lunedì, 22 giugno 2009
TU NON DICI PAROLE di Simona Lo Iacono
Conobbi Simona Lo Iacono nel 2006 in una libreria, a Catania, nel corso della presentazione di un volume (io ero tra i relatori). In quell’occasione ebbi modo di accennare alla mia esperienza letteraria on line su Letteratitudine (che era appena nato). Finita la presentazione Simona mi si avvicinò e mi chiese l’indirizzo del blog, affermando di essere molto interessata da questa esperienza.
In verità non intervenne subito. Passarono mesi. Credo che il suo primo commento letteratitudiniano sia datato 26 settembre 2007. Vi riporto uno stralcio: “la letteratura è solo quella dei libri? Non è spesso aria, desiderio, pensiero non ancora incarnato? Non è anche eco di versi? E che differenza fa se questi versi prendono forma in musica o nella voce di un altro poeta? A volte la poesia rinasce dalla stessa poesia, e la narrazione da un suono. Tutto, nell’arte, può convivere con tutto, purchè le combinazioni non turbino l’armonia, la bellezza, l’etica del linguaggio“.
Tutto, nell’arte, può convivere con tutto. E – in effetti -, da quel giorno, l’arte di Simona cominciò a convivere anche con questo blog.
I suoi commenti si fecero sempre più frequenti… e interessanti.
Una delle prime cose che subito mi colpì fu la sua tendenza a miscelare in maniera mirabile diritto e letteratura… la sua esperienza di magistrato, con quella di scrittrice. Per tale ragione il primo post che le affidai fu questo dedicato al romanzo “In una lingua che non so più dire” di Tea Ranno (era il 19 novembre del 2007). Il protagonista di quella storia era un magistrato. Pensai: chi meglio di lei?
Il post ebbe grande successo. Nel frattempo continuò a scrivere commenti su commenti… dai quali venivan fuori la sua abilità di scrittrice frammista alla sua esperienza di giurista.
A un certo punto ebbi un’intuizione, determinata anche dalla lettura della bozza del suo primo romanzo “Delle parole e delle sue figliolerie” (rispetto al quale mi permisi di darle qualche consiglio… compreso quello di cambiare il titolo).
E capii…
Le dissi: “secondo me devi portare avanti una nuova poetica, capace di mettere insieme diritto e letteratura; parola e processo”. Fu per questo che le proposi di condurre, su questo blog, una rubrica intitolata Letteratura è diritto, letteratura è vita (era il 10 luglio del 2008).
(E le dissi che, secondo me, avrebbe dovuto cercare di approfondire questa “poetica” anche con i libri futuri).
Il 29 luglio del 2008 parlai di lei sulla pagina Cultura del quotidiano Il Mattino, all’interno di un articolo sulla letteratura siciliana (l’articolo fu poi ripubblicato su Carmilla on line)… dove la presentai come una scommessa.
Ecco. Credo che l’attribuzione del Premio Vittorini 2009 – sezione Opera prima – a “Tu non dici parole”, sancisca la vincita di questa scommessa.
Di seguito troverete il post originario… e tre video tratti dalla presentazione catanese di questo romanzo.
Il mio piccolo omaggio a una scrittrice che è cresciuta insieme a questo blog e che è destinata a raggiungere traguardi sempre più importanti.
Auguri, Simona!
Massimo Maugeri
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POST DEL 21 GENNAIO 2009
Parliamo di un romanzo ambientato in Sicilia, a Bronte, nel 1638… ai tempi dell’Inquisizione.
Non tutti sanno che l’Inquisizione siciliana nacque sotto forma di… balzello. In effetti fu formalmente introdotta intorno al 1224 dall’imperatore Federico II, quando dispose che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo.
Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell’Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, un certo Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII.
Nel solo anno 1546 i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. I reati per i quali si veniva processati erano l’eresia… ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l’usura.
L’Inquisizione nell’isola venne abolita con decreto regio del 6 marzo 1782 (disposto da Ferdinando III di Sicilia).
Torniamo al romanzo.
Francisca Spitalieri è una innamorata delle parole. Ma non di parole qualsiasi… delle parole belle. Francisca “ruba” queste parole. Le ripete. Per certi versi le re-interpreta. Sono parole latine, per lo più. Parole liturgiche e dell’offertorio… sentite in convento.
Cos’è che colpisce Francisca? Forse la loro austerità… che le fa sembrare al di sopra delle parole ordinarie. O, ancor di più, la loro musicalità. Qualunque sia la ragione, Francisca ama queste parole, rimane estasiata dalla loro bellezza. E le ripete. Le ripete senza nemmeno conoscerne il significato.
Ora, questo suo amore per le parole viene considerato… strano. Anormale. E viene messa a giudizio.
Il romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone, 2008, € 15). L’autrice è Simona Lo Iacono.
Vi invito a discutere di questo libro interagendo con Simona.
E poi vi invito a riflettere (e a discutere) sul ruolo della parola. E sulla sua importanza.
Quante persone - tra cui scrittori e intellettuali - hanno pagato, stanno pagando, o pagheranno, sulla pelle… il peso delle loro parole?
Di seguito potrete leggere la recensione di Maria Rita Pennisi e la monografia di Maria Lucia Riccioli. Su “Lo schiaffo” c’è una recensione di Salvo Zappulla. Mentre sul blog “La poesia e lo spirito” trovate una mia minirecensione con intervista all’autrice.
Massimo Maugeri
“Tu non dici parole” di Simona Lo Iacono – Perrone, 2008 – euro 15
di Maria Rita Pennisi
Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, romanzo simbolico che adombra la scomparsa del femminino sacro. Anno 1638, la luna, ultima testimonianza della perduta divinità femminile, illumina il sonno delle Esposte della casa di Bronte. Non si tratta di una luna bella e lucente, ma di una luna fosca e tenebrosa, presaga di morte. Ormai nel mondo cristiano la luna non può più ammantare del suo splendore le donne, come accadeva nei boschi sacri dei Druidi, né il suono dei sistri dei riti misterici di Iside può accompagnarne i passi di danza. E’ sceso un luttuoso silenzio, che acuisce i sensi di queste donne sempre all’erta, che sembrano fondersi con la madre terra e divenire un tutt’uno con la vegetazione.
Donne che preferiscono tenersi nascoste, stare ai margini, fiutare nell’aria. Adesso non sono più considerate figlie della luna, ma figlie di Eva, la corrotta, la corruttrice. Guardate con sospetto nella società misogina del Seicento. Peccatrici e dannate, dette streghe da quegli uomini che avvertono ancora in loro un barlume di divinità. Il femminino sacro di cui essi hanno timore, un timore che spesso arriva al parossismo.
Nella notte del massacro delle esposte, perpetrato dal Pilosa e dai suoi compagnacci, solo Pititta, forse tra le poche figlie della luna rimaste, ha avvertito il pericolo. Lo ha fiutato nell’aria, lo ha letto nella faccia della luna prima che il massacro avvenisse, ma non si è salvata.
Mentre Francisca, unica su cento, è ancora in vita. Francisca che ha gridato miserere, miserere, miserere. L’hanno salvata queste “parole belle” che hanno turbato il Pilosa fin nel profondo e che per questo l’ha risparmiata.
Francisca ha capito che il mondo è diviso in due dalle parole. Esistono parole belle come le cose che non sono di questa terra per i ricchi e parole lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto. E capisce anche che sue per sempre devono essere le parole belle. Nel suo sé profondo Francisca percepisce la potenza delle parole, intuisce che le parole muovono il mondo, che le parole sono vita.
Un romanzo speculare, “Tu non dici parole”… scandito da due equinozi e due solstizi in cui si collocano i quindici giorni del Carnevale, che sovvertono l’ordine del mondo. Lo specchio capovolto della vita di Francisca. Francisca innocente, ma strega perché dice le parole belle, le parole rubate. Cento parole in tutto. Novantanove parole belle più la centesima, che le racchiude tutte nella rappresentazione del Cristo di fra’ Umile, a cui si possono rivolgere solo parole belle. Novantanove le esposte uccise. Una sola donna sopravvissuta, Francisca, salvata dalle parole belle.
Uno spaccato storico della Bronte del Seicento, dove imperversano povertà e superstizione. Dove le vite sono già segnate dalla luce o dalle tenebre.
E non c’è salvezza. La mascherata del Carnevale cercherà di portare giustizia sotto le spoglie della “rondine Tufania” improvvisatasi avvocato di Francisca, nel Tribunale della Santa Inquisizione. Riuscirà infine Tufania nel suo intento? Francisca, dal canto suo, conserverà per sé le parole belle, perché sa che la morte è muta, non dice parole. La morte quando arriva è silenzio.
Maria Rita Pennisi
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La monografia di Maria Lucia Riccioli
Sicilia, 1638.
Siccità e carestie, l’ignoranza e la sofferenza delle plebi schiavizzate da nobili e gabelloti corrotti, da un clero spesso teso a difendere i privilegi acquisiti più che a farsi strumento e voce di liberazione di poveri ed oppressi.
Questo lo sfondo del libro d’esordio di Simona Lo Iacono, raffinata e sapiente poetessa ed autrice di racconti brevi che qui si cimenta nella forma romanzo e supera brillantemente la prova, donandoci una storia dolente e bruciante d’umanità e sofferenza.
Protagonista, un’esposta. Suor Francisca Spitalieri.
Orfana e donna: questa la summa delle disgrazie per una donna del Seicento.
A questo si aggiungono i suoi misteriosi poteri, che rimangono inspiegati anche alla stessa Francisca. L’esposta è additata come strulusa e magara, fraintesa nel suo desiderio di bellezza. Francisca infatti è alla ricerca di parole belle, «che hanno parole sugli spiriti e sulla morte, sulla paura e sulla speranza» (p. 42), che sono capaci di lenire le sofferenze e le privazioni di orfana sottomessa, gli stenti e le angherie che è costretta a subire.
Parole belle sono quelle di chiesa, stralci di breviari, fogli scompagnati di messale, che ruba per tenerle con sé, quasi come fossero talismani contro il male, la sofferenza, la morte.
Opera visionaria e a tratti surreale, questo romanzo risente della lezione dei sudamericani, in primis di Gabriel García Márquez e di Isabel Allende, che trasfigurano il reale con incursioni nel mito, nel sogno, nell’incubo, grazie ad una fantasia sbrigliata e potente.
La Lo Iacono vi trasfonde l’esperienza e gli studi giuridici, oltre che l’amore e la pratica della letteratura, dato che questa è anche la storia di un processo, la riflessione poetica e sofferta del rapporto tra diritto e giustizia, il ripensamento sulle catene di codicilli che hanno mandato sul rogo decine d’innocenti per sospetti e accuse di stregoneria.
La metafora del furto di parole da parte di Francisca è un chiaro riferimento al lavoro dello scrittore, che è ladro di parole per eccellenza: le cerca nei libri, nelle storie che legge e in quelle che gli vengono raccontate, le pesca per strada, le orecchia nelle conversazioni, le stana in una continua ricerca di bellezza.
Ma in questa ricerca di purezza l’esposta si scontra con l’ingiustizia e farà a sue spese la conoscenza con quella che Cesare De Marchi ha chiamato in un recente romanzo la furia del mondo, così come lo scrittore, il poeta, si scontrano con l’indifferenza, l’opposizione, spesso con la persecuzione da parte di chi le sue parole non vuole ascoltarle o le fraintende o vuole piegarle ai suoi scopi.
Francisca «ha capito che esistono parole per i ricchi e parole per i poveri. Le une lette, scolpite, recitate e – soprattutto – belle, bellissime come cose che non sono di questa terra. Le altre lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto» (p. 18).
L’esposta è più attratta dal significante di queste parole – il loro suono, che le appare celestiale – che dal significato, che le rimane ignoto, misterioso perfino, estraneo sempre.
[…] le parole sono peggio del fiato. […] sono cose di poveri, le parole, di malaugurati come te e me, che non hanno pane, né letto, né vestine e, parlando, se le inventano (p. 15).
Meglio tacere? Non sempre è possibile. Ma per Francisca è meglio che le parole vengano pensate, lette oppure, meglio ancora, rubate.
Ed è così che si appropria di pezzi di breviario, di pagine che almeno fisicamente l’avvicinino a quelle parole belle che la escludono da un mondo per il quale Francisca Spitalieri non esiste.
Le parole belle sono un’ossessione:
«continuano a tormentarla, a deriderla, a volarle intorno come mosche invadenti e riottose. Francisca le ripete tamburellandole, ballandole nella testa e nei pensieri» (p. 19).
Pesano, le parole rubate, come un lascito, una necessità compulsiva, una responsabilità, un tesoro prezioso da nascondere ai profani.
Francisca addirittura le interroga, le parole. Come se fosse nelle parole il mistero di ciò che rappresentano, come se possederle volesse dire avere le chiavi che possano aprire, come poetava Montale, i mondi. Quando invece le parole possono dirci, a volte, nient’altro che ciò che non siamo, ciò che non vogliamo:
«ditemi parole belle, ditemi parole maliarde, il perché e il per come del nascere e del morire, o anche del sopravvivere» (p. 34).
La verità, invece, parla un linguaggio diverso, che va al di là delle parole, com’è nel romanzo della Lo Iacono, in cui la ricerca di Francisca sarà fraintesa, a partire dalle monache, fino al bandito Pilosa e agli inquisitori, e come l’esistenza stessa ci testimonia.
Oltre che oggetto del desiderio di Francisca, che le ricerca con foga angariosa (p. 14), le parole belle sono la chiave del romanzo. Rappresentano inoltre l’ossessione dello scrittore per la bellezza, per la sua cristallizzazione nella scrittura, che non le perda e le conservi intatte.
Nel suo percorso alla ricerca delle parole belle, Francisca comprende che esse rispondono ai bisogni delle persone – ricerca di consiglio, di conforto, di promesse, di conferme… non siamo tutti, in fondo, alla ricerca di parole?
Francisca «sussurra fraseggi che paiono cinguettii d’uccelli, o strisciare frusciante di bisce.
Una cosa sola sa, Francisca. Che qualunque cosa svelino le parole belle, lei piange con chi piange. E lei ride, con chi ride […]. Mie sono le vostre fatiche, miei i vostri sguardi, mia, solo mia la vostra parola.
Se ve la ridò, affrescata di cantici, ripulita da ogni bruttura, è per restituirvela.
Perché, nella sua bellezza, già vi apparteneva» (p. 53).
Francisca dunque scopre la parola come segno di comunicazione, di partecipazione emotiva profonda. Che poi è il livello a cui agisce lo scrittore, che si fa in un certo senso interprete delle attese di bellezza ed espressione non superficiale ma dalla risonanza intensa legate alla parola.
Anche il suo stesso nome, riconquistato dopo una faticosa ricerca della propria identità – prima esposta, poi monaca, poi… soltanto Francisca – è una parola che racchiude una storia, un autoriconoscimento, un destino.
«[…] le parole belle assottigliano l’udito, l’olfatto, la vista» (p. 108).
Dunque la parola è addirittura anticipatrice del futuro, veggente quindi, visionaria e diremmo profetica.
Come non pensare alla scrittura, al poeta veggente – Rimbaud – , alla letteratura, che oltre a riflettere il reale esteriore e interiore dell’artista presagisce e spesso anticipa ciò che verrà?
Diverse sono invece le parole dell’amore, che nascono da un bisogno, da una ricerca quasi febbrile dell’altro, da una malìa che strega corpo mente e spirito, oltre la volontà, la ragione, la paura: «pare una febbre malsana di deliri, un ansimare che quasi la tradisce, le fa sfuggire un lamento subito soffocato, un rigurgito di parole mai più pronunziate.
Risalgono le qualità del suo essere, sono alle sommità dello sguardo, del pensiero, della bocca. Le muovono lingua, palato, gola contro la sua volontà.
Non sono le parole belle.
Ma […] sente di non poter più tacere» (p. 54).
Per dire l’amore, non servono parole da rubare.
«Servono solo quelle con cui è nata» (p. 65).
A volte, non è necessario neanche usarle, le parole: quando si è felici, quando si gode del semplice stupore di essere vivi, «ogni istante è nudo, così pieno da sembrarle bello senza avere bisogno di essere detto» (p. 82).
Non è facile comprendere che «la bellezza di quelle parole esiste, ed è nella donna che le ha pronunciate. Non può sapere che la bellezza è nuda: senza maschera, senza copertura, senza travestimento» (p. 76).
Nel romanzo c’è chi non crede alle parole, come l’arcivescovo Angimbè, perché offeso e tradito dal silenzio: «finge di non voler credere alle parole e invece le teme, le cerca e le annusa come un maschio innamorato» (p. 77), c’è chi le parole le utilizza per vessare, ingannare, rovinare.
Tu non dici parole si pone dunque come una storia fatta di parole sulle parole.
L’autrice nutre anche lei un vero e proprio culto per le parole belle, risentendo della ricerca e dello sperimentalismo linguistico di una Silvana La Spina, di Vincenzo Consolo, dei siciliani insomma che hanno narrato scavando nell’essenza stessa della parola per cavarne fuori tutti i possibili sensi o magari quelli più riposti, o quelli che fanno risuonare corde intime e profonde.
La Lo Iacono si affida a una sintassi musicale, come se il testo fosse una nenia, un lamento, uno scongiuro, una formula di fattucchieria, o una delle litanie delle reverendissime monache.
Pensiamo alla parola “miserere”, che Francisca pronuncia per la sua bellezza, perché crede nel potere taumaturgico, sacrale, magico della parola, non perché ne comprenda il significato.
Spesso il ritmo è franto, spezzato com’è da una fitta serie di punti e di a capo che costringono il lettore a concentrare l’attenzione sul frammento, sulla parole, spesso sul suono di una singola sillaba.
Il filo della narrazione, spezzato in un capoverso, viene richiamato e ripreso al paragrafo successivo, conferendo alla pagina un andamento di pieni e vuoti. A volte la ripresa è affidata al capitolo successivo.
Grazie a questi espedienti tecnici, l’attenzione del lettore viene catturata e trascinata per le pagine del romanzo e il filo della narrazione rimane teso e avvincente.
La lingua della Lo Iacono è una lingua ricca, mossa, inventiva: l’autrice accosta audacemente parole latine e vocaboli inventati, dialetto autentico e una lingua propria, un idioletto che la caratterizza, per narrare una storia in cui le vere protagoniste sono le parole, con il loro segreto di senso concettuale ma sensuali, nel senso che portano con sé odori colori sapori sensazioni tattili suoni rumori: «ripetono voci straniere senza capirle mischiandole a parlate paesane fatte di scongiuri e fatture, improperi e preghiere» (p. 45).
Qualche riflessione sparsa sulla parola.
Che cosa significa “parola”?
Il termine deriva dal latino parabula. E qui ci sovvengono le parabole evangeliche, le quali non sono altro che exempla, verità che prendono la forma di apologo, di racconto con una sostanza sapienziale che due millenni non hanno scalfito. Densità, efficacia narrativa: ecco la forza delle parabole.
Nel latino basso, per intenderci non più il latino classico di Cesare e Cicerone, ma quello parlato e più recente che poi si sarebbe trasformato nei vari volgari, i quali si sono poi evoluti nelle lingue neolatine o romanze, il termine parabula è passato a designare la parola.
Ma il termine che più mi interessa è verbo. Il verbo, inteso come parte del discorso, è il motore di una frase: senza l’azione o lo stato espressi dal verbo, non c’è vita in un pensiero.
Il Verbo per eccellenza, secondo il vangelo di Giovanni, è la seconda persona della Trinità: il Cristo, che era in principio e grazie al quale tutte le cose sono state create.
Nulla esiste, tutto resta informe finché non viene nominato. Adamo nomina le cose e gli animali per divenirne il signore e custode. Dio stesso ci chiama per nome e Gesù assicura che i nostri nomi sono scritti nei cieli.
Per i musulmani il Corano è la stessa parola di Allah discesa sulla terra, per gli Ebrei il nome di Dio, impronunciabile perché sacro e terribile, poteva fluire dalle labbra del sommo sacerdote una sola volta all’anno, solennizzata secondo riti complessi e stabiliti.
Nomen omen, dicevano i latini, cioè il nome stesso conterrebbe il “destino” di un uomo e nell’antichità la maledizione, il male dicere, aveva valore ed effetto magico.
La parola quindi non ha solo valenza comunicativa, ma ad essa fin dall’antichità sono state associate virtù taumaturgiche e sacrali – pensiamo alle formule degli sciamani, alla forza della preghiera e delle formule rituali.
La parola ha valore anche giuridico: pensiamo ai giuramenti, alle sentenze, alle formule giuridiche dell’antico diritto romano, a tutto il problema delle norme e della loro interpretazione.
Esiste una disciplina il cui nome vuol dire “amore per la parola”: la filologia.
Il filologo è quello studioso che tenta di ricostruire la forma originaria di un testo, di congetturare sulle parti danneggiate o mancanti – pensiamo ai manoscritti antichi, spesso giunti fino a noi in condizioni di estrema precarietà e fragilità – ; questo preziosissimo lavoro, fatto anche di confronto con la tradizione orale, di collazione, cioè di operazioni di raffronto tra le varie versioni di uno stesso testo, consente di ottenere un testo più vicino a quella che è stata la volontà dell’autore e quindi di approssimarsi ad una possibile verità sul testo. Quantomeno permette di disporre di un testo su cui poi esercitare quello che è il compito del critico: l’esegesi e l’interpretazione della moltitudine di significati, di sollecitazioni, di valori di un testo.
Questa parentesi per cercare di intravedere la complessità di un discorso sulle parole e sul loro valore e significato profondi.
Oggi la parola è stata desacralizzata. Ne viene perpetrato un uso massiccio ma spesso un abuso evidente: parola usata per pubblicizzare, persuadere, conculcare, ingannare, calunniare, e non solo per «calmare la paura, togliere la pena, suscitare la gioia, accrescere la pietà», come scrive la Lo Iacono in epigrafe alla prima parte del romanzo citando Bufalino.
Quale argine a certi profluvi di parole che ci vengono dai mass media, da Internet, dai cellulari?
Riappropriarsi del valore della parola. Gustarla nel silenzio della riflessione. Della lettura.
Perché è il poeta, lo scrittore, che carica ogni parola di sensi e sovrasensi, che dal suo testo ci permette di indovinare contesti e sottotesti. Il poeta e lo scrittore lavorano sulla struttura, sul capitolo, sulla pagina, sul capoverso, sulla riga, sulla singola parola.
Perché nessuna sia fuori posto, perché permetta di esprimere mondi interiori, passioni e storia, individualità e coralità di destini.
Come accade nel romanzo di Simona Lo Iacono.
Maria Lucia Riccioli
Tags: maria rita pennisi, perrone, simona lo iacono, tu non dici parole
Scritto lunedì, 22 giugno 2009 alle 01:40 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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