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giovedì, 7 febbraio 2008

IGNORANTI A PIENO TITOLO?

Su Repubblica del 6 febbraio è stato pubblicato un articolo di Michele Smargiassi dal titolo: “Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere”. Un articolo amaro che mette in evidenza una realtà piuttosto scoraggiante: un laureato su cinque ha difficoltà a scrivere. Pare però che gli “ignoranti titolati” non si preoccupino più di tanto.

Tullio De Mauro considera il problema come un’emergenza nazionale. Ecco cosa dichiara: “Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti.”

Però dallo stesso articolo apprendiamo che “il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base.”

E allora? Che fare? Che dire? Chi ha ragione?

E chi è che, oggi, usa l’italiano vero (che non è quello di Toto Cutugno)?

Secondo Stefano Bartezzaghi “non lo usano certo i personaggi televisivi (la tv, in Italia, è oggi un canale di diffusione di dialetti). I dirigenti d’azienda, gli amministratori, i politici, i ricchi? Non scherziamo. I professori universitari? I giornalisti? Gli scrittori? I medici? Gli avvocati? Nemmeno loro, se non in una quota irrilevante”.

Bartezzaghi vi sembra un po’ supponente? Avete l’impressione che faccia troppo lo Smargiassi?

Io credo che abbia ragione.

E voi?

(Massimo Maugeri)

___________________

___________________

AGGIORNAMENTO del 9 febbraio 2008

Provo a rilanciare il dibattito con alcune domande/riflessioni.
1. Secondo voi la “scrittura rapida” tipica dei commenti dei blog può essere considerata come una via di mezzo tra la lingua parlata e quella scritta (considerate in senso tradizionale)?
2. La suddetta “scrittura rapida” ha una valenza negativa (rispetto all’argomento oggetto di questa discussione)?
3. L’ideale della perfezione linguistica è più difficile da raggiungere “oggi” rispetto a “ieri”? (Mi viene in mente la titanica operazione manzoniana di “risciacquatura in Arno”).
4. Siete a conoscenza di opere del passato – divenuti classici – che contengono “errori marchiani” dal punto di vista linguistico?
4. Rispetto al passato, la lingua parlata di oggi “detta” i cambiamenti di quella scritta in misura superiore o inferiore?
5. Quando un errore nella lingua parlata diviene “generalizzato”, può “imporsi” nella lingua scritta al punto tale da divenire “regola” ? Potete fare qualche esempio?

(Massimo Maugeri)


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Scritto giovedì, 7 febbraio 2008 alle 23:25 nella categoria PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

142 commenti a “IGNORANTI A PIENO TITOLO?”

Ovviamente attendo le vostre opinioni.
Inserisco di seguito gli articoli di Smargiassi e Bartezzaghi.

Postato giovedì, 7 febbraio 2008 alle 23:27 da Massimo Maugeri


Un “dottore” su cinque ha difficoltà a scrivere. Per non parlare della lettura, oggetto misterioso
Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere
di MICHELE SMARGIASSI
-

Dirimere un’ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque. A dir la verità, anche solo comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque. “Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente sui giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache”. Luca Serianni, linguista all’università di Roma 3, ne fece esperienza diretta un giorno nell’ambulatorio di un dentista cui s’era rivolto per un’urgenza. “Con le mie lastrine in mano chiamò al telefono un collega per avere un parere: “Senti caro, aiutami a diramare un dubbio…”. E il professore sudò freddo: “Un medico che non sa maneggiare le parole è un medico che non legge, quindi non si aggiorna, quindi forse non sa maneggiare neanche un trapano”.
Analfabeti con la laurea. Non è un paradosso. E nessuno s’offenda: ci sono riscontri scientifici. Il report 2006 del ramo italiano dell’indagine internazionale All-Ocse (Adult Literacy and Life Skill), coordinato dalla pedagogista Vittoria Gallina, non lascia spazio a dubbi: 21 laureati su cento non riescono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta (il bugiardino di un medicinale, le istruzioni di un elettrodomestico).
E non sanno produrre un testo minimamente complesso (una relazione, un referto medico, ma anche una banale lettera al capo condominio) che sia comprensibile e corretto. Una minoranza? Sì: un laureato italiano su due, per fortuna, raggiunge il quinto e massimo livello. Ma è una minoranza terribilmente cospicua, anche se si maschera bene. Negli Usa tre anni fa fu uno shock scoprire che i graduate fermi al livello base sono il 14%. Da noi il buco nero si manifesta a tratti, in modo clamoroso, come un mese fa, a Roma, al termine dell’ultimo dei concorsi per l’accesso alla magistratura. Preso d’assalto da 4000 candidati, in gara per 380 posti. Nonostante
questo, 58 posti sono rimasti scoperti: 3700 candidati, tutti ovviamente laureati (magari anche più) hanno presentato prove irricevibili sul piano puramente linguistico. “Per pudore vi risparmio le indicibili citazioni”, commentò uno dei commissari d’esame, il giudice di corte d’appello Matteo Frasca.
Il campanello d’allarme dovrebbe suonare forte. Non si tratta più di scandalizzarsi (e divertirsi) per gli strafalcioni nozionistici degli studenti. No, episodi come il concorso di Roma mettono a nudo il grado zero del problema. Stiamo parlando di chi è senza parole. Di chi dopo cinque (sei, sette…) anni di studio universitario non è riuscito a mettere nella cassetta degli attrezzi le chiavi inglesi del sapere: grammatica, ortografia, vocabolario.
Analfabetismo: anche questa parola sembrava scomparsa dal lessico, ma per esaurimento di funzione. Consegnata ai ricordi in bianco e nero del maestro Manzi. Falsa impressione, perché di italiani che non sanno leggere né scrivere se ne contavano ancora, al censimento 2001, quasi ottocentomila. Se aggiungiamo gli italiani senza neanche un pezzo di carta, neppure la licenza elementare, arriviamo a sei milioni, con allarmanti quote di uno su dieci nelle regioni meridionali. Ma almeno sono numeri che scendono. Aggrediti dal lavoro di meritorie istituzioni come l’Unla, capillarmente contrastati dai corsi ministeriali di alfabetizzazione funzionale per adulti dell’Indire (frequentati l’ultimo anno scolastico da 425 mila persone, tra cui, guarda un po’, 30.407 laureati, in gran parte, però, stranieri). Nobilmente contrastato ai livelli più bassi della scala del sapere, però, ecco che l’analfabetismo riappare dove meno te l’aspetti: ai vertici. Gli studiosi, è vero, preferiscono chiamarlo illetteratismo: non si tratta infatti dell’incapacità brutale di compitare l’abicì, di decifrare una singola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficacemente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrittura. Ma non è proprio questo l’analfabetismo più minaccioso del terzo millennio? Nadine Gordimer, per il bene della sua Africa, è di questo analfabetismo relativo che ha più paura: “Saper leggere la scritta di un cartellone pubblicitario e le nuvolette dei fumetti, ma non saper comprendere il lessico di un poema, questa non è alfabetizzazione”. Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?
Proprio no. Per niente sicuri. Quanti, del nostro già magro 8,8% di laureati (la media dei paesi Ocse è del 15%), leggono ogni giorno qualcosa di più delle réclame e delle didascalie della tivù? Quanti invece sono prigionieri più o meno consapevoli di quella che Italo Calvino chiamò l’antilingua? Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all’Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un’enciclopedia. Quasi nessuno (73 per cento) va in
biblioteca, e quando ci va, raramente prende libri in prestito. “Manca il tempo”, “sono troppo stanco”, le scuse più comuni. Ma ci sono anche quelli che non accampano giustificazioni imbarazzate, anzi rivendicano il loro illetteratismo come atteggiamento moderno e aggiornato: “leggere oggi non serve”, “è un medium lento”, “preferisco altre forme di comunicazione sociale”.
“La società sprintata”, come la chiama il pedagogista Franco Frabboni, preside di Scienze della formazione a Bologna, uno degli autori della riforma universitaria, è arrivata negli atenei. E gli atenei la assecondano: “La trasmissione del sapere universitario è regredita dalla scrittura all’oralità”, spiega. Nelle aule della nostra istruzione superiore, il grado di padronanza della lingua italiana non è mai messo alla prova. Persino l’arte dell’argomentazione orale, ponte fra i due universi semantici, è svanita, racconta Frabboni: “Professori sempre più incerti fanno lezione con diapositive, seguendo una traccia fissa. Ai laureandi si lascia esporre la tesi con presentazioni Powerpoint. I “test oggettivi” d’ingresso sono crocette su questionari”. La competenza linguistica non è considerata un pre-requisito indispensabile: “Devi guadagnarti cinque crediti per la lingua straniera, e cinque per l’informatica, ma non c’è alcun obbligo per quanto riguarda la buona pratica dell’italiano”. Un tacito accordo fissa tetti massimi di lettura ridicoli per i testi d’esame: “Quando un professore assegna più di 150-180 pagine, davanti al mio ufficio c’è la fila di studenti che protestano”.
Protestano, e poi si sfracellano contro il muro dell’esame. Sugli esiti dell’idiosincrasia per la lettura, agenzie private di tutoraggio hanno costruito imperi aziendali, come il Cepu, diecimila studenti l’anno. “Ci chiedono di aiutarli a passare un esame”, racconta il responsabile marketing Maurizio Pasquetti, “ma scopriamo quasi sempre che alla radice c’è la difficoltà o la paura di affrontare testi scritti. Escono da scuole superiori abituati a libri di testo ancora simili a quelli delle elementari, con testi spezzettati, già schematizzati, con tante figure e specchietti: di fronte al terribile “libro bianco”, fatto solo di pagine di scrittura continua, restano terrorizzati”.
“In Francia e Germania gli atenei organizzano gare di ortografia “, sospira il professor Serianni. Da noi è difficile perfino reclutare iscritti per i laboratori di scrittura che alcuni atenei, allarmati, hanno messo a disposizione degli studenti in debito di lingua. Quello di Modena è affidato al professor Gabriele Pallotti: “Di solito comincio da virgole e apostrofi…”. Pallotti nel cassetto tiene una cartellina di orrori: email, biglietti affissi alle bacheche, “esito profiquo”, “le chiedo una prologa”, “attendo subitanea risposta”. Ma correggere le asinate non è ancora abbastanza. “Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere” spiega. “Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare. Troppi ragazzi escono dall’università sapendo solo trascrivere la propria oralità, ovvero un flusso continuo di idee non ordinato e difficilmente comunicabile. Cioè restano mentalmente analfabeti”.
Ma se avessero ragione loro? Perché alla fine si scopre che il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base. E non perché non si accorgano delle deficienze dei loro nuovi assunti. Parlare con Carlo Iannantuono, responsabile delle risorse umane per la filiale italiana della Sandik, una multinazionale del ramo macchine per cantieri, reduce da una lunga selezione di personale laureato, è come farsi raccontare una serata allo Zelig: “Quello che se potrei, quello che s’è laureato per il rotolo della cuffia (e si vede), quello che glielo dico così, an fasàn (e io: e dü pernìs…)…”. Gli analfabeti conclamati, calcola, sono solo un 3-4 per cento, ma molti altri non sembrano pienamente padroni delle loro parole. E lei li assume lo stesso? “Dipende”, si fa serio, “noi cerchiamo
bravi venditori. Quello che deve discutere con i dirigenti della Snam è meglio sappia i congiuntivi. A quello che deve convincere un capocantiere della Tav forse serve di più un buon paio di stivali di gomma”.
“Non c’è alcuna sanzione sociale verso l’analfabetismo con laurea”, commenta con sconforto Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. Forse perché non si riconoscono immediatamente, si mascherano bene da alfabetizzati. “Fino a cinquant’anni fa l’incompetenza linguistica era palese: otto italiani su dieci usavano ancora il dialetto. Oggi il 95 per cento degli italiani parla italiano. Ma che italiano è? Solo in apparenza parliamo tutti la stessa lingua. Quando si prende in mano una penna, però, carta canta, e le stonature si sentono”. Non è una questione di stile: l’analfabetismo laureato può fare danni concreti. Il paziente che legge sulla sua prescrizione medica “una pillola per tre giorni”, alla fine del terzo giorno avrà preso tre pillole o una sola? “Ci sono guasti immediati come questo. Ci sono guasti a medio e lungo termine, e ben più pericolosi. Chi non legge smette anche di studiare. In Italia solo un venti per cento di quadri segue corsi di aggiornamento: quattro volte meno della media europea. Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un paese, molto più di un crollo della Borsa”. Chi parla male pensa male e vive male: è ormai un aforisma, quella battuta di Nanni Moretti. Se pensa male anche solo un quinto dell’élite dirigente, per De Mauro è un’emergenza nazionale: “Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti. E non lo prenda come un paradosso”.
(6 febbraio 2008)
Fonte: Repubblica.it

Postato giovedì, 7 febbraio 2008 alle 23:29 da Massimo Maugeri


L’ignoranza collettiva
di STEFANO BARTEZZAGHI
-
In un Paese diviso tra Eccellenze proclamate appena è possibile ed Emergenze sottaciute sino all’impossibile, e che considera i suoi beni culturali come mere merci da vendere ai turisti, tocca ridere per non piangere.
Si sa sin da principio che non sarà una risata, a seppellire la montagna di rifiuti linguistici indifferenziati che testimonia l’entità della nostra collettiva ignoranza. Ma di fronte ad articoli, cartelli esposti in pubblico, lettere più o meno ufficiali, tesi di laurea che altro fare?
Ognuno ha i suoi esempi favoriti: le donne “in [spazio] cinta” nei titoli dei tg, lo “schernirsi” che sostituisce sistematicamente “schermirsi”, il “più acerrimo” sulle pagine della cosiddetta cultura, il prezzemolo del “piuttosto che” usato scorrettamente al posto di “oppure”, “l’affatto” che può ormai significare sia “del tutto” che “per niente”, e quando lo si legge si è nelle condizioni dell’automobilista dietro a una macchina che mette all’improvviso le quattro frecce: che vorrà fare?
Si fermerà, svolterà a sinistra, a destra? Afferma? Nega? Oggi basta una consecutio azzeccata per guadagnarsi il carisma dell’erudito, e dire o scrivere “la maggioranza delle persone pensa” al posto di “la maggioranza delle persone pensano” pare una sottigliezza da cruscanti.
Lo scrittore americano David Forster Wallace in un saggio – approfondito e magistrale – sul tema Autorità e uso della lingua definiva alcune varietà di inglese: l’Inglese Scritto Standard è la più prestigiosa, quella usata dalla classe dirigente. In Italia si può tratteggiare un ideale linguistico, il sogno di un Italiano Scritto Standard, ma poi non si può indicare una classe di italiani che lo impieghi nella realtà. Non lo usano certo i personaggi televisivi (la tv, in Italia, è oggi un canale di diffusione di dialetti). I dirigenti d’azienda, gli amministratori, i politici, i ricchi? Non scherziamo. I professori universitari? I giornalisti? Gli scrittori? I medici? Gli avvocati? Nemmeno loro, se non in una quota irrilevante.
Il prestigio della lingua italiana è consunto: gli usi aberranti, dall’ortografia alla sintassi, dalla morfologia alla semantica, non sono efficaci neppure come indicatori del livello di guardia a cui sono arrivate le carenze culturali (e va beh) ma anche e soprattutto logiche. La crisi politica in corso – a seguirla lungo le sue linee-guida linguistiche, semiotiche e logiche – non dimostra innanzitutto, e profondamente, quanto siamo ignoranti – nel doppio senso di insipienti e di inconseguenti – , tutti?
(6 febbraio 2008)

Postato giovedì, 7 febbraio 2008 alle 23:30 da Massimo Maugeri


Anche il precedente articolo di Bartezzaghi è stato pubblicato su Repubblica.
Che ne dite?
Siamo messi così male?

Postato giovedì, 7 febbraio 2008 alle 23:31 da Massimo Maugeri


La lingua italiana è difficile. Gli errori di chi non ha fatto nemmeno le medie inferiorI sono perdonabili. Ma gli errori dei laureati sono imperdonabili. Intollerabili quelli dei giornalisti della carta e della TV. Credo che tutta questa ignoranza di persone acculturate dipenda dal fatto che leggono poco. Ormai in Italia si scrive di più e si legge meno. Saluti a tutti. Franca.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 00:04 da Franca Maria Bagnoli


La televisione come sappiamo ha favorito l’omologazione delle lingua italiana, dando vita ad un linguaggio povero, scontato, al limite dell’ordine grammaticale.
Si usa dire fra i conduttori e dietro le quinte, che bisogna rivolgersi al pubblico come se si parlsse ad un ragazzino di dodici anni, poichè questa é l’età psicologica e culturale dello spettatore medio. Via via la semplicità comunicativa, é diventata miseria. E media, letteratura e cinema hanno continuato sulla stessa strada.
Mi sono avvicinata ad un corso di scrittura, anche lì t’insegnano a semplificare. Ma semplificare significa ridurre il lessico, inibire la parola e le immagini che si accompagnano a questa. La nostra decivilizzazione è andata di pari passo a questo impoverimento espressivo.
Anche se in tanti scrivono, non é detto che lo facciano correttamente. ed é normale che altri tanti non sappiano scrivere.
Vorrei segnalare in proposito un caso isolato di lingua viva, originale e pastosa: Marosia Castaldi. Leggetela, e vi renderete conto quanto siano profonde le possibilità poetiche del nostro linguaggio.
Ritengo che ricchezza e varietà sopravvivono invece nelle forme dialettali. Ascoltare un racconto dai nonni é molto più significativo che non leggere un libello di un autore emergente.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 07:46 da francescasca serra


pardon ritengo che sopravvivano… mi sono appena svegliata

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 07:48 da francescasca serra


Francesca, scusa la pedanteria, ma se “ritieni” nel senso che ne sei sicura devi scrivere sopravvivono, non sopravvivano.
“Io penso che bla bla bla, sopravvivono nelle forme dialettali”.

:-)

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 08:02 da F. M. Rigo


C’è anche da dire che i laureati leggono poco, per non dire pochissimo e quindi non hanno nemmeno la possibilità di apprendere attraverso i testi di altri. Per quelli che leggono, poi si tratterebbe di vedere quale è l’oggetto di questo utile passatempo. Dobbiamo infatti riconoscere che non pochi libri, anche di autori conosciuti, presentano nella migliore delle ipotesi una lingua italiana non corretta.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 08:06 da Renzo Montagnoli


Come fruitrice di metri e metri di discorsi stampati (memorie difensive, verbali d’udienza, istanze di ogni genere) ho potuto constatare che, sì, gli errori di ortografia e di sintassi fioccano, anche da parte di principi del foro. Non tutti, ovviamente, e non in egual misura. Ma tra i giovani i migliori sono quelli che coltivano interessi letterari, i peggiori quelli che bazzicano le aule perchè “altro non c’è”.
Però la differenza di mercato esiste. Eccome. Il libero pofessionista che si esprime meglio, che arringa con disinvoltura e che scrive in modo corretto e persino forbito, ha un seguito che l’avvocato meno istruito non possiede. Il difensore colto conta clienti a dozzine, l’altro fatica di più, a volte si scoraggia, perde smalto e desiste.
Quindi c’è una selezione sul lungo periodo. Anche se dispiace e addolora, perchè moltissimi dei “meno letterati” avrebbero tante altre carte in regola per riuscire bene.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 08:12 da Simona


D’altronde è pieno di scrittori infatuati della ‘frase minima’ (soggetto-verbo-complemento. Punto) e che anzi di questa fanno bandiera democratica. Io non sono laureata in compenso, ma ho letto molto e quella, credo, è davvero l’unica scuola per imparare. certo ho letto classici, le belle frasi lunghe con virgole e punti e virgola e subordinate e due punti e… Ce ne sono certe di Sciascia che se avessi tempo riporterei volentieri… ma pare che così, lo dicono molti scrittori, la gente non capisca e dunque… Ricordo un affettuoso scambio di punti di vista con un editore famoso che bocciò (anni fa) le mie filastrocche (scritte per insegnare nuove parole ai bambini attraverso il gioco). Mi disse: Sono belle, davvero; ma non posso pubblicarle, sono troppo colte. Lei deve immaginarsi un’operaia che all’uscita dal lavoro passa dal supermercato e compra un libretto al figlio, ecco deve scrivere pensando a un soggetto così.
Mi scusi, ma se scriviamo sempre pensando a un soggetto, come lei dice, così: questo soggetto così rimarrà! Non crede?
Credeva, ma gli andava bene. Il punto è vendere. Il resto è fuffa.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 08:51 da cinzia


Non si puo’ saper scrivere se non si scrive. La scrittura va esercitata e la nostra scuola non vuole che i bambini, i ragazzini, i ragazzi scrivano. Mi sono laureata nel Pleistocene (1992) e devo dire che ricordo con un sorriso lo stupore della mia relatrice, la professoressa Isastia, assistente di Storia del Risorgimento, davanti alle bozze della mia tesi. Era estasiata dal fatto che non ci fosse quasi mai qualcosa da correggere (magari nei contenuti, nelle citazioni, comunque mai nell’ortografia). Fu lei la prima a farmi rendere conto che il saper mettere delle parole di senso compiuto su carta non era cosi’ scontato come poteva apparire visto che eravamo in un’universita’ e quindi al grado massimo di istruzione raggiungibile con un percorso scolastico. I miei coetanei di allora, come pare quelli di oggi, non sapevano scrivere. Ma ribadisco che secondo me non era colpa loro, cosi’ come non era merito mio il saperlo fare. Io scrivevo da sempre e leggevo da ancora prima. Quando finivamo di studiare (minimo sei lunghe ore giornaliere, festivi esclusi) io e Lory ci mettevamo a scrivere. Quando smettevamo di scrivere, leggevamo (libri per diletto, non testi scolastici). Insomma, una full immersion totale e voluta. Molti miei compagni del liceo, pur avendo avuto degli ottimi docenti (quelli che avevamo avuto noi) avevano serie difficolta’ di espressione scritta ed orale. Non veniva loro corretto lo scarso eloquio durante le interrogazioni, non era uso farlo ieri (immagino neanche oggi) e quindi non credo che i loro esami universitari siano stati particolarmente brillanti in eloquenza, almeno. Pero’ si sono laureati, spesso con voti alti, ed hanno avuto successo nella professione scelta. Non credo che in qualsiasi settore lavorativo il saper scrivere e parlare bene faccia necessariamente la differenza. Certo, se lavori per un giornale e non sai scrivere sei messo male, ma ne conosco parecchi di colleghi che hanno questo piccolo problema. Riguardo ai giornalisti tv, ha ragione Francesca Serra (ma sei sul blog gia’ all’alba?!): la regola che viene imposta e’ semplificare. Piccolo esempio e poi scappo a lavorare (per la famigerata tv che diffonde mancanza di cultura, gia’): nello speach (il testo di un servizio televisivo) gli autori consigliano sempre di usare parole di uso comune, niente che possa suonare oscuro al pubblico. Cose tipo oblio, algido, turgido, pleonastico, epitome e via di questo passo vengono bandite a priori. Io pero’ non lo sapevo e poiche’ i miei speach spesso sono connotati da una certa vena ironica, li ho infarciti di termini un po’ aulici (altra parola da evitare come la peste) per rendere il contrasto tra il tema (la prurigine di Manuela Arcuri per dirne una) e la volonta’ dell’estensore del testo (me medesima) di prendere le distanze. Nessuno si e’ mai lamentato, nessuno mi ha mai chiesto di cambiare un testo. Poi un giorno una collega, una veterana, anche piuttosto colta e brava nella scrittura, arriva e mi chiede: che vuol dire algida? Sono stata tentata di dirle che stavo parlando del mitico cornetto dal cuore di panna.
Laura

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:01 da Laura Costantini


Voglio dire, pensiamo a Enrico Gregori. e si che sta sur Messaggero.
E ci ha anche sette code come i gatti che se intorcineno tra de loro.
:)
Ma chi li fa scrivere questi studenti? Non scrivono MAI. Adesso poi la faccenda va peggiorando perchè si fanno i quiz colle crocette. La scrittura è un valore sottovalutato, e anche il parlare bene se è per quello. In altri posti – la solita esterofilia… – gli studenti hanno molte ma molte più prove scritte, relazioni, tesine. E’ nel sistema dell’istruzione superiore il problema

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:35 da zauberei


Sono molto d’accordo su tutti i commenti che ho letto finora – i laureati sono una massa di ignorantoni, non solo ma moltissimi sono anche cafoni, non salutano di prima mattina e spesso non rispondono al saluto, abbassano la testa (mi riferisco ai miei colleghi neo laureati, neoassunti) sono tutti ragazzi magari pieni di vita ma che del saluto non hanno avuto insegnamenti aseguati – io se incontro uno per le scale lo saluto perche’ anche se non lo conosco penso che lavora nel mo ufficio !!! loro, neanche per idea !!!!!! ti passano vicino e immagini di essere trasparente – non parliamo poi di quelli ai quali e’ stato dato pure un incarico importante…………..siamo qui’ gomito a gomito e quando ti passano vicino ti ignorano……..Allora, dico io, ma durante tutti quegli studi fatti possibile che nessuno insegna loro l’educazione??
Eh si, sono molto indignata per questo………siamo contornati da giovani colleghi molto ma molto maleducati !!!!!!
scusate il mio sfogo ma e’ questa una ragione che negli ultimi anni mi rende irritabile nell’ambiente di lavoro !!!!
per finire, non solo non sanno scrivere ma non sanno neanche stare in societa’ !! ……(vale la pena avere una laurea???) per apparire cosa??? –
saluti a tutti anna di mauro

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:44 da anna di mauro


“Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all’Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un’enciclopedia”. Condivido dal principio alla fine quanto scrive Smargiassi. E mi piacerebbe vedere affisse in tutte le librerie queste righe che ho stralciato dal suo sconsolato pezzo. Ho insegnato tutta la vita e ai miei studenti (liceali) e ho sempre cercato di trasmettere loro l’amore per la letteratura e l’interesse, non finalizzato all’interrogazione, per la lettura diretta dei testi. Nella nostra ora settimanale di 900, Pavese, Vittorini, Gadda, Lalla Romano, Elsa Morante, Primo Levi e tanti, tanti poeti, dalle tre corone del Due/Trecento fino ai contemporanei sono stati i nostri compagni di viaggio e di avventure meravigliose. Leggere Kavafis tradotto bene, leggere Rimbaud, leggere Saba, Montale, Quasimodo, e i dialettali che valgono, leggere Loi e leggere Raffaello Baldini, leggere e gustare poeti nuovi e originali come Pierluigi Cappello, straordinario erede di Pasolini, sia in friulano che in italiano, leggere Vittorio Sereni e Luciano Erba, è stata questa la nostra scuola e la nostra scommessa. E i miei allievi, ora sparsi per il mondo, hanno imparato non solo a scrivere correttamente, ma anche e soprattutto ad amare la lettur e a cercare, tra i tanti orrori, i pochi libri che veramente contano e che ci aiutano a diventare migliori. Almeno un poco.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:50 da desi


rem tene, uerba sequentur…

“speach” è una parola baule tipo speak + speech?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:52 da Paolo S


C’era un refuso, una “e” di troppo di cui mi scuso. Una specie di contrappasso dantesco!!
“Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all’Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un’enciclopedia”. Condivido dal principio alla fine quanto scrive Smargiassi. E mi piacerebbe vedere affisse in tutte le librerie queste righe che ho stralciato dal suo sconsolato pezzo. Ho insegnato tutta la vita e ai miei studenti (liceali) ho sempre cercato di trasmettere l’amore per la letteratura e l’interesse, non finalizzato all’interrogazione, per la lettura diretta dei testi. Nella nostra ora settimanale di 900, Pavese, Vittorini, Gadda, Lalla Romano, Elsa Morante, Primo Levi e tanti, tanti poeti, dalle tre corone del Due/Trecento fino ai contemporanei sono stati i nostri compagni di viaggio e di avventure meravigliose. Leggere Kavafis tradotto bene, leggere Rimbaud, leggere Saba, Montale, Quasimodo, e i dialettali che valgono, leggere Loi e leggere Raffaello Baldini, leggere e gustare poeti nuovi e originali come Pierluigi Cappello, straordinario erede di Pasolini, sia in friulano che in italiano, leggere Vittorio Sereni e Luciano Erba, è stata questa la nostra scuola e la nostra scommessa. E i miei allievi, ora sparsi per il mondo, hanno imparato non solo a scrivere correttamente, ma anche e soprattutto ad amare la lettur e a cercare, tra i tanti orrori, i pochi libri che veramente contano e che ci aiutano a diventare migliori. Almeno un poco.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:53 da desi


L’articolo del Corriere della Sera non mi stupisce. Tuttavia, provocatoriamente, chiedo: quale è il livello minimo per ritenersi capace di scrivere? E soprattutto chi ha imposto tale livello?
Siamo sicuri che siano gli altri a scrivere così male oppure sono taluni letterati, gli stessi che avallano questi studi, ad esigere uno standard lessicale troppo alto?
A me per primo rammarica sapere che esiste un’incapacità comunicativa così diffusa, eppure mi domando: la semantica della parola “dirimere” (dal dizionario del Corriere della Sera: 1 porre fine a qualcosa, risolverlo, SIN. troncare. 2 disgiungere, separare più persone o cose, SIN. dividere), che alle persone di questo blog e di tanti altri blog letterari pare talmente ovvia, deve per forza essere altrettanto ovvia alla gente comune o ai laureati?
Ripeto, la mia domanda provocatoria: il limite di sufficienza, in ambito lessicale, qual è? Chi lo decide? E sulla base di cosa viene deciso?

P.S.: Ho parlato solo di capacità lessicale perché ortografia e sintassi non possono trovare scuse, sebbene la scarsa conoscenza semantica porti spesso all’errore, tanto di sintassi quanto di ortografia.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 09:57 da Jean de Luxembourg


Sono convinta da un pezzo che l’ignoranza della lingua sia un grosso problema e mi meraviglia che ci se ne accorga solo ora: è da un pezzo che, anche e specialmente in televisione i congiuntivi non vengono usati, vengono sparati sfrondoni a spron battuto, usando vocaboli altisonanti che fanno a pugni con il significato del testo in cui sono inserite.
La sistematica omissione del congiuntivo(con l’uso del più semplice indicativo presente) oltre a dare fastidio fa perdere le sfumature dei concetti e involgarisce la nostra bella lingua.
Ma che dire: una volta la televisione si poneva anche come strumento educativo, ora sembra si faccia vanto dell’involgarimento ed imbarbarimento della lingua e portroppo non solo.
Si sa sono le leggi del mercato che prevalgono!
Donatella

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:02 da donatella


Lavoro da quattro anni nella selezione del personale. Più precisamente,
le persone che incontro a colloquio sono quasi esclusivamente laureati in giurisprudenza e avvocati. Si presume che sappiano mettere in fila due parole per comporre frasi di senso compiuto e dall’impeccabile ortografia. Non è sempre così, anch’io ho una piccola personale raccolta di strafalcioni che fanno al tempo stesso sorridere e riflettere. E’ vero, stiamo messi maluccio. Indubbiamente si legge poco e questo non aiuta, ma di fondo manca proprio la voglia di farlo, non c’è stimolo alcuno alla riscoperta della nostra lingua e del suo utilizzo. Personalmente ho sempre avuto ottimi insegnanti, di vita e di scuola, mettici la passione per la scrittura e viene fuori che anch’io, come Laura Costantini, mi sento quasi un fenomeno quando metto al posto giusto i congiuntivi.
Fate conto che ogni giorno sento almeno una persona che in un periodo ipotetico mette un condizionale dopo il se (e a me vengono i brividi), ma prendo atto che quasi nessuno intorno a me nota la stonatura. Per non parlare dei “propio” e dei “pultroppo” che usano in tanti.
C’è una colpa che però mi riconosco: quella di non avere quasi mai il coraggio di correggerli.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:05 da Silvia Leonardi


Il problema della lingua esiste. Nei contesti lavorativi si affermano le micro lingue di settore, i termini specifici ed i termini di uso. Nelle aziende si tende a “replicare” la lingua più che ad usarla. Credo che ognuno di noi, ricevendo una email, abbia potuto constatare quanto sia riconoscibile la connotazione professionale del mittente. E’ evidente che la mia, come tutte le generalizzazione pecca di superficialità, ma ho potuto verificare che i medici usano un certo vocabolario e certi costrutti, gli avvocati altri, i dipendenti di azienda altri ancora. Su questa “base linguistica” di settore, già drammaticamente deteriorata, si innesta la capacità espressiva del singolo, la sua cultura, la sua esperienza, quanto ha letto, quanto ha scritto, i racconti che ha ascoltato, i viaggi che ha fatto, i giornali che legge.
Io non credo ad una lingua perfetta e, soprattutto, codificabile, ma sono convinto che la capacità di scrivere, di comunicare correttamente, siano uno dei più grossi limiti che abbiamo.
Grande incidenza ha la fretta. Non c’è più il tempo di leggere, rileggere, questo commento ne è un esempio.
Sono altrettanto convinto che i blog possano rappresentare un buon ambito di ripresa della lingua, pur tenendo conto del fatto che anche in questo contesto la lingua si evolve, si modifica. Essi richiedono a chi vuole aprirli e tenerli vivi, di scrivere e, come dice Laura, non esiste miglior esercizio per la lingua. Un libro sarebbe meglio, ma è meglio che lo scriva chi è in grado di farlo.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:21 da eventounico


Non so come scrivano i laureati, devo dire che me ne frego abbastanza. Mi interessa come lo fanno quelli del mestiere. Non benissimo devo dire, e qui parlo soprattutto dei narratori.
In Europa un romanzo di solito è pieno di frasi farraginose, piene di subordinate (che vanno rilette almeno cinque volte). In particolare quelli francesi. Le storie narrate sono interrotte da capitoli colmi di antefatti.
Questa è la ragione per cui di solito leggo romanzi americani.
Per me la capacità di sintesi è un dono di inestimabile valore.
Il prendere il lettore per le palle “obbligandolo” ad arrivare fino all’ultima pagina col fiatone è la vera funzione di un romanziere. Il resto è fuffa: Se mi appalli con ventimila subordinate per me sei uno che “gira” attorno alle cose, non un mago della parola.
Poi se i medici scrivono coi piedi chi se ne sbatte. Anche uno scrittore solitamente non se la cava troppo bene con le tracheotomie.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:23 da F. M. Rigo


Vedi? Ho scritto duemila volte “solito” “solitamente”, questa è la prova lampante. De che? Direte voi? Be’, del fatto che Massimo se deve decide a mette la funzione “edita” sotto la paginetta dei commenti.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:28 da F. M. Rigo


Ovvero anche gli interventi vanno “tagliati”. Solo così quando si esprimono concetti articolati il lettore è disponibile a leggerli con interesse e attenzione.
Il Teatro mi ha insegnato che per essere ascoltati bisogna parlare poco.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:32 da F. M. Rigo


volevo dire: in un mondo dove le cose sono sfuggenti, figuriamoci se le parole possono restare salde.
Secondo me, nell’articolo di Smargiassi si mischiano problemi che stanno su più piani distinti, e quindi vado anch’io di parole in semilibertà vigilata. Bartezzaghi centra benissimo il più ampio quadro.

Siamo nell’età della tecnica, nel bene e nel male e al di là del bene e del male. La comunicazione sta togliendo il tappeto da sotto i piedi alla letteratura. “Capiamoci” sta diventando più importante di “diciamolo bene”.
Non è un male in assoluto. Anzim, magari. Ma la lingua italiana, per molti versi, non è adatta a questa direzione, e i suoi custodi meno.
Plurali assurdi: dito=>dita. O forbice forbici. Congiuntivi e condizionali. Coniugazioni irregolari.
Ecco lo schieramento dei linguisti e dei letterati e dei lettoriche si ergono a baluardo (vi siete mai imbattuti, passeggiando, in un “baluardo”? Definitemi “baluardo”: eppure sappiamo che vuol dire “ergersi a baluardo”; ma poi: è un cliché. Da evitare. Allora, a che serve “baluardo”, se non a fare della lingua un ostacolo?) della lingua come valore. Pure i più progressisti diventano tradizionalisti, e sotto sotto ci si chiede se non pensano “magari, se eravamo più accorti, potevamo essere tutti bilingui col latino! E non ci si chiede “valore de che, valore per chi?”
Plurali, verbi, arcaismi e irregolarità varie mettono il problema dell’ignoranza davanti a quello della comprensione. Devo conoscere e manipolare uno strumento complesso e stratificato per poi muovermi senza fare figuracce allo scopo di comunicare contenuti sempre più impoveriti. E poi, la precisione lessicale. A che servono (a chi servono) furfante, lestofante, mariuolo? A che serve la prosa di Manganelli o Arbasino se non a dichiarare “guarda mamma, senza mani!”?
[Parafrasare "Ti amo" è girarci intorno, è non arrivare a dirlo. E' amare la lingua più dell'amata. Questa è una povertà ben più grande]
Per sopravvivere oggi bisogna conoscere e manipolare anche altri strumenti complessi e stratificati, non solo la lingua.
A chi invoca la lingua la lingua, bisognerebbe rispondere, a livello politico nel senso più alto, in modo serio. Facendo riforme che semplificano l’ortografia (come nei paesi che indicono le gare della stessa – che a me fa ridere, ma poi penso che in una lingua dove pronuncio uazò ma devo scrivere oiseau chissà come andavano le cose prima della riforma) o definendo un lessico ragionato di base o un’autorità ufficiale. Mai notate le incongruenze tra lemmi in diversi dizionari? E poi però invocare tolleranza e cortesia, perché gli usi e le varietà sincroniche e diacroniche sono fonte di ricchezza e una lingua fissata è una lingua morta (e i linguisti fissati sono uomini morti… estremizzo e non è certo il caso di De Mauro).
Mi fermo, prendo fiato. Scusate la vis polemica.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 10:48 da Paolo S


F.M., non saprai cosa sono le tracheotomie, ma hai scritto la parola in maniera corretta. :-)

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:13 da eventounico


Una volta ho fatto un colloquio di lavoro per lavorare in un “call center”. Mi presento e una “welcome manager”, accoglie me e altri all’interno della ditta. Ci mostra gli ambienti e ci spiega le funzioni dei lavoratori. C’erano i “dialer” e i “pumper” e altri. Ad un certo punto (dopo circa ore di spiegazione), ci dice di andare a rilassarci nella “break room”. Seguitemi, dice, vi mostro la “break room”. Mi aspettavo un salottino vittoriano o una caffetteria spaziale. Era una rientranza tra due muri, larga circa un metro e dieci, dove svettavano due distributori automatici di caffé e bibite. Un cartello recitava sopra: “break room”.
Io ho riso. La “welcome manager” mi ha guardato sospettosa. Tanti erano estasiati: dall’ambiente e dallo splendore dei termini inglesi che lo descrivevano. Mi sono autolicenziato la mattina stessa.
Non ho nulla contro l’inglese. Ci mancherebbe. Ma se si continua a sostituire ogni benedetto vocabolo italiano con uno in inglese, così, indiscriminatamente, senza lo sforzo di ricercare un termine adeguato in italiano (che anche se fosse più lungo, che importa? dove sta scritto che bisogna parlare veloce???), poi è facile che si perda l’uso corretto della propria lingua.
I termini in inglese hanno dalla loro questo: hanno una patina di attualità, di freschezza, di vivacità catodica che i termini in italiano non hanno. E’ un’attualità senza spessore, spesso, vacua e commerciale, ma ci si sente molto contemporanei nell’usarla.
Sono parole d’ordine: e sappiamo quanto contino ormai le formule fatte, per integrarsi, sentirsi appartenenti dello stesso presente vorticante.
“Baluardo” non porta all’attualità e non porta all’integrazione.
Semplificare, però, è impoverire. La neolingua di 1984, faceva questo. Non è un problema di dizionario (non solo), ma soprattutto un problema di pensiero. Penso poveramente e poveramente mi esprimo. Parlo (e penso) quindi velocemente (perchè tanto ho poco tempo a disposizione perché gli altri mi ascoltino: avete notato delle chiacchierate casuali tra amici? un minuto su un argomento e via, subito passare ad un altro e ad un altro ancora e via per tutta la serata così), senza troppa profondità (che pensare troppo ammala, e parlare difficile annoia), senza gusto delle parola.
Il brutto è che si vive benissimo anche così. O almeno tanti lo fanno.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:14 da vito ferro


“Per sopravvivere oggi bisogna conoscere e manipolare anche altri strumenti complessi e stratificati, non solo la lingua”.

A me pare che spesso sia la neolingua di oggi a complicare più del dovuto la realtà.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:17 da vito ferro


Evento, te credo che lo so :-) scrivere dico, io mica faccio il podologo.

OT mamma mia come vanno i tuoi pupi? Io tra un po’ vado in Etiopia, me devo imparà una lingua di cui non so nemmeno il nome. Bello, bello, bello, poi ti dirò tutto.
:-)

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:26 da F. M. Rigo


Il “manipolare” di Vito Ferro fa pensare all’onanismo.
Mah, sarò stanca.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:28 da F. M. Rigo


@ F.M.Rigo: “manipolare” non l’ho detto io, ma Paolo S. Scandalizzati per lui. Io ho solo riportato una sua frase. Io mi diletto con altri termini. A me eccita tanto “Il Messaggero” ad esempio.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:31 da vito ferro


F.M. OT il mio sta benissimo. Sulla lingua ti capisco…io mi dilettai con il cirillico. Conosco quel misto di emozione e paura che hai dentro. Appena lo/la vedrai vorrai solo coccolarlo/a.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:39 da eventounico


A proposito di lauree e università!! Vi ripropongo qui una richiesta di consiglio che ho postato nella camera accanto.Vorrei infatti cambiare facoltà, passando da Scienze Politiche e Scienze delle Comunicazioni ma più di qualcuno mi ha detto che, la secondo, sia una laurea di seri B. E’ solo che io la vedo fatta appositamente per me e, la mia attuale facoltà, mi annoia e mi angoscia così tanto. Non so proprio che fare, uff…

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 11:59 da Germano


Parlo da insegnante. Al primo liceo – e sottolineo liceo, non scuola tecniche o corsi di giardinaggio, anche se sono per principio contraria a distinzioni di valore tra scuola e scuola – a me arriva “utenza” di scarso livello. Le competenze linguistiche di base sono veramente insufficienti. Per molti ragazzi interrogazione è una serie di risposte monosillabiche col libro aperto davanti. Non esiste più la classica esposizione con un discorso che inizia, si sviluppa e si conclude. Non parliamo dello scritto. Ortografia a livelli da spavento. Se poi penso che dovrei addestrare questi ragazzi a superare le prove d’esame quali saggio breve, analisi del testo, stesura di un articolo di giornale, mi metto a ridere per non piangere. L’emergenza nazionale è la scuola, veramente! Vuol dire che tra dieci anni ci ritroveremo un pugno di incapaci. Gente che non sa decodificare una legge, una circolare, non sa scrivere una lettera formale, una petizione. E gli insegnanti del futuro? Tremo al solo pensarlo. A volte mi sento come quel ragazzo olandese che tiene il dito nella falla della diga. Mi sento complice di un sistema che ha reso la bocciatura un affare di stato, da documentare con chili di carta, da scontare con corsi di recupero pagati da fame e cumuli di stanchezza. Non parliamo della lettura. Quando uno dei miei alunni ha entusiasmo per qualcosa che ha letto, mi sento miracolata. Che possiamo fare?
Un mio collega che corregge tesi di dottorato – TESI DI DOTTORATO, NON TESINE DI TERZA MEDIA – trova ancora errori ortografici, sintattici, copia e incolla sfacciati… Sant’Agostino e San Giuseppe da Copertino forse sono la nostra unica speranza.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 12:13 da Maria Lucia Riccioli


Vito, quasi d’accordo con la tua nota orwelliana, e d’accordo pure con(tro) l’infausto connubio inglese-capitalismo. Per me la neolingua non complica, ma falsifica la realtà: il tuo riso di fronte alla breakroom lo dimostra.
Invoco Mauro per un post specifico per parlare di neolingua.
Wellcome manager e breakroom sono le risposte dell’ingegneria gestionale all’inefficienza dell’uomo impiegato in un lavoro bestiale svolto in un luogo disumano. Perché si segue una logica del tipo “intanto togli tutto, poi aggiungeremo ciò che si dimostrerà indispensabile”. La mia obiezione alla lingua italiana è che spesso si adopera il superfluo senza raggiungere una comunicazione efficace. Esempio idiota: possibile che sugli autobus di diverse città i biglietti vengano annullati, convalidati, obliterati, vidimati anche se di fatto l’operazione è la stessa? Ma come può un biglietto “annullato” essere contemporaneamente “convalidato”? La macchina compie una operazione meccanica, che è quella con cui la gente identifica chiaramente il gesto da fare. Allora, perché i biglietti non possono essere semplicemente “timbrati”?
Ah: avrei potuto dire, anziché “i biglietti”, biglietti omologhi. Mica sono gli stessi. Ma cosa sarebbe cambiato?
E se avessi usato in queste frasi l’imperfetto indicativo (potevo dire… cosa cambiava?), la natura potenziale del verbo potere avrebbe già denotato il tutto come uno scenario ipotetico. Cosa introdotta poi dalla parola esempio. Sarebbe stato un errore o una semplificazione?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 12:16 da Paolo S


F. M. Rigo (absit iniuria uerbi): secondo me riferire manipolare all’onanismo è un problema tuo. E dalla mia prospettiva, masturbazione sarebbe stato un termine meno difficile (Oh! Perché non dire desueto?). Anzi, in più elimina il senso di colpa implicato dal termine di derivazione biblica. E io rivendico invece con gioia tutte le sensazioni piacevoli date dal giocare con le parole.
Colgo invece la nota: usando il termine “manipolare” ho usato una parola indicante attività manuale per un’azione cerebrale. E’ il primato (il primate forse) dell’età della tecnica :D

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 12:26 da Paolo S


Devo dire che mi fa riflettere, più di tutto, che questa carenza di proprietà linguistica, questa ignoranza, venga globalmente “emendata” dalla colletività. Mi spiego: è avvilente sapere che sempre più persone, ragazzi e non, non sappiano più l’italiano. Ma lo è molto di più scoprire un mondo che li accoglie comunque (o addirittura proprio in virtù di questa ignoranza). Gli analfabeti oggi vivono benissimo. C’è sempre qualcosa o qualcuno che legge, scrive, interpreta, al posto loro.
Son d’accordo con Paolo sul superfluo che non incide.
Ma a pensarci bene, per assurdo, non sarebbe forse preferibile perdersi in un dialogo che non arriva a centrare in pieno il senso, ma in qualche modo, aggirandosi attorno, (sfiorandolo magari), apporta comunque ricchezza?
Questa ricchezza, assimilata, vissuta (certo non utilizzata come insieme di parole d’ordine), non è già senso? Lo sforzo di trovare qualcosa che si avvicini alla realtà (al di là del risultato), non è preferibile ad un uso di termini standarizzati per quanto precisi?
(L’esempio che fai è giusto, ma la comuicazione efficace, a mio avviso, dovrebbe riguardare altri contesti. Che si usi obliterare, vidimare, o altro, non inficia il senso del messaggio. Non crea “vera” confusione. Il senso è chiaro).
Forse, invece, in altri segmenti di comunicazione (e penso soprattutto a quella interpersonale di matrice affettiva), l’efficacia è data dalla duttilità, dalla divergenza, spesso dalla contraddizione. O no? Boh. :)

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 12:34 da vito ferro


Vito, a chi lo dici? La mia società è di proprietà americana. Ci convivo quotidianamente con cose tipo: “fammi un layout”, “prendiamo una fee”, “non sei performante”.
La lingua, in questo ristretto ambito che è la mia azienda, è snaturata.
Ma, come più volte sottolineato, qui non si parla solo di proprietà di linguaggio, si tratta proprio di non conoscere la più elementare delle regole linguistiche, ortografiche, sintattiche.
Ti posso garantire che è imbarazzante leggere le comunicazioni scritte da persone con alte cariche e pensare smarriti “Boh, e che avrà voluto dire??”
Ma tant’è. Stanno al posto in cui stanno.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 12:55 da Silvia Leonardi


Vito, ancora d’acordissimo.
1 Secondo me è giusto che esista una lingua d’uso semplice, precisa e condivisa. Scansionare, scandire, scannare o scannerizzare una pagina? Diteci qual è quella giusta, poi useremo quella giusta o quella sbagliata con maggior proprietà, per aggiungere connotazioni o contraddizioni.
2 E’ sbagliato e ingiusto subire l’inglese come l’ingua d’uso.
3 Però secondo me Michele Mirabella fa un cattivo servizio alla lingua italiana. “Vorrei fare una domanda al professore…” “Ne ha facoltà”. E il ragazzino torna su MTV, ad ascoltare inglese sottotitolato. Michele Mirabella è un campione dell’antineolingua, ma non un campione di comunicazione.
Non sono ancora uscito dal labirinto, devo sottolineare altri punti.
4 Io adoro il vagare in lingua e in pensieri di Gianni Celati, a me dice tantissimo. Perché trasmette una consapevolezza linguistica e di pensiero che non è stitica come quella di Mirabella. Michele Mirabella è uerba tene, uerba sequentur. Autoreferenziale. Gianni Celati è uerba ambula, mundi inuenies (azzo, mi sto inventando il latino. Non mi divertivo così da tempo, ma avrò sbagliato tutto!).
4.1 Ma divago: Gianni Celati (o Alessandro Bergonzoni) non piace a tutti, perché non tutti provano piacere a seguirlo. Non possiamo pensare che chi non ama lui o il suo modo di fraseggiare consapevolmente divergente sia tout court un povero ignorante. E qui, decapitiamo i parrucconi, voglio giullari e poeti in cattedra!
5 Il pensiero e la lingua sono mobili, ma hanno radici. Le radici sono importanti nel momento in cui si vuole andare oltre la lingua d’uso, ma allora si cerchi il senso della radice, non la radice. Obliterare il biglietto, ma per piacere.
6 La vera battaglia sarebbe da condurre per il linguaggio ordinario, per riscoprirne la varietà, la ricchezza e la duttilità, al di là delle incrostazioni di vecchiume e degli sterili tecnicismi, spesso importati e violentemente uni-voci. Imparare a giocare col linguaggio ordinario. E magari fare qualche cenno alle radici, al piacere di scavare le radici.
7 Chi auspicherei conducesse questa battaglia è il comunicatore di massa: Benigni, Fiorello.

8 vado a pranzo. Sono a pezzi, ma è bellissimo discutere qui!

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 13:20 da Paolo S


“La vera battaglia sarebbe da condurre per il linguaggio ordinario, per riscoprirne la varietà, la ricchezza e la duttilità, al di là delle incrostazioni di vecchiume e degli sterili tecnicismi, spesso importati e violentemente uni-voci. Imparare a giocare col linguaggio ordinario. E magari fare qualche cenno alle radici, al piacere di scavare le radici”.

stai dicendo qualcosa di veramente bello e che condivido in pieno.
Buon appetito!

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 13:32 da vito ferro


In Italia la voglia di dividersi in partiti e/o fazioni anche sulla miglior marca di mutande non passerà mai. Questo interessante post di Massimo spinge, come è ovvio, a prese di posizioni categoriche. A me, ma penso a moltissimi, è capitato di imbattermi in persone che scrivono benissimo anche se hanno la quinta elementare così come in persone inadatte alla scrittura seppur con tanto di laurea.
Se un portinaio con la licenza elementare scrive 2 lettere al mese al figlio lontano, facilmente è più comprensibile di un ingegnere che passa la giornata a scrivere “se mi dai la login accedo al blog e ti emailo il mio knowhow”.
Sono d’accordo, pertanto, con Laura Costantini sul fatto che la scrittura vada esercitata.
Essendo giornalista non difendo più di tanto la categoria perché ci sono colleghi che scrivere non sanno, o, comunque, non scrivono per il lettore ma per se stessi. E questo, a mio avviso, è ben più grave che scrivere “soqquadro” con “cq”.
Non esiste lavoratore che non sbagli. Per il giornalista è un errore il difetto di sintassi o scrivere una stronzata. L’errore de chirurgo manda il paziente all’altro mondo.
Va stabilito, semmai, se l’errore è fatalità o frutto di incapacità In quest’ultimo caso, ovviamente, nessuna guistificazione sembra ammissibile.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 13:56 da Enrico Gregori


@ Paolo S
Bell’intervento. Forse un po’ uerboso.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 14:20 da Carlo S.


@ Enrico
Parli genericamente di errore del chirurgo perchè non sai scrivere correttamente “tracheotomia” come FM Rigo.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 14:25 da Carlo S.


@ carlo:
ma so scrivere perfettamente “orchite” che è quella fastidiosa affezione che tu hai alle orecchie

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 14:34 da Enrico Gregori


Eppure i ragazzi studiano! Sono più disciplinati di noi, vecchi ex. Sono attenti alle schede, ai testi indotti, a stabilire quel che vero da quello che è falso: è la nostra scuola, burocratica e crocettiana (nel senso delle crocette messe al punto giusto). Si scrive male perché si parla poco, si comunica poco, e si pensa ancora meno. Tutto si risolve nel voto, anzi nella media dei voti, che ti distingue dagli altri; e tutto riguarda quel momento, alla data della programmazione. Anche per le letture la cosa non cambia: si legge, sì relazione ma non ci si confronta. In questo modo, la lingua muore, adattandosi alle esigenze del momento. Ai giovani abbiamo tolto il gusto della conoscenza, il piacere della scoperta e dell’incanto; quando poi, questi ragazzi da trenta e lode, affrontano la vita si sentono persi, incapaci ad elaborare un loro rapporto con la comunicazione.
E’ tristissimo vederli, anche alle scuole elementari, sempre alle prese con l’aspetto tecnico delle cose: una strumentazione vuota, perché azzerata dagli impulsi e dai sentimenti. Il vero corpus è la classe e non la lingua. La lingua è solo regola del momento, un atto di “Verifica” che si consuma in un ottimo, in un buono o in un suff. Non c’è amore.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 14:43 da miriam ravasio


@ a tutti, ho refuso un po’, pazienza e scusatemi, mi tradiscono gli occhi e la fretta.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 14:56 da miriam ravasio


@ miriam
E’ molto vero quello che dici. Per le ragioni che tu esprimi con tanta chiarezza proprio in questi giorni sto cambiando scuola a mio figlio (2a elementare!). Ho già avuto modo di conoscere le nuove maestre con le quali andrà e mi hanno fatto una impressione molto migliore di quelle con cui stava, così attente al programma ministeriale, così poco alle singole individualità che si ritrovano in classe. Come se l’obiettivo fosse il programma stesso, la sua conclusione nel corso dell’anno scolastico, quasi in gara con le altre classi. A me pare che il programma dovrebbe essere solo uno strumento e che l’obiettivo reale dovrebbe essere l’educazione e crescita dei bambini.
Speriamo bene. Ciao.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 16:22 da Carlo S.


A Paolo S chiedo umilmente scusa per l’errore speech per speach ma ritengo meno grave questo errore che scrivere qual’e’ (di uso ormai assolutamente comune) oppure omettere la d eufonica in frasi tipo ed era. Eppure le eufoniche sono state completamente obliterate da una docente come Daria Galateria nel suo libro “Mestieri di scrittori” edito da Sellerio.
Laura

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 16:28 da Laura Costantini


@ENRICO GREGORI
Ho letto il tuo post che trovo eccellente ed acuto soprattutto nella sua conclusione. Voglio interagire con te ma per farlo ti invito a leggere quanto ho scritto sull’esperienza carnevale e come ha concluso m.g. (“raccontate il carnevale” e li trovi proprio alla fine).
Noterai due figure che concordano sull’evidenza ma che sono sostanzialmente contrapposte nei loro punti di vista: da una parte, infatti, una straripante illustrazione scritta da me, dall’altra l’intervento di m.g. che, intenerita e commossa (ma forse anche sconcertata dalla crudezza della verità), prende atto di quanto legge con l’accorto e “maturo” disicanto di chi ritiene un bel sogno voler parlare di eticità e cultura.
Ti ringrazio se ci vuoi spiegare qual è la soluzione migliore per uscirne con saggezza.
Cari saluti. Nel frattempo mi finisco un quadro a olio.
Rossella

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 16:44 da Rossella


@ Carlo S.
Oh si si hai proprio ragione ….il programma culturale non dovrebbe guardare solo il proprio interesse privato o l’accantonamento delle rogne personali. Sempre che qualcuno abbia fatto un programma serio per quei poveri bambini.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 16:58 da Rossella


Ciao a tutti! Mi scuso per le mie lunghe assenze, mi piacerebbe essere più presente nelle vostre conversazioni, spero di poterlo fare presto.

Sono d’accordo con Simona sul fatto che la lingua italiana sia molto complessa: ci sono regole infinite ed altrettante nfinite eccezioni, i plurali particolari etc.
Ad alti livelli (quelli universitari) alcune facoltà isitituiscono appositamente da anni dei corsi di italiano scritto impostati sulle varie forme di scrittura ma (ma credo sia ovvio) si parte dal presupposto che le regole grammaticali e ortografiche debbano essere già state pienamente acquisite dagli studenti che frequentano tali corsi. Invece accade che si presentino tali lacune ormai irrimediabili.

Il problema diventa poi drammatico quando le scuole di specializzazione destinate ai laureati (vedi quelle abilitanti ad esempio) incamerano potenziali insegnanti di lingua italiana in base ad un criterio labile, cioé su domande di cultura generale (in percentuale superiore rispetto a quelle inerenti le materie da insegnare) che non hanno nulla a che vedere con la capacità di saper scrivere correttamente, poiché si va per quiz (come per la patente, come per il concorso per la Polizia), per cui succede che individui con lacune orografiche saranno gli insegnanti di altri individui che avranno le stesse o le simili lacune, la prassi delle selezioni non è a mio avviso adeguata e affidabile.

Oltre ciò, su 60 studenti universitari il 30% ha la padronanza della lingua italiana mentre la restante percentuale ha difficoltà espressive, poiché a quei livelli non basta saper scrivere in modo corretto. Io credo che si dovrebbe riprendere la bella abitudine di fare scrivere maggiormente gli studenti, invece mi accorgo che le nuove riforme cercano di sottrarre sempre più tempo a ciò. Le prove in itinere o la mini tesina sono una scelta a mio parere infelice, sarebbe meglio ritornare alla tradizione ma con la modernità dei vari registri disponibili ai nostri giorni (ovvero con la possibilità di scegliere liberamente tra scrittura giornalistica, tema, saggio, recensione etc.).

Italia mia, benché… diceva il defunto, dimenticato Petrarca, che tanta attenzione dava alla nostra lingua e si divertiva ad attribuire con genialità una miriade di significati ad un semplice nome di donna. C’è ancora questa capacità di immaginazione e amore per la nostra lingua? Io credo di sì, ma va scovata con molta pazienza e perseveranza.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:10 da sabina corsaro


Scusate gli erroti di battitura ma ogni post lo invio col tempo contato!

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:11 da sabina corsaro


@ Carlo S.
Sempre che qualcuno abbia fatto un programma serio per quei poveri bambini, dicevo, che non possono certamente risolvere i problemi degli insegnanti (stipendi compresi).

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:16 da Rossella


@ rossella:
ti ringrazio anche se, a dire il vero, non capisco per quale motivo la possibilità di dialogare debba dipendere da due post (il tuo e quello di m.g.) che si confrontano

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:34 da Enrico Gregori


Signora Costantini, ed era, effettivamente è un must, ma le eufoniche in generale, appesantiscono terribilmente il discorso, per non parlare del linguaggio forbito, un gesso appuntito su una lavagna.
La musicalità potrebbe essere un modo per giudicare i nuovi linguaggi, come quello dei sedicenni o quello delle nuove leve, i trentenni per intenderci. E’ una comunicazione che esula da uno standard definito e tantomeno si può confinare nell’ambito professionale. Questi linguaggi ormai permeano anche il quotidiano, proprio come la musica, sempre attuale e diversa. Perché non definirli affascinanti?

donatella.f

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:49 da donatella.f


@ Rossella
Interessi e rogne personali ? Problemi degli insegnanti ? Loro stipendi ? I bambini che non possono risolverli ? ma che c’entra tuttociò con i programmi scolastici ministeriali della seconda elementrare ?
Scusa, sarò ottuso io (e forse lo sono, o forse è l’orchite che mi ha diagnosticato Enrico) ma dai tuoi interventi spesso non riesco proprio a capire dove tu voglia andare a parare.
Abbi pazienza con questo vecchio rincoglionito, quale son io, ma se ti rivolgi a me ti chiedo umilmente di essere meno criptica.
Saluti

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:56 da Carlo S.


io focalizzerei sulla lettura. saper scrivere è una conseguenza del saper leggere, e leggere parecchio.
sbatto quotidianamente contro una realtà agghiacciante: vi è un tasso di analfabetismo di ritorno altissimo. c’è chi non è in grado di indirizzare una busta, chi non sa seguire semplici istruzioni, chi leggendo sillaba e alla fine ha capito la metà di quello che ha letto anche se si tratta di un trafiletto di giornale o di un annuncio economico. e non si tratta sempre e solo di povera gente.
per interi strati di popolazione leggere è una perdita di tempo vagamente immorale, cui sono dediti perdigiorno e parassiti, probabilmente asociali e con problemi di relazione. e per i loro figli è scattata l’inversione dei principii: studia chi non ha voglia di lavorare.
in questo quadro generale temo che il lutto, che io per prima quotidianamente porto, per la prossima assoluta scomparsa del congiuntivo e delle subordinate e l’impoverimento generale della lingua scritta sia un pochino snob. la d eufonica (che ai tempi del mio liceo classico veniva severamente proibita negli scritti in quanto riservata strettamente alla lingua parlata) è una sfumatura. chiaro che da un professionista della parola ci si debba aspettare almeno la padronanza della stessa, ma sarei già felice se ai bambini venisse spiegata la gioia della lettura, e che la cultura è libertà: se sei ignorante sarai sempre schiavo di chi ne sa più di te.
e così forse ci sarebbero meno adulti, anche laureati, che non considererebbero spazio sprecato sugli scaffali quello per i libri. e il congiuntivo non avrebbe più bisogno del patrocinio del wwf.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 18:26 da gea


non ho letto il pezzo su Repubblica, ma credo sia il solito paramoralismo da intellettuale sconsolato e piacione, materiale che in Italia gronda come fuoco dall’Inferno. Roba che Pasolini gli avrebbe rifilato un jeb sulle gengive. O almeno spero.

Domanda: qual è il grado di correlazione fra competitività e livello letterario del personale? Io dico zero.
Che gliene deve a fregare alle aziende (sì, lo so. Ripetizione retorica di un dativo. Licenza retorica, mi scuserete) se uno sa scrivere e parlare?
Se serve a ridurre i costi di transazione e simili, bene.
Altrimenti che usi pure il congiuntivo come uno usa il bidet a mo’ di pensatoio. Che fra l’altro, può anche funzionare. O no?

Un saluto a tutti, in particolare a chi mi ha incrociato il blog
con la sua tastiera virtuosa,

Giulio

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 18:34 da giulio


Riposto ché avevo sbagliato l’URL del mio caccablog.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 18:35 da giulio


giulio alle aziende gliene frega eccome. Perchè quando si dice che i laureati non sanno scrivere non si allude al fatto che non sanno comporre pentametri giambici, ma che non sanno scrivere punto, cioè se metti un laureato italiano medio davanti a una lettera, a un articolo a una progetto da fare e consegnare, a una sintesi, quello ci ha l’appiatitmento der pensiero simbolico, essendo che non lo ha mai esercitato prima. Eppure Saper scrivere implica la possibilità di produrre concetti in maniera più esatta e la possibilità di indirizzare chi legge dove tu vuoi che vada, dove l’azienda vuole che vada. Nelle aziende spesso si scrive un bel po’, spesso si deve rendere conto, e spesso si deve intortare qualcuno. Le competenze scribacchine giovano anche in quest’ultima ipotesi.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:06 da zauberei


Raga, vi amo: Evento, Grego, Carlo, vabbè, per Vito Ferro si sa che ho un debole … a questo proposito vorrei farvi dono di un’altra chicca clinico letteraria, leggete senza affanno e senza onanarvi, vado?
Okkey:
Helicobacter Pylori.
E’ o no è una ficata?
Be’ sarebbe il batterio responsabile di molte gastriti e ulcere. Non so a voi, a me mi accende come un cerino. Brrrrr …

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:10 da F. M. Rigo


Zauberei, m’hai convinto. Trovami un lavoro vero.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:21 da giulio


@F.M.Rigo

io a non onanarmi non ce la faccio!

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:23 da Onan il Barbaro


Molte sono le cose giuste che per ora sono state dette. Penso però che sia fondamentale un buon inizio, infatti è nella Scuola Elementare che si apprendono i primi rudimenti della lingua e della grammatica.Una soda base di preparazione dovrebbe partire proprio da lì. Se l’alunno ha la fortuna di incontrare una maestra, che sa interessare gli scolari con le sue lezioni rese piacevoli, essi impareranno le regole e amplieranno la conoscenza delle parole e degli aggettivi con minor sforzo. Per esempio, l’insegnante potrebbe sollecitare gli scolari con una gara a premio per coloro che, usando anche il vocabolario, siano capaci di trovare quanti più verbi, aggettivi e sostantivi, attinenti ai cibi, ai mobili e agli oggetti che servono in cucina. Poi, dopo aver scelto e commentato alcune letture che riguardano tale argomento, si può in seguito passare ad analizzare le altre stanze della casa. Forse a voi il metodo sembrerà molto banale e aleatorio, rispetto a quanto è stato detto certamente lo è. Ma, partire dalle cose semplici e chiare è l’unico sistema affinché ogni alunno, anche il più scarso, si senta motivato ad apprendere. La ricerca di parole rare e desuete avverrà molto dopo. Quando si leggeranno i primi classici per ragazzi. Gli scolari allora dovranno segnalare alla maestra tutti i sostantivi , che non sono riusciti a capire e magari l’insegnante per stimolare la loro fantasia potrà sollecitarli a trovare un finale diverso da quello che loro hanno letto, un finale come loro avrebbero desiderato Personalmente, amo la semplicità, non mi piacciono le persone che infarciscono i loro discorsi e gli articoli con parole inglesi e quelle che ostentano la propria preparazione culturale con paroloni. Anche se riesco a gustare un buon libro, ricco di essenza e contenuto. Ho capito, stasera ho detto una bella sfilza di cavolate. Per punizione mi merito il noto detto di Flaiano:- ” L’insuccesso gli ha dato alla testa”….
Aspetto i vostri pomodori.
Tessy

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:31 da M. Teresa Santalucia Scibona


Oh, prima che Sozi ci onori con un suo contributo a base di etimologie:
onanista deriva non dal latino bensì dal più recente partenopeo “O’ nanista” ovvero colui che costruisce, vende o ripara i nani.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:32 da F. M. Rigo


@ fausta:
ah, hai un debole per vito ferro?
pensa che io come depravazione mi ero fermato a quello di far sesso vestendo me da Pisolo e lei da Biancaneve. Sei una maestra!

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:37 da Enrico Gregori


Per Vito ho un debole a te ti amo, è diverso. Ricorda però che devi parlarmi in venusiano. Lo sai fare quindi nessun problema.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:50 da F. M. Rigo


Enrì non è che a Fausta VitoFerro ricorda qualche strana carenza alimentare ?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 19:56 da eventounico


bah… è grave, non è grave… secondo me no, o almeno non lo è nei termini in cui lo considera Tullio De Mauro. Le emergenze nazionali ho paura che siano altre.
A me ad esempio da fastidio se trovo errori di sintassi o di ortografia in un libro, molto ma molto meno se li incontro in un articolo.
Sarà che leggevo anche gli articoli di Enrico (lo sapevate che aveva lavorato anche al Tempo, prima del Messaggero?), ma ormai sono corazzato sugli articoli.
Ok, il giornalista non ci fa una gran bella figura, ma alla fine peggio per lui, non mi sento offeso nel profondo.
Quanto ai laureati/laureandi, ormai sono così abituati ad usare il correttore ortografico di word, che l’ortografia non sanno neanche cos’è. Un pò come i nostri genitori dicevano delle calcolatrici, con le quali avremmo disimparato a far di conto.
Insomma, a parte un pò di fastidio a pelle nel leggere errori e strafalcioni non provo; l’importante è saper esprimere il concetto, e se il pensiero è valido non c’è bisogno di Dante

Gianluca.

P.S. Massimo, nella zona “scrivi un commento” alla fine del blog, mi è sparito il nome e l’indirizzo mail che apparivano per default, nelle altre situazioni. Ho commesso una “leggerezza” io ?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 20:16 da gluck


Comunque, a proposito di ortografia, il nostro cervello è in grado di fare da “correttore automatico” mentre legge, e molti degli errori scritti non vengono neanche recepiti.

Provare per credere.

Comuqnue, a propositio di ortogrfia, il nostro cervelllo è in grado di fare da “correttrore automato” mentre legge, e molto degli errrori scriittii non vengono nanche recepiti.
(ce ne sono 10, quanti ne avete scoperti ?)

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 20:22 da gluck


Vengo dalla preparazione dell’ esame di lingua italiana scritta.. devo dare pienamente ragione a Bartezzaghi, lìitaliano non lo scrive e non lo parla nessuno, ma proprio nessuno. Non me lo aspettavo, ma purtroppo c’è una tendenza che porta chiunque comunichi ad “arrivare” piuttosto che a cercare di rapportarsi con formule e linguaggio adeguati; la televisione in questo processo non ha dato certamente una mano. Per contro però è vero che molto difficile radere al suolo il sistema comunicativo, della parola scritta quanto di quella parlata, proprio di una persona, maggiormente quando queste mancanze le si riscontrano già in periodo universitario, per impiantarne uno nuovo; il meccanismo andrebbe trasmesso fin dall’infanzia m ormai i bambini imparano l’italiano con gli sms.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:06 da brunella


.. devo dire che ho saltato qualche verbo e qualche lettera, spero me lo perdoniate..

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:08 da brunella


Il problema esiste ed è serio.
Faccio la giornalista, uno dei mestieri della scrittura e nel nostro lavoro esiste già una netta distinzione tra chi opera con le immagini (i giornalisti TV) e chi lavora nelle redazioni dei giornali. I primi hanno esigenza di velocità, immediatezza molto più spiccate dei secondi. Ma non hanno esigenza di “mostrare” la scrittura. Quando avviene il cambio di ruolo – in certe aziende può capitare- per molti è un problema…
Ma credo che il vero dramma si consumi nelle nostre scuole.
Ho conosciuto un insegnante di Italiano in un liceo classico che non correggeva mai errori tipo “qual ‘è”, o “un’uomo”.
Ricordo un prestigioso docente universitario (materia umanistica) che faceva confusione tra Libano e Libia.
E rifletto anche sulla mia formazione. Ho una laurea in filosofia presa oramai 14 anni fa. Non so adesso, ma ai miei tempi non c’era lo scritto di Italiano e si faceva un solo corso obbligatorio di letteratura. Per il resto, a scelta dello studente, che aggiungendo una sola materia complementare letteraria accedeva ai concorsi per l’abilitazione all’insegnamento della nostra lingua alle superiori. Un po’ poco, no?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:24 da Rosa Maria D.


Alimentare? Evento che Ferro se magna?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:45 da F. M. Rigo


Grazie a tutti per i vostri commenti. Molto interessanti. Davvero.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:47 da Massimo Maugeri


@ Gluck
Segnali un problema tecnico: “alla fine del blog, mi è sparito il nome e l’indirizzo mail che apparivano per default”.
Strano. Ti capita ancora?

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:48 da Massimo Maugeri


Adesso vado a memoria…
Un saluto speciale per (il ritorno di) Sabina Corsaro.
Nessun pomodoro, ma solo inchini e riverenze, per la nostra ottima Tessy.
E, ribadisco, grazie davvero a tutti voi per gli ottimi interventi.
A più tardi.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 22:52 da Massimo Maugeri


@ Enrico Gregori
A dire il vero non capisci il tipo di risposta che ti ho chiesto sulla cultura in maschera e sull’atteggiamento di chi la ritiene un fatto scontato. Oppure, sempre per rimanere in tema di verità, ignori. Scusami, non conosco la tua altezza, ma da come scrivi ritengo che hai superato l’epoca dei nani del giornalismo.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 23:06 da Rossella


@ Carlo
Porgo le mie scuse anche a te.
Sai non ho figli e fino ad ora ho partorito solo tele. Quindi i miei problemi sono molto diversi da chi ha a che fare con i bambini e con la loro sensibilità e con la loro formazione. Non ho empiricità al riguardo come Miriam o come un papà o una mamma, sono artista, è differente.
Ma m’informo, leggo, guardo la società nelle sue sfaccettature e tutto quello che incentiva l’infanzia e le dà priorità nelle iniziative sociali e culturali mi trova d’accordo.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 23:25 da Rossella


” L’insuccesso gli ha dato alla testa”….
Doppia citazione, la maestra Santalucia Scibona che cita il maestro Flaiano.
Io sò stato zitto perchè si parla di laureati, e anche di diplomati.
Io il circuito didattico l’ho chiuso il ‘67 con “…pertanto non viene ammesso all’esame di licenza media per comportamenti gravi e lesivi dell’onorabilità della signora Preside…”.
Non avrei titoli per partecipare a questo post (Gregori: “e dai Didò, sempre con la lagna dell’autocommiserazione…”), invece, oltre ad essere la prova ontologica dell’esistenza di Dio (e del suo assopirsi nel pomeriggio: a me m’ha fatto S.Pietro), sono la prova evidente di come esista una scuola che repelle ed espelle i corpi anomali non omologabili (Moravia non fa testo).

@Evento,
brillante e sintetico ha ragionato sull’americanizzazione del linguaggio e a suffragio porto quest’esempio:
“Gli Operatori di Esercizio che non sono stati inizializzati all’uso dei nuovi 470S sono pregati di contattare gli Addetti all’Esercizio Rossi M. e Bianchi S.”
Traduco: “Gli autisti che non hanno ancora preso visione dei nuovi autobus della serie 470S sono pregati di contattare gli Ispettori Rossi…”
Cosi si uccide la lingua, si nebulizza il potere coercitivo e si lascia credere che oltre ci sia “Il deserto dei Tartari”.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 23:32 da francesco di domenico


@Tessy
Il tuo post mi ha ricordato Orietta Berti in un intervista alla televisione dove alle 2 del pomeriggio si è presentata con vestito lungo pieno di lustrini e un paio di sandali col tacco a spillo, argentate, comprerate a Hollywood. Ha anche detto che lei è una donna semplice, dai gusti semplici ed è per questo che è rimasta sull’onda del successo: l’unico suo hobby è la raccolta di camicie da notte, le più strane possibili, con spacchi vertiginosi e paiettes, boa di struzzo e molto pizzo, ma che lei fondamentalmente è una donna semplice, alla buona, una vera romagnola acqua e sapone, dai gusti semplici.

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 23:37 da Rossella


Credo che la capacità di “sentire” la correttezza di un linguaggio, parlato o scritto, sia una dote innata, come il talento musicale di chi ha orecchio e suona uno strumento anche senza aver studiato musica.
Anche io sono venuta a contatto con laureati incapaci di mettere insieme quattro frasi, quando non addirittura infarcirle di strafalcioni, ma ho conosciuto persone che, soltanto con la licenza media, attraverso l’amore innato per la “letteratitudine” riescono ad esprimersi in maniera non solo corretta, ma perfino forbita.
Questo senza voler sminuira l’importanza e la validità degli studi e di chi vi si dedica, anzi, ad essi va sempre tutta la mia ammirazione incondizionata, sono loro che tengono vivo l’interesse per questa forma bellissima di comunicazione che è la scittura e la sua divulgazione.
Una tracheotomia in estremis almeno ti porta il respiro.
Per portare l’amore per la cultura, oggi che imperversano veline e grandifratelli, cosa ci vorrebbe? una craniotomia con relativo innesto cerebrale? allora speriamo almeno nelle staminali.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 01:50 da Anonimo


sono io l’anonimo

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 01:53 da cristina bove


Buonasera a tutti, anzi buonanotte.

Ecco altre chicche pseudo-linguistiche del mondo della “comunicazione”:
briffami, scrolla la pagina (scorrimento col mouse della pagina web), “hai attasciato l’allegato?” (lo scrivo come si sente dire)…
Prima o poi farò un libro usa e getta su tutto ciò…

Saluti,
A.1

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 01:54 da ariaperta1


@ didò:
in effetti mi (forse ci) hai rotto un po’ le palle. alla fine questa storia che hai solo la licenza elementare e guidi il bus sembra uno spot per farci dire “e cionostante guardate che palle e che cultura che c’ha questo qui!”. Quindi, dall’autocommiserazione stucchevole, si passa alla promozione ingombrante. Qua dentro, a occhio, piaci a molti. Quindi finiscila con i plumbei amarcord altrimenti, come si dice agli inguaribili onanisti, “ti rovinerai con le tue stesse mani”.
ps: non so se penso davvero ciò che ho detto, ma siccome ho finito da pochi giorni di litigare con un ospite di questo blog, adesso mi serve un altro pungin’ ball

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 08:21 da Enrico Gregori


@Greg:
Pensi che dorma? Sono appollaiato come un avvoltoio sul blog aspettando agnelli da sbranare, mi si è presentato un lupo zoppo, pazienza.
Se invece di bere “il the” la mattina, dopo la riemersione dai coma notturni, ti sparassi un buon caffè (non quella robaccia che ti propina il Bar Tritone: fanno ancora il Sega, quello ai ceci?), avresti letto attentamente che noi autodidatta (Moravia ed io), siamo la prova che molti laureati non valgono una mazza, e non parlo degli specialistici (ingegneri, medici etc…) ma degli umanistici.
A me m’avrà pure fatto S.Pietro, a te t’avrà impastato San Patrignano.

p.s. C’è Sozi in giro? Volevo sapere se “autodidatta” c’è al plurale (mo mi s’incazza mezza “Letteratitudine”, l’altra metà non spara mai sulla croce rossa).

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 09:03 da francesco di domenico


@ didò:
nonostante il titolo del mio libro, il tè non lo sopporto. Forse avere abbinato la morte alla bevanda dipende da quello. Di caffè, invece, visto che ne prendo una quindicina al giorno, quello che capita capita: da niente male, alla spremuta di tonaca.
Per il resto io non contesto affatto l’istruzione e l’erudizione da autodidatta (il plurale è “autodidatti”, fattene una ragione). Anzi la ammiro e sono convintissimo che possa dare frutti migliori delle sgobbate liceo-universitarie.
Quindi, appunto, sottolineavo l’inutilità del tuo piagnisteo.
Ora, se da autodidatta, hai imparato anche la strada per andare a fare in culo, accomodati!
:-)

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 09:19 da Enrico Gregori


@ Massimo, ti ringrazio, sei sempre con noi tutti un garbato e compito Cavaliere…
@Francesco di Domenico, purtroppo non ho potuto laurearmi, però sono orgogliosa di essere una maestra, per gravi motivi familiari ho dovuto far carriera nel Ministero della Pubblica Istruzione, poi stroncata dalla malattia.Ho gradito molto il tuo caro messaggio,ieri mi ha scritto anche M.Chiara. Vorrei dirti che le persone valgono per ciò che sono interiormente e non per il diploma o la laurea che sono riuscite a conseguire. Non concedo la mia stima, solo per la loro ricchezza o per le categorie superiori alle quali appartengono. Frequnto amiche ed amici che non sono riuscite a studiare, ma hanno coltivato i loro talenti naturali in maniera straordinaria. La mia amica Lina non solo è una perfetta casalinga, ma riesce a sfornare deliziose torte e biscotti da poter aprire una pasticceria. Achillea, dipinge su porcellane Ginori vasellami di ogni tipo, ha aperto un laboratorio molto frequentato nella sua cantina. I suoi piatti del 700 ,non si distinguono da quelli veri, se non dal peso. Michele è costretto a fare il muratore, ma le sue sculture in ferro e tondino sono grandiose. Enzo, umile artigiano, scontroso come un orso, fonde numerosi metalli, dalle sue mani operose nascono per incanto ,medaglie, candelabri in ferro battuto,originali tavolini. Fondendo l’oro, riesce a realizzare dei gioielli etruschi talmente perfetti che potrebbero ingannare un astuto antiquario. Io mi inchino di fronte ai miei bravissimi amici, sono persone sincere positive ed appagate, anche se hanno conseguito solo la Licenza Media.Ti ti assicuro che malgrado i verdissimi mezzi economici in dotazione alla mia Associazione, ho cercato di valorizzare i loro lavori in tutti i modi. Abbiamo persino allestito delle mostre in casa mia
Concludo con questo pensiero che mi piace ed incoraggia:-” Se un uomo
può scrivere un libro migliore, fare una predica migliore,o preparare una trappola per topi meglio del suo vicino, anche se egli costruisce la sua casa nella foresta, il mondo traccerà un sentiero battuto sino alla sua porta!” – Ralph Waldo Emerson
@ Rossella, come fai a giudicarmi se non mi conosci minimamente? Sono l’esatto contrario di Orietta Berti, non mi piacciono orpelli e lustrini, non mi tingo i capelli, non ostento gioielli e vestiti griffati. Gli unici gioielli che prediligo sono i miei figli, loro si sono i miei veri capolavori. Ti lascio la piena libertà di pensare di me quello che vuoi. Ti assicuro però, che cerco di essere sempre me stessa,coerente, affidabile e sincera con chi amo e con gli amici che stimo. Il punto fermo della mia vita è : Non mi svendo per nessuno!. Ti auguro una bellissima giornata allietata dalle tue tele
Tessy

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 10:39 da M. Teresa Santalucia Scibona


Un aneddoto a titolo di curiosità e senza alcuna polemica.
Come forse sapete, per diventare giornalisti professionisti occorrono gavetta-assunzione-praticantato-esame di stato.
Personalmente non condivido l’istituto dell’esame, o almeno, dell’esame così come viene fatto. Però, finché c’è…
Ecco, anni fa, proprio Moravia, si presentò a sostenere questo esame. Una prova che, tutto sommato, andò maluccio. Ma in commissione si disse: “chi se la sente di bocciare Moravia all’esame da giornalista?”
E ovviamente fu promosso.
Ora, è del tutto evidente che a Moravia l’iscrizione all’ordine servisse solo a fini burocratici: pensione, assistenza sanitaria etc. in quanto non ha mai fatto parte di un corpo redazionale ma è sempre stato un autorevolissimo collaboratore esterno.
L’aneddoto, più che a sottolineare “l’obbligatorietà” di promuovere Moravia, serve semmai a rimarcare l’inutilità di quell’esame.
Resta il fatto, però, che se io mi presentassi a sostenere l’esame da architetto, mi manderebbero opportunamente a cacare.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 11:50 da Enrico Gregori


@didò
grazie. In effetti, a giudicare dai commenti, avevo il timore di essere io quello fuori tema.
@F.M.
certo che si mangia…nelle lenticchie, negli spinaci…
@Tessy
la pinacoteca delle tue amicizie è da aprire al pubblico
@Enrico
mi chiedevo come avresti fatto ad indirizzare ad altri quella massa fiammeggiante di improperi misti ad impagabile saggezza che rimbalza di continuo tra le tue guance
@gluck
il cervello “compensa” ciò che manca e lo fa rispetto alle informazioni recepite da tutti i sensi del nostro corpo (peraltro tra lori interconnessi tanto da poter leggere con l’udito, gustare con gli occi, ecc.).
Rispondo al tuo giochino con uno simile:
Per leggere correttamente e trovare il vero effetto il messaggio va letto in velocita, sensa soffermrsi sulle singole lettere, provate per credre…

Sneocdo uno sdtiuo dlel’Untisverià di Cadmbrige, non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe, tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito, è ipmtortane sloo che la prmia e l’umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao di decraifre tttuo qtueso coas, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel suo insmiee… vstio?

Il vero problema è quando una frase, pur essendo scritta correttamente dal punto di vista ortografico, non ha alcun significato. Capita spesso vero ?

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 11:51 da eventounico


perdonate i molti refusi

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 11:56 da eventounico


Adorabile Tessy,
l’ho letta da giovane, dipinta su di una bandiera o intravista tra le nuvole, non c’era il nome del poeta: lo saprò mai?

“Oh “Che”, tu che respiri l’alma sulla terra fredda/ e sai come si accoppiano i conigli/ non vorrei scambiar penna per pistola, ma il poeta sei tu.”

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 12:05 da francesco di domenico


F.M. Rigo ha scritto:
“Francesca, scusa la pedanteria, ma se “ritieni” nel senso che ne sei sicura devi scrivere sopravvivono, non sopravvivano.
“Io penso che bla bla bla, sopravvivono nelle forme dialettali”.”

Non è una pedanteria, è un errore. “io penso che” “io ritengo che” reggono il congiuntivo. La consecutio temporum è un meccanismo grammaticale e non può dipendere da dati di contenuto come la maggiore o minore convinzione del parlante. “Io ritengo” è già espressione di certezza e il congiuntivo non è un condizionale “io riterrei che… se fosse vero che”. Eventuali cautele devono essere precisate in altro modo.
Proprio questo tipo di errori, che non sono altro che la trascrizione dell’orale nel parlato, dimostrano quanto la competenza dellotaliano *scrittoé* sia in decadenza anche fra persone colte.
michele

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 12:58 da michele


@eventounico i miei amici saranno lieti del tuo apprezzamento.Michele per un compleanno, mi scolpì una leggiadra barca a vela, in metallo brunito,
fissata su un ligneo tronco d’albero. All’opera demmo il nome di ” Creatura d’aria e d’acqua”.Per lui, con lo stesso titolo composi un testo già editato.
@Francesco, meriteresti un premio per la tua originale ed arabescata fantasia.Sei simpatico e straordinario. Grazie.
Tessy

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 13:03 da M. Teresa Santalucia Scibona


Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 14:27 da Massimo Maugeri


@ Michele Smargiassi
Ti ringrazio per essere intervenuto (mi riferisco al commento delle 12:58). Ne approfitto per complimentarmi per il tuo articolo che ho “richiamato” (e ripubblicato) sul post.
Complimenti anche a Stefano Bartezzaghi.
Una curiosità. Come hai fatto sapere che ti avevo citato?

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 14:31 da Massimo Maugeri


Michele Smargiassi hai ragione, ho controllato.
:-)
Brrrrrr … questa volta di paura.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 14:43 da F. M. Rigo


@ Michele Smargiassi e a tutti
Provo a rilanciare il dibattito con alcune domande/riflessioni.
1. Secondo voi la “scrittura rapida” tipica dei commenti dei blog può essere considerata come una via di mezzo tra la lingua parlata e quella scritta (considerate in senso tradizionale)?
2. La suddetta “scrittura rapida” ha una valenza negativa (rispetto all’argomento oggetto di questa discussione)?
3. L’ideale della perfezione linguistica è più difficile da raggiungere “oggi” rispetto a “ieri”? (Mi viene in mente la titanica operazione manzoniana di “risciacquatura in Arno”).
4. Siete a conoscenza di opere del passato – divenute classici – che contengono “errori marchiani” dal punto di vista linguistico?
4. Rispetto al passato, la lingua parlata di oggi “detta” i cambiamenti di quella scritta in misura superiore o inferiore?
5. Quando un errore nella lingua parlata diviene “generalizzato”, può “imporsi” nella lingua scritta al punto tale da divenire “regola” ? Potete fare qualche esempio?

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 14:51 da Massimo Maugeri


1. E’ rapida, ma sicuramente molto più “lenta” e focalizzata di tanti testi che circolano. Ribadisco che a mio avviso post e blog possono rappresentare una preziosa palestra
2. Sul tema esistono numerosi dibattiti, anche in sede scientifica e accademica. Segnalo al riguardo quello su ibridamenti.splinder.com
3. Non credo esista una risposta univoca
4.1 Sui classici non mi esprimo
4.2 Rispetto al passato non esiste solo una lingua parlata. Sarebbe più corretto definire una lingua utilizzata (dialoghi, articoli di giornale, email, sms, blog, libri, trasmissioni in voce, trasmissioni in video). Questo maggiore rimescolamento, confronto, scambio, integrazione, evoluzione influenza in maniera determinante quella scritta. Non credo che la lingua utilizzata “detti” in senso stretto. A meno che non si voglia scrivere qualcosa che risponda ai canoni di ciò che oggi si vende maggiormente.
5. L’errore ripetuto equivale ad un uso generalizzato. Non si crea una regola, piuttosto una validazione di massa

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 15:33 da eventounico


Belle domande, non so rispondere a tutte.

1. Assolutamente sì. Stiamo assistendo alla nascita di qualcosa che non c’era. Finora i ponti tra orale e scritto venivano lanciati a livelli alti (quel signore “parla come un libro stampato”); ora il rapporto sembra ribaltato (quello lì scrive come parla). Qualcosa del genere forse è successo, ma solo in minima parte, in alcune mutazioni dello stile epistolare dovute, anche in quel caso, all’invenzione di nuovi mezzi di corrispondenza (telegramma, cartolina postale).

2. Non necessariamente. Che si sviluppi uno stile di scrittura adeguato alle necessità di uno specifico mezzo è fisiologico e anche inevitabile (vedi appunto lo stile telegrafico). Il problema sorge quando quel linguaggio tracima dal suo ambito e dalle sue esigenze e diventa dominante anche su altri canali: per contagio, ingoranza, impoverimento o magari semplice sciatteria o abitudine. Pensate che ancora oggi, curioso relitto semantico, il Vaticano continua a mandare messaggi ufficiali del papa in stile telegrafico (senza gli articoli, con i pronomi attaccati a mo’ di suffisso, “testimoniamole nostra grande vicinanza”…) anche se non c’è più alcuna necessità di farlo né per motivi tecnici né economici (ma anche all’epoca, popssibile che la Santa Sede fosse costretta a risparmiare sui monosillabi?). Il guaio isnomma non lo fa l’adolescente che scrive sms d’amore con i x e i ke: lo fa se vuole scrivere così anche un tema scolastico, una relazione di lavoro, la lettera a un giornale…
3. Sì, ma per motivi statistici. E’ più larga la platea degli scriventi rispetto alle élite dell’epoca di Manzoni. Ma la scolarizzazione di massa, che pure ha raggiunto traguardi meritori, non ha portato tutti alla perfetta padronanza della lingua. Il problema è che non ci ha portato neppure molti laureati.
5. Le regole non esistono. O meglio sono la razionalizzazione a posteriori di un uso, basata sulla prevalenza statistica di determinate occorrenze. Quindi, ove la maggioranza dei parlanti e degli scriventi cominci a usare un termine o una costruzione anomala e “scorretta”, qualora l’uso venga accettato e compreso dai più, e sia dunque giudicato efficace rispetto all’obiettivo, sarà la regola a cambiare. La validazione di massa non è cosa diversa dalla regola (tranne che per i puristi, che presto restano indietro e diventano pedanti). Altrimenti parleremmo ancora la lingua perduta di Adamo (o se volete il linguaggio perduto di Cro-Magnon).
(Possibile nuovo argomento: dobbiamo per forza piangere se muore il congiuntivo? E se muore tutta quanta una lingua?)

Michele

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 17:58 da michele


Michele, per precisare, per me una validazione di massa equivale ad una regola e forse la travalica anche. Ho usato quell’espressione solo per dare evidenza del processo che si genera a partire dall’errore.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 18:30 da eventounico


A domanda risponde: 1/2 Tutto ciò che è RAPIDO finisce per avere valenza negativa (chiedetelo ai Vs compagni/compagne).
3/4 Manzoni è famoso per gli anacoluti, ma gli errori marchiani devono essere tollerati solo se fatti da chi SA di farli (gli Schumacher letterari).
4 (bis, perché Max?) 5 A mio parere MENO, perché fortunatamente chi non sa parlare meno ancora sa scrivere. E’ ormai corrente e generalizzato ‘a me mi piace’ e la televisione lo propina a dosi massicce (come tutte le cazzate, ma questa è la minore).
Per Silvia, Simona e Maria Luisa, a loro consolazione, cito il cartello, da me visto lunedì, affisso al quinto piano del Palazzo di Giustizia di Torino: Ufficio Asseverazioni e Apostille (sic). Ciao a tutti.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 20:21 da Gianmario


PICASSO.
Picasso ricco e famoso quando entrava nei ristoranti e scarabocchiava i tovaglioli firmandoli riempiva di gioia i camerieri che rivendendoli tiravano su un bel po’ di soldi.
Picasso con il cubismo fu culturalmente molto importante nell’arte contemporanea dello scorso secolo, con stravalutazioni da capogiro, ma non sempre la sua fama di grande pittore derivò dal talento. Molti suoi contemporanei non ebbero la stessa fortuna e la loro gloria fu capita molto tardi, come Modì per esempio, raffinato pittore dalle delicate alchimie, unico nello stile, alcolico pensatore.
Oltre il cubismo molti gruppi si sono mossi esponendo una corrente di pensiero che culturalmente li fa ricordare come futuristi, espressionisti, astrattisti, ognuno con movimenti che portano avanti idee, concezioni della forma e soprattutto dediti alla ricerca espressiva, al confronto anche fra di loro.
Insomma a quel tempo i pittori facevano cultura ed è meraviglioso come alcuni tedeschi abbiamo fatto satira artistica persino dello scenario politico del momento con arguti pennelli. Ma se vogliamo anche i naif, i semplici testimoni di ginnici uomini baffuti e paffuti dai costumi a rigoni li cataloghiamo nella fiaba del pensiero.
Insomma far cultura significa anche lasciare una traccia, orme a cui fare riferimento, una sonda profonda nel pensiero, forse a volte basta veramente poco. Se è autentica.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 22:52 da Rossella


@ Massimo, sì, in relazione alla domanda 1 , penso che i rapidi commenti lasciati su un post, un blog o anche nei cellulari siano una terra di mezzo tra scrittura e linguaggio orale. La velocità può essere anche un vantaggio. Aiuta la concisione e la concentrazione del testo. Ti impone di essere intellegibile in poche battute. Sono pienamente d’accordo con eventounico. Questo tipo di “tracce” lasciate a fior di schermo possono essere un’utile palestra e un celere mezzo di confronto.

Postato sabato, 9 febbraio 2008 alle 23:20 da Simona


@ massimo (essenzialmente) per le domande “rilanciate”:
slow food o fast food? io sono per lo slow food ma a me, come a tanti, sarà capitato di dover andare di fretta da qualche parte e quindi entrare nel primo “Mac” che capita per ingoiare un cheesburger.
Esigenza dunque, se non è piacere. Nei blog oppure attraverso sms, la sintesi è pressochè obbligatoria e da questa può derivare anche uno stravolgimento della lingua.
Passando alla letteratura, penso che il linguaggio codificato possa essere tranquillamente (un po’) contaminato da quello parlato. Facendo un esempio spicciolo, se oggi in un romanzo ci trovassi scritto “mi rimbalzi”, invece che “non ti prendo in minima considerazione”, io non mi stupirei manco se lo avesse scritto Umbero Eco.
Quanto agli strafalcioni nei capolavori, al momento non ho idee. Presumo che possa esserci qualcosa di inesatto nei libri di Emilio Salgari. Ma, personalmente, considero lo scrittore torinese un genio, una pietra miliare. E se sbagliò il nome di qualche torrente malese, chissenefrega. Lui stava a Torino davanti a una carta geografica e da lì creò mondi e personaggi immortali. Moltissimi, con Salgari, iniziarono a leggere libri. Forse come oggi accade con Harry Potter. Tanto di cappello.
Sugli errori diventati parole comuni, oddio. Si puà discutere tra il sopportabile e l’inconcepibile.
Se oggi nelle pagine sportive dei quotidiani si legge “tre gol” e non più “tre goals”, non mi pare una bestemmia.
Scrivere o dire “ti faxo un foglio” ancora non mi viene. Ma posso farne a meno.
Peraltro alcuni guai ce li andiamo cercando. “Questa foto te la scannerizzo, no aspetta…te la scanno”.
“Grrrrrrr, scansionare. Sì dice scansionare”, mi disse desolato un mio amico informatico.
“Oibò”, risposi io.
“Che hai detto?”, mi chiese lui.
“Cazzo!”, replicai
“Ah, mo’ è chiaro”, concluse

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:29 da Enrico Gregori


Cari Eventounico, Michele, Gianmario, Simona: grazie per le vostre risposte.
Per mera distrazione (così rispondo a Gianmario) ho segnato due domande con il numero 4. In realtà le domande erano 6 e non 5.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:36 da Massimo Maugeri


@ Enrico
Grazie mille anche a te. Hai “postato” (non è odioso il termine postato?) mentre scrivevo io.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:39 da Massimo Maugeri


@ Michele
Intanto ti ringrazio per le risposte “corpose”.
Tu rilanci ulteriormente ponendone altre due: “dobbiamo per forza piangere se muore il congiuntivo? E se muore tutta quanta una lingua?”
-
Ti rispondo così. A mio avviso l’uso del congiuntivo “resisterà” per qualche anno ancora. Quando verrà meno credo che nessuno celebrerà il funerale.
Alla seconda domanda rispondo con un’altra domanda.
Quanta gente ha pianto nel momento in cui è stata decretata la morte del latino e del greco antico?

A mia volta, Michele, rilancio con un’ulteriore domanda.
Partendo dal presupposto che tra qualche decennio (immaginiamo cinquant’anni, a titolo di esempio) parleremo e scriveremo tutti in inglese, la lingua italiana sarà considerata come un dialetto (così come il napoletano rispetto all’italiano) o una lingua morta (come il greco e il latino)?

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:46 da Massimo Maugeri


Inserisco nel commento successivo l’articolo che Beccaria ha pubblicato ieri su Ttl (rubrica “Parole in corso”). È in tema con questo post.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:49 da Massimo Maugeri


PAROLE IN CORSO
8/2/2008
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L’antilingua sciupa il profumo
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di GIAN LUIGI BECCARIA
-
A due passi da casa mia vendono il miglior cioccolato che ci sia. Sembra di entrare in gioielleria, il negozio è piacevole, di gran gusto, e mentre sei lì che aspetti e ammiri, e ti pare di essere in un altro mondo, che vedi? Mentre ti stai beando, qualcosa ti trafigge, perché appiccicato al vetro del bancone trovi scritto: «per chi vuol conoscere l’ingredientistica… ecc.», vale a dire gli «ingredienti» dei cioccolatini. Si tratta di «antilingua» pura, come la chiamava Calvino. Non è che non si capisca, o che sia uno strafalcione, ma l’espressione così insapore e inodore è inadeguata a quelle delizie.

Si capisce benissimo l’indicazione che si legge in Piazza di Spagna al posteggio delle carrozze, che recita (recitava?) «Stazionamento per autopubbliche a trazione ippica», ma fa ridere, anche se non c’è in quel messaggio alcuna intenzione ironica o parodica. Questo miraggio dell’ufficiale-burocratico, ai limiti del grottesco, ci rovina la bellezza di un linguaggio più semplice, più nostro. Sono appena uscito dai profumi di Gobino, giro l’angolo, e ti trovo i distributori di sacchetti per «deiezioni canine», più in là poi una «Scarpoteca», più avanti una «Frullateria». Non c’è pace.

Sarà che piacciono tanto oggi queste forme elaborate, ma neutre, distanti dall’uso corrente. Vedo che quando si può, ci si butta sempre sul sinonimo più complicato. Nella vetrina di un bar ho letto «Si effettuano panini». «Effettuare» segue il modello burocratico oggi trainante: «fare», «preparare» sarebbero stati verbi troppo prosaici, meglio dunque «effettuare» o «eseguire», come se fossero voci più professionali. Suonano all’ignaro più solenni. Una parola è in questi casi ritenuta tanto più adeguata quanto più lontana dall’uso comune. In realtà sembra di imbattermi in parole di una lingua che non esiste. Ricordavo a un amico, che si è molto divertito al pensarci, che Montale non avrebbe mai scritto nei suoi Ossi di seppia, «Io, per me, amo gli assi viarii…», e neppure «Le sedi stradali / che riescono agli erbosi fossi». Io, per me, amo le strade. Forse l’«ingredientistica», questa forma astratta e impersonale, suona a chi l’ha esposta di più sicura, sanzionata ufficialità, più scientifica, più tecnologica. Questo tipo di italiano non necessario è oggi molto contagioso. Le parole che sanno di tecnico, per la loro verniciatura di specialismo, sembrano più precise, più obiettive, e incontrano perciò il favore della gente.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 09:50 da Massimo Maugeri


piccole osservazioni mattutine.
a) per me meglio un congiuntivo morto che un congiuntivo sbagliato. ho reazioni scomposte in presenza di certi mostri linguistici partoriti da chi parla o scrive ”a orecchio”.
b) la lingua è cosa viva, e come tale nasce, cresce, invecchia e muore, per far posto a qualcos’altro. preservarne la memoria è cosa giusta, ma ostinarsi a mantenerla immutata e parlare e scrivere come se il tempo si potesse fermare è accanimento terapeutico.
c) ho un sogno.. che tutti avessero le competenze linguistiche necessarie a comprendere frasi con due subordinate, a leggere un articolo di giornale avendone alla fine capito il senso, a scrivere una lettera senza incartarsi, ad esprimere il proprio pensiero in modo efficace. ricordo a chi lo avesse scordato che questo era il sogno anche di don milani: il riscatto attraverso la conoscenza.
d) un laureato, in qualunque materia, deve essere in grado di scrivere una tesi, e in seguito, una relazione, che sia comprensibile e leggibile.
ma questo discende in via diretta dalla necessità che la si faccia finita con l’iperspecializzazione miope. e si ricominci a formare persone invece che tecnici. leggere per un ingegnere inteso strettamente come tale può essere una perdita di tempo. per una persona che fa l’ingegnere invece è essenziale. e bisognerebbe spiegarglielo.
ma qui il discorso è lungo..

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 10:11 da gea


A Gian Luigi Beccaria, acuto osservatore, non sarà sfuggito come, per esempio, negli articoli dei giornali “i ladri penetrano nelle case”, oppure “s’introducono nelle ville”. Quasi che il verbo “entrare” fosse diventato roba da poveri di spirito. In realtà sifdo qualunque derubato a raccontare a un amico “ieri un ladro è penetrato in casa mia”. Il ladro è entrato, semplicemente. L’effetto-penetrazione, semmai, è dovuto al furto. Ma trattasi di “penetrazione” avvertita in altro loco.
E poi ancora “il fatto s’è registrato a piazza Venezia”. Perché ormai scrivere “successo, accaduto, avvenuto” è fuori moda come un jeans scampanato.
In effetti scrivere “ingredientistica” sulla vetrina di una bottega di prelibatezze gastronomiche, fa venire subito in mente il bugiardino di un medicinale.
@ gea:
il tuo punto d (e meno male che non sei arrivata al g sennò ci facevamo 4 risate) darebbe davvero la stura a un dibattito-fiume.
Conosco “intellettuali” per i quali la lettura più recente è stata il libretto di istruzioni del cellulare acquistato due anni prima.
Però, in compenso, ti sanno “emailare, loggare e faxare” di tutto e di più.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 10:35 da Enrico Gregori


ma come siete tutti svegli e pieni di pensieri… io non ho ancora fatto colazione… :-)

Tutto giusto, le cose scritte da Enrico e da Gea, ma resto convinta che soffriamo (dai bimbi delle elementari in su) di una carenza comunicativa verbale: “parliamo” troppo poco. “L’inteloquire”, prendere parte ad un dialogo , non c’è più, diciamo la nostra e facciamo solo chiacchiere, che ormai abbiamo imparato anche a scrivere.
A dopo

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 10:43 da miriam ravasio


Torno al post e Massimo ciao:)) perdonami l’ot.
Mah il fatto ecco, è che l’istituzione sottovaluta il potere del linguaggio ben figgiato, un tempo c’era gente che lottava per studiare da autodidatta, perchè s’era capito finalmente che l’assenza di cultura fa si che il potere ti possa fottere. Come l’amico di mio papà, portuale di Genova con quinta elementare che si studiava l’Unità col vocabolario. Oggi questa relazione tra potere della cultura e potere economico è sottovalutata, e subordinata a convinzioni che inverità a tutt’oggi non so quanto reggano – come la Tyssen ha tristemente dimostrato – l’etica del profitto economico permea tutti i campi di produzione – producendo si, ma spesso in forme meno competitive e qualitativamente interessanti di quanto in Italia ci si potrebbe permettere. Tutti rinunciano a molte cose – diritti e doveri e creatività – senza neanche accorgersene perchè quella cosa che un tempo li portava avanti, la cultura e il suo tramite la lingua che la esprime, non sono più un valore.
eppure.
Vorrei fare un esempio.
Ho fatto ripetizioni anni fa a un ragazzo che studiava ragioneria e aveva tutti voti bassi, e lo dovevano bocciare. Ora io non è che con la ragioneria sia sta scheggia ecco, non sono proprio proprio proprio le mie materie.
Eppure sto ragazzo è uscito con voti molto più alti, non solo non è stato bocciato – perchè io ho lavorato su una cosa: cioè bello de zia, impara a parlare bene in italiano. Di qualsiasi cosa tu voglia parlare sappi che se scopri che per esempio i sinonimi non esistono, ma ogni parola ha il suo specifico significato tu farai capire esattamente quello che vuoi, perchè il dominio del linguaggio è il dominio del mondo che in quel momento si sta gestendo. E si lo facevo scrivere scrivere scrivere. scrivere di gestioni di aziende, scrivere doi libri di gabbiani Jonathani Livingstoni, e scrivere delli cazzi sui. Fosse per me dovrebbero scrivere tutti un po’, sempre.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 11:09 da zauberei


@ zaub:
sì. tu un po’ meno, magari
:-)

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 11:34 da Enrico Gregori


Eppure come spieghiamo il fatto che persone molto anziane e poco istruite sono in grado di scrivere una lettera, un biglietto di circostanza, cavandosela molto meglio delle persone più giovani e colte?
Da noi, lo scorso anno fu pubblicata sui giornali locali, una lettera scritta da una vecchina di 98 anni, al parroco che si trasferiva in un’altra città. Nella grafia, ovviamente incerta, si riconosceva non solo il tempo, diciamo, Liberty, della sua infanzia, ma un apprendimento che negli anni era rimasto intatto. Conoscevo quella signora, aveva frequentato solo la seconda elementare, contadina prima e poi filandera; leggeva poco e forse nella sua casa non c’era mai stato un libro. Il testo, scritto per impulso affettivo, era commovente per l’intensità dei pensieri e dei sentimenti, che lei con forza, aveva voluto esprimere, indelebilmente, mettendo nero su bianco. Come se solo la lettera, la scrittura, avrebbe potuto dare un senso alle sue emozioni più profonde. Ed era una donna semplice, ma non unica, quasi “analfabeta” che aveva frequentato solo due anni di scuola.
E’ solo una questione di tecnica? Di metodo? Oppure, come penso, di dialettica “morale” ? Quella confidenza con i sentimenti che noi contemporanei stiamo, o abbiamo già perso?

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 14:18 da miriam ravasio


EHI MIRIAMMMMMM
Miriam sono d’accordo con te. Il linguaggio a volte infetta.
Proprio di recente ho letto una frase di Borges che illustra come la costante volgarità del pensiero quasi sempre si traduce in pittoresche manifestazioni. Si comprenderà quindi molto bene che le parole diventano il veicolo di quel c’è dentro a chi le usa.
Ma distinguiamo. Non è un pò come indossare una minigonna per una donna o un accessorio sgargiante per un uomo? Se le persone sono eleganti internamente anche questi indumenti non saranno volgari, ma se la coscia invita e la cravatta infanga allora sarà molto meglio per loro non osare. E’ pericoloso.
Bisogna anche riflettere su un piano più generale di ascoltatori o lettori e rendersi conto che il gergo comunicativo (gesti compresi) ha un suo valore appropriato, compreso quello educativo, con tanto di oggettiva spiegazione sul vocabolario. Una parolaccia è una parolaccia.
D’altra parte in molti sostengono che per farsi capire bisogna adottare lo stesso linguaggio dell’interlocutore ma a questa affermazione contrappongo la mia dicendo che l’istrionismo è quel che è, ovvero simulazione e che occorre vedere quali erano le reali intenzioni di chi lo ha messo in atto.
Buona domenica.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 16:39 da Rossella


@ Zaub
ti sì fatta nà veste scullata…
Edoardo

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 16:47 da Rossella


Ma forse la vecchina in questione, era una persona d’oro. Diamole questa chance, il che non implica che tutti quelli della sua generazione lo siano. e manco che per fortuna sia sta cosa così rara. Io conosco però un sacco di donne come lei, e in contesti non urbani, le quali per il fatto che hanno la quinta elementare, e certo per un sacco di altri motivi, sono assolutamente meravigliose nel dire cose belle, ma quanta gente approfitta di loro, quanta gente le raggira. Anche quando erano giovani -e ahimè anche le loro figlie. Donne che lavorano a giornata nei frutteti e che non sanno minimamente di quali diritti sono private. O più esattamente lo sanno eccome, ma sono rassegnate davanti alla loro impossibilità di difendersi perchè non hanno i mezzi culturali per farlo. N’è mica verga eh, è la campagna laziale sabato scroso. La lingua dei sentimenti è qualcosa che si esercita comunque, e che a chi ha talento fa dire cose meravigliose.
Però c’è una lingua politica, di cui tutti abbiamo bisogno. Una lingua di parole precise, anche noiose, e insomma. Tornando a bomba, un laureato italiano come la mia amica Titti la Bella che si trova a lavorare all’abi. e all’improvviso dopo una famigerata laurea in scienze della comunicazione si trova a scrivere. Ora la mia amica Titti la Bella è domestica parecchio coi sentimenti, ma colle relazioni d’ufficio affatto. E la mia amica ha detto, zauberei un macello, io non ho scritto mai all’università.
– rossella, speramo che me dona:)

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 17:24 da zauberei


Zau, tu mi fraintendi sempre!
capisco quello che vuoi dire, io provengo da una famiglia operaia e contadina e non sono affatto incline al fascino Angelus-Millet; quello che intendevo sottolineare è questo: ai ragazzi non manca la tecnica della scrittura, apprendono per quantità molte ma mooolte più cose che in passato, perché con tutta questa strumentazione poi è così difficlile scrivere poche semplice righe, tecniche o d’amore?
Io ribadisco che la società intera soffre di comunicazione verbale: non sappiamo confrontarci, se non ognuno davanti al proprio pc, o cellulare o ecc. ecc. Non sappiamo farlo perché le nostre società sono un insieme di solitudini. Moltitudini di individualità; e questo si ripercuote in ogni istanza.
Sono stata chiara?

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 18:55 da miriam ravasio


Si Miriam sei super chiara:)
E lo so che tu nun ci hai l’estetismo compulsivo:=)
E’ che io in questo contesto sentivo la necessità di accentare altre cose. E poi, boh, non lo so se questa generazione questi tempi sono peggio di altri. Che ora non siamo capaci come dici tu di confrontarci, come prima. No io questa cosa non la credo. In sostanza non siamo d’accordo:)
E’ nòva:)
ma mica è grave no?
cioè queste so finezze, sarebbero ben altre le cose gravi.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 19:36 da zauberei


Secondo me il problema sta tutto nella scuola primaria e secondaria.
Mi spiego: è scontato che all’università non insegnino a scrivere, dovrebbero essere i maestri prima e i professori poi ad educare alla scrittura i futuri laureati e ciò non accade, ahimè.
Alla fine tutto si riconduce alla scuola che non funziona e che è lo specchio del paese.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 20:32 da francesco giubilei


@ Zauberei
Sono contenta per te che pensi che la giustizia possa trovare una strada giusta solo attraverso la cultura.
La terra comunque insegna molto e la natura restituisce nella misura in cui è stata trattata ed anche suo fratello il mare conosce questa legge. C’è poco da fare i furbi con i credenti.

Postato domenica, 10 febbraio 2008 alle 22:49 da Rossella


Ma che diavolo state dicendo?
I laureati non sanno parlare e tan’poco scrivere perchè la laurea è un semplice gran premio a punti, col libretto che sembra la classifica del campionato del mondo.
Gli autodidati (come mi ha rimarcato Gregori) non contano ed è giusto che sia così: qui si parla di “laureati” e “linguaggio”, e Massimo ha rilanciato con altre provocazioni.
La velocità sta uccidendo tutto, compreso il linguaggio, ma non significa sintesi. Più volte è stato detto che la sintesi è un fatto, la velocità un’altra cosa.
Togliatti sovente esordiva con la frase “Scusate se non avrò la capacità di essere semplice”. La lingua, se parlata semplicemente, con cognizione, si preserva (i francesi, maledetti galletti, ne sono un esempio); la lingua modificata ad uso della velocità e della presunzione diventa il dialetto di essa, e lo sta diventando (Zauberei – chissà perchè battezzano le donne così – il romanesco non è toscano e se non ci si chiama Alberto Sordi è meglio evitarlo, così come e meglio evitare di mescolare Eduardo con Libero Bovio che è il leggittimo padrone di Reginella “…stiv’é ‘nziem’é a tre o quatt’é sciantose…”).
Ciò detto, vado a letto!

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 00:07 da francesco di domenico


Grazie per i nuovi commenti.
Continuate pure.
Tornerò quanto prima per alcune precisazioni sui punti 4.1 e 5 delle mie domandine.
Buonanotte

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 00:18 da Massimo Maugeri


Passerò da reazionaria e impopolare, ma se rimettessero il latino già alle scuole medie, non dico che gli italiani diventerebbero scrittori ma forse se la caverebbero meglio in grammatica.
Detto questo, durante gli anni dell’università mi sono sentita chiedere cose tra le più bizzarre. Dato che molti mi reputavano una saccente sapientona perchè leggevo libri (n.b. non manuali o libri consigliati per gli esami, ma libri librini e libretti di tutti i tipi dalla favole di Andersen a Delitto e Castigo, e in una facoltà non letteraria ciò dava abbastanza nell’occhio), alcuni mi ponevano questioni abbastanza imbarazzanti, del tipo:
1. perchè l’est si dice oriente e l’ovest occidente?
2. perchè il Pentagono si chiama così?
3. che cosa sono i verbi transitivi e intransitivi?
Ora qui non si tratta di sapere o non sapere scrivere, qui mi sembra che le lacune degli italiani siano infinite.
Adesso conosco laureati in lettere che purtroppo, ahimè, insegnano in medie e superiori, e non riescono a leggere un libro dell’800 perchè reputato troppo difficile e barboso. E che continuano a confondere un predicato verbale con il sermone della domenica.
Ho i brividi……

P.S. Io non ho una laurea in lettere e tutte le cose sopra le ho imparate alle elementari, alle medie e al vecchio e tanto bistrattato liceo classico

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 10:23 da fairy


Fairy, io non sono pregiudizialmente contro (per esempio) il latino nelle scuole medie. Ma mi accodo alla domanda di Miriam: perché ai ragazzi che imparano tante cose con tale facilità, di scrivere e parlar bene non sembrano proprio capaci?
Qui sorge un problema enorme, quello della didattica per obiettivi e degli obiettivi della didattica.
Insegnare il latino: per far fare ginnastitca al cervello, per insegnare “il latino”, per insegnare la lingua dei padri (de Roma o della Chiesa), per far parlare i discenti con altre persone, per permettere loro di andare in cerca di tesori nascosti altrimenti inaccessibili, per distinguersi (come avviene ancora nelle scuole anglosassoni)? Insegnerò diversi “latini”, a seconda della visione o del sogno che guida il programma ministeriale, l’insegnante o ciascun alunno in classe? Quindi: insegnarlo, quanto, quando e a fianco di cosa o a scapito di cosa – visto che le ore sono limitate? Sappiamo forse se chi impara il latino sarà più bravo ad apprendere un linguaggio di programmazione per computer? E’ forse viceversa? Quale delle due schiude più opportunità per chi impara, e quale invece ne chiude di più?
Non sarà il tuo caso, ma c’è gente che sa da dove deriva “pentagono”, ma non lo sa disegnare con squadra e compasso. Grave? C’è gente che conosce l’etimo di pentagono ma non sanno usare le proporizioni per fare semplici stime. E’ grave uguale o no? E perché?
Qui, sotto sotto, stiamo toccando un grossissimo problema quello del (l’ex) primato della cosiddetta cultura umanistica e della lingua e della letteratura come loro base. E, attenzione: non è che “l’avversario” debba essere necessariamente la cultura scientifica o la “non-cultura” imprenditoriale. Una cultura umanistica basata sulla filosofia sarebbe molto diversa, e così pure una basata sulle arti…

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 11:10 da Paolo S


Caro Massimo Maugeri e cari tutti amici di scrittura: e se avessimo paura di perdere la nostra vera identità nazionale – attraverso il cambiamento in corso della nostra bella lingua italiana – come quando si vive all’estero per molti anni; si è obbligati a parlare, scrivere correttamente la lingua del Paese che ci ospita e non ci si può accontentare di essere alfabeti: in quell’occasione ci vengono in aiuto libri,televisione,giornali,dialogo quotidiano di lavoro e di studio nella lingua del Paese che ci ospita; allora proviamo a pensare alla grande: partiamo dalla nostra lingua madre italiana, a seconda della nostra esperienza di vita, via andando in francese,inglese,tedesco.
Pensandoci bene: come mai i nostri amici stranieri riescono ad imparare più velocemente, la nostra bella musicale variopinta lingua italiana, che si scrive come si pronuncia: tralasciando, invece, loro la grammatica e la sintassi, se non approfondirla quando serve solo per motivi professionali?
Certo, io mi sono chiesto come mai la lingua inglese è da anni che si diffonde su tutto il pianeta a discapito di quelle lingue nazionali, che rimarranno tali,e che diventeranno minori o del passato prossimo: forse come la cultura greca, latina e la loro lingua risulteranno atte solo a studiosi di filologia?
Gli anglosassoni invece risultano avere in uso una lingua, quella inglese, più veloce,sintattica, stridula e inimmaginifica, che risulta pentagrammata nel genere musicale rispetto alla nostra, è un mio parere;tutto questo come è possibile?
Volevo affermare in buona sostanza che Noi partiamo,verosimilmente, con la nostra identità culturale in senso antropologico e che poi tutto si trasforma in arricchimento o impoverimento del nostro modo di esprimerci con la parola e la scrittura riferiti anche ai media di comunicazione che useremo e ai nostri interlocutori di riferimento, per mezzo della lingua nazionale o straniera che ci servirà all’uopo, secondo me e secondo Voi?
P.S. Massimo non credo che parte del 12% di laureati italiani (1:5=2,4%) possano risultare incomprensibili riguardo il corretto uso della lingua italiana, ma semmai per mancanza di idee risultano poco credibili!
Luca Gallina

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 19:04 da luca


Rossella, non è che non creda in altre giustizie, è che le altre sono off topic.
didò non zo che ditte, salvo salta i miei commenti, se te fanno male alla salute.
Concordo moltissimo con il commento di Luca Gallina per la questione di identità e uso del linguaggio. Ma c’è pure da dire Luca, che non ci sicrede, ma gli Italiani che parlano le lingue sono pochissimi, ed è una delle ragioni per cui fruiscono meno degli altri del mercato del lavoro europeo. Siamo in un paese dalla formazione culturale un po’ farraginosa, come la metti la metti.

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 19:09 da zauberei


@Carlo
C’è anche un altro problema nelle scuole: l’insicurezza delle insegnanti, soprattutto alle scuole elementari.
Lavoro con parecchie di loro, e da diverso tempo; sono insicure e hanno paura di sbagliare, per questo si barricano dietro a programmazioni rigide. Il loro mestiere non è facile e stare con i bambini è sempre imprevedibile, se a questo aggiungiamo programmi poco chiari, le circolari (tantissime!) i loro problemi personali di graduatoria e trasferimenti, le riunioni di circolo, di plesso e con i genitori, la competizione fra i team, per il loro impegno educativo resta veramente poco. La scuola è stata caricata di “compiti e doveri” oltre ogni ragionevole limite, così tutto si riduce alla scansione ufficiale delle cose da fare e fatte. Ci si accontenta degli obiettivi minimi: valutare e verificare il più possibile con il crocettare ossessivo del Vero o Falso. Vero o falso?

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 20:45 da miriam ravasio


Miriam, può darsi che i giovani oggi sappiano molte più cose dei loro predecessori (anche se ho i miei dubbi) ma siamo sicuri che siano cose importanti e utili a farsi una cultura? Proprio oggi mia moglie ha iniziato un corso di inglese a Psicologia: presenti oltre 80 universitari, alla frase ‘conoscete le vicende di Guglielmo il Conquistatore’ è sceso il gelo e non volava una mosca; allora ha chiesto ‘di dov’era Guglielmo il Conquistatore?’ due, prontamente, hanno risposto ad alta voce ‘inglese!’. Quando ha replicato ‘ma se era inglese cosa andava a conquistare a casa sua’ è tornato il silenzio. Personalmente ritenevo di essere ignorante rispetto alla generazione dei miei genitori, ed era vero (mia madre, insegnante, parlava correntemente latino e greco e mio padre, di origine contadina, sapeva tutto della natura e di come affrontarla) ma oggi rischio di sentirmi un marziano quando parlo con certi giovani. Sono d’accordo con Fairy: l’istruzione non deve farti conoscere oggetti che mutano ma darti gli strumenti per avvicinarli nel modo giusto e collocarli al loro posto: una forma mentis logica che ha permesso agli Egiziani di costruire le piramidi, cinquemila anni fa, senza l’uso di computer .

Postato lunedì, 11 febbraio 2008 alle 21:44 da Gianmario


@Gianmario
Certo, condivido il tuo ragionamento, a volte è veramente sconfortante. Ma se devo riassumere per sintesi estreme, cerco di guardare ai giovani per i loro aspetti positivi. Forse, su Guglielmo il Conquistatore erano molto più informati alle medie, poi tutto si dimentica o viene sommerso da mille altre nozioni. Cosa dire di certi errori commessi dagli insegnanti? Del modo con cui si insegna matematica? Nel mio Diario di lavoro, ho dedicato all’argomento più di un capitolo! Pagine e pagine colorate in arancione per imprimere nelle menti dei piccoli il concetto di decina; o delle capocchie degli spilli, che i piccoli come schiavi cinesi, dovevano completare per assimilare la tabellina del nove per un totale di 504 capocchie!!!!!

:-)

Postato martedì, 12 febbraio 2008 alle 00:03 da miriam ravasio


Zauberei anch’io penso che la cultura sia il modo più appropriato per riportare alla luce l’ordine del pensiero che altrimenti rimane nel caos.
Ti sarà senz’altro capitato di vedere occhi inferociti che non riescono a parlare del male subito e invocano giustizia attraverso lo sguardo. Non sono sicura, non mi occupo di psichiatria, ma ho quasi la sensazione che se il pensiero non riesce ad esprimersi nella luce (rabbia compresa) finisce per trovare canali sotterranei, tunnels bui dove gli elementi si confondono ma devono necessariamente sbucare da qualche parte, ed il pericolo rimane la manifestazione ultima di tutto ciò. L’inconscio è una brutta bestia che non sai mai con quale forza reagisce.
Però ho anche notato che esiste una specie di magia naturale, del tipo se si salva la vita a un passerotto prima poi la specie dei passerotti ringrazierà. Se si usa brutalità con la natura, essa stessa verrà il momento che sarà altrettanto brutale, una specie di messa in regola che non dimentica niente e nessuno e che ha dei codici propri.
E’ strano ma è così e secondo me non sono off topic.
Ciao

Postato martedì, 12 febbraio 2008 alle 00:05 da Rossella


Rossella hai ragionissima su cosa combina il pensiero quando non trova la luce, e cosa combina l’inconscio costretto, e che poi non si fa costringere mai. E credo anche io alla magia della natura, solo che mi ritrovo ad avere paura un po’ per lei e un po’ per chi subisce la sua vendetta, che di solito non va precisamente a chi la attacca, ma spesso a un suo vicino.
Se Mimmo Pommodoro infesta la campagna di pesticidi, il suo bambino di due mesi sarà più predisposto ad avere un tumore. Se Mimmo Pommodoro ha molti terreni ma se ne sta in città, saranno i suoi operai a subire la vendetta della natura.
anche se certe volte, quando penso alla foresta amazzonica che sparisce di giorno in giorno, ho paura persino per la natura stessa. Che non è che muoriamo noi e lei rimane. E’ un braccio di ferro che ammazza tutti.
Off topic?
sti cazzi:)

Postato martedì, 12 febbraio 2008 alle 12:06 da zauberei


Zauberei hai usato la parola costringere?
Ma chi cazzo sei tu (tu generico) per imporre un idea che non rappresenta la volontà divina? Chi ragiona così è destinato a perdere comunque.
A questo punto anche inconsciamente c’è il rifiuto contro una forma di vessazione psicologica che non fa altro che rappresentare quel’imposizione di arlecchino contro colombina (braccio di ferro).
Primo: non è detto che Colombina sia più debole di arlecchino, soprattutto se ha capito che le è stato donato il libero arbitrio dal Creatore ovviamente nell’ ambito delle leggi.
Secondo Mimmo Pommodoro (detto peperone) non rappresenta la giustizia! Questo “autonomia decisionale” è un male di cui la Sicilia soffre terribilmente e si identifica come una specie di territorio western dove tutti si sostituiscono allo Stato e alle sue leggi con imposizioni e violenze psicologiche assurde, manicomiali.
La mafia ragiona così, lo Stato esiste le leggi pure… ma chi se ne frega “cummannari è megghiu di futtiri” ed è scontato che in questo modo bisogna creare delle fogne sotterranee per agire indisturbati con tanto di pianificazione intenzionale del pensiero. I topi…..

Postato mercoledì, 13 febbraio 2008 alle 10:48 da Rossella


La scrittura rapida è figlia dei tempi. Ma è una figlia poco graziosa, credo. E capisco le abbreviazioni negli sms per ovvie questioni di tempo (ma quanto corriamo, quanto?), ma non capisco tanti altri esempi di maltrattamento dell’italiano.
In particolare mi sfugge il senso di apostrofi che “vanno” laddove non dovrebbero, di concordanze che concordano pochissimo, di consecutio ridotta all’osso quando non sbagliata, del “diamoci del tu -non per amicizia, ma perché con il Lei avrei qualche problema- suvvia…”.
Non capisco il motivo per il quale ci si ostini a usare la virgola per indicare una pausa laddove nessuna pausa dovrebbe esistere, specie tra soggetto e predicato verbale senza che inciso vi sia a giustificare non una, bensì due virgole. E mi domando che cosa spinga a corroborare “bensì” con “ma”… “ma bensì” è atroce… E dei verbi intransitivi usati come se fossero transitivi? Vogliamo parlarne?
M.

Postato sabato, 16 febbraio 2008 alle 01:40 da M.


[...] Ignoranti a pieno titolo. nessun [...]

Postato domenica, 17 febbraio 2008 alle 18:22 da Kataweb.it - Blog - terzapagina » Blog Archive » GENERAZIONE AUTOGRILL


per una ricerca che sto facendo sull’evoluzione della lingua, avrei bisogno di trovare alcuni esempi di articoli giornalistici in cui si omette il congiuntivo o lo si usa in modo improprio. Mi potete aiutare?
Grazie infinite!

Postato domenica, 1 giugno 2008 alle 00:51 da cristina


Basti prendere un successo editoriale qualsiasi, cara. O leggere i giornali. Leggili, su. Costano poco, anche se rendono molto agli editori.

Postato domenica, 1 giugno 2008 alle 02:22 da Sergio Sozi


Poi hai visto il mio congiuntivo presente ”basti”? Che te ne pare?

Postato domenica, 1 giugno 2008 alle 02:23 da Sergio Sozi


… ammesso che fosse un congiuntivo, cara… o un imperativo?
Perdonami gli scherzi
Bacioni
Sozi

Postato domenica, 1 giugno 2008 alle 02:24 da Sergio Sozi


Se non sia il caso che faressimo meglio ad andare in quel posto, da tutti credo poco noto e pochessimamente amato, che la gente chiama ”emeroteca”, io sareste finito. E tu anche sarebbe finita.

Postato domenica, 1 giugno 2008 alle 02:27 da Sergio Sozi



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