici, grazie mille per i vostri commenti. Li ho letti tutti e li ho trovati bellissimi.
Vorrei ringraziarvi uno per uno, ma lo scarso tempo a disposizione non me lo consente (fate conto che l’abbia fatto).

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:03 da Massimo Maugeri


Aggiungo che sono post come questi che mi inducono a portare avanti l’esperienza di questo blog con rinnovata energia. Ciascuno di voi apporta contenuti, che messi insieme costituiscono una massa critica dotata – secondo me – di grande valenza narrativa.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:07 da Massimo Maugeri


Ringrazio ancora una volta Simona per il racconto (e l’esperienza) che ci ha donato e per l’ottima conduzione del post.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:08 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento particolare a Evelina Santangelo che ha prontamente raccolto il mio invito a partecipare a questa discussione.
Come ho già scritto sopra, Evelina – oltre a essere scrittrice – lavora per la Einaudi come traduttrice ed editor.
Ha curato, per esempio, “Terra matta” di Vincenzo Rabito:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/06/03/terra-matta-di-vincenzo-rabito/
E ha tradotto “Firmino”:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/07/31/il-caso-firmino/

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:12 da Massimo Maugeri


@ Evelina Santangelo
Come ho avuto modo di dirti avevi già “incrociato” Simona Lo Iacono. Se non sbaglio facevi parte della giuria che premiò il racconto “I semi delle fave” (primo premio edito dal convegno “Scrivere Donna 2006”).
Pubblicai quel racconto di Simona Lo Iacono sul blog “La poesia e lo spirito”:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/03/18/i-semi-delle-fave-di-simona-lo-iacono/

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:16 da Massimo Maugeri


Cara Evelina, sarebbe bello se potessi inserire – qui tra i commenti – un brano tratto dal tuo “Senzaterra” (ma solo se è possibile…)

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:18 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento di cuore a Carla, l’avvocato del nostro Angela.
Cara Carla, è grazie alla bellissima opera di volontariato che svolgono persone come te che la parola “speranza” è ancora gravida di significato.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:21 da Massimo Maugeri


Ringrazio moltissimo Christiana De Caldas Brito per essere intervenuta.
Cara Christiana… quando ho scritto che uno dei temi di questa discussione riguarda il potere taumaturgico della parola, pensavo proprio a te. Pensavo a te nel tuo doppio ruolo di scrittrice e terapeuta.
Mi è piaciuta particolarmente questa tua frase: “si lotta solo quando il proprio sogno si mantiene vivo”.
Mi sembra una frase vera, bella e importante.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:25 da Massimo Maugeri


@ Sabina Corsaro
Cara Sabina potresti inserire qui l’indirizzo del forum di facoltà e riportare lì in link di questo post.
Sarebbe un bell’incrocio.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:27 da Massimo Maugeri


Per il momento devo chiudere qui. Ne approfitto per augurarvi una serena notte e ringraziare tutti gli intervenuti che non ho ancora citato: Lorenzo, Franca Maria Bagnoli, Giuseppe Ausilio Bertoli, Cristina Bove, Enrico Gregori, Renata Maccheroni, Salvo Zappulla, Vale, Barbara Becheroni, M. Teresa Santalucia Scibona, Luigi La Rosa, Miriam Ravasio, Francesca Giulia, Silvia Leonardi, Subhaga Gaetano Failla, Gabriella Rossitto, Rosalia Catalano, Piera Mattei.
(Sapevo che non sarei riuscito a resistere alla tentazione di farlo):-)

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:35 da Massimo Maugeri


Grazie a Lorenzo e ai suoi apporti narrativi, a Piera, Rosalia, Gabriella, Silvietta(da quanto tempo!)…
Vorrei ricordare che la Prefettura, convenuta in giudizio per la revoca del decreto di espulsione emesso, mandò un proprio delegato che non si oppose nè sollevò eccezioni.
Era consapevole che il caso di Angelo meritava attenzione e che l’istruttoria allestita nelle emergenze non aveva consentito di scavare a fondo nella sua storia.
Ricordo che il difensore della prefettura si strinse nelle spalle, mi disse sconsolato :che vuol farci, dottoressa, sono troppi. E noi non ce la facciamo.
Era vero.
Al ritorno, in autostrada, lunghe file di extracomunitari sfilavano ai margini dell’asfalto, tornando dalle serre.
Il caldo tremolava sul nero.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:38 da simona lo iacono


@Massi, grazie a te e alla meravigliosa opportunità offerta a me e ad Angelo!

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 21:39 da simona lo iacono


sono carla, grazie a nome di angelo, lui è contento quando si parla di lui, mi pare di sentirlo, quando gli chiedo qualcosa, lui mi rispode, gardandomi dritto negli occhi, con tenerezza, la tenerezza di un bambino indifeso ma forte, ” certamente”, e così con questa espressione lui racchiude tutto se stesso, e lascia intravedere la speranza, la sua speranza che nè io nè le leggi dello stato, nè la prigionia, nè il potere dei Talebani, possono togliergli perchè è la speranza che gli viene da dentro, ed è quella piccola scintilla di Dio che ognuno conserva dentro di sè. e non importa se il suo Dio è diverso dal mio, sappiamo entrambi che ci ama e questo ci rende liberi e forti.
grazie a tutti di cuore e vi auguro una serena notte. carla

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 22:47 da carla


Dopo aver letto la storia di Angelo e il commento di Carla, la tentazione di scrivere è troppo forte. Non riesco a resistere. Conosco bene la storia di Angelo e l’infaticabile lavoro di Carla per lui, perchè sono un’avvocato anch’io. Conosco bene quell’atmosfera di martedì di fuoco, quel cicaleccio crescente e spazientito, quel continuo sbuffare e lamentarsi. Perchè nel corridoio del Palazzo di Giustizia ad Avola tutti hanno fretta e spesso dimenticano che, quelle interminabili pile di fascicoli, non svelano solo freddi interessi di clienti avidi di risultati positivi e proficui. Fra quegli innumerevoli fascicoli ce ne sono alcuni, infatti, che raccontano storie come quella di Angelo; storie che meritano un’attenzione tutta speciale e che ci ricordano che, quando la giustizia ed il diritto sanno spogliarsi delle loro vesti di triste freddezza per indossare quelle della sensibilità e dell’umanità, allora le richieste ai giudici non saranno più semplici richieste, gli atti non saranno solo pagine noiose da leggere, le ordinanze non saranno più così polverose. Questo perchè tutto il lavoro, nella sua scansione procedurale, si può svolgere nell’attesa di una sentenza che possa riaccendere una speranza di vita, migliorando le condizioni di chi soffre. Solo con questo spirito riesco a svolgere la mia professione, senza pensare alle ore che passano; così da esclamare quando è oramai buio “è già sera e non me ne ero accorta”. Sono molto contenta per il giovane Angelo e spero che in Italia possa vivere serenamente nella speranza di un futuro migliore.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 22:47 da miss iuris


@ Simona Lo Iacono
Ho appena finito di leggere la storia e tutti gli interventi.
Mi spiace non aver potuto partecipare in tempo perchè impegnato col lavoro.
Mi concedo di esprimere una mia speranza sull’argomento:
spero che sempre, al di sopra delle leggi, ci siano le buone persone che stimolino a fare buone leggi, umane e divine, perchè siamo (quasi) tutti futuri clandestini anche del paradiso che ci aspetta.
Grazie per lo stimolo dato.

Postato martedì, 10 marzo 2009 alle 22:47 da Pietro Aglianò


Certo caro Massimo, ecco il link del post attinente:

http://www.flett.unict.it/internals/forum/viewtopic.php?f=2&t=525

Notte!

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 00:25 da Sabina Corsaro


Da un po’ di tempo ho l’impressione che nel nostro paese (e non solo) esista un universo di tensioni e voci il cui disagio e dissenso trovano espressione proprio in luoghi così. Anzi, mi sono convinta che solo da luoghi come questo dove il dibattito si fa concreto e davvero plurale, dove ognuno mette in gioco se stesso, la propria esperienza, la propria professionalità con la dovuta onestà intellettuale, può venire alla luce un’identità nazionale che ripristina la cultura del diritto e dell’umana com-prensione così dileggiata, violata e svuotata di senso in questi tempi di mistificazioni.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 08:54 da Evelina Santangelo


Se c’è una cosa che oggi ha un senso davvero difendere è proprio «l’etica delle parole», non le parole-etiche, ma le parole che faticosamente cercano di «dire», «condividere», «interrogare» la realtà della esperienza umana fin nel cuore della più urgente contemporaneità.
Questa disponibilità a fare ognuno la propria parte, a lavorare in scienza e coscienza (nella più vasta e profonda accezione di questi termini) credo sia davvero un punto di partenza molto molto significativo.
Evelina

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 08:54 da Evelina Santangelo


Certo, Massimo, che puoi pubblicare un brano del romanzo, se credi possa contribuire a inserire un altro tassello alla discussione e al confronto.
Evelina.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 08:58 da Evelina Santangelo


Vorrei, in particolare, ringraziare Simona Lo Iacono. È proprio questa idea di diritto, così umana, così perplessa dinanzi alla complessità dell’esperienza esistenziale che dà, a mio parere, la misura di cosa sia davvero uno «stato di diritto» e di quanto oggi si sia lontani da quella grande conquista di civiltà.
Evelina

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:01 da Evelina Santangelo


Gentile Evelina Santangelo, ho letto il suo bellissimo libro, se lei mi dà il consenso inserisco il riferimento anche al suo libro sul forum di facoltà.
Sabina

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:28 da Sabina Corsaro


@Carla e a Miss iuris:
mie care, è così bello che abbiate lasciato traccia delle nostre quotidiane difficoltà nelle aule di giustizia.
Difficoltà di donne (con bimbi a casa da accudire, in attesa di noi, del nostro petto) e difficoltà di avvocati, di magistrati.
Ed è così caldo, per me, sapere che al di là dei ruoli (e dei “copioni” dico io, mescolando sempre arte e diritto) ci guardiamo. Ci consoliamo.
A volte si pensa che in un’aula di giustizia si possa trovare una soluzione definitiva.
Che la sentenza in nome del popolo italiano chiuda con la forza di un atto di imperio un problema. Una vita. Una ferita.
Lo si spera perchè l’uomo, anche quando si appella alla formalità della norma, non smette di essere un ostinato e pietoso sognatore, un fragilissimo viandante.
Ma non è così.
Il processo è un approdo. Ed è un viaggio.
Per questo lo paragono al romanzo. All’esilio.
Perchè iniziare un’istruttoria equivale a fare piccoli passi verso la verità. A svelarla teste dopo teste.
Non è purtroppo una verità completa. Anzi. E’ frammentaria, limitata, processuale.
Lascia fuori molte verità. Cancella (deve purtroppo cancellare) molti sguardi.
Ma tutto ciò che il processo non raccoglie, le briciole che lascia, i motivi che non dice o che non può dire, ecco.
Quello è il luogo della letteratura.
Per questo diritto e letteratura sono sorelle.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:31 da simona lo iacono


@Evelina: mia cara, sono io che ringrazio lei.
Vorrei proporle la domanda ce le ho fatto più su. Chiederle di parlarci del doppio (bellissimo) sguardo che ha dato alla sua storia.
Una voce che viene da fuori. Una che parla da dentro una terra.
Un uomo che vuole approdare. Un altro che non se ne vuole andare.
Ci parla di Alì e Gaetano?

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:34 da simona lo iacono


@All’avvocato Pietro Aglianò, compagno di viaggio:
non ho mai sentito una definizione di clandestinità più bella della sua, mio carissimo avvocato: “clandestini del paradiso”.
Nè ho mai udito una sintesi migliore dei rapporti tra giustizia umana e giustizia divina.
Grazie di cuore….ci vediamo in udienza!

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:36 da simona lo iacono


@Sabina:GRAZIE!!!!
Vado a vedere!
Un bacio grandissimo

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 09:36 da simona lo iacono


Grazie per questo bellissimo spazio e per le testimonianze che ho letto. Il buono opera in silenzio, nascosto. E’ bello che venga fuori per alimentare la speranza di tutti. Grazie.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 10:24 da Vera


Complimenti Simona per il tema del tuo racconto e per come l’hai trattato, si coglie nelle frasi che ho letto su questo blog. Spero che abbia la massima diffusione e che faccia luce nelle coscienze e negli iter legislativi.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 13:14 da Tosca Pagliari


Gentile Sabina Corsaro,
certo che può inserire un riferimento al libro nel forum di facoltà.
Evelina

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 14:09 da Evelina Santangelo


Il doppio sguardo… il doppio destino…
Direi che gran parte di quel che ho cercato di raccontare sta in una riflessione che è andata man mano definendosi dentro di me mentre scrivevo il romanzo, e cioè che: strapparsi di dosso la propria terra per andare altrove, costretti da circostanze drammatiche, dall’impossibilità a restare o piuttosto dalla ricerca di opportunità precluse nella propria terra (come accade a molti nostri connazionali, anche di altissima formazione culturale, vedi la cosidetta «fuga dei cervelli») è sempre il segno di un intimo, più o meno sotterraneo fallimento, o meglio, il segno di una violenza subita.
Una cosa infatti è «scegliere» di andare altrove tutt’altra cosa è «essere costretti» (per le più svariate ragioni a farlo).
Già questo mi sembrava un punto di incontro tra chi approda straniero nelle nostre terre e chi è costretto a farsi straniero…

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 14:30 da Evelina Santangelo


…Su questa idea se ne è poi innestata un’altra, e cioè che si può essere «stranieri» in casa propria, e lo si è profondamente, quando non ci si riconosce più in un modo di essere e di pensare, fatto di accomodamenti, pregiudizi, luoghi comuni… arroganza… mistificazione… modernità posticcia… di seconda e terza mano… Oggi, non solo in Sicilia, ma in Italia, mi sembra che troppi vivano questa condizione: troppi cioè non riescono più a riconoscere nei modelli culturali prevalenti e pervasivi che dovrebbero rappresentarli o rappresentare questo nostro paese…
Anche questo accade a Gaetano: «se vuoi restare, te ne devi andare», infatti dice a sé e ad Alì, devi prendere cioè le distanze da tutto ciò in cui non ti riconosci perché ti sembra offenda principi fondamentali come l’autodeterminazione e il diritto: al lavoro, allo studio, a una vita dignitosa, ad avere aspirazioni e non doversi accontentare, che è poi il modo più subdolo di sottrarre ai giovani, come Gateano, il futuro… (in Sicilia come in Italia, oggi)

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 14:36 da Evelina Santangelo


In ultimo… ho a lungo riflettuto su quel che accade a molti clandestini e stranieri che arrivano sulle nostre coste: sono sospinti dal sogno di un «altrove» che, per molti di loro, non arriverà mai (visto che spesso sono costretti a vivere fuori dal «diritto», negando se stessi e il loro nome, come Alì).
Ecco, ho l’impressione che molti giovani oggi (dovunque in Italia, nelle province d’Italia, nei sobborghi d’Italia… e forse anche in gran parte di questo Occidente malato, in gran parte di questo Medio e Lontano Oriente non meno malato… si pensi all’India dei sobborghi e dei call center, ad esempio, di cui narra magnificamente «The Millionaire»…) vivano questa condizione di «clandestinità», sognando un «altrove» che per molti di loro non arriverà…
Evelina

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 14:47 da Evelina Santangelo


Mia cara Evelina,
sai che questo esilio di cui parli, da se stessi, da ciò in cui si spera, persino da ciò che gli altri si aspettano da noi, mi ha fatto pensare all’esilio di Dante?
Guarda come sono moderne le sue parole e quel suo andare “giù per lo mondo sanza fine amaro…
—–
Giù per lo mondo sanza fine amaro
E per lo monte del cui bel cacume
Li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel ches’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume…

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 15:01 da simona lo iacono


Eh sì…
però… Dante aveva qualche certezza in più… un’idea chiara di ordine del mondo e del cielo… l’umanità certo allora era non meno fragile… e, di questa fragilità, Dante racconta magnificamente…
Evelina

(Ps: purtroppo per oggi devo staccare… magari, se riesco, mi riconnetto stasera)

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 15:48 da Evelina Santangelo


Posso intervenire solo al volo.
Lo faccio per ringraziare tutti per i nuovi bellissimi commenti.
Grazie davvero!
Tornerò (credo) in tarda serata.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 18:55 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per ringraziare Evelina per queste belle parole: mi sono convinta che solo da luoghi come questo dove il dibattito si fa concreto e davvero plurale, dove ognuno mette in gioco se stesso, la propria esperienza, la propria professionalità con la dovuta onestà intellettuale, può venire alla luce un’identità nazionale che ripristina la cultura del diritto e dell’umana com-prensione così dileggiata, violata e svuotata di senso in questi tempi di mistificazioni.
Grazie mille, Evelina.
E grazie a tutti coloro che contribuiscono a rendere questo spazio un luogo dove “il dibattito si fa concreto e davvero plurale” nel rispetto reciproco.
Grazie mille.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 18:58 da Massimo Maugeri


Questa è la storia di Angelo, ma mi chiedo quanti Ageli ci siano a questo mondo, quanti bambini privati dell’infanzia, senza più genitori, senza più casa e senza futuro.
Il discorso dell’immigrazione, di questo flusso di disperati che fugge nella speranza, spesso vana, di una vita migliore è purtroppo un discorso non di diritto, ma politico, è il frutto di una società regolata dall’interesse di pochi che per il potere e la ricchezza non guardano in faccia nessuno. Fomentano guerre, usano gli esseri umani come soldati, come strumenti di piacere e, sempre, come sudditi alle loro complete dipendenze.
Sono passati più di duemila anni dalla nascità di Gesù Cristo e pressochè nulla è cambiato, tanto che verrebbe da pensare che la teoria dell’evoluzione sia incompleta, perchè nell’uomo è rimasta, tendendo in certe epoche a prevalere, quella bestialità che gli è propria.
Che fare?
Ho letto alcune proposte, più o meno condivisibili, ottime negli intenti, irrealizzabili nella pratica.
L’uomo deve rivedere assolutamente il suo concetto di vita e deve riscoprire l’unica autentica ricchezza: l’amore.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 22:13 da Renzo Montagnoli


E’ una storia davvero bella questa che ci hai regalato, Simona, soprattutto perché non è di quelle costruite a tavolino dosando gli ingredienti giusti per far presa sui lettori: non c’è il rischio (il brivido?) dell’invenzione, né il tentativo di mistificazione che può rendere accattivante una pagina scritta, ma la realtà pura e semplice, un fatto – non uno dei tanti – accaduto in un’aula di giustizia che grazie alla tua penna (al tuo sogno?) è stato sottratto alla labilità della chiacchiera e fermato nel racconto che ci ha resi partecipi di quanto accaduto tra il clandestino e il suo giudice. Un giudice donna, una di quelle professioniste che non smettono di essere madri, che sanno conservare uno sguardo limpido nonostante la stanchezza, che sanno intravedere il sogno che traspare dagli occhi di un ragazzo e si pongono “amorosamente” all’ascolto. E’ questo il segreto, Simona: l’amore che si mette in quello che si fa. Perché ci vuole amore per captare certi segnali, per ignorare il tramestio oltre la porta chiusa, per dimenticare la calura della controra, per dare un’opportunità di parola a un essere considerato meno che niente dalla burocrazia. Un’altra opportunità. Quella che talvolta il destino – o il Cielo, a seconda dei punti di vista – ha la grazia di riservarci mettendoci nelle mani giuste al momento giusto. Il giudice Lo Iacono ha permesso ad Angelo di raccontarsi e, raccontandosi, rendere manifesto un sogno. Perché coi sogni è così: sono irrealizzabili fino a quando non li definisci, fino a quando non li identifichi con le parole. E non con le parole qualunqui. E’ la scrittura che dà dignità all’esperienza, che dà senso ai dettagli, che attribuisce una logica a fatti apparentemente sconnessi. E’ la scrittura, soprattutto, che segna il confine tra ciò che svanisce e ciò che resta. E che guarisce. Che rende sopportabile il dolore. Che dà senso ai giorni che rimangono da vivere quando si è senza famiglia, senza casa, senza terra, senza un luogo dove fermare i propri occhi per guardarsi dentro e riannodare i fili della propria esistenza.

la che dovrebbe accadere in un’aula di tribunale quando . Quello che la dottoressa Lo Iacono – disponendosi amorosamente all’ascolto – ha dato ad Angelo è stata un’altra opportunità.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 22:30 da Tea Ranno


naturalmente le ultime due righe sono un refuso da non considerare

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 22:34 da Tea Ranno


È vero, caro Renzo.
Chissà quanti Angeli ci sono a questo mondo.
Tu domandi: che fare?
Difficile rispondere. Di certo il problema è anche di natura politica, non c’è dubbio.
Poi, però, alla fine, tu stesso fornisci una risposta. “L’uomo deve rivedere assolutamente il suo concetto di vita e deve riscoprire l’unica autentica ricchezza: l’amore.”
Credo sia quella la strada. Ed è una strada che ciascuno di noi può percorrere per proprio conto. Senza aspettare che siano gli altri a camminare per primi.
In fondo è quello che ha fatto l’avvocato Carla. È stata lei a raccogliere Angelo. E l’ha fatto da sola, di sua sponte (e senza nulla a pretendere in cambio). Così come è stata Simona a dare udienza a entrambi… aprendo occhi, cuore e codici.
Sì, Renzo. Dobbiamo riscoprire quell’unica autentica ricchezza. E dobbiamo riscoprirla con chi ci capita dinanzi. Nel corso della nostra quotidianità.
Sarebbe una piccola grande rivoluzione.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 23:00 da Massimo Maugeri


La stessa cosa traspare anche dal commento dell’amica Tea Ranno (qui sopra).
Tea ritorna anche sulla questione del potere taumaturgico della parola (e della scrittura): coi sogni è così: sono irrealizzabili fino a quando non li definisci, fino a quando non li identifichi con le parole. E non con le parole qualunque. E’ la scrittura che dà dignità all’esperienza, che dà senso ai dettagli, che attribuisce una logica a fatti apparentemente sconnessi.
Perfettamente d’accordo, cara Tea.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 23:03 da Massimo Maugeri


Per il momento chiudo qui.
Auguro a tutti una serena notte.

Postato mercoledì, 11 marzo 2009 alle 23:18 da Massimo Maugeri


“E dobbiamo riscoprirla con chi ci capita dinanzi. Nel corso della nostra quotidianità.” Sono d’accordo. Pare banale, ché dovrebbe essere norma, eppure non lo è tanto come può apparire. Una rivoluzione diventa grande quando parte dal piccolo, dal minuscolo. L’essenziale è trovarlo in noi e ancor più importante applicarlo ai nostri momenti. Giorno per giorno, attimo per attimo. Non è facile, ma è possibile. Attraverso l’amore. Sì. Dobbiamo provarci.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 08:49 da renata maccheroni


Cara Tea,
il potere della parola (la parola che salva, la parola che resta, la parola che testimonia e si oppone alla morte)è alla base anche dei rapporti tra letteratura e diritto.
Voglio riportare qui di seguito alcuni brani di SALVATORE ATTA, gurista e scrittore, spentosi negli anni settanta dopo avere scritto la storia del diritto e aver commentato con un’opera monumentale i codici di procedura civile.
Dopo la sua morte si scopriì che era un grande romanziere la cui incessante attività di riflessione fu incentrata sui rapporti tra parola e norma, tra mistero del processo e mistero della vita.
Era figlio di notaio, e conosceva i rituali di noi pubblici ufficiali per averli odorati tra le stanze del padre fin da bambino.
La collazione di un documento, la sottoscrizione, l’incontro con l’altro, erano per lui ammantati di sacralità, perchè in essi si celebrava la più alta delle funzioni di un uomo di legge: il servizio all’uomo.
Al suo dolore. Alle sue necessità.
In questo brano che vi riporto, tratto dagli atti di un convegno notarile, egli ricorda l’opera del padre notaro come quella di un collaboratore di un bisogno altrui.
—-
“… lo spettacolo della parola che nasceva dall’incerto, renitente, spesso litigioso volere, era per noi quotidiano, se pur non era talvolta una parola morente che il padre raccoglieva e rendeva quasi immortale: poiché davanti a Lui sono passati uomini e generazioni, ciascuno col suo bisogno di vita, ciascuno chiedendo al padre l’aiuto e la collaborazione
in un’opera di vita …”

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 10:15 da simona lo iacono


E ancora…ecco le parole sul “mistero del processo, e del diritto e della norma” come specchi del mistero della vita.
Ed ecco la commistione, nell’uomo di legge, tra parola che documenta e parola che – scrivendo – fa suo l’incontro con l’altro.
La sintesi di questo incontro è l’atto pubblico, la sentenza.
Ma è attraverso la parola, e la sua carica vitale, che viene gettato il ponte tra le due umanità.
A tal punto che è il pubblico ufficiale (colui che in apparenza detiene un potere ) a farsi servitore, ministro del’altro.
Ecco il cambiamento su cui molti di voi si interrogano.
Ecco la risposta.
Il ribaltamento dei ruoli. Il ribaltamento dell’ottica.
La provocazione: il giudice, il notaio, il pubblico ufficiale non avrebbero senso e significato nel mistero dello Stato, e del processo , e della vita, se non prestassero un servizio.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 10:28 da simona lo iacono


“…Nel corso delle mie meditazioni giuridiche mi è accaduto tante volte – forse troppe volte – di arrivare alla soglia di una porta sulla quale stava scritto: mistero.
Direi anzi che tutte le mie meditazioni si sono risolte in contemplazione di misteri.
Ho incominciato col mistero del processo; poi ho trovato il mistero della norma; da ultimo, il mistero del diritto.
Pensate al notaio o al giudice che raccoglie una voce: un uomo che parla, un uomo che scrive. Nient’altro. Parola e scrittura sono le primordiali manifestazioni dello spirito: e gli albori dello spirito ci mostrano l’uomo che scrive davanti all’uomo che parla, l’uomo che, sapendo scrivere cioè fermare con arcani segni le parole senz’orma, è già un ministro di colui che parla.
Attraverso un arco immenso, che sorvola migliaia di anni, l’uomo di legge testimonia ancora nella scrittura l’avvento dello spirito.
Certo però la scrittura che si mette al servizio della parola, e perciò spesso la domina, non basta a spiegare l’incontro: esprimendoci in termini moderni, la formazione del documento non è l’essenza né la risultante, se non materiale, dell’incontro.
La storia del resto ci mostra degli atti tipicamente orali, come il testamento, rispetto ai quali il documento aveva un valore puramente accessorio, se pur si formava.
La verità è che a un certo punto il rapporto tra parola e scrittura si capovolge, ed è la parola che domina la scrittura: perché di questo si tratta, non di scrivere la parola, ma di far nascere la parola, e la parola non nasce solo dall’uomo che parla, ma insieme e in un atto anche dall’uomo che scrive….”
SALVATORE SATTA

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 10:29 da simona lo iacono


Per chi vuole conoscere e approfondire l’opera di giurista e scrittore di SALVATORE SATTA (più su è saltata una “esse” e ho scritto: ATTA…), ecco il link:

http://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Satta

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 11:09 da simona lo iacono


Tra le più importanti citazioni di Salvatore Satta sul potere:
“Perché il potere, contro le apparenze, si manifesta più col dare che col togliere…”
(“Il giorno del giudizio”, Adelphi)

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 11:16 da simona lo iacono


“Non di scrivere la parola, ma di far nascere la parola” Riflessione preziosissima (la ringrazio dottoressa Lo Iacono per averla citata) che va al di là del mero gesto e si focalizza sull’atto di “fusione” uomo/parola, sulla creazione della scrittura, della sua anima. Perciò le parole che leggiamo debbono avere fondamenta, basi e non vagare sopra il vuoto. Intorno, accanto, sotto alle parole c’è il loro senso, il senso che dà loro l’uomo, quindi la vita. La testimonianza di S. Satta è vitale, dunque indispensabile.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 11:58 da renata maccheroni


ieri, dopo aver letto il racconto di simona, ero talmente emozionato che ho sentito il bisogno di comunicarglielo subito…
” cara simona, ho letto il tuo racconto da massimo ed alcuni commenti e sentivo l’urgenza di comunicarti l’emozione che ho provato leggendo questa
storia drammatica così carica di umanità;
questo è un brutto periodo dove si rischia di perdere il senso delle
cose e queste vicende umane così piene di vita dovrebbero essere
comunicate alle persone che stanno perdendo
la fiducia nel prossimo( a volte capita anche a me) e a tutte
quelle che sbraitano senza riflettere contro chi – non
dimentichiamocene- ha un volto ed è un essere umano come noi, con le
nostre stesse esigenze e i nostri medesimi sogni ( forse i suoi sono
un po’ più modesti)
la pianto qui e ti abbraccio, ciao simona e grazie ancora per
l’emozione che mi hai dato
stefano=

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 12:28 da stefano


Cara Simona, andrei ancora oltre: prima della norma, prima della regola codificata, prima dell’esperienza che diventa regola, prima della consuetudine che si trasforma in disposizione imperativa – dunque comando che impone a coloro che appartengono a un gruppo il rigore del diritto – prima della necessità di attribuire a qualcuno il potere di dirimere controversie (dunque di incidere sulla vita di una persona – ancora oggi in certi Paesi – o sulla sua libertà), credo che il mistero più grande stia nell’atto di tradurre in parola l’evanescenza del pensiero. Tradurre, cioè, in qualcosa di intellegibile e di logicamente organizzato, un’intuizione, un’emozione, una sensazione, un bisogno, un desiderio. E’ da questo primordio che poi si sviluppano le implicazioni successive: parola parlata, parola scritta, parola necessaria, parola disubbidiente, trasgressione, rivolta, guerra, pace, clandestinità, sogno…
Far nascere la parola, sì, ma farla nascere come espressione di un percorso che parte da un sentire, da una percezione del sé che si confronta con l’altro e col mondo. Partire dalla parola per andare a ritroso alla ricerca di un pensiero fondato e fondante. E dalla parola scritta per dare dignità di forma – e forma eccellente – a quella evanescenza che in realtà è corpo e sostanza. Perché è vero: quando un uomo riceve il testamento di un altro, quando ne raccoglie l’ultimo fiato e lo trasforma in riga cogente per quanti restano, che cosa fa? Accoglie in sé l’altro e si fa strumento per renderne definitiva la volontà, accoglie una volontà fatta parola e la trasforma in una parola che diventa “legge”. Non solo: partecipa di una frangia di vita, perché nelle parole di uno che dispone – per esempio – delle sue ultime volontà c’è sempre un riepilogo, un far di conto. Ed è qui che il diritto sfonda la porta della letteratura. Mi sembra…

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 13:13 da Tea Ranno


Mio carissimo Stefano.
Grazie di cuore.
Con gioia segnalo a tutti il tuo lucidissimo racconto su un altro clandestino:
http://www.stefanomina.blogspot.com/

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 13:21 da simona lo iacono


Mia carissima Tea,
hai colto perfettamente lo spirito delle parole di Salvatore Satta.
Nel consegnare un atto (così come una vita) all’uomo di legge, mettiamo nelle sue mani il nostro spirito.
La nostra storia.
E questo è un atto certamente antecedente la normazione.
La regola, poi, si fa pietoso tramite di questo passaggio.
Ma nello scambio tra uomo che dice (il teste, l’imputato, la parte) e uomo che ascolta e trascrive (il notaio, il giudice,il pubblico ufficiale) ciò che balza, repentina, dolentissima, commossa, è la traccia del suo mistero.
Ti faccio un esempio.
Una volta, durante un processo, dovevo raccogliere la testimonianza di una vecchietta in fin di vita, residente a Pachino.
Poichè stava molto male, il tribunale aveva concesso un incidente probatorio (ossia un anticipo della sua deposizione, poichè attendere i tempi dell’istruttoria ordinaria voleva dire rischiare che – nel frattempo – venisse a mancare).
Inoltre, invece di ascoltarla in tribunale mi recai personalmente a Pachino, perchè le sue condizioni di salute non le consentivano un viaggio.
Arrivai nella sua casa con i cancellieri e gli avvocati al seguito, e fui accolta da un odore buono di pasta frolla e forno.
La figlia, che la assisteva, mi disse che la madre, dal letto, aveva molto insistito che fossimo accolti tutti come ad una festa.
Trovammo crostate e caffè, cannoli di ricotta, scorze d’arancia imbevute di cioccolato e morbidissimi geli di mandorla.
Io mi avvicinai al letto della signora e quella mi prese la mano come si fa con una figlia.
Sussurrai: “Signora, grazie. Perchè si è disturbata così?”
Lei mi rispose: “Perchè le devo dire una parola”.
Io chiesi:”Che parola?”
E lei rispose :”Questa”. E si fece un gesto di croce.
Non ci fu verso di strapparle altro dalla bocca.
Ad ogni domanda dell’istruttoria fissava il vuoto. Mi stringeva la mano. Sospirava. Poi si segnava con quel gesto di croce.
E’ stata la testimonianza più bella che abbia mai raccolto.
Con quell’unico segno della mano, la signora mi consegnava tutta la sua amarezza su un’antichissima faida tra fratelli, molti dei quali già morti, i cui figli si accanivano sull’eredità giacente. E con quella festa mi suggeriva un ultimo gesto di riconciliazione.
L’avvocato della controparte s’indispettì e sollevò un’eccezione: “Ma giudice, la teste è reticente! Ricordiamole il giuramento! Ammoniamola a dire la verità”.
“Ma avvocato, risposi, sta già dicendo la verità”.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 13:53 da simona lo iacono


Gli angeli di questo mondo.
Tre persone, prese ad esempio: Simona, Carla ed Evelina Santangelo, sono state capaci di mutare questo mondo, di rubargli un po’ della sua cattiveria e renderlo desiderato.
Hanno seguito i loro istinti materni e poi eseguito con determinatezza e coraggio ciò che il loro cuore ha dettato.
È solo nel nostro piccolo che possiamo donare al mondo il suo aspetto migliore: quello di essere anche accogliente e generoso.
L’amore rimane, però, ancora, e credo che lo sarà sempre, una visione di un processo evolutivo il cui scopo è permetterci di ristorarci dal peso del male, per poi proseguire di nuovo con il suo marchio malefico e distruttore.
L’amore, proprio per le caratteristiche che lo distinguono, non riuscirà mai a mutare la nostra esistenza definitivamente. Il mondo, così com’è percepito da noi, abbisogna della forza regolatrice e determinatrice del potere per tenersi insieme; senza di essa sfocerebbe nel caos e distruzione.
È qui che giace da sempre il tranello nel quale cadono i precursori del bene, nei loro sforzi di poterlo instaurare e con esso regolarlo, non distinguendo che esso è ancora troppo arcaico e retrogrado.
Chi agisce per l’amore e ne fa il fondamento della sua vita, deve anche tener conto di trovarsi in un conflitto anche grave con gli uomini del potere, anche loro necessari per mantenere una forma di ordine.
Il giovane, chiamato da Simona simbolicamente nella forma poetica Angelo, ha ricevuto una speranza di vita buona, a lui è stata indicata la via dell’amore, che concede senza pretendere e solo sperando nei buoni risultati.
Speriamo che da adulto Angelo sia anche disposto a ricambiare la fiducia concessagli, di modo che l’intervento coraggioso e benevolo dei tre angeli sia confermato e sia sollecitata una sua continuazione.
Il seminatore che cura il suo campo con devozione e fiducia lo fa nella speranza di cogliere solo frutti buoni, ma con loro crescono anche quelli cattivi, affinché egli possa distinguere tra di loro e scegliere.
In effetto sta a ognuno di noi la scelta da quale parte stare e agire, affinché un minimo d’equilibrio che garantisca pace e armonia possa formarsi.
Non mi resta che elogiare gli intenti di queste tre persone, che con le loro azioni mi confermano come sia possibile dare alla propria vita un senso migliore, non per riceverne onorificenze, ma per quel senso caldo e impetuoso che, una volta entrato nel nostro animo, non ci lascia più e ci incita a continuare come se fosse voluto dall’Alto.
Cari e affettuosi saluti
Lorenzo

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 14:10 da lorenzerrimo


Perfettamente d’accordo. Sono gli atti antecedenti la normazione che conservano quel tanto di irregolarità che è propria della vita: per quanto lucido e specchiante (in linea di principio) si sforzi di essere il legislatore, tanto più varia e sporca e avviticchiata a elementi oscuri è l’esistenza di ognuno. Ed è qui che il giudice si trova a dover mediare, qui che lo scrittore affonda le mani per “pescare” storie, come quella molto bella che hai appena raccontato: “Sta già dicendo la verità” risponde il giudice. Ma quale verità? La sua. Che è una verità di pace. E poi? Ci sono tante verità quanti sono i protagonisti di una vicenda: narrativa, giudiziaria. Ci sono le parole e i silenzi. Quanto pesa un silenzio? Di quale valore è pregno? Quanta verità incarna? E quanto gli uomini di legge possono sondare nei silenzi per trarne verità che assomiglino alla Verità? E’ su questo che mi interrogo spesso: sul senso di un diritto che indaga la storia per tirare le fila di un discorso che sia “rassicurante”, che dia – per esempio – a un clandestino il foglio di via perché pericoloso e ladro e stupratore… anche se poi nessuno sa che si chiama Angelo, che ha un passato tremendo alle spalle, che ha un sogno… E le verità nascoste? E le omissioni? Le paure? Le bocche cucite? Non voglio impelagarmi in discorsi prettamente politici, anche se riflettere sul diritto presuppone una gran bella riflessione sul tentativo di mettere in discussione alcuni principii fondamentali. Quello che voglio dire è che dietro ogni parola ricevuta c’è un uomo – una donna – che ha il potere di aprirsi alla comprensione o di chiudersi totalmente proteggendosi dietro lo schermo della Legge. Dietro ogni pubblico ufficiale ci può essere un uomo (una donna) stanco che certi giorni non ce la fa ad ascoltare, o una donna (un uomo) stanca che invece ascolta; dietro la parola detta ci può essere innocenza o malizia, capacità di mistificazione, timidezza, paura… ci sono segni, dettagli, quelli che servono per schiudere altri canali di comprensione, quelli che impediscono ogni confronto. Poi c’è la parola scritta: quella che cristallizza e può trasformarsi in condanna, quella che lascia aperte nuove possibilità, che attribuisce altre opportunità. Insomma, anche nel rapporto diritto/letteratura, parola detta/parola scritta, etica e polica è tutto un guazzabuglio d’incertezze. Ma non potrebbe essere altrimenti. Appunto perché la vita è una biscia che sfugge tra le dita di chi vorrebbe cristallizzarla in un comma di legge. Ma questo non è – intendiamoci – un inno al disordine. Piuttosto la consapevolezza (amara?) che il diritto si ferma dove comincia l’uomo.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 14:47 da Tea Ranno


Cara Tea,
che spunto meraviglioso!
Il ruolo del silenzio, in un processo. I limiti tra diritto e vita. O gli ostacoli tra diritto e vita ( e quindi memoria, parola, racconto).
E’ una verità che sfugge persino a noi stessi su noi stessi.
E che nel processo come nel romanzo esige la collaborazione di “un narratore”…
Diceva Salvatore Satta:
“Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”. (p. 291 , Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano, 1979).
Ecco.
Le variazioni della parola e delle pause. L’interpretazione dei gesti. Dei momenti. L’evocazione di un silenzio che in Sicilia è gravido di mille altri significati, di no detti su sì, di minacce velate da sorrisi, di virtù che mascherano malizie, di doni che sono ruberie. Questa è la materia della letteratura: la vita che inganna. O la vita che rivela.
Il processo racconta i fatti.
Il romanzo racconta l’uomo.
Ne deriva anche che il giudice non esprime mai un giudizio sull’uomo, solo sull’azione che compie.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 18:26 da simona lo iacono


@Lorenzo: grazie infinite! Un carissimo abbraccio!

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 18:28 da simona lo iacono


Queste storie mi fanno star meglio, mi allontanano i pensieri tenebrosi che da un po’ di tempo si agitano nella mente, dove uomini lupi sbranano e straziano innocenti prede.
Fa piacere del resto che ci sia chi amministra la giustizia nel rispetto del diritto, ma con umanità, insomma che si possa incontrare un magistrato come Simona, sperando che anche molti altri suoi colleghi siano dell’idea che amministrare la giustizia sia soprattutto rendere giustizia a chi non l’ha mai avuta.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 18:38 da Renzo Montagnoli


@ Simona
le tue parole espresse qui sopra rivelano la natura indefinita dell’uomo, capace di compiere meraviglie ma anche infamie, di sostenere e sacrificarsi per la sua salvezza ma anche di riconoscersi nella sua natura selvaggia ed esserne soggiogato, posseduto.
Ne deduco che ognuno ha il suo destino nel quale doversi riconoscere e sperare nella sua salvezza finale, perché ci sarà sempre qualcuno che s’impegnerà per lui. (il qualcuno e lui sono un’entità divisa al nostro riconoscerla)
Un caro abbraccio
Lorenzo

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 20:09 da lorenzerrimo


Vi ringrazio ancora una volta per i nuovi bellissimi interventi

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 22:57 da Massimo Maugeri


@ Renzo
Scrivi: “Queste storie mi fanno star meglio, mi allontanano i pensieri tenebrosi che da un po’ di tempo si agitano nella mente, dove uomini lupi sbranano e straziano innocenti prede.”
-

È così, Renzo. Credo che abbiamo bisogno di sentire delle storie positive. E disapere che esiste del buono intorno a noi.
Esiste. Ed è doveroso metterlo in risalto, dargli spazio. Soprattutto in tempi difficili come questi.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 23:00 da Massimo Maugeri


Simona, hai scritto cose importanti.
Le citazioni di Satta sono bellissime.
Credo davvero tu stia costruendo – poco a poco – questa nuova poetica fondata sulla commistione tra diritto (processo) e letteratura (parola).
Brava!

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 23:02 da Massimo Maugeri


Bellissima, Simo, anche la storia della donna anziana che si segna (che usa il segno della croce al posto della favella). E il modoin cui tisei relazionata a lei.
Che fine ha fatto? Come si è conclusa quella storia?

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 23:03 da Massimo Maugeri


Tea Ranno ha scritto cose belle e interessanti.
Ricordo che – oltre a essere scrittrice della casa editrice e/o – è anche laureata in giurisprudenza.
Tempo fa abbiamo discusso su questo suo romanzo che vede per protagonista un magistrato:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/19/in-una-lingua-che-non-so-piu-dire-di-tea-ranno-recensione-di-simona-lo-iacono/
“In una lingua che non so più dire”.
Brava, Tea!

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 23:09 da Massimo Maugeri


Un saluto speciale a Renata e a Stefano.
Auguro una serena notte a tutti.

Postato giovedì, 12 marzo 2009 alle 23:09 da Massimo Maugeri


Caro Massi,
la vecchietta di cui vi ho parlato è morta un mese e mezzo dopo la sua testimonianza.
La lite ereditaria tra i suoi fratelli – per la quale ben sei famiglie da più di vent’anni hanno cessato di avere rapporti – è tutt’ora in corso in tribunale.
L’unica a conciliare la lite è stata la figlia che la assisteva. Quella che aveva adempiuto il desiderio della madre nel preparare la nostra accoglienza.
In tribunale quasi il 30% delle cause civili hanno ad oggetto liti familiari.
Il 52% riguarda separazioni personali tra coniugi e divorzi.
Il 90% di quest’ultima percentuale riguarda recupero crediti per assegni alimentari non pagati.
Infine, più della metà dei ricorsi riguardanti le contese tra famiglie vedono implicati dei minori.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 09:49 da simona lo iacono


Bellissima davvero la storia della vecchia che nel suo letto, in quel doppio movimento di intima adesione e supremo distacco dalla vita, si segna…
Da questo tipo di umane sospensioni (di grande intensità e sobrietà) si genera spesso la migliore letteratura… (quella che non si arroga il diritto di «spiegare la vita» ma cerca piuttosto di piegarsi ad ascoltarla, nel tentativo di coglierne le voci e le più svariate esistenze nella loro irriducibilità).
Evelina

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 10:03 da Evelina Santangelo


grazie simona per la segnalazione e per l’altra bella storia che hai voluto condividere con noi… scusa se lo faccio in ritardo simona, ma sono stato fuori per lavoro.
Un gran saluto anche al nostro caro massimo.
stefano

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 14:23 da stefano


Grazie per i nuovi commenti.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:49 da Massimo Maugeri


Be’, sì… la storia della vecchietta che si segna è davvero bella. Un po’ meno il prosieguo che ci ha tratteggiato Simona (sono tristissime le lotte intestine tra fratelli).

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:50 da Massimo Maugeri


Ho aggiornato il post (guardate su) invitando a partecipare al dibattito la scrittrice e poetessa Cristina Ali Farah.
Nata nel 1973 da padre somalo e madre italiana, Cristina ha vissuto a Mogadiscio dall’età di tre anni fino al 1991, anno dello scoppio della guerra civile, in seguito alla quale scappa dal suo paese con il suo primogenito; rifugiatasi in un primo momento a Pécs (Ungheria), rientra in Italia nella sua città natale (Verona) e in seguito si trasferisce definitivamente a Roma, nel 1997, dove ha altri due figli e si laurea in Lettere.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:52 da Massimo Maugeri


Nella primavera 2007 Cristina Ali Farah ha pubblicato il suo primo romanzo “Madre piccola” (Premio Vittorini – opera prima – 2008) per i tipi di Frassinelli. Il libro narra la storia di due cugine (Barni e Domenica) in esilio da una Somalia spezzata dalla guerra civile.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:53 da Massimo Maugeri


@ Cristina Ali Farah
Benvenuta a Letteratitudine, Cristina.
Ti ringrazio per aver accettato il mio invito. La tua voce si unisce a quelle che si sono già espresse in precedenza.
Ti chiedo di raccontarci un po’ di questo tuo romanzo “Madre piccola” e (se ti va e se ti è possibile) la tua esperienza personale riferita ai temi trattati in questo post: la “clandestinità” e il “potere (taumaturgico) della parola”.
Grazie, Cristina.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:57 da Massimo Maugeri


Nel frattempo (come ulteriore contributo alla discussione), Evelina Santangelo mi ha inviato un paio di brani tratti dal suo romanzo “Senzaterra”.
Li inserisco di seguito.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 20:58 da Massimo Maugeri


Senza frenare, Gaetano imbocca la strada sterrata. Sente le ruote impantanarsi nel guado del fiume che, in rivoli d’acqua fangosi, si fa largo tra un letto di sassi. – Primo! – urla, slanciando su il pugno. Carezza il serbatoio. – Bravo il mio Duc! – Pianta i freni, sgommando. Sente la moto premere pesante contro la gamba. Facendo attenzione, la solleva, l’appoggia a un masso. In scivolata sul pietrisco, si fa il sentiero sino alla spiaggia, che s’allunga gialla sotto la Torre appollaiata in cima alla collina, a sorvegliare il niente azzurro del mare. Si toglie le scarpe. Sprofondando nella sabbia ancora umida, si dirige verso la riva sconciata da cumuli d’alghe e pece. Guarda il barcone riverso su un lato a un paio di metri dalla costa. Il pezzo di prua, incastrato tra gli scogli affioranti sull’acqua bassa, che ondeggia quasi a voler di nuovo prendere il largo. Il fasciame sparso sul litorale. Si china, allunga la mano, prova a spingere verso il mare aperto una tavola che se ne sta a galleggiare in una pozza salmastra. La guarda tornare ostinata indietro portata dalle onde, che muoiono in rivoli e bave sul bagnasciuga.
Poi si decide. Risale la spiaggia di qualche passo, va a fermarsi davanti a un cumulo d’indumenti sfatti, abbandonati tra buste e bottiglie di plastica ai piedi della scarpata che s’inerpica verso le serre. – Cadaveri slogati… – si sorprende a mormorare. Distoglie lo sguardo. Fissa quello sterminio di sacchetti a brandelli infilzati agli stecchi. Sfilando una canna da sotto la sabbia, trattenendo il respiro, prova a toccare una cosa informe che pare… un avanzo di gabbiano, un’ala monca… o forse un lembo di camicia sfrangiato. Sussulta quando sente la punta affondare nel molle, tutto un tramestio tra il groviglio informe di stracci.
– Che? Ti pareva un morto?
Si gira.
– Un topo era… – fa l’uomo, sferrando un colpo di rastrello alla cieca, stanando l’animale, che sguscia fuori dalla cintola di un relitto di pantalone, annusando l’aria, e schizza su per la scarpata, perdendosi in un lampo tra i rovi. – Scappa, scappa… che la strata è curta… – dice l’uomo sarcastico. Poi indica quella roba disseminata intorno. – Arrivano ccà e allòrdano… e il Comune paga… – fa schioccare le dita, – … pì puliziari le fìtusarìe e la munnizza chi làssanu… – Poggia un gran sacco nero per terra, l’allarga. Inforca una manciata di stracci. Li molla dentro. Si asciuga con un fazzoletto il sudore che gli riga il collo. – Ora… c’era bisogno, dico io, di lassàri tutta ’sta munnizza? – Affonda di nuovo il rastrello. Tira via una scarpa da donna schiacciata sotto un sasso. Tenendola sospesa in aria, la butta dentro. – Una discarica addivintò ’sta spiaggia. Di tutti li loro robbi ’nutili… – Punta il rastrello su una cosa che pare un Corano, le pagine aperte, squassate, cotte d’acqua e di sale. – Puru libri si portano… E chi si nni fanno di li libri, dico io, in mezz’al mare… – si batte il palmo della mano sulla tuta da lavoro, corruga la fronte. – Dio-solo-lo-sa… – Poi rimane in silenzio. Scruta storto Gaetano sfogliare qualche pagina con la punta della canna, piegare il capo, seguire le linee lievi dei caratteri sospesi sui fogli, aggrediti da macchie di salsedine e grumi di sabbia.
– Ci capisci? – allunga il collo per intercettare la faccia di Gaetano, che fa no con la testa. – E allura… tempo perso… – alza le spalle, riprende a lavorare di rastrello e pala. Gaetano se ne sta ancora un po’ a sfogliare le pagine, finché non sente la punta affondare nella carta e strapparla. Sfila rapido la canna, prova a richiudere il libro, che rimane rigido, aperto a metà, a boccheggiare.
– Ma pò essiri mai che ’un si capisce nenti nenti… – L’uomo si china, socchiude le palpebre. Poi torna a drizzarsi. – Niente… arabo pare… – Fa leva con la pala sotto il Corano e lo mette dentro. – Muvèmuni, va’. Che, tra poco, si squaglia di caldo –. Afferra il sacco. Un rigurgito di ciarpame si riversa davanti ai piedi di Gaetano rintanati sotto la sabbia. – Tanto domani… la stessa purcarìa… – fa l’uomo lasciando quella roba a vegetare lì. – Muvèmuni, va’ – ripete, caricandosi il sacco sulle spalle – Un morto è… Pesante… – E si avvia verso il camioncino dei rifiuti posteggiato al fresco di un albero in fondo alla spiaggia.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:01 da Da SENZATERRA (Einaudi, «L’Arcipelago», 2008), pp. 57-59


In cucina trova la tavola ancora apparecchiata: il piatto piano poggiato a mo’ di coperchio a tener calda la cena, le posate allineate su un lato, i due bicchieri sistemati sull’altro, e più in là, la piccola brocca del vino di cristallo finto che riflette la luce al neon dell’ombrellino di ceramica bianca appeso al soffitto. – Zia Concè… – mormora Gaetano a fior di labbra, pervaso da un senso d’intimo sollievo, o conforto. Scostando un po’ il piatto, scopre la minestra ridotta a una poltiglia informe, la superficie compatta attraversata da tante piccole crepe. Fa per buttarla nella spazzatura, poi l’infila nel vano più basso del frigo, accanto alla frutta. – Domani si vede…
Nel silenzio immobile della casa, spegne la luce.
Muovendosi a tentoni, esce dalla cucina. Scorge il profilo fragile della zia adagiato sul lenzuolo di un bianco azzurrato, il respiro lieve. Socchiude piano la porta, s’avvia verso la sua camera. Lancia uno sguardo nella stanza del padre, che dorme supino, le gambe e le braccia aperte, penzolanti nel vuoto giù dal rettangolo del letto a una piazza. Scivola via nella sua stanza. Preme l’interruttore senza neanche doverlo cercare. Rimane per un attimo sulla soglia in contemplazione. – Tutto resuscitato pare… – Fa scorrere gli occhi sui contorni esatti delle cose nella luce che si spande uniforme dal centro esatto del soffitto. È ancora immerso in quella specie di stupore irragionevole, quando scorge sul letto una sacca rossa, sportiva, con in cima un biglietto: un mezzo foglio a righe di computisteria attraversato da una scritta rossa. La guarda come fosse una cosa capitata lì per caso, o per distrazione. Si avvicina. «Que-sto re-ga-lo te lo fa tuo pa-dre», sillaba, decifrando a fatica la grafia stentata e storta. Poi, nella riga di sotto, «Lo fazzo per te». In stampatello.
Seduto sul bordo del letto, ripiega il foglio, lo spinge in fondo a una delle tasche esterne della borsa. Adagia la sacca per terra. Spegne la luce.
Disteso nella penombra della stanza, se ne sta per un po’ a guardare quella forma bruna appena ravvivata da un sentore di rosso. Poi si decide, allunga la mano: tasta la trama della stoffa robusta, impermeabilizzata, le cuciture rifinite per bene, fatte per durare… Si gira, tenta di dormire. Tra le fessure degli occhi, scorge il muro infestato di ombre… alghe giganti che s’allungano sulla sua faccia, gli sciamano per tutto il corpo, lo tirano per poi mollarlo… Si drizza a sedere sul letto in preda a un’angoscia che lo spinge fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi su per le scale che s’avvitano fino al piano abusivo della veranda.
Tastando freneticamente i mattoni di tufo, cerca l’interruttore perso in qualche angolo del muro. Con le spalle contro la porta, inspira più aria che può nei polmoni e la libera piano, finché non sente il cuore allentare il ritmo, il sangue riprendere a fluire calmo.
Riluttante, si stacca dalla parete, va verso il computer sistemato in un angolo della scrivania e come immerso in una sua vita segreta, del tutto indifferente al disordine di libri e carte sparsi sul ripiano. Lo accende. Uno sfrigolio sintetico, un bip sincopato, d’arma spaziale, poi una specie vento, di calore elettromagnetico che gli invade le guance, mentre le pupille prendono a pulsare al ritmo dei dati d’avvio che si susseguono rapidi sullo sfondo cieco, come affiorando da un buco nero.
Prova un senso di liberazione quando davanti ai suoi occhi si spalanca lo schermo, il desktop azzurro punteggiato d’icone ordinate in una geometria rasserenante. Battendo rapido sui tasti, nel giro di qualche secondo è già immerso in quell’altrove aereo, dove andare e basta, scivolare sospinti da una frenesia, una voglia selvaggia di spingersi fin lì, anche lì, in quel sito dove le pupille s’incagliano, bloccando le dita sulla tastiera. Nell’home page, un’immagine che non si aspettava. Una foto di gruppo, del team di meccanici specializzati. Ci clicca sopra. L’ingrandisce. Scorge suo padre, uno che sembra proprio suo padre, seminascosto in seconda fila, anche lui in tuta nera bordata di giallo, il collo della maglia alto fin sotto il mento, le braccia conserte… un guerriero. Lo sguardo dritto all’obiettivo. Irriconoscibile quasi.
Batte l’indice e il medio sui tasti, chiude la pagina, il collegamento, il programma. Torna alla trasparenza azzurra del desktop che gli invade il viso. Si alza.
Ruotando piano la maniglia della porta a vetri, esce sulla terrazza. Abbassa gli occhi verso il caotico ammasso di tetti e cavi volanti e pensiline abusive, punteggiato di cisterne bluastre e grigie. Ne scorge una abbandonata proprio sotto la terrazza, su una copertura, qualche metro più in là: il bordo sfilacciato, le maglie d’amianto ridotte a una ragnatela inerte. – Eternit beviamo, – mormora a fior di labbra. Poi allunga lo sguardo verso il profilo nero del Calvario che si staglia in lontananza e incombe come un grosso dente aguzzo, sconciato in cima da un focolaio di carie. – Ma che terra è? Che paese è? Che gente siamo? – Scostandosi dal parapetto, scivola verso la scrivania. Svogliatamente si mette a scorrere le pagine del libro di Estimo lasciato aperto sul tavolo, la matita blu e rossa incastrata in mezzo. – E che dobbiamo stimare, – dice, con un sorriso amaro, poggiando la testa sulle pagine gonfie di sottolineature.
.
Suo padre lo trova così, con quelle labbra piegate appena in una smorfia, la testa sul ripiano del tavolo, immersa nel chiarore azzurro del video ancora acceso, le braccia abbandonate, penzolanti nel vuoto. – Tanì, – gli sussurra, toccandogli con una mano la spalla. Lui alza il capo, fa vagare lo sguardo intorno, lo ferma sui capelli scarmigliati e incredibilmente grigi del padre, sulla faccia pallida. – Comu fazzu… – biascica in quel suo dormiveglia, agitato. – Comu fazzu…
Suo padre gli poggia il palmo della mano sulla testa, coprendogliela fino alla nuca. Con due dita accarezza quel neo di sua madre cresciutogli chissà quando tra la radice dei capelli: – Va cùrcati, Tanì. Dormi… – Prendendolo delicatamente da sotto le ascelle, lo tira su.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:03 da Da SENZATERRA (Einaudi, «L’Arcipelago», 2008) pp.92-95


Grazie mille, cara Evelina…

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:05 da Massimo Maugeri


@ Cristina Ali Farah
Raccontaci la tua esperienza al Premio Vittorini 2008, dove hai vinto nella sezione opera prima (te lo chiedo anche perché ero presente alla premiazione).

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:06 da Massimo Maugeri


Leggo da “La Repubblica” di oggi 13 marzo 2009:
“BARI – Era clandestina da alcuni mesi, per vivere faceva la prostituta e per paura non è andata in ospedale: è morta per tubercolosi polmonare avanzata…” I sanitari affermano che la donna era malata da mesi: una semplice visita avrebbe potuto salvarla.
***
Ringrazio ancora Massimo, Simona Lo Iacono, Christiana de Caldas Brito, Evelina Santangelo, Cristina Ali Farah, e tutti i partecipanti a questa discussione, i quali rendono l’Italia più bella, nonostante la brutalità dilagante.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:31 da Subhaga Gaetano Failla


Grazie a te, Gaetano.

Postato venerdì, 13 marzo 2009 alle 21:43 da Massimo Maugeri


noi seminiamo, ma non siamo i veri seminatori, è Qualcun altro che si serve di noi, guai se avessimo questa presunzione, a volte seminiamo non molto bene, ma è importante seminare sempre con la speranza e l’umiltà che sia Qualcun altro a raccogliere, a noi non è dato vedere su questa terra.
” l’amore è il solo fiore che cresce e boccia senza l’aiuto delle stagioni” Kahlil Gibran.
vi saluto tutti carla

Postato sabato, 14 marzo 2009 alle 09:36 da carla


Il mio capriccioso pc e giornate pienissime mi permettono solo ora di gustare il poetico racconto di Simona – Dio voglia che i giudici e i politici italiani giudichino e legiferino sempre senza fretta, senza pensare alla porta – e i vostri commenti.
@ Cristina Ali Farah: anch’io ero presente alla premiazione, insieme a Massimo e a un bel gruppo di Letteratitudiniani! Bellissimo recuperare le radici e fondamentale che a farlo siano delle donne: la donna è mater, è terra, pater è patria, che viene solo dopo.
Un caro saluto a Tea, che ci ha tratteggiato una figura di magistrato dolentissima e poetica nella sua “sconfitta”.

Postato sabato, 14 marzo 2009 alle 15:50 da Maria Lucia Riccioli


Stimolanti anche le pagine della Santagelo…
Questa Italia difficile, che non si lascia leggere ma su cui è bello scrivere, per capirla, per provarci almeno.

Postato sabato, 14 marzo 2009 alle 16:01 da Maria Lucia Riccioli


Un saluto a te, Carla. E a Maria Lucia.

Postato domenica, 15 marzo 2009 alle 00:09 da Massimo Maugeri


Verissimo il fatto che spesso ci si senta sempre stranieri… chi emigra lo è due volte, perché è straniero ormai alla terra da cui parte e straniero a quella in cui approda.
Verissimo il sentirsi stranieri a casa propria, il calpestare straniti e a disagio il suolo dei propri padri e respirare assenti l’aria materna, ammorbati entrambi dalla delinquenza, dal pressapochismo, dalla mancanza di speranza.
Spero che questa crisi – nel senso greco – ci inviti al cambiamento, ad occhi nuovi, a un rinnovato modo di agire verso noi stessi, gli altri, il mondo.

Postato domenica, 15 marzo 2009 alle 16:59 da Maria Lucia Riccioli


Un caro saluto a Piera Mattei… che ci narra anche lo straniamento degli animeli, nostri amici di viaggio nella vita.

Postato domenica, 15 marzo 2009 alle 17:07 da Maria Lucia Riccioli


Vi comunico un messaggio che mi ha fatto pervenire Cristina Ali Farah per email. Senza entrare nello specifico: si trova impossibilitata a intervenire per una serie di problemi (che per questioni di riservatezza non espongo) e si scusa.
-
Cristina, come ti ho già scritto per mail “non preoccuparti”. In bocca al lupo per tutto.

Postato venerdì, 20 marzo 2009 alle 17:19 da Massimo Maugeri


Saluta Cristina da parte nostra, Massi… dille che la aspettiamo qui sul blog a braccia aperte quando vorrà!

Postato venerdì, 20 marzo 2009 alle 22:55 da Maria Lucia Riccioli



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