lunedì, 19 novembre 2007
IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE di Tea Ranno (recensione di Simona Lo Iacono)
Tea Ranno: “In una lingua che non so più dire”
(edizioni E/O, 2007, euro 17, pagg. 223).
Recensione di Simona Lo Iacono
Un libro sulla necessità del ritorno. Un viaggio a dorso di ricordi da nord a sud, dal futuro al passato, dalla terra ferma, arpionata alla riva, a un’isola galleggiante e senza sponde, naufragata tra le correnti. Dopo il maestoso esordio di “Cenere” (ed. e/o, 2006) Tea Ranno, scrittrice siciliana di razza e dal meraviglioso talento visionario, affonda la penna tra le maglie della nostalgia, dei solchi lasciati dalla memoria.
Andrea, magistrato e rampollo di una famiglia dell’alta borghesia siciliana, abita a Milano e non torna a casa da 42 anni. Non è una scelta. E non è neanche l’opposto. È come dev’essere, il fluire di una vita che si è innestata da sé su binari di comodità e buone amicizie, tessuta con l’ago fino di chi inanella, uno dopo l’altro, successi su successi. La moglie, una rampante avvocatessa milanese, si divide con disinvoltura tra amanti e schermaglie da tribunale, ostentando un’eleganza sobria e ricercata: tailleur che la fasciano ai fianchi e foulard di Gucci annodati con civetteria. I figli, ormai universitari e abituati alle sue assenze, gli scivolano accanto senza parole, in silenzi carichi di complicità con la madre. È quello che si direbbe un uomo arrivato, Andrea. Un uomo fortunato, anche, forse appena appena fuori dai ritmi assordanti di una Milano in cui fa fatica a riconoscersi, o forse solo distratto, assorbito dalle solennità un po’ demodé delle aule giudiziarie, dal passo che ticchetta tra corridoi intricati in cui toghe e nocche da cassazionista frusciano come fossero seta.
Eppure. Voci ancora lo abitano. E volti. Balbuzie di un nonno amato e ostinatissimo, impegnato in fittizie battaglie napoleoniche colle quali crede di cambiare il corso della storia. E poi paesaggi ammantati di fasti, sole e scogli come anime di fuoco, sigilli di una terra calda, dura, arida di inverni. Ed ecco allora venir fuori da una – impensabile – piega della mente la casa padronale, stanze dentro stanze orpellate di salotti retrò in cui risuonano voci di bambini, latrati di cani, lievitare di amori. Resti e resti di un passato che è dannazione e incantamento, una malìa suscitata all’improvviso dalle parole di una amante che non crede alla facciata di uomo soddisfatto e inconsapevolmente dà il via al fiume torto della memoria. Ma da quel momento è difficile dire basta: strappi del cuore, annaspi di moribondo. Il viaggio è già cominciato. Nel sud. Nel tempo. Dritto a lei, all’immagine di una donna, al suo spettro di compagna fedele sovrapposta a ogni altro corpo. Teresa. Teresa. Teresa. Per Andrea è nome e invocazione, sacra unzione di eternità, maritaggio fantasioso di destini. Teresa fumigante di sogni, di letture, di studi. Teresa accesa da abiti neri in cui spicca come corallo. Teresa dei baci non dati e degli addii. Potesse disegnarla ne farebbe una musa ispiratrice e paziente che presenzia a ogni sua intemperanza. Fosse fuoco ne farebbe una scintilla barbagliante nello scuro o una stella incauta e liquefatta. Fosse mattino ne farebbe una coltre da spostare con lentezza, fosse mare una sirena, fosse aria un fiato che riscalda, una voce che rimanda.
E se quella voce, poi, avesse vita e volontà propria, flutti di farfalla o ali di poesia, Andrea è sicuro che gli parlerebbe, che lo avvertirebbe. Che gli direbbe: – brutta bestia, Andrea, la nostalgia. Brutta bestia. Ti prende coi suoi artigli quando meno te l’aspetti, rispolvera ricordi rimossi, ombre dimenticate, solchi fondi lasciati sulla sabbia che una risacca improvvisa non cancella.
Brutta bestia. E poi. Quel dubbio gusto del tempo. Quel farti credere che non sia trascorso, mentre decenni ti sono scivolati addosso, feroci, impietosi, restituendoti il riflesso di un viso rigato, bianco. Ma il gioco s’è innestato colla prima voce che è venuta a visitarti, con l’odore di un fumastro di farina o col guizzare di pesci che solcano mari antichi, abitati da viandanti impastati di parlate straniere. Basta niente e sei lì, sulle rive di un paese che immaginavi morto e che ti balza innanzi senza spaesamento, senza lentezza. Ma se cerchi un fantasma credendolo reale, Andrea, aspetta. Fermati sul ciglio di una strada, chiedi a qualcuno che sappia dirti dove andare. Ancora una volta, aspetta. Vedi, alle volte è meglio non voltarsi indietro. È meglio fingere che il passato non sia già trascorso. Meglio che scoprirlo diverso, senza nome. Senza un solo alito che possa farti credere che ti è appartenuto.
Simona Lo Iacono
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AGGIORNAMENTO del 21 novembre 2007
Brano tratto da IN UNALINGUA CHE NON SO PIU DIRE di Tea Ranno. Edizioni E/O
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Capitolo Ventunesimo (pp. 189-190)
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E se adesso, per un prodigio, ci fosse concesso di riavvolgere il tempo e tornare al giorno – il quindici del mese di luglio del 1959, mercoledì, S. Bonaventura, giorno prima della festa della Madonna del Carmelo, in cui avrebbe suonato la banda, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio, le corse col sacco, l’albero della cuccagna, e i devoti con lo scapolare sarebbero andati in processione per il paese, e si sarebbe riso e scherzato; e Teresa non ce l’avrebbe proprio fatta a ridere e scherzare, ad accogliere i cugini, a sopportare il peso di quella giornata impossibile da vivere – se ci fosse concesso di tornare a quel giorno, allora sì, anche noi ci precipiteremmo a dire:
Attenta, Teresa, attenta
non lasciarti tentare
non farti ingannare dal fumo che ti sembra sostanza e sostanza
invece non è
non aspettare di sentire parole che vorresti fossero dette e invece
dormono in gola a quarant’anni d’attesa.
Attenta, Teresa, attenta
non ascoltare le voci che ti promettono nella morte la pace.
Teresa,
le voci pazze non portano bene
neppure il mare le porta:
schizza e ribatte, torce le schiume ma non ti restituisce il ritorno
di chi non vuole tornare.
Attenta, invece, a queste nostre parole
che vengono da un altro tempo
che ti girano intorno, Teresa, qui sui binari, per dirti:
attenta,
alzati, la stazione è a un passo, salta sul treno e vai
vedrai, ti aspetta e non lo sa, Teresa,
anche lui ti sta aspettando, e ogni volta che qualcuno suona alla
porta solleva di scatto la testa e chiede: «Chi è?»
e Felicia risponde: «La sua signora madre»,
oppure: «Un garzone»
oppure: «Il postino»
e quando dice: «Il postino» lui vola a vedere se tra le buste ce ne
sia una con su scritto Teresa,
e persino Felicia capisce che là, in quella Sicilia africana dalla
quale è venuto, c’è qualcuno, sicuro una donna, che gli ha mangiato
il cuore.
E quella donna sei tu, Teresa, alzati, su, ascolta…
Ma tu non senti, non parli, aspetti soltanto il treno: che si faccia
vicino, si sbrighi,
e stringi nella mano la madonna, i grani di quarzo
che ti facciano di sasso
intanto che il rombo s’avvicina.
Attenta, Teresa, attenta
non pensare che non verrà a cercarti.
Un giorno sì, verrà, ma solo per piangere,
un uomo tutto bianco, Teresa,
con le rughe negli occhi
e la bocca spaccata.
Attenta, Teresa,
attenta alle parole che vanno e vengono e sanno di sale
sanno di nulla se nulla è impietrarsi nel ricordo.
Teresa, attenta
al niente che ti gira intorno e non ha ragioni, Teresa, e affonda
nella memoria.
Attenta, Teresa,
ché gira e rigira ripeschi lo stesso tormento,
attenta al passato,
che non ti uccida, Teresa.
Attenta, Teresa,
al treno che viene e non lo vedi,
attenta allo stridore dei freni, al balzo, Teresa, che ti spezza e ti
frammenta.
Attenta, Teresa, attenta
al freddo che ti buca le ossa
alla cenere che ti colma la bocca
attenta
al buio che non ha voci, Teresa,
attenta.
«Scrivi che mi ami, Andrea, scrivi» implori, lì alla curva del
Cavaliere.
Ma nulla, solo un raschio di cicale.
E allora alzati, su, Teresa, alzati,
perché la terra non soffochi inutilmente il tuo fiato e l’ira non si
faccia resa.
Teresa, attenta
al solco che qualcuno va tracciando per te:
non metterci i piedi, Teresa, non camminarci dentro,
attenta alla bugia delle voci che ti promettono pace,
non hanno fondo, non hanno importanza.
Attenta al richiamo d’un diavolo che non vuole per te paradisi e
ti tormenta nel ricordo di quello che è stato
e ti pietrifica, Teresa,
come la moglie di Lot, che si voltò a guardare lo scempio di
Sodoma e per la pena e l’angoscia si sbiancò in una sola lacrima
di sale.
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EXTRAPOST
(Massimo Maugeri)
1. Un grandissimo ringraziamento agli amici di “Scritture&Pensieri”, inserto domenicale di libri del quotidiano “Il Corriere Nazionale” brillantemente curato da Stefania Nardini, per aver pubblicato un articolo su Letteratitudine all’interno del numero di domenica 11 ottobre. Vi riporto un passaggio:
Si chiama “Letteratitudine”, ed è un blog letterario d’autore di Kataweb/Gruppo L’Espresso, curato dallo scrittore siciliano Massimo Maugeri. Blog molto visitato e “partecipato”: nella maggior parte dei post (articoli) i commenti dei frequentatori superano il centinaio. Maugeri lo ha creato definendolo open-blog e coinvolgendo scrittori, lettori, librai, critici e giornalisti culturali: una community che tende ad allargarsi sempre più confrontandosi e dibattendo su libri e temi di natura letteraria e culturale.
2. Ricevo (da Sabrina Campolongo) e segnalo quanto segue.
C’è un bambino, che si chiama Gramos che ha undici anni e una malattia terribile e rara. Un bambino che vive in Kosovo, in una zona ancora militarizzata. Cliccando sul suo nome si può ascoltare tutta la sua storia e vedere il suo viso. Chi decide di aiutarlo può farlo attraverso un libro di fiabe, acquistabile a questo indirizzo https://www.lulu.com/content/1423738.
Le donazioni saranno gestite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Tags: e-o, in una lingua che non so più dire, lo iacono, ranno
Scritto lunedì, 19 novembre 2007 alle 00:08 nella categoria LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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