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martedì, 25 marzo 2008

DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

Quando Miriam Ravasio mi ha chiesto di discutere qui a Letteratitudine del nuovo romanzo di Pennac, Diario di Scuola (Feltrinelli. 2008, pagg. 241, euro 16), magari coinvolgendo alcuni dei frequentatori abituali di questo blog, io le ho detto subito di sì. E le ho dato carta bianca.

Ne è venuto fuori, come vedrete, un ottimo lavoro di gruppo… sulla base del quale sarà possibile avviare – ne sono convinto – un interessante dibattito.

Prima di lasciare la parola ai “quattro moschettieri di Letteratitudine” (così si sono autodefiniti per “bocca” della Ravasio) vi fornisco, con l’aiuto di wikipedia, una breve scheda biografica di Pennac.

Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, 1944), è uno scrittore francese.

Nato in una famiglia di militari, passa la sua infanzia in Africa, nel Sud-Est asiatico, in Europa e nella Francia Meridionale. Ha vissuto in Etiopia, Algeria, nell’Africa Equatoriale. Ha fatto anche il mozzo lungo la Costa d’Avorio. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e al posto dei temi tradizionali gli chiede di scrivere, a puntate settimanali, un romanzo. Ottiene la laurea in lettere all’Università di Nizza, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per vent’otto anni a partire dal 1970, gli serviva per aver più tempo per scrivere durante le lunghe vacanze estive. Da subito,però, Pennac si appassiona alla professione di insegnante. Inizia l’attività di scrittore con un pamphlet contro l’esercito (Le service militaire au service de qui?,1973) in cui descrive la caserma come un luogo tribale che poggia su tre grandi falsi miti: la maturità, l’eguaglianza e la virilità. In tale occasione, per non nuocere a suo padre, militare di carriera, assume lo pseudonimo Pennac, contrazione del suo cognome Pennacchioni. Abbandona la saggistica in seguito all’incontro con Tudor Eliad, con il quale scrive alla fine degli anni 1970 due libri burleschi di fantapolitica (Les enfants de Yalta, 1977 e Père Noël, 1979) di scarso successo commerciale. In seguito decide di scrivere racconti per bambini. Nel 1980 si reca per un anno in Brasile dove abbozza metà di un romanzo di cui riprenderà anni dopo le idee scrivendo Messieurs les enfants (1997). Ma soprattutto scopre il romanzo giallo, leggendo Louis Berretti di Henderson D. Clark. Successivamente, scommettendo contro amici che lo ritenevano incapace di scrivere un romanzo giallo, scrive Au bonheur des ogres (Il Paradiso degli Orchi) pubblicato nel 1985 in una nota collana di romanzi gialli, e dal quale nasce involontariamente la serie di Belleville. Successivamente i romanzi gialli sono stati spostati dalla casa editrice (Gallimard) dalla collana di romanzi polizieschi alla collana di narrativa. È sposato dal 1979 con Juliette, architetto, con cui ha due figli, e vive nel quartiere di Belleville.

Pennac è diventato noto con i romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, (di professione capro espiatorio) alla sua inverosimile e multietnica tribù (composta di fratellastri, sorelle veggenti, madre sempre innamorata e incinta) e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992 Pennac ha ottienuto un grande successo con Come un romanzo, un saggio a favore della lettura.

« L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire ».

(Massimo Maugeri)

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Diario di scuola di Daniel Pennac

Presentazione di Miriam Ravasio (autrice de L’Occhio alato)

miriam.JPGCanto della somaraggine o della sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti, quella “sofferenza di non capire e i suoi danni collaterali”. Pagine vibranti di amore dolce e furioso per gli esclusi, che Pennac definisce i “passionari del fallimento” e per gli insegnanti “salvatori”, quelli che non mollano mai, artisti nella trasmissione della loro materia. “Nessuno è più pronto a cazziarti di un professore insoddisfatto di sé stesso”, ma “è sufficiente un professore – uno solo! – per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri”.

Una magistrale lezione pedagogica, divisa in parti che voglio riassumere così: il somaro, la somaraggine, l’amore. Pagina dopo pagina il lettore ripercorre tutte le tappe di Pennac, Daniel Pennacchioni,  bambino che andava male a scuola “non capivo, ero più indietro del cane di casa”. Testimonianze, analisi, riflessioni e prese di posizione nette e anche provocatorie che non mancheranno di sollevare polemiche: un testo dirompente, da leggere e studiare. Un testo sull’organizzazione del sistema scolastico francese, dalla sua istituzione ad oggi. Dallo “zio Jules”, Jules Ferry che assicurò l’istruzione pubblica obbligatoria, al “bambino cliente” e alla sua “Nonnaccia Marketing”.

E’ quasi impossibile, anche con la disamina più attenta, comprendere i temi del libro, perché Pennac ci offre il cuore, la sua professionalità e lo spirito critico dello scrittore, attento al mutare delle abitudini e delle classi sociali. Per riuscire nell’intento  ho chiesto aiuto agli amici del blog:  Carlo Sirotti (detto Speranza) che con me coordinerà il dibattito, Simona Lo Iacono ed  Enrico Gregori interverranno con approfondimenti relativi alle loro rispettive competenze: tutela dei minori e informazione.

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DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

recensione di Carlo Speranza (nell’autocaricatura in basso)

carlo.JPG

C’è una visione un po’ tradizionalista dello studio visto come duro lavoro e sacrificio: l’immagine è quella dell’Alfieri che si fa legare alla sedia per imporsi lo studio dei classici (sarà poi vera o frutto dell’aneddotica ?); comunque una concezione dell’impegno allo studio fatto di sudore e lacrime che si è abbattuta inesorabilmente su generazioni intere di studenti. Personalmente mi ha sempre terrorizzato e forse è per questo che non ho mai amato l’Alfieri. Anzi, debbo confessare che continuo a detestarlo ancora oggi.

Daniel Pennac già nel suo precedente “Come un romanzo” esponeva un decalogo di diritti del lettore che capovolgeva questo concetto asserendo: 1 – Il diritto di non leggere; 2- Il diritto di saltare le pagine; 3 – Il diritto di non finire il libro; 4 – Il diritto di rileggere; 5 – Il diritto di leggere qualsiasi cosa; 6 – Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa); 7 – Il diritto di leggere ovunque; 8 – Il diritto di spizzicare; 9 -  Il diritto di leggere ad alta voce; 10 – Il diritto di tacere.

Leggere (e per estensione studiare) è quindi innanzitutto un diritto e dovrebbe pertanto essere anche un piacere. E compito di un buon maestro (per estensione anche quello della scuola) quello di insegnare ad apprezzare tale godimento. Con questo suo recente “Diario di scuola” Pennac, fedele a questa impostazione, racconta con bravi flash vicende autobiografiche di una vita trascorsa al di là e al di qua della cattedra, e ce le narra sia dal punto di vista dello studente “somaro” (perché il Daniel Pennacchioni della vita ne è stato per sua stessa ammissione un caso tipico e apparentemente senza speranza), sia dell’insegnante (professione poi da lui effettivamente esercitata), che della famiglia, la sua. E poi c’è la scuola, questo istituto a torto o a ragione così sempre più bistrattato al giorno d’oggi, che torna in queste pagine ad assumere talvolta una dimensione umana: perché in fondo ben prima dei programmi ministeriali, dei giochi della politica e delle sue riforme, la scuola è innanzitutto una comunità fatta di allievi ed insegnanti, che si devono continuamente confrontare tra di loro, che devono imparare a conoscersi a fondo e ad accettare di svolgere ognuno il proprio ruolo per permettere a tutti di “diventare”.  Perché poi nella vita ognuno “diventa” qualche cosa: e in qualche modo, grazie a tre o quattro insegnanti non necessariamente consci dell’opera salvifica che stavano svolgendo, la scuola alla fine ha permesso anche al “somaro” e pluriripetente Daniel Pennacchioni di “diventare” magicamente il professore e lo scrittore Daniel Pennac.

Perché la scuola alla fine dipende solo dagli insegnanti: ci sarà sempre quella dei bravi maestri che riescono a salvare i “somari” da una mancanza di prospettive e di un futuro e quella che per tali studenti senza speranza sarà sempre un incubo, una prigione della propria anima, un’entità ostile, fonte di malessere e di alternative compensatorie che talvolta possono sfociare nella violenza, nell’asocialità, talvolta nella delinquenza; sicuramente nell’ignoranza e nella facilità a rimanere acriticamente strumenti e vittime del consumismo e dei mali della nostra società.

E privi della capacità di apprezzare il piacere della conoscenza, perché in fondo il segreto è tutto lì: l’insegnante che non riesce a trasmettere ai suoi allievi la propria passione, il proprio “amore” (ah, questa parola che sembra così inappropriata nel contesto scolastico, quasi scandalosa!), sarà destinato a trasmettere solo nozioni e solo a chi è pronto a recepirle, a quelli che sono i “bravi” della classe, quelli che ne hanno meno bisogno perché alla fine andranno avanti comunque.

La conoscenza del non sapere (l’essere stato asino) si rivela quindi uno strumento in più per l’insegnante, ma non sufficiente se priva di una certa forma di amore. Il libro si chiude con una bellissima metafora sulle rondini che vanno a sbattere sui vetri, e quelle rondini sono gli studenti, gli allievi meno capaci.  “ Sono i nostri studenti. Le questioni di simpatia o di antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta”.

Un libro di ricordi e di riflessioni, ma fatto essenzialmente di piccoli dettagli che suggeriscono anche grandi temi pedagogici (la diversa percezione del tempo tra un grande ed un bambino, il diverso senso del presente e del futuro, l’importanza dell’autostima e della fiducia in se stessi, il senso di piccoli ma importanti rituali come l’appello mattutino in classe, …ecc.), che dovrebbero essere materia di interesse per gli insegnanti, per i genitori, per gli studenti, ma poi anche al di fuori di qualsiasi categoria, perché lo stile è quello del Pennac di sempre, leggero e frizzante come quello dei romanzi della saga del signor Malaussène e della sua stramba famiglia. Uno stile che vuole rispettare il diritto al piacere della lettura seminando qua e là gli elementi che possano costituire una seria materia di riflessione. Se il lettore vorrà coglierli: è pur sempre solamente un suo diritto.

Carlo Speranza

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L’evoluzione legislativa in tema di tutela dei minori.

di Simona Lo Iacono (nella foto in basso)

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La storia dei bambini ha gambe corte.  Fiato di sogni. Salti di gambero.E’ una storia piccola e soffiata in vasi di vetro. E’ una storia breve, anche, a volte percorsa dal tempo con balzi di lepre.

Storia, poi, non è neanche. Piuttosto voce. Tradita, a volte. Mal compresa, affogata in apparenze.E comincia tardi. Perché prima del XX secolo neanche esisteva. Solo col nascere  della famiglia borghese e della rivoluzione industriale, infatti, si afferma una cultura di protezione del bambino.

Ma tutto è ancora lasciato alla famiglia, senza nessun riscontro giuridico esterno. Il primo organismo internazionale che si occupi di bambini, il Comitato di Protezione per l’Infanzia, fu costituito dalla Società delle Nazioni solo nel 1919. Al 1924 risale invece la prima Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia che precisa la responsabilità degli adulti nei confronti dei minori.E nel 1946  nasce l’Unicef, una struttura creata dall’ONU, specializzata per l’infanzia, che nel 1953 diventa una organizzazione internazionale permanente. Nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclama all’unanimità la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia. E nel 1989  sancisce la  “Convention on the Rights of the Child”,  approdo di una graduale evoluzione della coscienza giuridica e origine delle successive iniziative legislative  all’interno dei singoli stati.

I suoi principi infatti sono stati inseriti nel testo di 14 costituzioni nazionali, e sono stati immessi nei programmi di studio di vari paesi. Ad essa fanno esplicito riferimento
la Convenzione europea sull’esercizio dei Diritti dell’Infanzia (1996), la Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini, la Convenzione dell’Aia per la tutela dei minori in materia di adozioni internazionali (1993), la Dichiarazione di Madrid sugli aiuti umanitari (1995), la Dichiarazione di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei bambini (1996), la Convenzione ILO n. 182 sulle peggiori forme di sfruttamento minorile (1999), la Risoluzione del Parlamento europeo sul traffico dei bambini (maggio 2001).  Il testo della convenzione salvaguarda il diritto del bambino di vivere, essere accudito, rispettato, amato nella sua identità e nelle propensioni che manifesta.

Preserva dagli attacchi dell’indifferenza il suo inviolabile diritto ad essere istruito.

Proclama con forza la sua minorità e in ossequio ad essa lo tutela dallo sfruttamento e dall’abuso.

Sottolinea che ogni suo diritto è paritario e non ve ne sono alcuni sovraordinati ad altri. Inneggia a gran voce all’interesse supremo del minore, non subordinabile ad alcuno.

Eppure.

Nella pratica quotidiana del tribunale vivo faide sanguinarie tra genitori scissi e in battaglia. Campo di sterminio è il cuore dei figli, la loro aspirazione all’unità e al sogno.

Talvolta me li vedo sfilare innanzi infagottati e incappucciati. Lo zaino barcollante sulla schiena. Le mani sporche d’inchiostro. Gli occhi cespugliosi e abbacinati dal pressare di un pensiero. E allora mi dico che è vero, sì, che oggi il bambino è un soggetto giuridico attivo, centro di imputazione di inviolabili interessi. Che può immaginare il proprio futuro, anche se non in tutte le parti del mondo. E ha colori variopinti come la coda di un pavone, e carte stampate con tanto di bollo in cui è scritto che esiste.

Ma  la sua voce è  ancora flebile perché dipende  dal destino di un adulto.

C’è una storia non scritta in alcuna convezione né in alcun codice. C’è un sussurro che non appartiene alle statistiche ufficiali e alle sentenze che pronuncio in nome del popolo italiano. Ed è quella della solitudine dei bambini: non nasce dal riconoscimento di alcun diritto, né dalla proclamazione di testi legislativi. E’ storia di tutti i giorni. E dipende da noi.

Simona Lo Iacono

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Il parere di Enrico Gregori

greg.JPG

Pennac, a mio avviso, ha sempre avuto il pregio di comunicare pensieri profondi quasi sempre con leggerezza. E forse la lievità è proprio lo strumento adatto a trasmettere i pensieri più “ostici”. Mi interessa molto la riflessione sulla scuola. Forse gli istituti scolastici non sono sempre adeguati alla formazione, ma è molto più facile che la natura criminogena sia insita nell’individuo a prescindere dalla sua frequentazione scolastica.

Molto più spesso, direi, l’insegnante e la materia possono essere un salvagente per chi non ha mai visto altro che la bruttura e la disperazione. La cultura, a volte, funge da redenzione sincera anche per chi si trova ristretto in carcere. Quindi è ben possibile che possa funzionare come riscatto nei confronti di un giovane “incensurato”.

Quanto ai media credo che non vadano esaltati ne demonizzati. Ritengo che vadano accettati come forma di comunicazione. Se questa è corretta (purtroppo non sempre è così), fornisce gli strumenti per accostarsi ai fenomeni. Ma su questi, poi, è necessario che uno lavori e rifletta con la propria sensibilità. Se, invece, si lascia guidare da slogan e frasi fatte come fossero bastonate sul groppone, allora la condizione di “somaro contemporaneo” diventa inevitabile.

Era il 1967 quando scoppiò il “caso Zanzara”. Questo il nome del giornale scolastico del nobile” liceo milanese “Parini”, “colpevole” di aver pubblicato una piccola inchiesta sulla sessualità dei giovani.

Un articolo che, oggi, farebbe ridere persino i ragazzi della scuola media.

Eppure all’epoca fu una bomba, se non altro perché il maggio francese era ancor di là da venire. Tv e giornali si gettarono a corpo morto sulla notizia. Ovviamente ciò che fu sottolineato fu lo scandalo, il folclore, il colore.

L’atteggiamento di chi guarda la scuola con piglio severo e cattedratico.

Nel corso degli anni, fino ad arrivare a oggi, non sembra che siano trascorse 41 primavere.
Il “68″, la “pantera”, le occupazioni, i problemi didattici continuano a essere analizzati da un punto di vista superficiale e senza entrare nel merito.

In pieno 2008, quindi, se un alunno delle elementari crea una statuetta o compone un disegno, si è portati a considerare la manualità, l’impegno e la bravura tecnica. Sorprendendosi, magari, di come un bambino di 8 anni possa fare certe cose.

Si indaga poco, poco si considera ciò che ha condotto il bambino alla sua creazione. Il cuore, i pensieri, l’anima passano in secondo piano.E invece, probabilmente, sono questi elementi da tenere in considerazione. Per comprendere, se si vuole, piuttosto che giudicare.

Enrico Gregori

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Il somaro, la somaraggine, l’amore

di Miriam Ravasio

IL SOMARO

Il somaro di Pennac, è un disadattato senza fondamento storico,  senza ragione sociologica, perché lui figlio di laureati era somaro come altri  “un archetipo senza unità di misura”. Un escluso, elemento di disturbo per l’istituzione scolastica e incompreso a casa. Al punto che la madre, nell’epilogo, messo ad introduzione del racconto, non gli riconosce nemmeno il successo: Il mio avvenire le parve subito talmente compromesso che non è mai stata davvero sicura del mio presente. Perché il somaro si racconta ininterrottamente la sua somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai. Per loro, la scuola è un club di cui si vietano, da soli, l’accesso. Giorni e ore di scuola e di fatica per comprendere quelle parole, così facili per gli altri, e che lui ripeteva instancabilmente, come bocconi masticati senza inghiottire fino alla totale decomposizione del sapore e del senso. Sofferenza e comicità,  momenti di abbandono e voglia di riscatto, impotenza e compiacimento, perché “il somaro oscilla fra lo scusarsi di essere e il desiderio di esistere nonostante tutto”.

LA SOMARAGGINE

La somaraggine, è lo stato di solitudine e impotenza che pervade il somaro; un insieme di sentimenti e reazioni che cristallizzano l’inettitudine in odio, e in lotta aperta contro “il mostro scuola che vuole mangiarmi il cuore”. La somaraggine è anche un rapporto che muta, che vive di condizioni e nuove difficoltà. Pennac ricostruisce, per noi,  attraverso i suoi ricordi di allievo e poi di docente, la nuova condizione del somaro. Dal vendicatore solitario, un po’ alla Gian Burrasca, al “renitente” contemporaneo che non è più bambino, nemmeno adolescente ma ha gli aspetti di una nuova categoria: è un consumatore, un bambino cliente. Mentre il somaro di ieri provava una gioia cupa  nel sentirsi incomprensibile ai privilegiati del potere, lasciando comunque aperto uno spiraglio al recupero; oggi, il somaro-cliente, forte della sua maturità commerciale si preclude ad ogni intervento. Perché dovrebbe abbandonare questa sua “veste” per la posizione dell’allievo obbediente, che lui reputa infantilizzante? “Per quanto somaro sia in classe, non si sente forse padrone dell’universo quando, chiuso in camera sua, è seduto davanti alla sua consolle?”

L’AMORE

L’amore è liberare il somaro dal suo pensiero magico, che come in una fiaba lo inchioda in un eterno presente. E’ l’amore degli insegnanti che non  si lasciano ingannare dalle ammissioni d’ignoranza. Diario di scuola si conclude con un dialogo filosofico fra Daniel Pennac, docente e scrittore di successo, e  Daniel Pennacchioni, somaro. Sono domande e risposte sul Sapere e l’Ignoranza; il Sapere comprende l’Ignoranza o ne ha già elaborato il lutto? “Lo studente che va male, non ha mai la sensazione di essere ignorante. Io non mi trovavo ignorante. Io mi trovavo coglione” Pennacchioni  risponde con sicurezza all’incalzare delle domande, rifiutando le risposte che lo scrittore suggerisce. Nessuna empatia e nemmeno comprensione, nemmeno i metodi, nemmeno la psicologia; l’ignorante chiede al sapiente, che sia inclusa fra i saperi anche quello dell’ignoranza; che sia quella la base per organizzare il lavoro di  insegnare ad impegnarsi. L’ex somaro avrebbe la risposta che sta tutta in una parola. “Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia…se tiri fuori questa parola parlando di istruzione ti linciano.”Puntini e puntini di sospensione per l’ultima parola  … “L’amore.”

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   207 commenti »

lunedì, 19 novembre 2007

IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE di Tea Ranno (recensione di Simona Lo Iacono)

Tea Ranno: “In una lingua che non so più dire”

(edizioni E/O, 2007, euro 17, pagg. 223).

Recensione di Simona Lo Iacono

Un libro sulla necessità del ritorno. Un viaggio a dorso di ricordi da nord a sud, dal futuro al passato, dalla terra ferma, arpionata alla riva, a un’isola galleggiante e senza sponde, naufragata tra le correnti. Dopo il maestoso esordio di “Cenere” (ed. e/o, 2006) Tea Ranno, scrittrice siciliana di razza e dal meraviglioso talento visionario, affonda la penna tra le maglie della nostalgia, dei solchi lasciati dalla memoria.

Andrea, magistrato e rampollo di una famiglia dell’alta borghesia siciliana, abita a Milano e non torna a casa da 42 anni. Non è una scelta. E non è neanche l’opposto. È come dev’essere, il fluire di una vita che si è innestata da sé su binari di comodità e buone amicizie, tessuta con l’ago fino di chi inanella, uno dopo l’altro, successi su successi. La moglie, una rampante avvocatessa milanese, si divide con disinvoltura tra amanti e schermaglie da tribunale, ostentando un’eleganza sobria e ricercata: tailleur che la fasciano ai fianchi e foulard di Gucci annodati con civetteria. I figli, ormai universitari e abituati alle sue assenze, gli scivolano accanto senza parole, in silenzi carichi di complicità con la madre. È quello che si direbbe un uomo arrivato, Andrea. Un uomo fortunato, anche, forse appena appena fuori dai ritmi assordanti di una Milano in cui fa fatica a riconoscersi, o forse solo distratto, assorbito dalle solennità un po’ demodé delle aule giudiziarie, dal passo che ticchetta tra corridoi intricati in cui toghe e nocche da cassazionista frusciano come fossero seta.

Eppure. Voci ancora lo abitano. E volti. Balbuzie di un nonno amato e ostinatissimo, impegnato in fittizie battaglie napoleoniche colle quali crede di cambiare il corso della storia. E poi paesaggi ammantati di fasti, sole e scogli come anime di fuoco, sigilli di una terra calda, dura, arida di inverni. Ed ecco allora venir fuori da una – impensabile – piega della mente la casa padronale, stanze dentro stanze orpellate di salotti retrò in cui risuonano voci di bambini, latrati di cani, lievitare di amori. Resti e resti di un passato che è dannazione e incantamento, una malìa suscitata all’improvviso dalle parole di una amante che non crede alla facciata di uomo soddisfatto e inconsapevolmente dà il via al fiume torto della memoria. Ma da quel momento è difficile dire basta: strappi del cuore, annaspi di moribondo. Il viaggio è già cominciato. Nel sud. Nel tempo. Dritto a lei, all’immagine di una donna, al suo spettro di compagna fedele sovrapposta a ogni altro corpo. Teresa. Teresa. Teresa. Per Andrea è nome e invocazione, sacra unzione di eternità, maritaggio fantasioso di destini. Teresa fumigante di sogni, di letture, di studi. Teresa accesa da abiti neri in cui spicca come corallo. Teresa dei baci non dati e degli addii. Potesse disegnarla ne farebbe una musa ispiratrice e paziente che presenzia a ogni sua intemperanza. Fosse fuoco ne farebbe una scintilla barbagliante nello scuro o una stella incauta e liquefatta. Fosse mattino ne farebbe una coltre da spostare con lentezza, fosse mare una sirena, fosse aria un fiato che riscalda, una voce che rimanda.

E se quella voce, poi, avesse vita e volontà propria, flutti di farfalla o ali di poesia, Andrea è sicuro che gli parlerebbe, che lo avvertirebbe. Che gli direbbe: – brutta bestia, Andrea, la nostalgia. Brutta bestia. Ti prende coi suoi artigli quando meno te l’aspetti, rispolvera ricordi rimossi, ombre dimenticate, solchi fondi lasciati sulla sabbia che una risacca improvvisa non cancella.

Brutta bestia. E poi. Quel dubbio gusto del tempo. Quel farti credere che non sia trascorso, mentre decenni ti sono scivolati addosso, feroci, impietosi, restituendoti il riflesso di un viso rigato, bianco. Ma il gioco s’è innestato colla prima voce che è venuta a visitarti, con l’odore di un fumastro di farina o col guizzare di pesci che solcano mari antichi, abitati da viandanti impastati di parlate straniere. Basta niente e sei lì, sulle rive di un paese che immaginavi morto e che ti balza innanzi senza spaesamento, senza lentezza. Ma se cerchi un fantasma credendolo reale, Andrea, aspetta. Fermati sul ciglio di una strada, chiedi a qualcuno che sappia dirti dove andare. Ancora una volta, aspetta. Vedi, alle volte è meglio non voltarsi indietro. È meglio fingere che il passato non sia già trascorso. Meglio che scoprirlo diverso, senza nome. Senza un solo alito che possa farti credere che ti è appartenuto.

Simona Lo Iacono

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AGGIORNAMENTO del 21 novembre 2007

Brano tratto da IN UNALINGUA CHE NON SO PIU DIRE di Tea Ranno. Edizioni E/O

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Capitolo Ventunesimo (pp. 189-190)

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E se adesso, per un prodigio, ci fosse concesso di riavvolgere il tempo e tornare al giorno – il quindici del mese di luglio del 1959, mercoledì, S. Bonaventura, giorno prima della festa della Madonna del Carmelo, in cui avrebbe suonato la banda, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio, le corse col sacco, l’albero della cuccagna, e i devoti con lo scapolare sarebbero andati in processione per il paese, e si sarebbe riso e scherzato; e Teresa non ce l’avrebbe proprio fatta a ridere e scherzare, ad accogliere i cugini, a sopportare il peso di quella giornata impossibile da vivere – se ci fosse concesso di tornare a quel giorno, allora sì, anche noi ci precipiteremmo a dire:

Attenta, Teresa, attenta

non lasciarti tentare

non farti ingannare dal fumo che ti sembra sostanza e sostanza

invece non è

non aspettare di sentire parole che vorresti fossero dette e invece

dormono in gola a quarant’anni d’attesa.

Attenta, Teresa, attenta

non ascoltare le voci che ti promettono nella morte la pace.

Teresa,

le voci pazze non portano bene

neppure il mare le porta:

schizza e ribatte, torce le schiume ma non ti restituisce il ritorno

di chi non vuole tornare.

Attenta, invece, a queste nostre parole

che vengono da un altro tempo

che ti girano intorno, Teresa, qui sui binari, per dirti:

attenta,

alzati, la stazione è a un passo, salta sul treno e vai

vedrai, ti aspetta e non lo sa, Teresa,

anche lui ti sta aspettando, e ogni volta che qualcuno suona alla

porta solleva di scatto la testa e chiede: «Chi è?»

e Felicia risponde: «La sua signora madre»,

oppure: «Un garzone»

oppure: «Il postino»

e quando dice: «Il postino» lui vola a vedere se tra le buste ce ne

sia una con su scritto Teresa,

e persino Felicia capisce che là, in quella Sicilia africana dalla

quale è venuto, c’è qualcuno, sicuro una donna, che gli ha mangiato

il cuore.

E quella donna sei tu, Teresa, alzati, su, ascolta…

Ma tu non senti, non parli, aspetti soltanto il treno: che si faccia

vicino, si sbrighi,

e stringi nella mano la madonna, i grani di quarzo

che ti facciano di sasso

intanto che il rombo s’avvicina.

Attenta, Teresa, attenta

non pensare che non verrà a cercarti.

Un giorno sì, verrà, ma solo per piangere,

un uomo tutto bianco, Teresa,

con le rughe negli occhi

e la bocca spaccata.

Attenta, Teresa,

attenta alle parole che vanno e vengono e sanno di sale

sanno di nulla se nulla è impietrarsi nel ricordo.

Teresa, attenta

al niente che ti gira intorno e non ha ragioni, Teresa, e affonda

nella memoria.

Attenta, Teresa,

ché gira e rigira ripeschi lo stesso tormento,

attenta al passato,

che non ti uccida, Teresa.

Attenta, Teresa,

al treno che viene e non lo vedi,

attenta allo stridore dei freni, al balzo, Teresa, che ti spezza e ti

frammenta.

Attenta, Teresa, attenta

al freddo che ti buca le ossa

alla cenere che ti colma la bocca

attenta

al buio che non ha voci, Teresa,

attenta.

«Scrivi che mi ami, Andrea, scrivi» implori, lì alla curva del

Cavaliere.

Ma nulla, solo un raschio di cicale.

E allora alzati, su, Teresa, alzati,

perché la terra non soffochi inutilmente il tuo fiato e l’ira non si

faccia resa.

Teresa, attenta

al solco che qualcuno va tracciando per te:

non metterci i piedi, Teresa, non camminarci dentro,

attenta alla bugia delle voci che ti promettono pace,

non hanno fondo, non hanno importanza.

Attenta al richiamo d’un diavolo che non vuole per te paradisi e

ti tormenta nel ricordo di quello che è stato

e ti pietrifica, Teresa,

come la moglie di Lot, che si voltò a guardare lo scempio di

Sodoma e per la pena e l’angoscia si sbiancò in una sola lacrima

di sale.

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EXTRAPOST

(Massimo Maugeri)

1. Un grandissimo ringraziamento agli amici di “Scritture&Pensieri”, inserto domenicale di libri del quotidiano “Il Corriere Nazionale” brillantemente curato da Stefania Nardini, per aver pubblicato un articolo su Letteratitudine all’interno del numero di domenica 11 ottobre. Vi riporto un passaggio:

Si chiama “Letteratitudine”, ed è un blog letterario d’autore di Kataweb/Gruppo L’Espresso, curato dallo scrittore siciliano Massimo Maugeri. Blog molto visitato e “partecipato”: nella maggior parte dei post (articoli) i commenti dei frequentatori superano il centinaio. Maugeri lo ha creato definendolo open-blog e coinvolgendo scrittori, lettori, librai, critici e giornalisti culturali: una community che tende ad allargarsi sempre più confrontandosi e dibattendo su libri e temi di natura letteraria e culturale.

2. Ricevo (da Sabrina Campolongo) e segnalo quanto segue.

C’è un bambino, che si chiama Gramos che ha undici anni e una malattia terribile e rara. Un bambino che vive in Kosovo, in una zona ancora militarizzata. Cliccando sul suo nome si può ascoltare tutta la sua storia e vedere il suo viso. Chi decide di aiutarlo può farlo attraverso un libro di fiabe, acquistabile a questo indirizzo https://www.lulu.com/content/1423738.

Le donazioni saranno gestite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   154 commenti »

Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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