lunedì, 26 giugno 2017
JACQUES THORENS racconta IL BRADY
Il nuovo ospite di “L’autore straniero racconta il libro” è lo scrittore JACQUES THORENS, autore di “IL BRADY” (L’Orma editore – traduzione di Marco Lapenna).
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Jacques Thorens è nato in Bulgaria nel 1973 e a tre anni si è trasferito a Parigi dove ha studiato arti grafiche e cinema. Dal 2000 è stato proiezionista, cassiere e factotum del Brady, leggendario cinema di quartiere parigino al 39 del boulevard de Strasbourg. Questo è il suo primo libro, subito diventato oggetto di culto quanto i film di cui narra: una sorta di romanzo di un luogo. Il Brady è un cinema di quartiere a Parigi, che proietta pellicole di infima qualità, attingendo al kung fu, allo splatter, agli spaghetti western girati peggio.
«Questa storia si ispira a fatti reali. Tutto ciò che potrà sembrarvi eccessivo o inverosimile è autentico.»
Jacques Thorens racconta qui di seguito il suo libro per Letteratitudine e i per i lettori italiani.
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Situato nel cuore di un quartiere popolare, fra centinaia di parrucchieri africani, un proiezionista scopre uno strano cinema, «un anacronismo, all’inizio dell’anno 2000, relitto di una macchina del tempo». Un luogo dove venivano proposti doppi spettacoli improbabili: Il trionfo di King Kong o Le esperienze erotiche di Frankenstein, Il dottore pazzo sull’isola del sangue o Lo stupro del vampiro. I film di genere, completamente folli, o più in generale ogni tipo di eccesso, erano la norma: sesso, violenza, orrori, kitsch, truffe… Il cinema era «l’hotel meno caro di Parigi» (5 euro) dove i clochards potevano smaltire la sbornia, dormire, fornicare. Ci si passava la giornata pagando un solo biglietto grazie a pratiche ormai obsolete (il doppio spettacolo: due film al prezzo di uno, il permanente: si entra e si esce quando si vuole), un luogo di incontri omosessuali per la terza età, spesso proletaria e immigrata, un camerino per le prostitute, grazie agli impiegati che, immersi in un’atmosfera singolare, si lasciano andare alle loro inclinazioni anticonformiste. La sala era gestita da un regista di 70 anni, Jean-Pierre Mocky, un tipo assurdo, un franco tiratore autoproclamato, che metteva insieme i suoi film contemporaneamente alla gestione del cinema, sempre sull’orlo del fallimento. Questo luogo era la sua ultima possibilità di mostrare i suoi film autoprodotti, che le altre sale rifiutavano. Il Brady gli permetteva di essere indipendente, rimanendo al tempo stesso l’emblema della sua marginalità. Descrivo un cinema losco, con le sue leggende e i suoi abitanti. Django, napoletano, ex-pappone, militare, clochard e straccione che veniva a dormirci tra una birra e l’altra, un appassionato di B-movies e film horror che teme le mani sulla coscia mentre guarda il film e che constata che quei film altrove censurati diventano alla moda grazie a Tarantino (anche lui spettatore occasionale di questa sala), un cassiere depresso protettore di prostitute bulgare, Momo, il travestito che viene qui con i suoi clienti, Azzedine il concierge e un proiezionista narratore (all’occorrenza autore), che osserva un simile bazar suonando la chitarra alla cassa. E infine i film folli (spesso italiani) sono anch’essi uno dei personaggi del libro: I guerrieri del Bronx, Cannibal holocaust, Virus cannibale, Ilsa la belva delle SS, Suspiria…Si proiettavano meraviglie di poesia macabra o divertente serie Z.
All’inizio sono stati aneddoti vissuti che raccontavo agli amici per farli ridere o scandalizzare, e volevo metterli per iscritto per non dimenticare i dettagli di quelle storie folli. Il piacere che mi ha dato la scrittura mi ha spinto a lavorarci meglio e ad approfondire il soggetto. È l’origine della mia voglia di letteratura. La forma ideale per questa storia.
Quegli aneddoti riguardavano un cinema ancora attivo, persone viventi, un proprietario regista, un certo tipo di film e spettatori che avevano una storia. Bisognava al tempo stesso non tradirli, comprenderli e avere un certo tipo di sguardo su di loro. Che fosse ironico, sarcastico e amorevole insieme. Per molto tempo non ho espresso la volontà di scrivere su di loro affinché non perdessero la spontaneità o raccontassero storie assurde o inventate. I fatti erano già sufficientemente inverosimili senza che ci fosse bisogno di aggiungere altro.
Ogni filo che tiravo conduceva a piste differenti. Questo lavoro è durato dieci anni. Da una parte perché non pensavo di poterlo pubblicare mentre il regista continuava a dirigere la sala cinematografica. Alcuni fatti avrebbero potuto essere interpretati come diffamazione, se non li avesse apprezzati. I miei timori erano infondati, a lui non importava. Anzi, voleva che ne aggiungessi altri, comprese alcune storie illegali. (continua…)
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