Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto. La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine). Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc. Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere. Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili. Aggiungo che la camera accanto è anche un luogo “integrato” con altri spazi di Letteratitudine, ovvero… il programma radiofonico Letteratitudine in Fm e la pagina Libri segnalati speciali. Di conseguenza potete lasciare qui i commenti riferiti ai suddetti spazi. (Massimo Maugeri)
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AGGIORNAMENTO DEL 1° novembre 2010
Questo appuntamento de “La camera accanto” si è trasformato in un post/tributo dedicato alla memoria di Elvira Sellerio, Luciano Erba e Michele Perriera. Qualche giorno fa mi ha scritto l’autrice della foto di Elvira Sellerio che trovate qui sotto. Si tratta di Donatella Polizzi.
La foto si trova all’interno di un volume pubblicato dall’editore Bonanno e intitolato “Sicilia singolare femminile“.
Ho chiesto a Donatella Polizzi di scrivermi due parole su questo volume. Eccole…
“E’ un libro di fotografie in bianco e nero di donne, realizzate tutte in Sicilia che rappresentano la donna con un’iconografia diversa a quella dell’immaginario fatta di nero e sguardi bassi. Il libro si articola in varie sezioni tutte accompagnate da brevi testi di Giovanna Bongiorno. Questo e’ il mio testo sul risvolto di copertina che spiega un po’ il senso del libro: “Sono scorsi, i miei occhi, su troppe immagini cariche del nero di scialli e fazzoletti a incorniciare sguardi sfuggenti, occhi che si muovono veloci in cerca di una via di fuga. Ho ascoltato, parole insensate che parlano di gelosia e fedelta’, di intensita’ di sentimenti e di mancate risposte, di violenza, sangue e passivita’. E allora e’ sorto in me il desiderio di mostrare delle immagini che parlino dell’armonia e della storia, della sensualita’ e dell’energia, della gioia di vivere e del legame con la propria terra. Cosi’ questo libro che si e’ potuto realizzare grazie alla complicita’ di tutte coloro che mi hanno aperto la loro casa, vuole solo essere una voce in prima persona, un invito a un viaggio fra le donne di Sicilia che quando tacciono e’ perche’ lo vogliono”.
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(Post del 21 settembre 2010)
ADDIO A ELVIRA SELLERIO
Elvira Giorgianni Sellerio, fondatrice con il marito Enzo dell’omonima casa editrice, è morta oggi – 3 agosto – a Palermo. Vorrei ricordarla qui, invitandovi a fare altrettanto. Forse, uno dei modi per ricordarla meglio è ringraziarla per il contributo che ha dato (con la sua casa editrice) al popolo dei lettori. Vi invito dunque (se volete) a dare un’occhiata nella vostra libreria (o a “spulciare” il catalogo della Sellerio) per scegliere – tra i vari libri pubblicati – quello che per voi è stato più importante… Grazie, Elvira. Riporto, di seguito, la notizia diramata dall’Ansa.
Massimo Maugeri
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PALERMO
- Elvira Giorgianni Sellerio, fondatrice con il marito Enzo dell’omonima casa editrice, è morta oggi a Palermo. La Sellerio, che in passato era stata anche componente del Cda della Rai, scoprì e incoraggio’ a pubblicare per la sua casa editrice numerosi autori di successo, da Leonardo Sciascia a Gesualdo Bufalino fino ad Andrea Camilleri.
UNA STORIA COMINCIATA CON SCIASCIA
- Elvira Giorgianni Sellerio era nata a Palermo il 18 maggio 1936 ed aveva 74 anni. Figlia di un prefetto, era laureata in giurisprudenza, cavaliere del lavoro, nel 1991 è stata insignita di una laurea honoris causa in Lettere dalla facoltà di magistero di Palermo. Ha cominciato a lavorare nell’ editoria nel 1970, fondando la casa editrice Sellerio ( dal nome del marito, il fotografo Enzo, dal quale si era separata) che ha avuto tra i suoi autori Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Al forte rapporto con lo scomparso scrittore di Racalmuto si deve il successo di una “scommessa”: così la Sellerio ha più volte definito la sua “pretesa” di lanciare da Palermo una casa editrice, che si propone come “nazionale”, scontando tutte le conseguenze di una localizzazione periferica. Attraverso Bufalino la Sellerio è stata premiata con il Spercampiello nel 1981 per ‘Diceria dell’ untoré, il romanzo che ha fatto conoscere al grande pubblico lo scrittore di Comiso. Nel 1991 alla Sellerio è stato attribuito il premio ‘Marisa Belisario’. La casa editrice ‘Sellerio’ si è segnalata per la sua collana di “libretti” dalla caratteristica copertina in blu scuro che ripropongono testi apparentemente “minori”, che spaziano tra classico e moderno, ma di grande spessore culturale. La Sellerio ha pubblicato tutti i libri di Andrea Camilleri che ha assicurato alla casa editrice un grandissimo successo. E’ stata anche membro del Cda della Rai nel 1993-1994 all’epoca dei “professori”.
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UN SALUTO ANCHE A LUCIANO ERBA
Lo stesso giorno in cui ci ha lasciato Elvira Sellerio è scomparso Luciano Erba: (Milano, 18 settembre 1922 – Milano, 3 agosto 2010) poeta e critico letterario italiano del secondo Novecento, appartenente alla cosiddetta “quarta generazione”. È stato docente universitario di letteratura francese all’Università Cattolica di Milano. Poeta innovativo nel seno della tradizione “lombarda”, esordì con Linea K nel 1951; sono seguite poi le raccolte Il bel paese (1955), Il prete di Ratanà (1959), Il male minore (1960), Il prato più verde (1977), Il nastro di Moebius (1980), Il cerchio aperto (1984), Il tranviere metafisico (1987), L’ippopotamo (1989), Variar del verde (1993), L’ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000). Stilisticamente, Erba si può dire che abbia ripreso la lezione di Jacques Prévert, tenendosi ad equa distanza da neorealismo ed ermetismo. Di conseguenza mantenne uno stile apparente semplice, leggibile, ma al tempo stesso raffinato e sottile. Fu autore d’una antologia di poesia contemporanea in collaborazione con Piero Chiara Quarta generazione (1954). Scompare il 3 agosto 2010 a Milano, all’età di 88 anni (Fonte: Wikipedia Italia) Segnalo gli articoli pubblicati su Il Corriere della Sera a su La poesia e lo spirito.
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AGGIORNAMENTO DEL 21 settembre 2010
Aggiorno questa pagina ricordando lo scrittore e regista Michele Perriera (in basso, nella foto di Palazzotto) scomparso a 73 anni, nell’ospedale Giglio di Cefalù, l’11 settembre scorso.
Perriera ha fondato e diretto la scuola di teatro Teate’s di Palermo. Era stato tra i fondatori del gruppo ‘63. Dal 1994 ha diretto la collana di teatro della casa editrice Sellerio. Lo scrittore, considerato il drammaturgo dell’anima, se n’e’ andato dopo una lunga malattia che lo aveva allontanato dal teatro.
Segnalo questo articolo pubblicato su la Repubblica (Palermo).
Di seguito, un bell’articolo scritto da Domenico Calcaterra (che ringrazio).
Massimo Maugeri
P.s. Si consiglia anche la lettura del minisaggio di Domenico Calcaterra, dedicato a “Romanzo d’amore” di Michele Perriera, disponibile su La poesia e lo spirito.
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MICHELE PERRIERA: LA MORTE NON VINCE LA MEMORIA
di Domenico Calcaterra
«Ho sempre desiderato che qui, a Palermo, mi fosse ricambiato, almeno in parte, l’immenso amore chi mi ha sempre animato verso questa città crudele e meravigliosa», così scriveva in un angolo del suo sterminato Romanzo d’amore Michele Perriera. E ha dovuto attendere la fine, perché le istituzioni cittadine si producessero in un “estremo saluto” degno della sua levatura e che ci sforziamo di credere sincero. Ma il congedo senz’altro più sentito è venuto dalla schiera fedele e numerosa di amici, artisti, attori, scrittori, ex allievi della scuola di teatro Teatès (da lui fondata e diretta dal 1979), semplici ammiratori, giovani, che hanno saputo rendergli un genuino e commosso omaggio.
Del resto, Michele Perriera la conosceva assai bene la sua Palermo, il deserto che non ha mai rinunciato di vivere (ma da «separato in casa»), il paradiso ottuso dove si è ostinato con coerenza a contrabbandare da periferico (per oltre quarant’anni) le sue visionarie provocazioni: legato alla sua città da un destino di coriacea resistenza, reagendo alle tentazioni del successo e alla comoda fuga dal caos, ha finito per eleggerla a centro della propria vicenda umana e intellettuale, spelonca dalla quale affinare il suo particolare sguardo sulle ferite e le cose del mondo. Alla “distanza fisica”, alla parola pronunciata dal distacco rassicurante dell’esilio, ha preferito la via più coraggiosa di una letteratura della “distanza logica”, vittorioso sull’enorme rischio dell’abbaglio, sulle infide seduzioni connesse al nido. M’imbatto non a caso in tale digressione, con l’intento preciso di smentire l’idea diffusa che la fuga, l’emigrare verso lidi di presupposto progresso, sia l’unico viatico d’emancipazione possibile per chi abbia avuto la ventura di nascere in una terra di particolare e tormentata storia come la Sicilia.
A voler ripercorrere la parabola intellettuale di Michele Perriera, emerge il basso continuo d’uno sperimentalismo mai pago che progressivamente si va depurando sul piano formale e i cui esiti possono essere letti come inesausta perorazione (senza soluzione di continuità alcuna) sulla condizione umana e sulla melliflua seduzione del potere: dall’isterismo linguistico e dalla verve contestataria delle prime eretiche prove, già all’interno del novero dei decostruttori-sperimentatori del Gruppo ‘63 (Principessa Montalbo e Lo scivolo, 1963), con quella “tridimensionalità” di scrittura ricreata sulla pagina che sembra esserne la nota più caratteristica (paradigmatica in tal senso la prima edizione de Il Romboide, 1968), alle scritture e riscritture teatrali, alle regie, degli anni Settanta e Ottanta, da Morte per vanto (1970) a Macbeth (1973), da I pavoni (1983) a Il Gabbiano (1981); al graduale e definitivo affrancarsi dal duplice capestro di ideologia e impegno, inaugurando una vera e propria inversione rispetto ai primi furori sperimentali e alla schizofrenia linguistica degli esordi, alla ricerca della parola creativa, della rarefazione visionaria, della limpidità della voce, con la particolare tessitura romanzesca tra nera favola tecnologica e stilizzato fumetto di A presto (1990, primo movimento e avvio di una trilogia fanta-gialla poi proseguita e culminata con Delirium cordis e Finirà questa malìa) o con l’analogo riverberarsi di una ricalibrata più luminosa visionarietà nei coevi testi teatrali di Ogni giorno può essere buono (1984), Qui è quasi giorno (1991), Anticamera (1994); fino alla singolare teologia per sottrazione espressa con la straordinaria invenzione di un Dio che stanco e impotente, seguendo le orme del Figlio, facendosi a sua volta figlio del Figlio, decide di ricominciare di nuovo tornando sulla terra, in uno dei vertici del suo teatro, vera e propria resurrezione a rebours, nella fiaba in tre giornate di Ritorno (1995).
«La letteratura e il teatro sono per me due diversi modi per articolare la stessa passione della scrittura e della scena», diceva – a rimarcare come fisicità e parola si compenetrassero con infinita ostinazione in ogni sua scrittura, per cui il suo teatro risulta anche fortemente narrativo e la sua narrativa concepita per frammenti, retabli, scene giustapposte, veri e propri monologhi o spiazzanti scambi di battute (talvolta al limite del non senso); volontari sconfinamenti e contaminazioni che uniscono a refe doppio, in una continua virtuosa osmosi, il teatro e il racconto, e tale da rendere l’intera sua opera un unico poliedrico sistema. Ma per chi voglia addentrarsi con cognizione e pazienza nell’universo poetico perrieriano non può che abbandonarsi alla cesellata fluvialità di Romanzo d’amore (2002): monumentale autobiografia in tre libri, singolare neospecie di ‘opera mondo’, variante aggiornata di romanzo assoluto che salda Bildung e Weltanschauung, apprendistato e conseguente idea del mondo (colta nel suo farsi, nel gorgo di un dinamico sviluppo). Immensa cattedrale di scrittura, costruita per innesti, esponenziale contaminazione di generi: ripasso di memoria, autobiografia intellettuale, diario intimo ed epistolario, reperto saggistico e di passione civile; effusione lirica, visionaria ricognizione d’un tempo e tuffo nei suoi miti ingannevoli… Praticati tutti con un peculiare tocco che rende omogeneo, assimilabile ad un’unica voce, il dettato dello scrittore. Perriera (in un tour de force di oltre 1200 pagine), generoso, mette in scena sé stesso, declina il suo discorso amoroso per le ragioni stesse della vita e della morte: il teatro è quello della memoria, la scena quella del suo cervello, perennemente assediato da tragiche e magnifiche ossessioni. L’ultramondo (per dirla con Ortega y Gasset) del teatro perrieriano, scaturisce dall’innaturale e coatta frizione tra «ciò che sta al di qua con ciò che sta al di là delle grate»: è un’ultravita che esibisce e lascia coesistere la prigione e l’eversione fantastica e tremenda della fuga, la falla che allenta le maglie di un sistema di vita che si agghinda col vanto dell’essere il migliore, il più desiderabile, l’unico possibile; che scruta, mettendo a fuoco colpa e innocenza, l’incubo e il grido disperato, l’SOS lanciato per la vita. Condizione sintomatica che si avvita su di un paradigma scenico non di rado giocato su di un personaggio-prototipo che agisce (o si prova ad agire), sempre più ingolfato, colto al limite tra claustrofobia e claustrolalia: ridotto a pura cifra di un sé stesso che si offre hic et nunc nella sola possibilità d’esistenza concessagli sulla scena, marchiato da quella «speciale rigidità» cui Perriera affida al massimo grado il segno forte di una così tragica concezione. Costretti ad abitare sul limitare dell’estinguersi dell’umano, schiacciati nella speciale condizione di una precaria resistenza, i personaggi perrieriani condividono tutti più o meno uno stato di docile allerta, nonostante si viva ormai nel “troppo tardi”. E solo di qui, a partire da simili anguste latitudini di letargica utopia che ci si può attendere di acciuffare quell’«elemento di salvezza» di cui era irrimediabilmente e assurdamente orfano il claustrofobico universo kafkiano. L’aver introiettato e rimeditato, ribaltandola, la duplice lezione di Beckett e di Kafka, la dice lunga sulla dimensione pienamente europea della sua letteratura. Nel sapore della resistente agnizione di una eticità del limite che sia alternativa al marasma, consiste la ineguagliabile qualità politica del suo essere scrittore altrimenti ingaggiato, ma della specie più lucida e rara: lo straordinario interprete dell’impegno con la scrittura, oltre le catene e le aride ingessature dell’ideologia, convinto che esso (l’impegno) debba contemplare in sé pure la sua stessa «distrazione»; atteggiamento che spesso, soprattutto in passato, gli costò il macroscopico fraintendimento d’una critica gretta e ideologizzata (perlopiù miope e immiserita da griglie interpretative obsolete), che finì per tacciarlo di conservatorismo borghese.
Magistero che ha pure saputo sintetizzare in pagine di estrema lucidità (si leggano i saggi di La spola infinita, 1995 o le «note ai margini in forma di diario» di Con quelle idee da canguro, 1997), mettendone a nudo quelle stesse coordinate strabiche (all’esatto incrocio tra immaginazione e realtà) che sarebbero poi sfociate nell’inconfondibile marca d’uno stile sempre giocato sulla drammatica coesistenza di rarefatta armonia e incandescente urgenza espressiva, portando il mondo sulla pagina per esorcizzarne mostruosità, rivelarne inattese epifanie, fintanto che lo scrittore (novello sciamano) sia in grado di ricrearlo, renderlo accettabile, con il coraggio e la forza della parola. Un’intenzione di scrittura che, prendendo in prestito le parole di Freud, si potrebbe dire: ‹‹mira […] a destare in noi lo stesso atteggiamento emotivo, la stessa costellazione mentale che ha prodotto in lui [nello scrittore] l’impeto creativo››.
Abbandonando il giudizio di valore, vorrei concludere con un ricordo privato, raccontare dell’ultimo mio incontro avuto con Michele Perriera nella sua casa di Palermo, al numero 40 di via Tasso, pochi mesi prima dell’ultimo prolungato suo ricovero: non mi venne incontro quella volta con il suo passo strascicato e allargando le braccia come era solito fare; mi aprì Lisa, la moglie, invitandomi ad entrare. Lo trovai, i segni della malattia fattisi ancora più evidenti, adagiato su una sedia a rotelle che mi attendeva nel salottino vicino all’ingresso, voglioso di sapere come procedesse il lavoro su quel libro tanto atteso. Il contrasto (ancor più accentuato) tra il suo corpo, provato fino all’inverosimile dalla malattia, e il vigore trasparente e combattivo del suo spirito, mi parve aver raggiunto una soglia estrema, insopportabile. Squarciò il disagio, invitandomi a interloquire indicando il registratore che stringevo perplesso tra le mani. Gli chiesi titubante della sua idea di romanzo, di cosa intendesse precisamente quando scriveva del dilagare della “peste del tragico” o della fiaba moderna del mito del desiderio di morire e rinascere… Dopo un silenzio di qualche secondo che a me sembrò lunghissimo, iniziò a parlare quasi balbettando, la cadenza del suo dire funambolico appena rallentato, fino quasi a tornare privo di sforzo. E mentre parlava, con lentezza ma pacificato come il Pippo Badalamenti di Romboide in carrozzella, assai spesso diceva noi, ricorreva al plurale, per cercare di spiegare la sua “visione d’amore; le ultime parole che adesso con commozione (mentre scrivo) riascolto sul nastro sono state queste: «L’amore è la cultura del romanzo: è grazie all’amore che il romanzo prende l’aspetto della volontà di cogliere la complessità della vita. Noi vogliamo condurre la visione del mondo verso la scommessa della volontà di vincere il destino della vita. Il destino della vita è il destino della morte. E il destino della morte è il destino della vita. E noi vogliamo scommettere su questo per condurre la nostra esistenza verso l’amore. L’amore è la chiarezza raggiunta: e la chiarezza raggiunta permette di ottenere una chiarezza in sovrappiù… Vogliamo scommettere sull’amore».
Il prezioso luminescente romboide di Michele Perriera continua a parlare, inestinguibile, a chi ha avuto la fortuna di averlo conosciuto, avuto come amico e involontario maestro.
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