mercoledì, 26 settembre 2007
RECENSIONI INCROCIATE (di Enrico Gregori e Vito Ferro)
Ho incontrato Enrico Gregori e Vito Ferro in maniera rocambolesca.
Stavo per eliminare le mail raccolte nella cartella spam del mio account quando, tra una promozione del viagra e una missiva in cui mi informavano che avrei vinto un milione di euro se (non ho continuato la lettura), scorgo – uno sull’altro – i messaggi di posta elettronica dei due suddetti individui.
Mi accorgo che le mail sono state inviate quasi contestualmente (a distanza di pochi minuti) e contengono informazioni sui libri di cui parleremo in questo post.
Dal breve scambio epistolare intuisco che Enrico e Vito sono accomunati, oltre che dall’essere riconosciuti come “spam” dal mio account di posta elettronica, da uno spiccato senso dell’umorismo.
Così ho pensato bene di metterli in contatto.
Volete che parli dei vostri libri? Facciamo così: spediteveli reciprocamente e recensitevi a vicenda.
Così ho detto, così hanno fatto.
Insomma, quelle che vi propongo sono recensioni incrociate. Vito recensisce il libro di Enrico e viceversa.
Saranno recensioni credibili? Si saranno messi d’accordo?
Leggete e giudicate.
E poi parlatene con gli interessati.
(Massimo Maugeri)
P.s. Guarda cosa si deve inventare uno per parlare di libri in maniera alternativa!
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Un tè prima di morire (di Enrico Gregori) – Editore Bietti, 2007, euro 10, pagg. 138
recensione di Vito Ferro
In un albergo americano che sarà la sede di un importante summit di potere e finanza, un probabile attentatore sanguinario è pronto a colpire il suo bersaglio, un uomo spregevolmente ricco, odiato da tutti. L’albergo, il prestigioso Manovar, diventa così una fortezza presidiata da poliziotti e cecchini, artificieri e agenti antiterrorismo. C’è tensione nell’aria e tutti gli ospiti dell’albergo, gli inservienti, gli abitanti della cittadina attendono un qualcosa che di tragico e devastante dovrà avvenire. E’ questo, in sintesi, l’incipit del bel romanzo di Enrico Gregori, giornalista e scrittore di Roma, che pubblica con Bietti (il libro è acquistabile tramite il sito della casa editrice www.bietti.it) questo avvincente noir (ma vedremo presto quanto l’etichetta stia stretta, molto stretta…) composto da ampie finestre narrative, squarci di vita narrati con lucidità, immediatezza, incisivo fervore. Il libro è, come dicevamo, difficilmente inscrivibile nel genere di thriller canonico: sembra anzi che la vicenda primaria della storia (l’attesa lunga della strage), sia quasi soltanto pretesto e stimolo per mostrarci, vivisezionata alla perfezione, l’esistenza delle singole persone che abitano l’albergo e le pagine del libro, tasselli e ingranaggi di un puzzle o di un meccanismo che mostra e scandisce il tempo verso l’ineluttabile (?), verso l’apoteosi. Si muovono come esseri umani veri, questi personaggi di carta, con le loro ansie, le loro paure, le gioie preservate nell’intimo e le loro missioni: ognuno di loro ha infatti una missione particolare, un senso da dare alla sua immediatezza, uno scopo profondo. C’è chi deve portare a compimento l’attentato, chi deve impedirlo, c’è chi è destinato a subirlo in quanto vittima sacrificale nel gioco dei poteri e della ricchezza, chi si trova nel luogo e sente di essere costretto a dovervi partecipare senza averne ragione o colpa. Dopo l’undici settembre, una vicenda come quella narrata da Gregori, acquista uno spessore e un valore di verità decisiva: figlia dei tempi ormai giunti, la paura e l’attesa (spesso risolta nel dramma, nel sangue) da Deserto dei Tartari, è l’aura che circonda la nostra consapevolezza, ormai certi di poter essere tutti bersaglio della follia terroristica e pagare colpe più grandi, avviluppati nella scacchiera sporca di una politica senza scrupoli, deviata e criminale. Ma il libro va oltre, e la metafora a cui rimanda è quella dell’eterno gioco tra la vita e la morte, la dinamica propria ad ogni esistente che cerca con il proprio particolare agire (e con la rimozione volontaria della consapevolezza che la fine di tutto sia in agguato, dietro l’angolo, dentro ogni passo, movimento, scelta), di scacciare il senso di inevitabile che ci condiziona e marchia tutti. Dentro l’albergo della storia quindi, soggiorniamo tutti noi. Chiunque di noi, che sia povero o ricco, abbia scopi nobili o perversi, provenga da un passato oscuro o abbia condotto la sua vita irreprensibilmente, che sia in fuga o in ricerca, è accumunato dall’avere una stanza nel Manovar (il nome del’albergo che ricorda l’espressione Man on War: uomo in guerra: uomo in guerra costante con se stesso e la vita). Lo scrittore riesce così, grazie ad un linguaggio diretto, franco, vivo, di mostrarci l’intima reazione di ognuno alla paura, a quella paura atavica che ci costringe a guardare al fondo di noi stessi e a fare i conti con una certezza che si preferisce evitare. Densi di un’umanità in affanno, capace di inventarsi manovre e speranze diverse, i personaggi del libro, ci sembrano così vicini, così veri: i poliziotti che maledicono il rischio che devono correre compiendo il loro dovere, l’uomo che sogna un amore e lo coltiva nel suo silenzio, la coppia adulterina sospesa tra desiderio e rimorso, il musicista che insegue la sua passione al di sopra di tutto, la poetessa in cerca del dialogo più intimo, più sincero, gli attori di teatro persi dentro la confusione di un ruolo, e ancora i magnati potenti invischiati nelle lotte per la supremazia disumana, il magnate, Colin Mallory, il bersaglio, lo spietato squalo che odiano tutti e che sembra destinato a scontare la pena accumulata in un vivere amorale, senza regole. E c’è anche, come personaggio aggiunto, il senso di pericolo incombente di cui si ignora quale faccia abbia, quale strategia. In un collage da reality veritiero sono i gesti, i tic, le ansie, le parole cariche di sospiro e trepidazione a connotare questi soggetti come ben altro da semplici comparse. Sono loro il libro, sono le loro interazioni, lo scorrere metodico di tante vicende che si accavallano, sino a sfumare e forse risolversi una volta finita la storia. Bene o male? Non lo dirò mai, ovviamente. Ma solo ricordo e ribadisco quanto il bene e il male, in questa vicenda, si smarriscano uno dentro l’altro, fino a perdere i netti contorti, fino a confondere alibi, ragioni, sentimenti, certezze. Proprio come nella vita di tutti i giorni, dove una colpa è spesso soltanto l’altra faccia di una ingenuità portata all’estremo. Ottima prova del Gregori, quindi, libro avvincente e tagliente, frutto di una capacità di resa narrativa che gli viene sicuramente dal suo lavoro di giornalista e dalla sua esperienza di conoscitore d’uomini. Ma sa anche giocare, e bene, Gregori con questa sua capacità, stravolgendo caratteri e cliché, infarcendoli di un ironia, a volte amara, a volte esilarante: crea un genere a sé che sta a metà strada tra la commedia umana e il noir più tradizionale. E questo grazie ad un linguaggio che non gira attorno alla sua materia in una costante rincorsa narcisistica, ma da essa proviene e ad essa si attiene: la materia dell’amore, del sesso, della morte, della ricerca, della violenza. Sono tutte con l’iniziale minuscola. Sono tutte le cose di cui ci circondiamo, e che, alla resa dei conti, abitano la nostra esistenza. E così come sono ce le presenta l’autore offrendoci questo Tè prima di morire.
Vito Ferro
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L’ho lasciata perché l’amavo troppo (di Vito ferro) – Coniglio Editore, 2007, euro 6,50, pagg. 93
recensione di Enrico Gregori
Un libro di circa 100 pagine pieno di pretesti per lasciare lei o per farsi da lei lasciare. Tale codardo volumetto non poteva che essere pubblicato dall’editore “Coniglio”(www.coniglioeditore.it). Sotterfugi, giustificazioni incredibili, situazioni paranormali. Tutto questo, forse, per non dirsi semplicemente “è finita”.
Vito Ferro ci regala questo manuale che, epidermicamente, pare un libro di barzellette sui carabinieri oppure un diario scolastico d’ultima generazione.
Io, ritenendo che la fantasia può rendere gradevole anche l’orario dei treni, dico che Vito di fantasia ne ha usata a profusione. Quindi, tra battute, monologhi, dialoghi e fandonie, “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” è un esercizio cerebrale affrontato con cura e intelligenza. Volendo si ride, volendo si riflette.
Chi ne ha voglia potrebbe anche spulciare nelle psicologie, nelle timidezze, nei diversi approcci che maschietti e femminucce hanno nei confronti dell’abbandono. Io, esprimendo a Vito la mia ammirazione, vorrei semplicemente dire che non è facile, non è affatto facile costruire 100 pagine su un unico concetto.
Fantasia, dunque, e tanto di cappello al giovane autore. Anche con un pizzico di invidia perché se, ad esempio, avessi affontato io il medesimo cimento, avrei scritto un libro di tre sole righe.
Io: “Chi ha composto Eleonor Rigby”?
Lei: “George Michael?”
Io: “Vaffanculo!”
Enrico Gregori
Tags: enrico gregori, RECENSIONI INCROCIATE, vito ferro
Scritto mercoledì, 26 settembre 2007 alle 23:35 nella categoria RECENSIONI INCROCIATE. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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