Vi è mai capitato di leggere una recensione e pensare: “e se il critico è un amico dell’autore recensito”?
Vi è mai capitato di pensare: “va be’, magari si sono messi d’accordo”?
Potrebbe accadere.
Non sarebbe molto corretto, vero? Bene. Letteratitudine, va oltre.
Inauguro, oggi, una nuova rubrica che si intitolerà, per l’appunto, Recensioni incrociate. Di volta in volta chiederò a due autori di recensirsi reciprocamente. Nella maggior parte dei casi l’oggetto delle recensioni saranno i loro libri, in altri casi potrebbero essere “le loro rispettive… figure“.
Saranno credibili, queste recensioni?
Lo giudicherete voi!
Intanto, dopo quelle di Enrico Gregori e Vito Ferro, ho il piacere di presentarvi le recensioni incrociate di Sabrina Campolongo e Laura et Lory (Laura Costantini e Loredana Falcone).
Naturalmente siete tutti invitati a interagire con le “autrici/critiche”. Ponete domande sulle loro opere e sulle loro recensioni incrociate.Ovvero… tartassatele.
Massimo Maugeri
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Sabrina Campolongo, “Il cerchio imperfetto“, Edizioni Creativa, 2008, pagg. 182, euro 12
recensione di Laura et Lory
Un libro sulle donne, scritto da una donna e scelto da un’altra donna per una collana che si dichiara Declinata al Femminile. Sono caratteristiche, queste, salienti per analizzare Il cerchio imperfetto, eppure vorremmo evitare la catalogazione nella cosiddetta letteratura femminile perché il romanzo di Sabrina Campolongo è soprattutto un viaggio all’interno di un universo che ci riguarda tutti, uomini e donne. Si parla di paura di vivere, dei sensi di colpa, del sentirsi inadeguati. Di più, imperfetti.
Sabrina usa i suoi personaggi per tratteggiare la difficoltà di relazione che caratterizza il nostro mondo. Tra Marga, Francesca, Viola, Massimo, nessuno ha la capacità di gestire serenamente un rapporto con l’altro, sia esso d’amicizia o d’amore. Nessuno riesce a trovare il coraggio di accettare l’altro come un dono, perché troppo forte è la paura di doversi dare fino in fondo, fino al confine tra il donarsi e il perdersi. Eppure tutti, indistintamente, hanno un disperato bisogno di amore.
Ha bisogno d’amore Margherita, Marga per le amiche. Lei che colleziona scopate come alcune donne fanno con le scarpe, o con le borsette. E’ spinta verso il sesso da una fame compulsava, non molto diversa da quella che da ragazzina la trascinava in ginocchio, davanti al frigorifero aperto, nel cuore della notte, a ingollare tutto ciò che le capitava sotto tiro.
Marga che ha gli occhi come pozzi verde cupo quando nella sua bulimia erotica incappa in un uomo violento. Un uomo che non ha capito.
Di uomini che non hanno capito ce ne sono molti nelle pagine di Sabrina.
C’è il marito di Francesca, Carlo, che non riesce a capire il bisogno di una madre di macerarsi nel senso di colpa per un figlio imperfetto. Un figlio che l’ha abbandonata alla solitudine, come tutti coloro che sono stati importanti nella sua vita. Francesca è un’artista, ma il linguaggio dei colori non basta a dissipare il buio che si porta dentro quando la giornata si svuota di colpo. Davanti solo un deserto spaventoso, incolmabile. Poter tornare a letto… E’ impossibile dipingere, è impossibile uscire di casa, lavarmi i capelli. Impossibile sollevare il ricevitore del telefono, impossibile sostenere una qualunque conversazione.
E’ la depressione il demone di Francesca. Un’ombra scura che la insegue e la precede schiacciandola in devastanti crisi di panico. Eppure a sconfiggere il mostro basta poco.
- Ciao, ti ho svegliata?
La sua voce, la voce di Massimo.
Vuoto nello stomaco, cuore che sbatte contro le sbarre della sua gabbia d’ossa, cercando di schizzarne fuori. E quel nodo implacabile che si scioglie, restituendomi lo spazio per gonfiare i polmoni.
Le donne amano così.
Eppure Massimo, il ragazzo che ha aperto uno spiraglio nella vita sentimentalmente irrisolta di Francesca, non capisce. O meglio, non vuole capire. Perché anche qui il rischio è il passaggio tra ciò che si ha e ciò che si potrebbe avere.
Lo sa bene Viola, che è nata con il corpo di un uomo, si è venduta per rendere visibile al mondo la femminilità della sua anima, ma non può accettare un amore vero. Un amore da donna. Perché lui non capisce. Pensa solo di fare un grande gesto romantico, non capisce e non gli interessa nemmeno di capire. Non sa cosa ci succederà. Non può capire, come te. Te lo ripeto Francesca: non posso andare a vivere nelle case popolari. I poveri non hanno pietà per quelle come me.
La pietà, la capacità di accettarsi per ciò che si è, manca a tutti i protagonisti di questo cerchio imperfetto.
Il libro di Sabrina Campolongo ha il pregio di descrivere, con la naturalezza del vissuto, stati d’animo che difficilmente vengono raccontati da chi ha la sfortuna di provarli. E’ un libro che scava in zone buie e forse, proprio per questo, il quadro che ne esce racconta di un’umanità fragile e dolente. Un’umanità che non riesce a trovare una rivincita, che non lotta fino in fondo, che si accontenta di un non detto.
Ti amo. Potrei dirti.
Potrei dire ti amo e non cambierebbe nulla.
Non aggiungerebbe nulla.
Posso dirtelo, non credo che lo farò mai.
E’ la sanzione di una sconfitta. Accettata con la strana gioia di una saggezza che, ancora una volta, parla della nostra profonda incapacità.
Laura et Lory
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Laura Costantini e Loredana Falcone, “Roma 1944 – lo sposo di guerra“, Maprosti & Lisanti editore, 2007, pagg. 480, euro 15
recensione di Sabrina Campolongo
Due donne, al centro di questo romanzo, due sponde dello stesso fiume. Da una parte Camilla, ruspante ragazza del popolo, impegnata a tempo pieno a “risolversi la giornata” (vedi mettere assieme un pasto almeno al giorno), dall’altra Ottavia, la contessa Visconti-Parini, assediata nel suo stesso palazzo dalle truppe americane che ne hanno preso possesso, con suo malcelato fastidio.
Due binari, due destini, quello della popolana rimasta sola al mondo, e quello della nobildonna abbandonata da un marito fascista e puttaniere, che in un altro momento storico non si sarebbero mai incrociati, limitandosi a guardarsi dalle due opposte, seppur vicine, tribune: quella dei servi e quella dei padroni.
Ma, in questo particolare dove e quando, tutto, forse, può accadere: Roma, giugno 1944.
Siamo nel cuore di una “città eterna” ferita e umiliata, che deve piegare la testa e accogliere nella sua carne truppe straniere che la proteggano da se stessa, una città costretta ad accettare di farsi salvare a colpi di coprifuoco e restrizioni, siamo in una Roma alla fame, che piange i suoi morti e i suoi palazzi distrutti, e si interroga su un futuro ancora incerto.
In questo sbando totale, non sorprende che i ruoli diventino elastici. Attraverso le pareti sbrecciate, le cuciture che cedono, che si sfilacciano, ecco che Camilla e Ottavia si trovano a essere prima di tutto due donne sole, e poi, solo sullo sfondo, una serva e una padrona.
Pur nella paura del futuro, pur nelle difficoltà, queste due donne, fino ad allora chiuse dentro due vite cucite loro addosso, rigide come gabbie da cui non si può scappare, si trovano tra le mani, quasi loro malgrado, l’occasione unica e irripetibile di essere se stesse.
Non ci sono madri, mariti, o fratelli a controllarle da vicino, nella lotta per la quotidiana sopravvivenza come nelle notte solitarie nella roccaforte del palazzo, non ci sono uomini a imporre, a vietare, a proteggere, a salvare.
Sono sole, sole come si può esserlo quando si è sopravvissuto a una guerra, sole come dopo l’abbandono di tutti, sole come chi non ha più nulla, a parte se stesso, da perdere.
Sole, all’apparenza, finché si innamorano (eh già) di due uomini, due dei “salvatori” americani. Ma sole, mi sembra di poter dire, anche, e dolorosamente, dopo.
Perché, se Camilla e Ottavia sono cresciute, nella consapevolezza di sé, durante questi mesi di solitudine e lotta per la sopravvivenza (materiale e/o spirituale), lo stesso non si può dire degli uomini di questa storia, il giovane Michael che ama Camilla in buona fede, ma, alla fine come un bell’oggetto da possedere e riportarsi in patria intatto, e il colonnello Samuel Kilpatrick, che si concede il diritto di vivere con Ottavia quell’amore totale che il rispetto delle convenzioni gli ha fino ad allora negato, ma senza mai dubitare nel profondo che sarà di nuovo in quella direzione, in quella degli obblighi familiari, che i suoi piedi volgeranno, alla fine della guerra.
Nemmeno il finale (che non svelerò) se pur con un avvicinamento, riesce a sanare la frattura, tra queste donne che lottano per la propria integrità e il proprio diritto a essere se stesse, e questi uomini che non riescono ad amare alla pari, uomini mossi da onesto desiderio, ma anche da ansia di “salvare”, di controllare, di imporre le proprie decisioni.
Il che è indubbiamente coerente con il momento storico. Difficile credere nella possibilità di un vero rivolgimento, è corretto quanto inevitabile il finale “convenzionale” di queste storie. Alla fine, la libertà selvaggia e pericolosa sperimentata in quei giorni lascerà segni profondi, nelle vite dei protagonisti, ma non stravolgerà il paradigma.
Gli uomini continueranno a prendersi la libertà come un diritto sacrosanto, e le donne continueranno ad accettare gli addii, e ad accogliere, e a perdonare.
Eppure, si intuisce che la consapevolezza è diversa: le donne, le sopravvissute, quelle che hanno lavorato nelle fabbriche, quelle che hanno dato da mangiare ai figli quando i mariti erano al fronte, quelle che hanno preservato la propria anima sottraendola alle violenze del corpo, cominciano a mostrare insofferenza, verso quelle figure maschili che vorrebbero tornare a decidere delle loro vite. Ma i tempi, nel 1944, non sono ancora maturi. Forse di questo Laura Costantini e Loredana Falcone ci racconteranno in un prossimo romanzo.
Intanto, quello che resta, dopo la lettura di questo “Roma 1944”, al di là delle vicende individuali e sentimentali dei protagonisti, è l’affresco dolente ma anche vitale (a tratti decisamente divertente) di una città e dei suoi abitanti, sanguigni e beffardi, violenti e disarmanti, acciaccati, ma mai disposti a chinare la testa, ironici anche mentre si svendono, capaci, li si direbbe, di prendere in giro persino la morte.
Acconciarle i capelli in morbidi riccioli era sempre stato il compito di sua madre, fin dalla prima volta, il giorno della Prima Comunione. Sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre la nostalgia per Assunta le scavava un dolore sordo nello stomaco, le sembrò quasi di vederla alle sue spalle, riflessa nello specchio della toeletta, con i suoi capelli grigi annodati in una crocchia sulla nuca, la sopravveste bianca quando andava a servizio da donna Matilde, la madre della contessa Ottavia. Le sembrò di sentire la carezza delle sue dita sui capelli e la sua voce che le sussurrava: “Sta’bbona fija mia, nun piagne…ce n’avrai de tempo pe’ disperatte nella vita…”
Sabrina Campolongo
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