lunedì, 9 marzo 2009
UN ANGELO CLANDESTINO
Non sempre capita di avere intuizioni giuste. A volte accade.
Accadde quella volta che, parlando con Simona Lo Iacono – scrittrice e magistrato – le accennai alla possibilità di elaborare una nuova poetica capace di unire letteratura e diritto, parola e processo. Leggendo le sue pagine ebbi la chiara percezione che quelle due identità di giurista e amante della letteratura potessero confluire dando vita a una voce ulteriore. Così mi venne in mente la frase: letteratura è diritto, letteratura è vita. Le proposi uno spazio, su questo blog, utilizzando quella frase come titolo. Accettò con entusiasmo.
Con altrettanto entusiasmo introduco la nuova puntata di questa rubrica a metà tra diritto e letteratura. Il tema trattato è attualissimo. Parliamo di clandestini.
Simona Lo Iacono ci racconterà, da par suo, una storia nata in un’aula del tribunale che dirige. Una storia che ha come protagonisti un ragazzo – un clandestino – e il potere taumaturgico della parola. Il ragazzo si chiamerà Angelo, anche se non è il suo vero nome. Un nome fittizio, ma evocativo, che forse sarebbe giusto tributare anche all’avvocato che ha seguito questo caso a titolo gratuito (e che parteciperà alla discussione con un nome altrettanto inventato).
La storia di Angelo è una storia forte, dura. Vedrete.
Ma vorrei andare oltre…
Vorrei tentare di moltiplicare le voci, alternare i punti di vista, mischiare storie vere a storie letterarie. Perché letteratura è diritto, letteratura è vita.
E allora mi viene in mente che la storia di Angelo è la storia di un senzaterra. Chi è più senzaterra di un clandestino? Un clandestino fugge dalla propria terra d’origine, dunque la perde; mette piede in una terra che non può accoglierlo in maniera regolare, dunque non la trova. Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.
Senzaterra è anche il titolo di un romanzo di Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice ed editor della Einaudi. Questo di Evelina è “un libro durissimo sul nostro Sud e su tutti i Sud: una storia di spaesati in cerca di una terra” che racconta – tra le altre cose – le vicende di clandestini che arrivano su barconi, si disperdono nelle campagne, si acconciano a lavorare per una mancia di euro nelle serre che, come «un mare finto», dilagano nel paesaggio. Così è stato anche per Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l’anonimato di quei tunnel di plastica. E proprio in un’azienda che produce ortaggi in serra s’incrociano i destini di Gaetano (un ragazzo di un remoto paese della Sicilia) e Alì. Una serra gestita da un boss della zone, don Michele, che apprezza i «bravi lavoratori» che non «parrano ammatula», che sanno cioè tenere la bocca chiusa. Le due vicende umane, quella di Alì e quella di Gaetano, finiscono così quasi per sovrapporsi, diventare una lo specchio dell’altra. Alì è un «senzaterra», in balìa del suo destino d’immigrato. Gaetano è uno che crede di averla, una terra, solo che, a poco a poco, sarà costretto a vedersela sfarinare sotto i piedi.
Ho invitato Evelina Santangelo a partecipare al dibattito per raccontarci la storia di questo suo libro, confrontarla con quella di Angelo e interagire con Simona e l’avvocato che tutela il ragazzo.
Un’altra voce di questo post sarà quella di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma. Ha iniziato a scrivere in Italia grazie al Concorso Eks&Tra. In antologie e on line ha pubblicato racconti e saggi. Da due anni svolge insieme a Livia Bazu, il laboratorio di scrittura con partecipanti italiani, romeni e francesi all’interno del progetto Grundtvig European Programme – Arte Terapia Sociale.
Queste voci, naturalmente, si mischieranno alle vostre. Il tema – dicevo – è quello della clandestinità e del potere della parola.
La parola è diritto, la parola è vita.
Di seguito potrete leggere il bel racconto di Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri
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LO CHIAMERÒ ANGELO
di Simona Lo Iacono
Lo chiamerò Angelo.
Gli darò un nome di ali e di cielo.
Ma è l’unica cosa che gli presterò. I suoi occhi rimarranno quelli con cui mi guardò quel giorno: acquosi. Sgranati come acini pesti. Le sue mani scure. Più bianche nei palmi. Addomesticate a trattenersi.
I denti perfettamente allineati sulle gengive nere. Sul sorriso perplesso.
Le parole a sillabe e a tratti. Poi un fiume. Come inabissate e affiorate da una feritoia imprevista. Balzate da un’ impensabile via.
Il giorno in cui conobbi Angelo l’udienza fermentava di voci. Sudore. Avvocati annoiati. Testi reticenti.
Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Il cancelliere non mi annunciò Angelo. Mi disse solo: dottoressa, quel ricorso.
Quale ricorso?
Quello del clandestino.
Ah, lo faccia entrare. E chiuda la porta.
Angelo entrò col suo avvocato nella stanza mezza scurata dalle tende pesanti. In una penombra creata per accecare il sole. Per rimediare alla controra di un martedì di fuoco in un precocissimo Maggio siciliano.
Mi si sedette davanti solo quando lo invitai a farlo.
Solite domande di rito: come ti chiami, da dove vieni, da quanto tempo sei sbarcato in Sicilia.
Angelo rispose senza interprete, in un italiano già ben scandito. Studiato.
Lo incoraggiai. Bravissimo, dissi. Parli bene l’italiano.
Ho fatto la scuola serale, dottoressa.
Allora raccontami la tua storia.
Abbiamo tempo? Si stupì Angelo.
Io ascoltai il tramestìo dietro la porta chiusa. Il cicaleccio crescente e spazientito. Pensai: no. Non abbiamo tempo. Ma risposi: tutto quello che vuoi.
Angelo sorrise per la prima volta.
Quando mi raccontò di come andò a scuola quel giorno, di come rientrò a casa, di come la trovò crivellata dalle bombe, ammassata in resti sui corpi dei genitori, non fece una piega.
Con uno sguardo asciutto mi spiegò che in Afganistan accade. Può accadere.
Quanti anni avevi?
Otto, dottoressa.
Abbasso gli occhi sul rapporto della questura. Leggo: rifugiato politico. Fuga in Iran senza permesso di soggiorno. Tre mesi di reclusione in un carcere iraniano per aver lavorato in nero. Perseguitato dai Talebani. Rimpatriato in Afganistan dall’Iran. Imbarcato. Approdato nei pressi di Portopalo di Capopassero.
E ora quanti anni hai?
Sedici, dottoressa.
Ce l’hai un sogno?
Come?
Un sogno. Cosa vuoi fare in Italia? Studiare, lavorare?
Voglio studiare.
Bravo. Ma cosa desideri veramente?
Non glielo posso dire , dottoressa.
Dimmelo.
Non può capire.
Tu dimmelo.
Voglio scrivere.
Mi illumino. Il cuore in galoppo. Chiedo: Scrivere cosa?
La mia storia.
Ecco. Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Era una di quelle giornate.
Ma quando dissi ad Angelo che anche io scrivevo, quando lo incoraggiai a iniziare la sua storia, a farmela leggere, a continuare a sognare, quando gli diedi il numero di telefono di un corso di scrittura, quando gli dissi: Angelo, scrivila per me, pensai no. No, l’umanità non stanca.
E no, non sono stanca.
L’avvocato della causa successiva a quella di Angelo entrò in udienza sbuffando. Imprecando. Facendomi capire che avevo dedicato troppo tempo al “clandestino”.
Sorrisi persino a lui.
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NOTE SULLE RECENTI DISPOSIZIONI NORMATIVE IN TEMA DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA:
Questo Gennaio è stato approvato dal Senato l’articolo 19 del disegno di legge sulla sicurezza che considera reato l’ingresso e il soggiorno illegale in Italia. Secondo la nuova norma, il clandestino che entra e risiede senza permesso di soggiorno in Italia non rischia il carcere, come stabilito inizialmente, ma sarà soggetto ad una sanzione amministrativa, compresa tra i 5mila e i 10mila euro.
Nella sua stesura iniziale, il testo prevedeva la reclusione da sei mesi a quattro anni e poneva, tra gli altri problemi, il rischio del sovraffollamento delle carceri, oltre a quello della mole di processi da tenere. Oltre alla trasformazione dell’immigrazione clandestina in reato, l’articolo 19 stabilisce ora anche la pena accessoria dell’espulsione che dovrà essere decisa dal giudice di pace. Se il clandestino non pagherà l’ammenda dovrà essere espulso.
Il reato di clandestinità era già stato inserito nel maggio scorso nel “pacchetto sicurezza”, ossia in quell’insieme di norme che hanno toccato diversi aspetti della sicurezza dei cittadini anche in altri campi (per esempio in materia di circolazione stradale e lavoro tra i più importanti). Ma la figura si era prestata a critiche dell’Unione Europea anche per l’aggravio del sistema carcerario e degli uffici giudiziari del Sud, più esposti geograficamente alla ricezione degli stranieri.
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AGGIORNAMENTO del 13 marzo 2009
Aggiorno il post annunciando la partecipazione al dibattito di Cristina Ali Farah, scrittrice e poetessa.
Nata nel 1973 da padre somalo e madre italiana, Cristina Ali Farah ha vissuto a Mogadiscio dall’età di tre anni fino al 1991, anno dello scoppio della guerra civile, in seguito alla quale scappa dal suo paese con il suo primogenito; rifugiatasi in un primo momento a Pécs (Ungheria), rientra in Italia nella sua città natale (Verona) e in seguito si trasferisce definitivamente a Roma, nel 1997, dove ha altri due figli e si laurea in Lettere.
Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola (Premio Vittorini – opera prima – 2008) il suo primo romanzo, edito da Frassinelli. Il libro narra la storia di due cugine (Barni e Domenica) in esilio da una Somalia spezzata dalla guerra civile. Allo scoppio della guerra, le cugine sono costrette a separarsi. Barni trova a Roma un faticoso equilibrio grazie al lavoro di ostetrica. Domenica, invece, sradicata e trapiantata in un nuovo contesto, inizia un peregrinare senza meta e solo dopo un decennio di vagabondaggio sente il desiderio di raggiungere l’amata cugina, proprio mentre è in attesa di un figlio. Barni, soprannominata “madre piccola”, le starà accanto mentre affronta questo delicato momento. Sarà proprio la nascita del bambino a far ritrovare ai personaggi quelle radici preziose che sembravano spezzate per sempre.
Tags: angelo, Christiana de Caldas Brito, clandestinità, clandestino, Cristina Ali Farah, einaudi, evelina santangelo, frassinelli, madre piccola, senzaterra, simona lo iacono
Scritto lunedì, 9 marzo 2009 alle 22:59 nella categoria LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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